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Pi

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    Losco Figuro

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    SPOILER (click to view)
    Versione integrale del racconto usato a spizzichi e bocconi nella Royal Rumble


    Pi

    1.1


    Era accaduto tutto così in fretta che solo quando l'impatto con il pavimento le mozzò il fiato la sua mente parve riprendere a funzionare.
    Fu uno di quei momenti di estrema chiarezza che di rado si sperimentano, in cui ogni cosa, ogni dettaglio appare vivido e nitido come mai prima. Le assi di legno marcio sotto di lei, a contatto con la pelle nei pochi punti in cui non era coperta dai vestiti. L'odore della paglia sparsa tutto intorno. Il suono, distante, di uccelli in volo e mucche al pascolo.
    E il volto del suo rapitore.
    Non sapeva chi fosse. Non lo aveva mai visto prima, e non aveva idea del perché avesse voluto portarla lì con la forza.
    Dagli abiti si sarebbe detto uno di città. L'espressione sul volto, però, trasudava follia. Labbra distorte in un ghigno, occhi che guizzavano da un punto all'altro come in cerca di una via d'uscita dal cranio che li racchiudeva. A tratti dava l'impressione di sapere ancor meno di lei perché fosse lì e cosa stesse facendo. Ma le sue azioni dimostravano il contrario. Non c'era incertezza nel modo in cui l'aveva afferrata e trascinata via. Non c'era esitazione nella spinta che le aveva dato poco prima, gettandola in terra.
    Ora, però, era lì immobile a fissarla come se attendesse qualcosa.
    Lei si mise a sedere, lentamente, appoggiando a terra i palmi delle mani. I suoi capelli si erano sciolti, e ora ciuffi sparsi le pendevano davanti agli occhi, ma non tentò di spostarli.
    Era risoluta. Sapeva che sarebbe morta e non intendeva piangere e implorare. Urlare, poi, sarebbe stato inutile. Aveva capito dove era stata portata, era il vecchio fienile abbandonato nella proprietà dei McCain. Nessuno avrebbe potuto sentirla. Nessuno sarebbe accorso ad aiutarla.
    Non sarebbe morta in silenzio, però.
    «Chi sei? Cosa vuoi da me?», domandò. Nonostante le sue buone intenzioni, il suono che uscì dalla sua gola era rotto e tremante.
    «Ucciderti», rispose lui. La sua voce era ferma, il tono quasi meccanico. Non si mosse per dare seguito alla sua affermazione.
    Suo malgrado, la ragazza arretrò, strisciando sul pavimento. Sentì la gonna impigliarsi in qualcosa, forse un chiodo sporgente, e trattenerla. Tirò, ma la stoffa robusta non volle saperne di cedere.
    «Perché? Che cosa ti ho fatto?»
    «Ancora niente ma lo farai. Non so cosa o come ma lo farai».

    2.1

    Erano forse gli ultimi giorni di un'estate indiana insolitamente lunga.
    Il cielo era terso, l'aria immobile, la temperatura primaverile. Tutto invogliava a uscire di casa e respirare la libertà.
    E Michael stava sulla soglia, a guardare la terra davanti ai suoi piedi come se un'immane voragine vi si fosse aperta.
    Fuori, a pochi passi da lui, Stephen lo attendeva con l'aria imbronciata di chi sa che si sta perdendo il meglio di una bella giornata.
    «Andiamo, su!», lo incitava, ma l'amico non sembrava intenzionato a raggiungerlo, o anche solo a spostarsi.
    «Allora? Avanti, muoviti, esci! Non stare tra i piedi!», lo rimbrottò una voce dall'interno della casa. Pochi istanti dopo, sua nonna era dietro di lui, con la solita espressione arcigna che indossava come una maschera ogni volta che gli rivolgeva la parola.
    Il ragazzo si voltò, sollevò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Dovendo giudicare dagli occhi, sarebbe stato lui, nonostante i suoi dieci anni, a essere considerato il più anziano e il più saggio, quello che aveva visto e vissuto più cose. Non aveva mai avuto gli occhi di un bambino.
    «Meglio di no», rispose in un sussurro.
    «E invece sì, smettila di avere sempre paura che succeda qualcosa».
    Michael sospirò.
    Lui non aveva paura che succedesse qualcosa. Lui sapeva che sarebbe successo qualcosa, anche se non sapeva di preciso che cosa.
    Dirlo sarebbe stato inutile. Sua nonna già di rado lo ascoltava o gli prestava attenzione, e quando tentava di spiegarle lo ignorava del tutto, come se non fosse neppure esistito.
    Dentro di sé, Michael era convinto che lei avrebbe preferito così, che sarebbe stata più contenta se lui davvero non fosse mai esistito, ma non gliene faceva una colpa.
    Il nonno era diverso, a suo modo. Non era un uomo cordiale e affettuoso, non lo era mai stato, però se non altro non lo trattava come se la sua sola vista fosse fonte di dolore.
    La donna gli poggiò una mano sulla spalla, in modo brusco, e gli diede una spinta. Non con violenza, solo forte abbastanza da costringerlo a fare un passo avanti.
    Il piede destro di Michael si poggiò sul terreno.
    Nessuna voragine si aprì, la terra non si spalancò per inghiottirlo. Ma la giornata era ancora lunga.

    3.1

    Sarah si affacciò oltre la porta della cucina, poggiando una spalla allo stipite, e urlò: «Michelle! Scendi, la colazione è pronta», poi si voltò e sobbalzò alla vista di sua figlia già seduta al tavolo.
    «Qualche giorno mi farai venire un infarto», protestò senza troppa convinzione, rinunciando a chiederle quando e come fosse arrivata lì. La risposta, ormai, la conosceva a memoria.
    Michelle, quindici anni compiuti da poco, le elargì un sorriso buffo e impertinente, poi si voltò a guardare suo nonno, seduto dall'altro lato del tavolo, che le strizzò l'occhio con aria complice.
    «Visto che sei così veloce, metti a posto tu quando avete finito», disse la donna assumendo una finta aria vendicativa. «Io devo uscire presto oggi, ci vediamo a pranzo».
    Rimasti soli in cucina, nonno e nipote sentirono i passi ritmici di Sarah attraversare il corridoio, fermarsi, ripartire, fermarsi ancora. Udirono il tintinnio delle chiavi, il rumore della porta che si apriva e richiudeva e, dopo un po', il lieve rombo del motore dell'auto mentre usciva dal vialetto.
    Solo allora, il vecchio parlò. «So che è divertente, però non dovresti farlo», disse in un tono di pacato rimprovero.
    La ragazzina si strinse nelle spalle, affondò un cucchiaio nella scodella che aveva davanti e lo ritrasse colmo di cereali grondanti di latte, cacciandoseli in bocca come se volesse farli scendere direttamente in gola con tutta la posata.
    «Twan shon sha cmm fschh», disse solenne.
    Il nonno le rivolse uno sguardo torvo, aggrottando la fronte. Michelle sorrise, si asciugò le labbra sul tovagliolo, deglutì con passione e ripeté «Tanto non sa come faccio».
    «E non glielo possiamo neanche spiegare», assentì lui, che aveva provato più di una volta a chiarire alcune cose con sua figlia, ricavandone solo sguardi imbarazzati. «Per questo è meglio non esagerare».
    «Lo so, lo so», cantilenò la ragazza. «È solo che...» Il resto delle sue parole si perse nello squillo del telefono.
    «Rispondo io!», si affrettò ad aggiungere, ed era già accanto al telefono prima ancora di aver iniziato la frase. Staccò il ricevitore dal muro e se lo portò accanto al viso. «Pronto?»
    Un istante dopo, si voltò a guardare suo nonno. La sua espressione si era fatta cupa mentre diceva all'interlocutore «Certo, glielo passo subito», e poi allungava l'apparecchio verso il tavolo fin dove poteva.
    Il vecchio si alzò, con aria stanca e rassegnata, e la raggiunse. Lei gli passò la cornetta come se scottasse e tornò a sedersi, per nulla impaziente di conoscere l'esito della conversazione.
    Ciononostante, non appena questa terminò si sentì in obbligo di chiedere: «È successo?»
    L'uomo annuì. «È morto stanotte. Avrei dovuto saperlo».
    «Non è colpa tua», tentò di consolarlo lei.
    «No, certo che no. Non sono più così bravo a prevedere le cose. Il potere è ancora forte, ma il corpo...» Lasciò la frase incompleta. Qualche anno prima il futuro gli sarebbe apparso chiaro come la sua immagine allo specchio, ora invece era perfino più debole che da bambino, quando i suoi poteri erano emersi. A malapena aveva qualche vaga premonizione a breve termine, e per il resto la sua mente era sorda e cieca.
    «Sei certo che ora verrà a cercarti?», gli domandò seria Michelle.
    Lui la guardò, uno sguardo carico di mille emozioni. «Sì. Sono sessant'anni che non aspetta altro».

    1.2

    La scena sembrava cristallizzata. Due persone immobili l'una di fronte all'altra, come in un dipinto destinato a restare immutato per sempre.
    Da una parte l'uomo in piedi, rigido, con lo sguardo fisso davanti a sé e gli occhi sgranati. Dall'altro Sarah, in terra, ferma solo in apparenza ma in realtà intenta a lottare di nascosto contro i suoi stessi abiti che le impedivano di allontanarsi più di così dal rapitore.
    Entrambi, a modo loro, sembravano immersi in mondi a parte. Lui perso in chissà quali riflessioni, lei concentrata su un problema tanto banale come se da quello, e non dalla sua stessa presenza in quel luogo, dipendesse la sua vita. In maniera fredda e distaccata si rendeva conto dell'inutilità dei suoi tentativi, sapeva che non era quel piccolo intoppo a impedirle di salvarsi, eppure la sua mente pareva volersi focalizzare su di esso allo scopo di non pensare a ciò che la attendeva.
    Per un po' l'uomo non aveva più detto una parola, né si era mosso. Le era parso che avesse grugnito, o respirato pesantemente, ma nulla più. Per quanto lunga le fosse sembrata quella pausa, non dovevano essere stati che pochi attimi.
    Quando si riscosse dal suo strano torpore, lo fece in modo tanto repentino da farla sobbalzare. La sorpresa riuscì dove forza e tenacia avevano fallito, e il silenzio si lacerò assieme alla stoffa della gonna.
    Poi, lui le fu addosso.
    A quel primo strappo, solitario e accidentale, ne seguirono altri, frutto di una volontà ben precisa.
    Anche se si era ripromessa di non farlo, Sarah urlò. Fu un unico, violento, acuto strillo, che si spezzò quando il dorso della mano dell'uomo le colpì il viso con malagrazia, facendole ruotare la testa.
    I loro sguardi si incrociarono, e quello che la ragazza vide le raggelò il sangue più di quanto le mani che ora toccavano la sua pelle nuda fossero riuscite a fare. C'era qualcosa di inumano in quegli occhi, non nel loro aspetto ma nel modo in cui la fissavano. Era come se neppure la vedessero, come se l'uomo a cui appartenevano stesse svolgendo un lavoro tanto ripetitivo e meccanico da non richiedere neppure la sua attenzione.
    «Non piace neanche a me, sto solo assecondando gli istinti di questo corpo per non perderne il controllo», disse l'uomo all'improvviso mentre la spingeva indietro e le bloccava le braccia a terra, sedendosi poi sopra di lei. «Ma se sono troppo debole per controllarlo è colpa tua, quindi te lo meriti», aggiunse.
    Lei lo guardò senza capire, ammutolita, mentre lui le lasciava andare un braccio per un attimo e si slacciava la cintura dei pantaloni.
    Anche se era grande abbastanza, Sarah non si era ancora sposata e aveva solo una vaga idea di quello che stava per accadere. Ma non vaga a sufficienza da impedirle di riprendere a urlare.

    2.2

    «Oggi ci entro». Le parole di Stephen furono come una doccia gelata per Michael. Ecco cosa sarebbe andato male, ne era certo. Non nel modo in cui a volte era certo delle cose, questo no. Ma era come un disastro annunciato.
    Non aveva bisogno di chiedere all'amico a cosa si riferisse. Avevano scoperto la grotta, che in realtà per quanto la chiamassero così era poco più di un buco nel terreno, verso la fine dell'estate, e si erano ripromessi che un giorno o l'altro l'avrebbero esplorata, Stephen con l'entusiasmo ardimentoso di un novello Magellano, Michael con la cauta condiscendenza di qualcuno che ha pochi amici e vuole tenerseli stretti.
    Fino a quel momento, la spedizione era sempre stata rimandata.
    «Perché? È una bella giornata...», tentò di protestare.
    «Appunto! Tra poco tornerà il freddo, e la pioggia, e addio grotta fino all'estate prossima».
    «Be', sarà sempre lì».
    «E chi lo dice? L'estate scorsa non c'era».
    «Non l'avremo vista».
    «Ti dico che non c'era», insistette Stephen, «e potrebbe andarsene di nuovo».
    Michael trovava abbastanza improbabile che una grotta potesse andarsene, anche se in cuor suo sperava che quella lo facesse. Anzi, si augurava che l'avesse già fatto.
    Intanto, se i loro discorsi non li avevano portati da nessuna parte, le loro gambe erano state più efficaci, e già la sagoma della collinetta si stagliava contro il cielo autunnale, fin troppo vicina.
    A Michael quel posto non era mai piaciuto. Gli metteva i brividi, e i suoi, di brividi, non erano di quel genere che si fa passare con una favola e un bacino sulla fronte, anche ammesso di avere qualcuno in grado di dargli cose simili. Ciononostante, si inerpicò lungo la strada scoscesa come se non gli importasse.
    In alto, il sole brillava e riscaldava l'aria con i suoi raggi. A lui, però, sembrava di essere sotto un cielo grigio, immerso nella neve fino alle ginocchia e gelato fin dentro le ossa.
    Anni prima, poco dopo esserci stato per la prima volta, aveva sognato la collina. Non sapeva ancora della grotta, eppure nel sogno aveva trovato una porta e l'aveva varcata, entrando nel cuore della terra e trovandolo popolato di gente morta. Aveva visto ossa ovunque, a volte interi scheletri, altre solo teschi, dita o altre parti che non riusciva a identificare. E poi c'era stata la cosa. Una cosa che non aveva una forma, né un corpo, né un nome, e che lui non poteva vedere, ma che era più terribile di ogni teschio ghignante, di ogni scheletro ricurvo.
    Se ne avesse parlato con qualcuno, anche con Stephen, gli avrebbero detto che era solo un sogno. Ma i suoi non erano mai solo sogni.
    «Allora, vieni o no?», gli domandò l'amico all'improvviso.
    Michael sollevò lo sguardo. La grotta era ancora lì. Non se n'era andata. Non che ci avesse mai davvero sperato.
    «Potremmo farci male», disse, già sapendo che non sarebbe servito a molto.
    «Na na na, fifone!», lo canzonò l'altro.
    A volte, Stephen non era diverso da sua nonna. E Michael reagiva allo stesso modo. Prenderlo in giro, perfino insultarlo, era inutile. Aveva smesso di cercare di dimostrare qualcosa dal momento in cui aveva capito che non ci sarebbe mai riuscito, che la sola persona a cui davvero doveva dare prova di sé era quell'unica che non avrebbe mai potuto accorgersene.
    Si strinse nelle spalle. «Se vuoi andare vai, io resto fuori, così se succede qualcosa vado a cercare aiuto».
    Era un altro tentativo inutile. Stephen non si sarebbe fatto dissuadere per così poco, ma che altro avrebbe potuto fare? Prenderlo a botte? Costringerlo con la forza del pensiero?
    «Come vuoi», replicò l'altro. Si cacciò una mano in tasca e la estrasse dopo poco, facendo rumoreggiare ostentatamente una scatola di fiammiferi. Quindi si infilò nell'apertura, scomparendo alla vista.
    Michael si sedette accanto al buco, con la testa tra le mani.
    A volte odiava sapere le cose prima che si verificassero, ora però avrebbe tanto voluto saperne di più su quello che stava per accadere.
    «Non sai cosa ti perdi.» La voce giunse ovattata dal basso. Lui non rispose.
    «Ehi! Ci sono delle ossa qui! Davvero, dovresti vedere!»
    "Lo so", avrebbe voluto rispondere lui. "Non sono quelle il problema." Tacque.
    I minuti trascorsero lenti, poi «Michael! Michael! Vieni giù, presto! Ho bisogno di aiuto!»
    Michael sospirò.
    La voce era quella di Stephen, certo, ma a parlare, lo sapeva, non era stato lui.

    3.2

    Il campanello suonò all'improvviso, facendoli trasalire.
    Michelle si alzò in piedi, e in apparenza non si mosse neppure.
    «È un'infermiera», disse.
    «È lui», rispose suo nonno. «Va' a nasconderti, stagli lontana».
    «Ma io voglio aiutarti».
    «Non puoi. E io non voglio che ti faccia del male. Devo pensarci io».
    Pur rendendosi conto di quanto la cosa fosse poco appropriata, Michelle sporse il labbro inferiore e mise il broncio come una bambina piccola. Non avrebbe voluto, ma era più forte di lei.
    «L'hai detto tu che non sei più abbastanza forte. Io potrei...»
    Il campanello suonò di nuovo, interrompendola. Forse non era lui, forse era davvero un'infermiera... che per qualche ragione andava in giro a suonare alle porte.
    «Potrei... non lo so... colpirlo... tirargli qualcosa... non mi vedrebbe!», riprese.
    «Forse, forse. No. Vai». Pronunciò quell'ultima parola con le labbra e con la mente, cercando quella parte di sé che da troppo tempo era come morta e ritrovandola, nascosta, spaurita, spaventata forse da se stessa. Se doveva scegliere tra usarla l'ultima volta per salvarsi la vita o per mettere al sicuro Michelle, non era neppure una vera scelta.
    Gli occhi della ragazza si fecero vacui per un istante. Annuì, poi smise di essere lì.
    Il vecchio incurvò le labbra in un sorriso amaro e andò alla porta. Inutile cercare di fuggire al suo destino.
    La donna oltre l'uscio doveva avere una quarantina d'anni, o una trentina portati male. Come aveva detto Michelle, era un'infermiera. Lo rendeva evidente l'abito che indossava, senza neanche un cappotto che la riparasse dai rigori dell'inverno. Aveva uno sguardo irato e sperduto al tempo stesso. Non teneva gli occhi fissi su un punto per più di qualche istante, prima che piroettassero altrove in una danza priva di senso.
    «Sapevo che saresti arrivato», le disse.
    Lei non rispose. Avanzò di un passo e allungò le braccia verso di lui, dandogli una spinta che lo fece indietreggiare ma non cadere.
    «Tutto qui?», domandò il vecchio, che in realtà non sapeva cosa aspettarsi.
    «Ho aspettato a lungo», disse la donna mentre entrava e si chiudeva la porta alle spalle.
    «Sessant'anni», suggerì lui. Aveva aspettato altrettanto. Non gli era servito alcun potere per sapere che quel momento sarebbe arrivato.
    Gli occhi di lei lo puntarono, e questa volta rimasero fermi abbastanza a lungo da fargli capire che stava diventando più forte, più sicuro.
    «Sei diventato debole. Non mi servi più», sibilò.
    «Sono invecchiato», rispose lui. Non riusciva ad avere paura, anche se sapeva che con ogni probabilità non sarebbe vissuto per vedere un altro giorno. Temeva solo quello che sarebbe potuto accadere dopo. Non a lui. A chi sarebbe rimasto.
    Di nuovo si protese nella sua stessa mente a cercare ciò che era stato. Qualcosa dentro di lui si ritrasse, sfuggendo al suo tocco.
    Non sapeva se avrebbe potuto attingere ancora a quel potere. Soprattutto non sapeva se, potendo, lo avrebbe fatto di nuovo. Forse era questa insicurezza a bloccarlo, o forse era davvero troppo vecchio e stanco.
    Lei lo spinse di nuovo. Le sue braccia non erano divenute più forti, ma questa volta c'era altro oltre a muscoli e tendini, e lui volò oltre l'ingresso e il corridoio, colpendo il tavolo della cucina e portandolo con sé fino alla parete opposta.
    La vista gli si annebbiò per un istante, e quando tornò a vedere vide Michelle. Neppure con lei aveva avuto successo.
    «Nonno!», lo chiamò lei, chinandosi per prendergli una mano tra le sue.
    «Dovevi...», rantolò lui, sollevando lo sguardo verso la nipote. L'infermiera era ancora all'ingresso, immobile. La ciotola della colazione se ne stava sospesa in aria a pochi centimetri dal suo viso.
    «Lo so, lo so».
    «Quanto tempo...»
    «Qualche istante, non lo so. Non ho mai portato qualcuno con me prima».
    Lui sorrise, senza sapere perché.
    «Avevi... ragione. Dovrai... aiutarmi».
    Le strinse la mano e le toccò la mente. Il suo potere era ancora forte, erano il suo corpo e la sua volontà a essere stanchi. E presto non sarebbero più stati altro che polvere e ricordi.
    Per l'ultima volta raggiunse quella parte di sé che aveva amato e odiato, e ne riversò tutto quel che poteva dentro la ragazza che aveva accanto.
    «Sai, sei uguale...» disse, e il resto della frase gli morì in gola.
    La ciotola ricadde al suolo, frantumandosi e spargendo latte e cereali zuppi sul pavimento.
    Michelle lo guardò mentre la sua vista si annebbiava per l'ultima volta. «A tua madre, lo so», gli disse.

    1.3

    Sarah non sapeva cosa avrebbe ricordato con più chiarezza di quel momento, se il dolore, la violenza con cui lui la stava penetrando, o il fatto che fosse freddo dentro di lei. Freddo come un morto.
    Lo sguardo di lui era fisso nel vuoto. I suoi movimenti ritmici e distaccati. Forse era morto davvero. Morto dentro.
    Lei all'inizio aveva tentato di lottare, di divincolarsi, senza alcun successo. Il peso del suo corpo la tratteneva a terra, le sue mani le stringevano le braccia, facendole male. Aveva le mani libere ma non poteva usarle per altro che per raspare il pavimento sotto di lei.
    Mentre lui continuava a violarla aveva fatto anche questo: grattato, graffiato, afferrato manciate di paglia come se avesse potuto farne un'arma. Alla fine, le dita della sua mano destra erano penetrate nel legno marcio, e il palmo le si era riempito di schegge, facendola desistere.
    Poi, per un istante, lui la guardò dritto negli occhi, rovesciò la testa all'indietro e grugnì. La pressione sulle sue braccia si allentò mentre un liquido che le sembrò rovente al confronto con la pelle dell'uomo le si spandeva tra le cosce.
    Con la forza della disperazione, Sarah strinse la mano attorno al legno e lo tirò a sé. Sentì che qualcosa cedeva, percepì il suo braccio compiere un arco davanti al suo viso e le schegge penetrare più a fondo nella sua carne, ma tutto questo venne cancellato dall'urlo disumano che seguì.
    L'uomo si alzò in piedi, portandosi le mani al viso e ululando al cielo. Sarah strisciò all'indietro verso la parete, osservando incredula la sua reazione, che divenne ancora più inspiegabile quando lui tornò a guardarla, gli occhi ora iniettati di sangue.
    Il suo volto era intatto, a eccezione di un graffio sulla guancia destra, da cui però suppurava una sostanza nera simile a melassa.
    Lo sguardo di Sarah saettò per istinto al pezzo di legno che aveva usato per colpirlo, e che ora giaceva inutile, se mai era stato altro, poco distante. Un chiodo storto e arrugginito spuntava appena da quel che restava della tavola ammuffita.
    Di nuovo la sua mente parve espandersi, vivere in un tempo dilatato. Era la paura? La rabbia? O qualcos’altro?
    Non lo sapeva e non le interessava, tutto quello che le importava era ciò che era accaduto, ciò che stava accadendo.
    Trovando nelle sue membra stanche e ferite una forza che non sapeva di avere si alzò in piedi, muovendo le mani lungo la parete in cerca di ciò che aveva visto essere lì.
    Lui si mosse veloce per bloccarla. Ci sarebbe anche riuscito se non avesse avuto i pantaloni all’altezza delle caviglie. In qualche modo riuscì a limitare la caduta, ma non a impedirla.
    Mentre lui finiva in ginocchio sul legno, la mano di Sarah si strinse attorno al manico del forcone.
    La sua mira non fu precisa, avrebbe voluto colpirlo al petto e invece le punte smussate dal tempo e dalla ruggine raggiunsero una spalla. Non fu un problema.
    La carne dell’uomo prese a fumare al solo contatto con l’attrezzo come se fosse stato rovente e non freddo.
    Freddo. Ferro freddo. Le parole risuonarono nella mente di Sarah anche se il loro senso le sfuggiva ogni volta che tentava di afferrarlo, come quando si ha un concetto sulla punta della lingua e non si riesce a esprimerlo.
    Neanche questo importava.
    Estrasse l’arma. Dai fori iniziò a colare muco nero. Non importava.
    Le urla di dolore dell’uomo e quelle di rabbia della ragazza si fusero in un unico concerto mentre lei continuava a colpire, e colpire, e colpire.
    Infine lui giacque inerte al suolo. Lei puntò il forcone sul pavimento e vi si appoggiò, esausta. Solo allora smise di urlare.
    Rimase a guardare il suo carnefice, la sua vittima. La sostanza nera stava svanendo, mutandosi in fumo sotto i suoi occhi e poi disperdendosi nel nulla. Nelle sue spire danzanti, per la prima e unica volta nella sua vita, Sarah vide il futuro.
    La ritrovarono così, nuda e avvinghiata al forcone che il suo peso aveva infisso nel legno, lo sguardo perso nel vuoto.
    Le ultime parole che pronunciò, mentre suo padre la prendeva in braccio per portarla via da quel luogo di morte, furono «Voglio tenerlo».

    2.3

    Michael era rimasto sordo ai richiami di Stephen, ma non si era mosso. Sapeva che avrebbe dovuto fuggire. Sapeva che non lo avrebbe fatto.
    Dopo un po’, il suo amico tornò ad affacciarsi dall’apertura scura. Aveva il volto di Stephen, l’aspetto di Stephen, la voce di Stephen. Aveva il corpo di Stephen, ma non era Stephen. I suoi occhi si fermarono un attimo su Michael, ma subito schizzarono via come se non ne sopportassero la vista, o avessero altro da guardare. Continuarono a dardeggiare in ogni direzione mentre il bambino si issava fuori dalla tomba.
    «Ti avevo chiesto aiuto», sibilò.
    «Era troppo tardi», replicò Michael, la voce incrinata. Guardò il compagno non con gli occhi ma con la mente, e non lo vide. Non c’era alcun futuro per lui. Non c’era alcun lui, non più.
    Anche l’altro lo guardò. «Sei diverso».
    «Tu sei diverso».
    «Io sono sempre diverso».
    Michael si alzò. Non sempre poteva vedere il futuro, ma c’erano altre cose che poteva fare.
    «Lascialo andare. Lascia andare Stephen», disse, e nella sua voce c’era più che semplici parole. Protese la mente e spinse con tutta la forza che aveva.
    Gli occhi di Stephen interruppero la loro danza, fissandosi su di lui.
    «Michael?»
    «Stephen? Se ne è andato?», chiese lui, lasciando che una speranza irrazionale lo pervadesse, che allontanasse le certezze di cui avrebbe preferito fare a meno.
    La risposta che ottenne fu uno sguardo vacuo, morto.
    «No», sottolineò la cosa che era stata Stephen, e restituì la spinta.
    Michael venne scagliato via dalla collina, atterrando su dei cespugli che ne spezzarono la caduta. L’altro lo osservava dall’alto, restando immobile.
    «Sei diverso», ripeté.
    Michael questa volta non rispose. Chiuse gli occhi e cercò di capire se si fosse rotto qualcosa. Si era graffiato e sbucciato, a parte questo però gli sembrava di stare abbastanza bene. Trasse un profondo respiro e aprì di nuovo le palpebre proprio mentre l’altro iniziava a scendere verso di lui.
    Non sapeva cosa fare. Qualcuno però doveva saperlo.
    Inspirò ancora ed entrò nella mente dell’altro. Non lo fece nel modo gentile che usava sempre con sua madre, che non lo avrebbe mai respinto; la sua fu un’irruzione, un atto di forza, e si sorprese di non incontrare la resistenza che si era aspettato.
    Si ritrovò a precipitare in un abisso di tenebra.
    Non aveva mai sperimentato nulla di simile prima, con nessuno. Era come se non fosse in una mente ma in un luogo fisico, per quanto irreale, impossibile. Tutto attorno non aveva altro che buio impenetrabile.
    Poi iniziarono le visioni.
    Sapeva che si trattava di questo, ne aveva già avute. Nella sua vita sogni, stralci del futuro e pensieri altrui si erano sempre sovrapposti in un caleidoscopio di immagini, e aveva dovuto imparare presto a distinguerli dalla realtà. Questa volta, però, non riusciva a comprenderle. Gli sembrava di essere entrato in centinaia di menti diverse tutte insieme, ognuna con una propria vita, con una propria prospettiva sul mondo. Tutte. Morte.
    Si ritrasse, tentando di concentrare la propria attenzione sull’unica mente che gli interessasse, quella che però non riusciva a trovare, come se la cosa senza nome non ne avesse davvero avuta una.
    Le tenebre ripresero ad avvolgerlo, questa volta però c’era qualcosa di diverso, un lontano bagliore, come un’unica, distante stella nel cielo notturno.
    Si rivolse a esso, e percorse in un istante la distanza infinita che li separava.
    «Stephen», disse.
    «Uccidimi», rispose lui.
    «Stephen, no, non posso».
    «Fallo, Michael, fallo!»
    Fuggì.
    Fuggì dalla luce, dall’oscurità, da tutto, e fece ritorno al suo corpo, che in realtà non aveva mai abbandonato.
    Echi delle vite che aveva attraversato continuavano a rimbombargli nel cervello.
    Non poteva uccidere Stephen. Non doveva. Sarebbe stato inutile. Questo gli stavano dicendo.
    Finché Stephen viveva, la cosa dentro di lui non poteva andare altrove. Non poteva entrare in lui.
    Tornò a guardare il mondo con gli occhi. L’altro si stava avvicinando sempre più.
    «Ti sei già arreso», lo sentì dire. Non capì se fosse una domanda o un’affermazione. Non aveva importanza.
    Non appena lo vide chinarsi su di lui, cercò dentro di sé quel che restava del suo potere e ancora una volta colpì con tutta la sua forza. La mente della cosa avrebbe resistito ancora, lo sapeva. Ma stavolta non era a quella che mirava.
    Gli occhi di Stephen si rovesciarono all’indietro, mostrando solo il bianco, mentre il corpo del ragazzino si afflosciava al suolo come una bambola di pezza.
    Non poteva ucciderlo. Non poteva neppure permettergli di continuare a vivere. Non del tutto.
    Inginocchiatosi accanto all’amico, Michael pensò a sua madre e alla vita a cui si era condannata da sola prima ancora che lui nascesse, ridotta a una mente imprigionata in un corpo inerte. La vita a cui lui aveva appena condannato il suo migliore amico. Chiuse gli occhi e pianse.

    3.3

    Michelle era stata strappata al suo mondo privato come non era mai accaduto. Il tempo aveva ripreso a scorrere attorno a lei senza che l’avesse desiderato, e in quell’istante suo nonno era morto.
    La ragazza rimase ancora un attimo inginocchiata accanto a lui, tenendogli la mano, come per fargli sapere che dovunque stesse andando lei non lo avrebbe dimenticato. L’infermiera, o quella che sembrava un’infermiera, si stava avvicinando, ma aveva tempo. Lei aveva sempre tempo.
    Quando infine si alzò, si asciugò le lacrime col dorso di una mano e rivolse uno sguardo di puro odio alla donna che ormai quasi le era addosso.
    «Hai ucciso mio nonno!» ruggì.
    «Colpa sua. Avrebbe potuto uccidermi lui anni fa, e glielo avrei risparmiato».
    «Avresti preso lui».
    «Sarebbe ancora vivo».
    Michelle non ribatté. Non avrebbe avuto senso. Trasse un respiro e si infilò in quello spazio segreto tra gli attimi che solo lei conosceva. Lei e nonno Michael, ma ora lui non c’era più, e comunque non lo aveva mai visto davvero.
    No, si corresse, lo aveva visto subito prima di morire. C’erano andati assieme per la prima e ultima volta.
    Tutto attorno a lei si fermò. Fu come se l’intero mondo stesse trattenendo il fiato in attesa di vedere cosa avrebbe fatto.
    E cosa avrebbe fatto?
    La verità era che non lo sapeva.
    Se anche avesse avuto la forza, e il coraggio, e la volontà di uccidere quella donna, che non aveva altra colpa se non quella di aver lavorato nell’ospedale sbagliato nel momento sbagliato, a cosa sarebbe servito? Avrebbe fatto solo quello che suo nonno aveva evitato di fare sessant’anni prima: offrire a quella cosa la possibilità di prendere qualcuno più forte, più potente. Lei.
    Espirò, e il tempo la riaccolse.
    «Anche tu sei diversa».
    Neanche questa volta la ragazza rispose. Doveva allontanarsi, trovare il tempo di pensare.
    Di nuovo sgusciò tra gli istanti e corse verso la porta, puntando allo spazio vuoto accanto alla donna.
    Fu come lanciarsi di corsa contro un muro. L’impatto contro qualcosa che non c’era le mozzò il fiato, facendole espellere l’aria con un sonoro sbuffo, e rimbalzò in terra. Una chiazza bagnata prese a espandersi sui jeans tra le sue gambe, e per un attimo temette di essersela fatta addosso come una mocciosetta. Poi capì che era il latte della colazione mai terminata.
    «Non ti lascerò andare», disse la cosa.
    «Be’, non ti ho chiesto il permesso», rispose lei mostrandole il sorriso che riservava alle marachelle peggiori. Poi le lanciò il piatto.
    Era riuscita a fermarla quando aveva cercato di uscire dalla stanza, ma non la vedeva quando era fuori dal tempo. Di certo non l’aveva vista alzarsi, prendere un piatto dallo scolapiatti e rimettersi a sedere sul pavimento, altrimenti non avrebbe reagito a quel modo vedendoselo arrivare addosso.
    Approfittando della momentanea confusione, Michelle scattò di nuovo verso la porta, stavolta senza trucchi. Spintonò la donna mentre le passava accanto, riuscendo a farla cadere, e si lanciò sulle scale, infilandosi nella sua stanza e chiudendosi la porta alle spalle.
    Ci mise solo un istante a capire di essersi cacciata in una trappola ancora peggiore. Non dovette neppure aspettare di udire i passi che risalivano le scale per giungere alla conclusione che aveva avuto davvero una pessima idea.
    «Sono stata davvero di grande aiuto al nonno», si rimproverò da sola. E come avrebbe potuto aiutarlo comunque? Se tutto quello che lui era in grado di fare non era mai servito, il suo unico, stupido, inutile potere di che aiuto avrebbe mai potuto essere?
    La porta esplose. Schegge di legno grandi come la sua testa volarono in ogni angolo della stanza, sfondando la finestra e distruggendo il suo arredamento e lo schermo del computer. Lei stessa le evitò solo passando tra un istante e il successivo e schivandole mentre dal suo punto di vista erano ferme a mezz’aria.
    La finta infermiera entrò e la guardò con un ghigno da folle stampato sul viso.
    «Sei molto diversa», le disse.
    «Uccidimi se vuoi».
    «Mi servi».
    «Lo so che non puoi prendermi se prima non muori... se non muore lei... Non ti ucciderò mai».
    La donna rise. Non era un suono piacevole a udirsi.
    «Te l’ha detto il vecchio? È vero, ma non serve che lo faccia tu».
    Prima che Michelle potesse capire cosa stava accadendo, la cosa si lanciò in avanti. Per un istante la ragazza credette che volesse aggredirla, poi capì: stava puntando alla finestra.
    La scena si bloccò come in un fermo immagine. Ora la donna era per metà dentro e per metà fuori della stanza, congelata in un tuffo incompleto.
    Che doveva fare?
    Se l’avesse lasciata andare, avrebbe perduto tutto, inclusa sé stessa, e le avrebbe dato ciò che desiderava. Ma se l’avesse salvata a che sarebbe servito? Come poteva impedirle in eterno di uccidersi?
    «Nonno... non avresti potuto aspettare un po’ a morire?», si lamentò solo per avere qualcosa da dire.
    Il tempo la reclamava, non poteva restarne fuori ancora a lungo. Senza riflettere, avvolse le braccia attorno alle gambe della donna e iniziò a tirare verso di sé mentre vi tornava.
    Rovinarono in terra assieme, lei sotto e l’altra sopra. Ebbe il tempo di vedere il pugno alzarsi verso di lei, spostarsi e lasciare che colpisse con forza il pavimento, ma non riuscì a evitare la forza invisibile che la spinse contro il muro della stanza, immobilizzandola.
    Cercò di ricordare quello che le diceva sempre suo nonno... era tutta una questione di spinta secondo lui.
    La cosa senza nome spingeva gli oggetti. Lui spingeva le menti. Ma lei no, tutto quel che faceva era farsi spazio... e forse, dopotutto, era la stessa cosa.
    In un tentativo disperato, raccolse tutte le sue forze e spinse. Spinse come solo lei poteva fare, come non aveva mai fatto, in un unico e irresistibile sforzo, desiderando di poter scagliare lontano quell'essere, qualunque cosa fosse. Lontano da sé, lontano da quel luogo, lontano da quel momento.
    Il tempo si aprì davanti a lei mostrandole la sua essenza, un dedalo di ramificazioni e sentieri che non aveva mai visto. Forse un giorno avrebbe potuto comprenderli, capire dove andassero. Non ora. Non perse tempo a scegliere tra le direzioni che le sembravano tutte uguali, si limitò a colpire con tutta la forza che suo nonno, morendo, le aveva dato.
    Poi entrambe le donne ricaddero al suolo, abbandonate ognuna da una diversa forza. In un istante Michelle fu accanto all’infermiera. Respirava, era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.
    Ma sapeva anche di non aver risolto nulla. Di non aver sconfitto la cosa, né averla imprigionata come aveva fatto suo nonno. L’aveva solo scacciata, scagliata in un altro quando che le era ignoto.

    3.14

    Una mano venne premuta sulla bocca di Sarah impedendole di urlare, mentre un braccio le cingeva la vita e la sollevava come se non avesse avuto peso, per poi trascinarla via.
    Accadde tutto così in fretta che solo quando l'impatto con il pavimento le mozzò il fiato la sua mente parve riprendere a funzionare.

    Edited by CMT - 4/4/2011, 09:57
     
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  2. =swetty=
     
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    Mi è piaciuto, parecchio devo dire. L'unica cosa che non ho capito è il finale, mi auguro rileggendolo diventi più chiaro.

    Solo l'ho trovato piuttosto pesante e con tanti periodi da risistemare.

    Hai intenzione di rivederlo? Così so quanto devo andare nel dettaglio e anche se aspettare a votare.
     
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    Losco Figuro

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    In realtà ho dovuto rivederlo così tante volte da averne la nausea almeno per qualche mese. Se avrò qualche segnalazione specifica di sicuro ci lavorerò sopra.
    In quanto al finale... sì, lo so che non è un racconto molto immediato, ma è tutto lì, è solo questione di trovarlo :-)
     
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  4. marramee
     
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    Quarta volta che scrivo questo commento (sono tentato di riportare pure i tre precedenti, corrispondenti alle tre letture che ho fatto).
    Questa volta mi sono ostinato e ho voluto "capire il racconto".
    A una prima lettura ho capito ben poco. Alla seconda ho sbagliato a inquadrare l'ordine cronologico della storia. Alla terza mi sono pian piano illuminato.
    Quindi, vediamo se ho capito.
    SPOILER (click to view)
    1) Sarah viene rapita da una creatura che possiede un essere umano, perché la creatura, che ha la capacità di vedere nel futuro, sente che lei diventerà un pericolo per lui. Sarah riesce a uccidere la creatura col ferro (questo punto mi è rimasto un po' oscuro), non prima di essere stata violentata. Resta in stato catatonico, prigioniera di un corpo inerte.
    2) Michael, il figlio di Sarah e della creatura, viene allevato dai nonni. Ha ereditato la preveggenza della creatura. Infatti prevede che il suo amico Stephen incontrerà proprio questa creatura in una caverna piena di cadaveri. Non potrà impedire all'amico di andare laggiù, e il ragazzo verrà posseduto. Infatti la creatura prende possesso di corpi umani, ma non ne può uscire finché l'ospite non muore. Michael riuscirà a paralizzare la mente di Stephen (non ho ben capito come) che resterà catatonico come Sarah. In questo modo imprigionerà la creatura al suo interno.
    3) Passati molti anni Michael si troverà di nuovo di fronte alla creatura, che stavolta possiede un'infermiera (immagino quella che si occupava del catatonico Stephen fino alla sua morte). Non ha modo di batterla, e morirà nel tentativo. Sua nipote Michelle, quindi pronipote della creatura stessa, ha acquistato capacità ancora diverse, ovvero il potere di manipolare il tempo. Non può uccidere l'ospite perché altrimenti la creatura si trasferirebbe dentro di lei, allora rimanda indietro nel tempo la creatura, salvando così l'ospite che resta illeso.
    1 di nuovo) Sparata nel passato, la creatura possiederà l'uomo che cercherà di uccidere Sarah.
    Dimmi che ci ho azzeccato!
    A parte un paio di punti che mi restano un po' oscuri, devo dire che il racconto e la sua costruzione sono affascinanti, MA (maiuscolo) non si può dover leggere e rileggere un racconto un sacco di volte per capirlo (magari sono solo io che sono un po' tardo). Si poteva ottenere lo stesso risultato con un briciolo di chiarezza in più.
    Quindi un tre pieno penso che sia il voto giusto.

    PS: per me è sbagliato, e molto, chiamare l'ultimo capitolo 3.14, non ha alcun senso, avrebbe dovuto chiamarsi 1.1 (avrebbe pure facilitato la comprensione).
    PS 2: ti segnalo una frase doppia nel finale:
    CITAZIONE
    Le donne ricaddero al suolo. Subito Michelle fu accanto all’infermiera. Era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.
    Poi entrambe le donne ricaddero al suolo, abbandonate ognuna da una diversa forza. In un istante Michelle fu accanto all’infermiera. Respirava, era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.

     
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  5. Ryan79
     
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    ciao,

    SPOILER (click to view)
    Bel racconto, molto ostico in vertà. anche io ho capito preassappoco quello che ha scritto marramee, magari dacci una conferma.
    Voto 3. sarebbe 3,14 ma non essendoci arrotondo :)

    ti segnalo alcune cosette, anche come ringraziamento degli appunti precisi che hai fatto al mio racconto :)

    Dagli abiti si sarebbe detto uno di città. L'espressione sul volto, però, trasudava follia.
    quel però non mi convince. così sembra che chi viene dalla città non possa essere un folle (e i newyorkesi allora? LOL)

    Il ragazzo si voltò, sollevò la testa e i loro sguardi si incrociarono. Dovendo giudicare solo dai loro occhi,
    la ripetizione di "loro" forse è evitabile. magari usando dovendoli invece di dovendo e dagli invece di dai

    Sarah si affacciò oltre la porta della cucina, poggiando una spalla allo stipite, e urlò
    io metterei: Sarah si affacciò oltre la porta della cucina poggiando una spalla allo stipite e urlando:

    Solo allora, il vecchio parlò
    virgola superflua?

    La ragazzina si strinse nelle spalle, affondò un cucchiaio nella scodella che aveva davanti e lo ritrasse colmo di cereali grondanti di latte, che si cacciò in bocca come se volesse farli scendere direttamente in gola con tutta la posata.
    periodo un po' ostico... io metterei:
    La ragazzina si strinse nelle spalle affondando il cucchiaio nella scodella che aveva davanti e ritraendolo colmo di cereali grondanti di latte, cacciandoselo poi in bocca come se volesse farli scendere direttamente in gola con tutta la posata.

    e se lo portò accanto al viso
    refuso: manca il punto

    Il vecchio si alzò, con aria stanca e rassegnata, e la raggiunse
    le virgole forse sono superflue

    La scena sembrava cristallizzata. Due persone immobili l'una di fronte all'altra
    forse meglio i due punti dopo cristallizzata

    C'era qualcosa di inumano in quegli occhi, non perché fossero diversi dai tanti che aveva visto fino ad allora, ma per il modo in cui la fissavano.
    l'inciso è forse un po' troppo ridondante, io avrei messo:
    C'era qualcosa di inumano in quegli occhi, più che altro (soprattutto) nel modo in cui la fissavano.

    Avevano scoperto la grotta, che in realtà per quanto la chiamassero così era poco più di un buco nel terreno, verso la fine dell'estate
    "in realtà" è superfluo

    si erano ripromessi che un giorno o l'altro l'avrebbero esplorata, Stephen con l'entusiasmo ardimentoso di un novello Magellano, Michael con la cauta condiscendenza
    troppe virgole in questo paragrafo. dopo esplorata quindi meglio i due punti secondo me

    Tra poco tornerà il freddo, e la pioggia,
    tra poco torneranno il freddo e la pioggia e addio...

    Gli metteva i brividi, e i suoi, di brividi, non erano...
    forse meglio: Gli metteva i brividi, e i suoi brividi non erano

    Se ne avesse parlato con qualcuno, anche con Stephen, gli avrebbero
    qualcuno avrebbe. il periodo si capisce lo stesso, ma non so se è corretto

    "Lo so", avrebbe voluto rispondere lui. "Non sono quelle il problema." Tacque.
    non dovrebbe essere con la minuscola

    forse era davvero un'infermiera... che per qualche
    i puntini sospensivi io li lascerei solo al discoros diretto, qui poi non servono granché

    e nella sua voce c’era più che semplici parole
    io avrei messo "qualcosa in più delle". così come è adesso mi suona male

    Tutte. Morte.
    non so se è voluto o è un refuso

    come se la cosa senza nome non ne avesse davvero avuta una.
    davvero avuta mi pare supefluo

    come un’unica, distante stella nel cielo notturno
    la virgola secondo me è superflua

    Si rivolse a esso
    esso chi? se è la mente dell'amico, avrei messo lui. così sembra che si sia rivolto al cielo notturno. se è invece la creatura che finge di essere l'amico, non si capisce bene

    la volontà di uccidere quella donna, che non aveva
    virgola secondo me superflua

    Le donne ricaddero al suolo. Subito Michelle fu accanto all’infermiera. Era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.
    Poi entrambe le donne ricaddero al suolo, abbandonate ognuna da una diversa forza. In un istante Michelle fu accanto all’infermiera. Respirava, era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.

    non ho capito se la ripetizione della frase è voluta o se è un refuso nel rivedere il testo :)

    Era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.
    la prima virgola la leverei, anche se comunque la frase non è il massimo della vita :)


    dimenticavo: il titolo mi sembra azzeccato sia in quanto numero irrazionale sia perchè essendo infinito ben si presta a descrivere questa storia. Quindi mi sembra giusta l'idea di intitolare l'ultimo capitolo 3,14 (io avrei messo anche ulteriori cifre, guarda un po'! :) )
     
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    Magister Abaci

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    Anche in questo caso, un racconto presentato in un turno della Royal Rumble (il terzo, quello del 3x3x3) si è giovato del maggior spazio a disposizione. Però i kilobytes in più non hanno favorito la chiarezza della trama, che risulta poco comprensibile a una prima lettura (almeno per me!)

    SPOILER (click to view)
    Si tratta di un racconto circolare, favorito da un viaggio nel tempo, che tiene col fiato sospeso dall'inizio alla fine. La vicenda si dipana in tre momenti diversi che si intrecciano cercando di chiarire, una scena dopo l'altra, i termini della questione. Da questo punto di vista, una rilettura si può rivelare necessaria, ma non si tratta necessariamente di un difetto vista la circolarità della trama.
    I personaggi sono ben caratterizzati e si visualizzano con facilità, ma nel passaggio da un'ambientazione all'altra si può rimanere un po' disorientati nel ricordare chi è chi.

    Lo stile, asciutto ed essenziale, è efficace e adeguato alle descrizioni.

    Voto: 3.
     
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    Losco Figuro

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    Grazie ai lettori votanti. Ho passato la giornata alla LevanteCon e sono cotto per cui se dico idiozie perdonatemi :-)

    SPOILER (click to view)
    @marramee: sì, è quasi del tutto giusto, solo un dettaglio: l'essere non vede il futuro, l'ha già vissuto visto che proviene da lì, e soprattutto è piuttosto confuso sul quando si trova, crede di avere davanti Michelle.
    Sul motivo del 3.14 vedi commenti di Ryan :)

    CITAZIONE (Ryan79 @ 3/4/2011, 13:18) 
    La ragazzina si strinse nelle spalle, affondò un cucchiaio nella scodella che aveva davanti e lo ritrasse colmo di cereali grondanti di latte, che si cacciò in bocca come se volesse farli scendere direttamente in gola con tutta la posata.
    periodo un po' ostico... io metterei:
    La ragazzina si strinse nelle spalle affondando il cucchiaio nella scodella che aveva davanti e ritraendolo colmo di cereali grondanti di latte, cacciandoselo poi in bocca come se volesse farli scendere direttamente in gola con tutta la posata.

    Solo che così il soggetto di "cacciarsi" è il cucchiaio, non più i cereali, e la parte che segue non sarebbe più corretta

    CITAZIONE (Ryan79 @ 3/4/2011, 13:18) 
    Avevano scoperto la grotta, che in realtà per quanto la chiamassero così era poco più di un buco nel terreno, verso la fine dell'estate
    "in realtà" è superfluo

    Perché?

    CITAZIONE (Ryan79 @ 3/4/2011, 13:18) 
    Tra poco tornerà il freddo, e la pioggia,
    tra poco torneranno il freddo e la pioggia e addio...

    No, è apposta così e c'è una virgola in mezzo del resto. Io non parlerei in questo modo ma Stephen sì :-)

    CITAZIONE (Ryan79 @ 3/4/2011, 13:18) 
    Tutte. Morte.
    non so se è voluto o è un refuso

    Voluto :)

    CITAZIONE (Ryan79 @ 3/4/2011, 13:18) 
    Le donne ricaddero al suolo. Subito Michelle fu accanto all’infermiera. Era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.
    Poi entrambe le donne ricaddero al suolo, abbandonate ognuna da una diversa forza. In un istante Michelle fu accanto all’infermiera. Respirava, era viva, e, in qualche modo lo sapeva, libera.

    non ho capito se la ripetizione della frase è voluta o se è un refuso nel rivedere il testo :)

    Grazie, problema scaturito dal taglia e cuci, lo sistemo appena mi sveglio :D
     
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  8. Dieguito_85
     
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    Il racconto meriterebbe, per l'idea e lo sviluppo, un 3,5.
    Mi piace, è intelligente, acuto, originale, scritto abbastanza bene (anche se, forse, il racconto precedente, tecnicamente, aveva qualcosa in più).
    Però. Però. Però.
    A me sono bastate due letture e le illustrazioni di Stefano per capire il racconto. Ma sono troppe. Per me, così non va bene.
    E' vero, la trama è complessa. Ma non a tal punto da giustificare tre letture a capoccia per sbrogliare la matassa. Strutturando la storia in maniera diversa, avresti potuto facilitare la comprensione. E, per me, la comprensione è la cosa fondamentale: se non mi faccio capire, è tutto inutile. Ciò non vuol dire "semplicismo", ma "chiarezza".
    Quindi il voto scende a 2. Mi dispiace, sono severo, ma non puoi farmi leggere un racconto tre volte e andare a sbirciare i commenti altrui per vedere se ho capito. Troppo ostica, come lettura. 2 è poco, lo so, perché sei molto bravo.
    Ma, col materiale a disposizione, potevi congegnare meglio.
     
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    Losco Figuro

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    Il 2 va benissimo, per carità, però non sono d'accordo in linea di massima. Non è scritto da nessuna parte che un racconto deve essere di immediata comprensione (purché, è chiaro, alla fine sia comprensibile) e questo non è nato per esserlo. Non dico che si tratti di una scelta per forza giusta, ma comunque è una scelta, non un incidente di percorso. ^_^
     
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  10. Dieguito_85
     
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    CITAZIONE (CMT @ 4/4/2011, 16:12) 
    Il 2 va benissimo, per carità, però non sono d'accordo in linea di massima. Non è scritto da nessuna parte che un racconto deve essere di immediata comprensione (purché, è chiaro, alla fine sia comprensibile) e questo non è nato per esserlo. Non dico che si tratti di una scelta per forza giusta, ma comunque è una scelta, non un incidente di percorso. ^_^

    A me dispiace per il 2, perché tu sei un talento (ho letto solo due cose tue, ma mi sono bastate). Non mi dispiaccio per il 2 in assoluto, ma per il 2 verso di te. E' vero che il racconto non deve essere di immediata comprensione, ma se ognuno qui ha dovuto leggerlo 2/3 volte, mi sembra che sia davvero troppo ostica come lettura.
    Ripeto: parere personale. Ma se solo io ho dovuto leggerlo due volte, allora okay: sono tardo. Ma se tutti l'hanno letto due/tre volte, allora è il racconto che è difficile. Mica incidente di percorso, per carità. Magari, almeno per me: scelta portata a livelli troppo estremi.
     
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    Losco Figuro

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    Intanto: grazie dell'apprezzamento. :)

    CITAZIONE (Dieguito_85 @ 4/4/2011, 16:58) 
    Ripeto: parere personale. Ma se solo io ho dovuto leggerlo due volte, allora okay: sono tardo. [...]

    Credo che l'unico modo per NON leggerlo due volte sia avere una memoria eidetica (o comunque ottima) visto che alcune cose sono davvero comprensibili solo dopo la conclusione (in un racconto molto breve questo in genere non implica una rilettura perché è tutto abbastanza fresco, ma in uno abbastanza lungo come questo è quasi inevitabile). Però era il mio scopo creare una struttura che fosse completa solo in un ciclo, dove ogni evento spiega i successivi ma i successivi sono anche i precedenti. Insomma se non fosse necessaria una rilettura (o, ribadisco, una memoria eccellente per i dettagli) avrei mancato il bersaglio dal mio punto di vista :)
     
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  12. Dieguito_85
     
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    CITAZIONE (CMT @ 4/4/2011, 17:06) 
    Intanto: grazie dell'apprezzamento. :)

    CITAZIONE (Dieguito_85 @ 4/4/2011, 16:58) 
    Ripeto: parere personale. Ma se solo io ho dovuto leggerlo due volte, allora okay: sono tardo. [...]

    Credo che l'unico modo per NON leggerlo due volte sia avere una memoria eidetica (o comunque ottima) visto che alcune cose sono davvero comprensibili solo dopo la conclusione (in un racconto molto breve questo in genere non implica una rilettura perché è tutto abbastanza fresco, ma in uno abbastanza lungo come questo è quasi inevitabile). Però era il mio scopo creare una struttura che fosse completa solo in un ciclo, dove ogni evento spiega i successivi ma i successivi sono anche i precedenti. Insomma se non fosse necessaria una rilettura (o, ribadisco, una memoria eccellente per i dettagli) avrei mancato il bersaglio dal mio punto di vista :)

    Allora bersaglio centrato.
     
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  13. Ryan79
     
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    aggiungo una cosa: non perché sia particolarmente intelligente, anzi... però io mi sono fermato alla prima lettura e ho capito più o meno tutto, sia proprio grazie al titolo che già mi aveva fatto imaginare una cosa del genere, sia grazie al fatto che inizialmente le vicende sono talmente separate da mettermi nella predisposizione d'animo per cercare il nesso tra tutte. Ammetto comunque di aver fatto una lettura molto attenta perché volendomi sdebitare con l'autore per gli ottimi commenti che mi fa ogni volta, mi sono sentito in dovere di fare qualcosa in più del solito :)
     
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  14. Fini Tocchi Alati
     
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    Per quanto mi riguarda, ho dovuto solo ricollegare di tanto in tanto i nomi dei personaggi alle vicende narrate nei capitoli precedenti. Per il resto m'è parso tutto abbastanza chiaro.
    Tranne una cosa, in verità.
    SPOILER (click to view)
    Mi ha depistato il fatto che la madre di Michelle si chiamasse Sarah anche lei (come la nonna, quindi). Così ho creduto alla fine che il mostro si volesse impossessare di questa Sarah (anche se, in realtà, ho notato subito la costruzione "circolare" della storia e quindi la spiegazione che mi si era palesata l'avevo trovata strana. Cioè, mi pareva assolutamente lineare che la storia ricominciasse dall'inizio, però quella seconda Sarah mi ha depistato.)
    Per il resto, penso che sia un gran racconto. Scritto molto bene (c'è qualche ripetizione di troppo, tipo i personaggi che ogni tanto si "stringono nelle spalle") e architettato in modo sublime.

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    Losco Figuro

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    I 4 mi prendono sempre di sopresa O_o Grazie
    Riguardo il dettaglio... alla fine è una cosa tradizionale
     
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29 replies since 1/4/2011, 08:20   276 views
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