Un'altra storia
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Un'altra storia

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  1. VanderBan
     
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    Un'altra storia


    Entro con passo frettoloso, sfregandomi le mani e soffiandoci sopra. Le batto sui fianchi due, tre volte, e finisco con l’abbracciarmi. Il tepore del centro commerciale fa il resto. Due ore all’addiaccio e solo per sentire quello stronzo di assessore alle politiche sociali che neanche ci può assicurare due spiccioli per tenere aperto il Circolo.
    Mi sto abbassando la lampo del giubbotto quando l’attenzione è attirata verso il supermarket. Sento grida e colpi sordi, poi il tonfo di un qualcosa che cade spargendo oggetti, come se un enorme salvadanaio zeppo di monete fosse finito in frantumi. Mi avvicino. C'è calca e non vedo. Una signora alle mie spalle cerca di guadagnare la prima fila, non ci riesce e sbotta: «Ma cosa diavolo succede?» Il tono è di chi ha pagato il biglietto senza potersi gustare lo spettacolo.
    Se non la smette di punzecchiarmi il culo con il carrello della spesa, urlo io, mi verrebbe da dirle. Mi trattengo.
    «Dev’essere uno fuori di testa», faccio, portandomi l’indice alla tempia. Vedo il tipo, salito sopra a una delle casse, ora lo posso inquadrare per bene. Indossa il sopra di una tuta dell’Adidas, di un rosso sgargiante, e dei pantaloni color crema, fin troppo sportivo visto che è senza scarpe. I capelli lunghi e la barba folta mettono in risalto due occhi da invasato.
    Osserva la folla ai suoi piedi, ma lo sguardo va oltre, tanto che mi viene di voltarmi. Nulla, dalla parte opposta ci sono le persone al Mac con l'unica preoccupazione di non perdere il posto in fila.
    Il tempo di chiedermi dove si sono ficcate le guardie e noto uno in divisa, piegato sulle ginocchia, che si tiene la testa tra le mani. Più in là, appena oltre gli scaffali dei saponi, vedo accorrere due ragazzi in completo blu, giacca e cravatta.
    Torno al pazzoide e mi ritrovo il suo indice puntato contro. Inveisce: «Avete mercificato l'amore per i vostri simili. Avete fatto di questa casa una dimora di ladri. Voi vi siete svenduti per pochi, miseri, denari.»
    Vorrei mostrargli che non ho niente in tasca e dirgli che mi sono ficcato qua dentro solo per il freddo, altro che soldi da spendere. Tanto non capirebbe. La sua attenzione è rapita dai due della sicurezza. Uno gli si fa sotto, lui gli lancia addosso la teca con le confezioni di gomme da masticare e i preservativi. Grida: «È veramente questa la vita che desiderate?»
    Verrebbe da riderci su, se grattandomi un polpaccio non vedessi riflesso sulla vetrina di fronte uno smilzo, schiena curva e gambe larghe da sceriffo, bomber mimetico e cappuccio della felpa infilato, che lascia intravedere un'ampia fronte e una faccia grigiastra su cui spicca la punta del naso, arrossata. Già, la vita che desideriamo...
    Il perdente mi fissa quasi volesse discolparsi. Torno alla scena. Il barbuto, le guardie, le commesse in camice arancio raggruppate contro la parete neanche fossero sotto la minaccia di un mitra. Più in là, la fila di casse deserte.
    Quello che mi passa per la mente non mi lascia scelta. Mi calo il cappuccio sugli occhi e vado oltre, aggirando il drappello di curiosi. Mi avvicino all'ultima cassa e senza tentennamenti arraffo le banconote lasciate in vista e incustodite. Faccio per andarmene, quando intravedo un altro cassetto, lì, a portata di mano. Il capellone è ancora issato a difendere la sua posizione, fronteggiato dalla Legge. Sento il suono ripetitivo di un fischietto. Una mossa in più che differenza fa? Salto a piè pari il banco e afferro una manata di biglietti, se tutto va bene riesco a sfangarla per un altro mese.
    E invece la scelta fatta mi costa. Eccome. Mentre sto per scappare sento afferrarmi per il collo. Cerco di sfuggire alla presa, una fitta di dolore mi arriva dritta alla cervicale. Riesco a sgusciare via accucciandomi e rinsaccando le spalle. Posso ancora farcela, e invece la mano a cui pensavo di essere scampato tiene saldo il cappuccio. Le gambe vanno avanti, i piedi scalciano in alto, e il busto rimane fermo. Non ho neanche il tempo di fiatare. Do una schienata e batto la nuca in terra, e per un momento l’immagine scompare, come se qualcuno avesse pigiato un tasto del telecomando per cambiare canale. I quadratoni bianchi del contro-soffitto sono oscurati da un'ombra che s'ingrandisce e acceca i neon. Richiudo e stringo forte le palpebre aspettando il colpo di grazia. Eppure, niente calci né pugni. Sento una voce che mi apostrofa senza remore: «Alzati, figliodiputtana
    Non posso che eseguire l'ordine. Mi metto in piedi con le braccia dietro la schiena, le mani giunte ai polsi come se mi avessero già ammanettato. Qualche banconota è rimasta in terra, il resto me lo sfila via dalle tasche uno dei guardiani, mi spintona per farmi muovere. Io avanti e lui dietro, passiamo accanto al tipo in rosso e beige; è disteso, schiacciato in basso dal ginocchio di quello che prima si teneva la testa. Boccheggia, le labbra storpiate contro le mattonelle chiare, la mano del vigilante gli spinge la nuca, tenuta saldamente per i capelli fatti su al modo di un panno da strizzare. Ogni tanto gli batte la fronte contro il pavimento come se bussasse a un portone e avesse fretta di entrare. Il pazzoide si è azzittito, io non avevo proprio fatto un fiato. Due stronzi diversi, la stessa fine di merda; adesso, manca solo chi si prende la briga di tirare la catena del cesso.

    ***

    Più che un ufficio sembra un magazzino liberato da poco: c’è solo un tavolo piazzato contro la parete opposta alla porta, e due scaffali dove ci sono varie parti di PC, tastiere, monitor e scatoloni da cui fuoriescono dei cavi. Nessuna finestra. Mi hanno detto di non muovermi, dovevano impormelo prima che facessi la cazzata del secolo. Ora, dove vuoi che vada?
    Due giri di chiave. Mi stacco dal monitor che rispecchia il mio naso enorme. Il tipo in tuta rossa vola dentro la stanza: stringesse l’asta di un microfono sembrerebbe una rockstar. Dietro di lui spunta anche un guardaspalle.
    «Sta’ qui e non ti muovere.» Già sentita. Prima che il vigilante chiuda la porta mi alzo di scatto e gli esplodo: «Ehi, non vorrai mica lasciarmi qui con questo?»
    «Certo. Qualcosa in contrario?»
    Fisso il ragazzotto in divisa che aggrinza le labbra in un sorrisetto sadico, i miei occhi si distraggono sul grosso cerotto che porta sulla tempia.
    «Non sarà che questo mi fracassa la testa con quei ferri vecchi?» Indico uno dei due scaffali.
    «Beh, potevi pensarci prima, stronzo.»
    «Ma non potete...»
    La porta si chiude. Certo che possono, chi può impedirglielo? Nel frattempo, il barbuto si è seduto sopra lo scatolone poggiato nell’angolo, i gomiti sulle cosce e i palmi contro le orecchie. Il viso è nascosto dai capelli che cadono in basso, sembrano un mocio vileda dopo l’uso, umidicci e arruffati; gocce di sangue iniziano a macchiare il grigio topo del linoleum.
    Mi rimetto seduto, orientando la sedia in direzione del tizio. Tamburello con le dita sul bordo del tavolo. Lui non si muove, le macchie in terra sono diventate una dozzina. Poveraccio, l’hanno gonfiato per bene.
    «Bel casino», mi scappa detto. Nessuna risposta. Lo tengo sott’occhio, lui non fa una piega. Mi alzo e trascino la sedia a un metro da lui. Mi riassetto mettendola al contrario, gli avambracci poggiati sopra lo schienale, pronto a scattare via e afferrarla per fracassargliela in testa se solo si azzarda a qualche mossa strana.
    «E le tue scarpe?» È la prima domanda che mi esce, stupida ma sincera.
    Solleva un poco la testa. Intravedo i suoi occhi tra il folto della chioma. Mi guarda stranito come se gli avessi chiesto il culo. Sto per alzarmi e tornare al tavolo quando il tipo bofonchia qualcosa. Mi sporgo in avanti per ascoltare meglio, con la destra stringo bene il telaio in ferro.
    «Illusi.»
    Tutto qua? Sto per ritrarmi, guardingo, come una tartaruga nel guscio, quando quello riattacca: «Non sapete il male che vi state facendo.» Anche se la voce è flebile riesco a capire.
    «Beh, parli per esperienza diretta.» La smorfia simpatica mi si smorza sulle labbra.
    Il tipo si tira su con il busto e fa per alzarsi. Sono più rapido di lui e imbraccio la sedia come un domatore di fronte a una tigre. Reazione inutile, la mia. Lo scemo crolla giù come un cespo d'insalata dentro a una busta della spesa.
    Mi avvicino dubbioso, se sta recitando è da premio oscar. No, questo è andato. Mi affretto alla porta e ci batto contro a mani aperte, tambureggiando la mia preoccupazione. «Ehi, voi, qui il tipo è andato. Ehi, c’è nessuno?» Do due colpi forti e poi mi fermo, per ascoltare. Niente, attacco l’orecchio alla porta per indagare meglio. Rumori di suole di gomma. I soliti due giri di chiave mi danno il tempo di scostarmi all'indietro, tante volte pensassero che fosse un espediente per tagliare la corda.
    Un tipo in giacca e cravatta, mai visto prima, si affaccia con un’aria da incazzato cronico. Io di riflesso alzo le mani e cerco di stamparmi in viso l’espressione più disarmante che mi riesca.
    «Il tipo, qua, è svenuto. Credo che sia il caso di chiamare un dottore o qualcuno. Fate voi.»
    L’uomo spalanca la porta e si piazza sull’uscio senza accennare a nulla, alza lo sfollagente all’altezza della vita: «Vedi un po’ se respira.» Indica il ragazzo svenuto come si fa con una bestia trovata agonizzante sul ciglio della strada. Se avesse un bastone sufficientemente lungo l’avrebbe punzecchiato lui, senza muovere un passo.
    «Guarda, non sono il Dottor House, ma posso assicurarti che questo non è morto, è solo svenuto. Deve aver preso una botta come si deve sul testone.» Ammicco.
    «Beh, aspetta qui, vado a cercare qualcuno.» Chiude la porta a chiave e io ripiombo nel mio singolare squallore.
    Mi piego sul tipo e lo giro dal fianco, mettendolo a pancia all’aria. Rovisto in due scatoloni e l’unica cosa utile che riesco a trovare son due tastiere malandate. Le metto una sull’altra, al contrario, e gliele ficco sotto la nuca come si fa nei film, ma lì di solito usano un cuscino o un asciugamano. Non è un mistero che al cinema trovano tutto a portata di mano. Gli scosto i capelli dalla bocca e l’osservo bene. Nella trasandatezza dell’aspetto, il viso ha una sua eleganza e signorilità. Il pallore emana un che di regale. Gli afferro un braccio e lo sollevo, lo avvicino per controllargli la mano. Dita curate, unghie appena fatte. Scruto il palmo neanche fossi un chiromante: niente calli, è liscio e morbido come una saponetta Camay. Questo è uno che non ha faticato mai in vita sua. Quando la porta si apre ci trovano così, lui disteso, esanime, io in ginocchio con la mano del tipo sul mio grembo, una Pietà blasfema e in versione “omo”.
    «Abbiamo interrotto qualcosa di tenero?»
    «Se volete, ritorniamo più tardi», aggiunge prontamente il secondo vigilantes.
    «Cazzo dite? Guarda che questo l’avete gonfiato un po’ troppo. Non so se si riprende.» Assumo un tono grave, esagerando il quadro clinico, tanto per far passare quell’espressione gustosa e fuori luogo dalla faccia dei due stronzi.
    «'Spetta, va. Che vuoi che gli abbiamo fatto. Il coglione, qua, è scivolato da sopra una delle casse. Colpa nostra se ha sbattuto il grugno?»
    «Ah, non lo venite a dire a me. Non son certo io che vado a chiamare gli sbirri.»
    Il tipo che è rimasto sulla porta fa due passi verso di me, credo di avergli fatto girare le palle.
    «Cazzo vorresti insinuare, pezzodimerda
    Gli manca solo un rigagnolo di bava ai lati della bocca: deve essersi già cacciato in qualche guaio simile, le mani gli fremono, l'indice e il medio gli vanno d'istinto sul cerotto che ha in testa, per lisciarselo.
    «Frena. Tranquillo, io mi faccio i cazzi miei. Però forse un dottore dovreste andarlo a chiamare.»
    «Sta arrivando», fa l'altro, meno agitato. «Pure tu, la prossima volta lascia fare a me», gli obietta, abbassando la voce, come se nella stanza non ci fosse nessun altro.
    Il Killer non dice niente, ma si capisce quel che gli passa per la testa. Fosse per lui ci schiaccerebbe come zecche schifose e si ripulirebbe le suole sulla moquette dell'ingresso.
    Arriva il terzo vigilantes, l'incazzato cronico.
    «Sentite, qua sta per scappare fuori un gran casino: ho chiamato la centrale, quelli non possono muoversi al momento, dev'esserci stato qualche incidente del cazzo. Al massimo possono mandare una pattuglia sul tardi, ma qui avremo già chiuso. E vi dico pure che è difficile che se li possano portare dietro tutti e due. E scordatevi anche il medico. Cercate di far ripigliare questo stronzo. Poi vediamo come organizzarci. Tutti e due però non ce li portano via, questo è sicuro.»
    «Cristo santo, non sarà che per colpa di questi bastardi facciamo notte? Quanto è vero Iddio, se questo non si rimette in piedi lo appendo al muro con tre chiodi!»
    «L'unica soluzione è lasciar andare uno dei due. Tanto con il poliziotto ci parlo io, sono meno rogne anche per loro. Uno lo teniamo qui, in attesa della volante, e l'altro lo lasciamo andare. Un topo di fogna libero di scorrazzare in più o in meno, cosa cambia?»
    «Io dico di lasciar andare il coglione, qui, che pensava di fare il furbo fregandosi qualche carta da cinquanta, è un ladro morto di fame. Il saputo pezzodimerda, invece, mi sta sulle palle. E poi dove diavolo volete che vada così conciato?»
    A fatica riesco a smorzare la mezza espressione di compiacimento. Forse, forse riesco a sfangarla.
    «Sentite», fa il tipo col cerotto dopo avermi lanciato un’occhiata bieca, «perché non ne andiamo a parlare di là? Magari facciamo una telefonata al capo, per metterlo al corrente. Eh, che ve ne pare?»
    «Occhei, mi sembra la cosa più giusta da fare.» L'incazzato cronico adesso sembra meno incazzato, prende e si avvia oltre la porta, seguito dal tipo col cerotto, la sua voce si perde oltre l'angolo:
    «Io, comunque, il profeta da strapazzo non lo lascio andare, a momenti mi spaccava la testa come fosse una noce di cocco.»
    «Decidete voi, io di ‘sta cosa non m’impiccio.» Il buono chiude la fila, la discussione e la porta. Due giri di chiave. E amen.

    ******

    Il tipo si sta riprendendo: ha aperto gli occhi. Sembra essersi risvegliato da un delirio, da una febbre a quaranta. Cerca di sollevarsi. Appena alza la testa la ributta giù di colpo, le pupille scompaiono lasciando nell'orbita il solo bianco dell'occhio.
    «Sono andati via, i soldati?» bofonchia. Soldati? Il tipo sta vaneggiando di brutto.
    «Ehi, mica siamo in guerra. Quelli sono del servizio di vigilanza del supermarket. Non ti ricordi il casino che hai combinato?» Qualcuno deve aver staccato di nuovo la spina al tipo, che con uno schiocco plastico fa ricadere la nuca sulle tastiere. Pure la crocerossina mi tocca fare. Situazione di merda, però forse la scampo. Il tipo ha fatto girare le palle di brutto a tutti. Buon per me.
    Prendo la sedia e mi ci sgonfio sopra, sono stanco morto. Magari un riposino farebbe comodo pure a me. Chiudo gli occhi, e chi s'è visto s'è visto. Bastano tre minuti per scoprire che anche il silenzio assoluto può rompere i coglioni. Macché, non c’è verso di prender sonno.

    Sarà passato un quarto d’ora e non si vede anima viva. Il coglione disteso lungo sembra più di qua che di là. Non so perché, mi fa sentire più buono, poco c’è mancato che gli ficcassi il giubbotto sotto la testa per farlo stare più comodo. Però una cosa l'ho fatta. Ho tirato fuori il fazzoletto è l'ho steso sul suo viso, per tamponargli i graffi e la ferita in fronte e sul sopracciglio destro, ma anche per nasconderla quella faccia del cavolo: ha un qualcosa di magnetico, che mi mette soggezione.
    Ora, a essere sinceri, mi fa un po' schifo toglierglielo, però se quelli ritornano e lo trovano così, neanche fosse la mummia di Tutankhamon, rischiamo la seconda figura di merda di fila.
    Prendo il fazzoletto per un pizzo e lo lancio un po’ più in là. Quello ricade giù, a paracadute, e neanche a farlo apposta si stende preciso preciso sul pavimento. E a me mi prende un colpo. Così, all’istante. Il viso, il suo viso su quel fazzoletto, un misto di sangue e sudore. Torno a guardare la faccia in carne e ossa, poi il fazzoletto. Il tipo sui trent’anni, le guardie, il Supermaket, le sue prediche assurde neanche fosse stato Gesù nel Tempio. Gesù nel Tempio? Nahaa.
    Però, quella scelta: o io o lui. Io, il ladro. E lui?
    Sto pensando all’assurdo quando la porta si apre e irrompono i vigilantes.
    «Alzati, va’, che per stasera t’è andata bene, zecca schifosa.»
    Fregandomene dell’insulto mi metto in piedi e non posso fare a meno di compiacermene, senza darlo a vedere. Il vigilantes incerottato dà due colpetti con la punta del piede al tipo. Faccio per andarmene, poi qualcosa mi blocca. Cazzo, se io son io, il ladro, il furfante, allora lui è: Lui. Farò bene a svignarmela così? L’incerottato mi blocca ogni pensiero con tono perentorio: «Vieni qua, dammi una mano a tirarlo su», mi fa. «Mettiamolo sulla sedia. Occhio.»
    Lo prediamo sotto le ascelle e lo sistemiamo sul trono. Le braccia gli ricadono giù pesanti, la testa si sverza, ma il corpo rimane in equilibrio.
    «Va bene così, ora sparisci e non farti più vedere.»
    Sto per uscire quando compare l’incazzoso cronico, con in mano una bottiglietta di aceto balsamico Ponti. Potrei filarmela e nessuno avrebbe niente da ridire. Invece rimango a vedere quel che combina. Infila la boccetta sotto al naso di Lui, e per essere più convincente gliene butta addosso uno spruzzo. Ridono contenti come una pasqua. Mi sento un vigliacco. Mi fa un po’ pena lasciarlo in balia di quegli stronzi fasci di merda, davvero, ma cosa potrei fare? Imbocco la porta quando ripenso al fazzoletto e mi ritorno.
    «Ancora qua, stai? Fila!»
    «Scusate, il fazzoletto», dico, indicando un punto in terra. Il ragazzo si è ripreso. Mi guarda compassionevole, neanche fossi io la vittima. Solleva appena una mano, come per salutarmi. Io raccolgo il fazzoletto e gli sorrido.
    «Ferma tutto.» Il terzo vigilantes, il buono, entra affannato nella stanza. Fa cenno all’incazzoso di avvicinarsi. Quello gli va vicino e l’altro gli sussurra all’orecchio.
    «Il figlio di chi?», sbotta il vigilantes. Sul viso gli è tornata l’espressione incazzata. Scuote la testa.
    Il buono si giustifica: «Non possiamo fare altrimenti.»
    «Cazzo succede?» Interviene cerotto, pure lui non ci sta capendo niente.
    «Il barbone, qua, è il figlio del boss del Centro Commerciale.» Silenzio. «Qui va a finire che stasera ci prendiamo anche la nostra. Bisogna rimetterlo in piedi, subito, fra un po’ passa una macchina a prenderlo. Portatelo in direzione e dategli una spolverata.»
    Se mi avessero sparato a pallettoni con una cartuccia per cinghiali non sarei potuto star peggio.
    Inghiotto uno gnocco di saliva e con l’espressione più dimessa possibile mi incammino verso la porta.
    «Ehi, tu, Arsenio Lupin, dove credi di andare?»
    «Ma, veramente, voi, prima, avete detto che potevo filarmela.»
    «Appunto, hai detto giusto: prima. Mettiti comodo che fra un po’ arriva la pula
    Il tipo in rosso e in beige, capelli e barba da centro sociale, s’incammina incerto. Dev’essersi fritto il cervello con qualche cocktail di pasticche belle toste per fare casino a casa sua. «Ciao», mi fa. E sparisce, scortato da cerotto e il buono. Due giri di chiave e mi ritrovo solo come un cane.
    Dalla tasca mi spunta un pizzo del fazzoletto. Lo tiro fuori, lo appallottolo e lo lancio verso lo scatolone in terra. Canestro.
    Sorrido per quanto sono scemo. Cosa cazzo ero andato a pensare! Io e quell’improbabile profeta, lui, figliodichi?
    Rido forte, sono davvero un testa di cazzo, cosa mi sono andato a ficcare in mente. Altro che Barabba e compagnia bella. Con la merda che mi porto addosso, dovevo immaginarmelo che questa non poteva che essere tutta un’altra storia.

    Fine


    Edited by VanderBan - 15/3/2011, 08:34
     
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