Odisseo entrò per ultimo. Non gli piaceva quel vociare continuo nella sala di ricevimento di Tindaro, il re di Sparta, l'uomo che suo malgrado doveva ospitare quella masnada. Quella sala avrebbe potuto contenere anche cinquanta uomini e in quel momento era quasi piena. Al centro c'era un focolare rotondo, dove si poteva arrostire un bue intero, e certo Tindaro avrebbe dovuto farlo, se sperava di onorare come si conveniva gli ospiti della sua reggia. Come evocato dai pensieri di Odisseo, un grosso spiedo con la metà di un bue arrosto venne giusto portato in quel momento e rimesso sul fuoco. Passò davanti ai due grandi tavoli dove erano seduti tutti e venne accolto da grida di gioia. Ma i toni si abbassarono quando arrivò anche l'altra metà e poi delle pecore intere. Il problema che Tindaro si trovava ad affrontare in quei giorni era spinoso. Era il re più potente dell'Acaia, ma non aveva figli maschi, solo due femmine. Chi avesse sposato sua figlia maggiore, Elena, avrebbe ereditato il trono di Sparta e la supremazia su tutti quelli che erano lì convenuti. Così tutti i più nobili d'Acaia si erano riuniti nella sua reggia nella speranza di diventare il genero di Tindaro ed erano in attesa di conoscere la sua decisione. Odisseo si guardò intorno. Era forse il più giovane e certo il più spaesato. Veniva da una piccola isola a ovest, Itaca, molto lontana da lì, ed era arrivato a Sparta spinto dalla curiosità, quando aveva saputo che i pretendenti di Elena si stavano riunendo alla corte di Tindaro. Pensava di essere ancora troppo giovane per sposarsi, ma gli era sembrata una buona occasione per un viaggio. A differenza di molti in quella stanza, lui non era ancora re, era solo un principe, e gli andava bene così. – Posso sedermi qui? Un giovane allegro si stava presentando a Odisseo. Aveva un gran sorriso e i capelli castani tutti arruffati. – Mi chiamo Diomede, vengo da Argo. Tu? – Odisseo, da Itaca. – Itaca? Quell'isola, quella... – Lei. Quando l'Acaia è finita, prosegui ancora, traversi il mare e ci sei. Diomede si mise a ridere. Argo era a una giornata di cammino da Sparta, Itaca doveva sembrargli la cosa più lontana del mondo. Lui e Odisseo avevano quasi la stessa età, e una luce simile, furba, negli occhi. Tindaro entrò e tutti si girarono verso di lui. Al centro della sala aveva fatto portare un tavolo più piccolo, dove avrebbero preso posto lui e la sua famiglia. Aveva un'aria nobile e triste che spiccava in confronto ai suoi ospiti. Accanto a lui, suo fratello Icario. Dei rumori si alzarono nella sala quando due donne entrarono e si sedettero a fianco del re e di suo fratello. Nessuno dei convenuti avrebbe mai permesso a una donna di mangiare con lui. – E' l'usanza di Sparta. Le mogli mangiano con i mariti. Diomede, il nuovo amico di Odisseo, sembrava saperla lunga sulla questione. – Si dice che una volta fossero le donne a comandare a Sparta, così adesso chi sposa Elena prende il regno. E' per questo che tutti sono qui. – Pensavo fossero qui per la sua bellezza. Diomede lo guardò perplesso. Poi però Odisseo sollevò l'angolo della bocca e lasciò trasparire l'ironia dagli occhi. Diomede scoppiò di nuovo a ridere e gli batté sulla spalla. Sembravano nati per intendersi, loro due. – Allora, isolano, chi preferisci tra le due? Odisseo si voltò verso il tavolo reale. Le due donne ostentavano indifferenza, ma non potevano celare l'indignazione. Quella accanto a Icario aveva i capelli neri e lucidi e la pelle diafana, ed era di una bellezza pura come l'acqua. Sembrava non avere età. L'altra invece era bionda e aveva degli occhi azzurri intensi che sembravano emettere luce propria. Sotto la veste casta si intravedeva un corpo perfetto. – Non saprei. – Ma come? Leda, è ovvio, come tutti. – Qual è tra le due? – Ma sei proprio orbo, di che sono fatte le donne dalle tue parti? Leda è la bionda, la moglie di Tindaro. Si dice che persino Zeus in persona... Diomede fece un gesto allusivo e gli diede di gomito, ma non c'era cattiveria in quello che diceva, solo invidia per il marito di tanta bellezza. Odisseo continuava a guardare le due coppie reali, ma non riusciva a decidersi, finché quella con i capelli neri non alzò gli occhi verso di lui, due occhi profondi e verdi come smeraldi. Lo guardò un attimo, poi gli sorrise. Lui distolse lo sguardo e si girò verso Diomede. – No, preferisco la mora. – Tu devi essere matto. – Be', facciamo così, se i loro mariti si stuferanno, vorrà dire che ne prenderemo una a testa. – Come vuoi, ma sta' attento: Peribea, la mora, non è umana. Diomede aveva abbassato la voce. Si guardò intorno furtivo. – È una naiade, una che può stregarti e farti uscire di senno. – Ma sei tu, quello tutto matto! Però Odisseo ripensò a quegli occhi come smeraldi e si chiese se Diomede non potesse avere ragione. La serata fu lunga e piacevole, ci furono danzatori, giocolieri e poi racconti di gesta eroiche. Diomede sembrava trovarli divertenti, ma Odisseo li trovava noiosi. Molti dei convitati di quella sera erano figli di questo o quell'eroe. Aiace, per esempio, quello alto e gioviale in fondo alla sala, era figlio di Telamone, il re di Salamina, che era stato uno degli argonauti: quando suo padre fu nominato, tutti si girarono verso di lui. Invece per Odisseo era già un'avventura essere a Sparta: dopo questo viaggio, la sua prospettiva era di tornare al suo minuscolo regno sperduto, dove vivere in serenità fino alla vecchiaia andando a caccia e amministrando la giustizia. Era più che sicuro che su di lui e la sua famiglia nessuno avrebbe mai composto neanche un verso. Quando fu ora di dormire, Tindaro, Icario e le rispettive mogli si ritirarono nelle loro stanze, mentre gli ospiti si disposero a passare la notte nella sala del banchetto. L'indomani, Tindaro avrebbe presentato loro Elena e sarebbero iniziati due giorni di festeggiamenti, al termine dei quali avrebbe comunicato la sua scelta. C'era parecchia agitazione, ma erano ubriachi e stanchi e quindi ben presto russarono tutti. Diomede si addormentò vicino a Odisseo senza perdere il suo sorriso. Anche lui aveva il naso paonazzo come tutti gli altri. Odisseo fece uno strano sogno. Stava tornando a casa e dietro di lui, sul suo carro, c'era una donna, ma non osava voltarsi per guardarla. Provava uno strano sentimento per lei, qualcosa che non aveva mai provato prima. Improvvisamente, si accorgeva di essere inseguito. Era Icario, il fratello di Tindaro, che cercava di raggiungerlo e gridava: «Ridammela! Ridammela!». Rivoleva indietro la donna sul carro. Odisseo a quel punto si girava per guardarla e di lei vedeva solo due occhi verdi come smeraldi. Si svegliò. Era quasi l'alba, l'ora dei sogni veritieri. Odisseo provò una strana inquietudine. Gli occhi verdi del mio sogno sono forse quelli della moglie di Tindaro? Non riuscì a riaddormentarsi, così si alzò, riunì le sue cose e andò all'aperto. Salì i pochi gradini per uscire dalla sala di ricevimento, scostò la tenda fatta di pelli di capra e si ritrovò sotto una veranda alla luce della luna. L'aria fresca della notte era piacevole. Per distrarsi dal suo sogno, cercò di pensare al problema di Tindaro. Odisseo si concentrò sui pretendenti. Ce n'erano di veramente nobili: Aiace, Diomede stesso, che era nipote di Eracle, o Idomeneo, il re di Creta, che discendeva nientemeno che da Minosse, quello che si mormorava avesse tenuto un figlio deforme nascosto in un labirinto. In realtà, però, non è che ci siano molte scelte. Tindaro era da tempo ostaggio di due fratelli, che lo avevano accerchiato di conquista in conquista e miravano al dominio del Peloponneso, la penisola di cui Sparta era il centro. I due fratelli si chiamavano Agamennone e Menelao. Erano noti soprattutto per la crudeltà e per le orribili storie che si raccontavano sulla loro famiglia. Agamennone era il maggiore ed era re di Micene, un uomo alto e possente, con lunghi capelli castani. Era rimasto serio per tutto il banchetto e quando lo aveva guardato, Odisseo aveva sentito un brivido di paura. Menelao era più basso del fratello, aveva una gran massa di capelli neri e un'aria infida che lo facevano somigliare a un brutto corvo. Uno di loro due avrebbe sposato Elena, la figlia di Tindaro, non c'erano altre possibilità. Ma come avrebbe potuto Tindaro fare in modo che tutti gli altri si ritirassero in buon ordine, senza rischiare una guerra? I due fratelli non erano amati da nessuno e nessuno voleva fare alleanze con loro. Odisseo si era seduto su una panca. Appoggiò la testa a uno dei pali che sorreggevano la veranda e pian piano, cullato dal rebus di Tindaro, si addormentò di nuovo. – Ehi, dormiglione! La voce allegra di Diomede. Odisseo aprì un occhio. Non si poteva dire che il sole fosse alto nel cielo, ma certo era già sorto da un po'. – Che ci fai qui fuori? – Non riuscivo a dormire. – Eh, lo vedo, lo vedo. Stanno servendo la colazione, ne vuoi? Odisseo finì di svegliarsi e si diresse verso la sala di ricevimento. C'erano schiave che andavano e venivano con brocche di latte e piatti pieni di formaggio, frutta e olive. Odisseo disse qualche «'giorno» qua e là e poi si risedette al posto della sera prima. Diomede lo seguì, prese un pezzo di formaggio e si mise accanto a lui. – Dice che oggi andiamo a caccia. – Davvero? E' un peccato. – Perché? – Non ho portato il mio arco. Diomede infilò un pezzo di pane in bocca e bofonchiò qualcosa in segno d'assenso. Odisseo allargò le braccia fin quasi ad aprirle completamente. Sembrava un pescatore che parlava di pesci. – Sì, a casa ho un arco grande così, fatto di corna di cervo. Se lo sapevo, lo portavo. – Avessi io un arco così, non me ne separerei mai. – Dici? No, pesa un'esagerazione, va bene a caccia, ma per il resto è inutile. Tindaro entrò in quel momento. Era solo. Salutò, poi iniziò a girare tra i suoi ospiti. Sorrideva a tutti e non mostrò timore neanche di fronte ad Agamennone. Ma quando passò oltre, e Agamennone diede di gomito al fratello, i due si scambiarono uno sguardo d'intesa e Tindaro sembrò molto vecchio e stanco. Odisseo si girò verso l'ingresso, dove la tenda di pelli era stata sollevata. Icario era fuori e stava dando istruzioni per preparare la caccia. Nel cortile, si stavano ammassando archi, frecce e lance. Tindaro si avvicinò a Diomede e Odisseo. – Diomede, è un piacere rivederti a Sparta. – Grazie, è un piacere tornarci, a Sparta. Lui è Odisseo, il figlio di Laerte, re di Itaca. Tindaro sorrise verso Odisseo. Lo aveva visto alla presentazione, la sera prima. – Oh, sì, ho sentito parlare di tuo padre. – Davvero? – Dicono che sia un re saggio e giusto. Vorrei che tu portassi un mio omaggio per lui, quando tornerai alla tua isola. – Con piacere. Tindaro proseguì. Diomede rimase a guardarlo, bevendo una ciotola di latte. Odisseo era concentrato sul suo pezzo di pane. Non riusciva a togliersi dalla testa il suo sogno. Alzò gli occhi verso Diomede. – Allora, di cosa si va a caccia da queste parti? – Lepri e conigli, pernici, quaglie. Ma credo che Tindaro per oggi ci porterà a cacciare un cinghiale o forse addirittura un cervo. – Ce ne sono? – Cervi pochi, ma cinghiali anche troppi. Uscirono in cortile. I preparativi per la caccia proseguivano con calma. La reggia di Tindaro, formata da tante capanne indipendenti circondate da mura, era stata costruita a ridosso di una collinetta e il grande cortile dove si trovavano era più o meno a metà altezza. Le stanze dove abitavano le donne erano più in alto. Odisseo vide Tindaro andare in quella direzione e lo seguì con lo sguardo fin dove poté. Gli sfuggì il pensiero che lassù ci fossero due occhi come smeraldi che lo stavano aspettando. Diomede gli posò una mano su una spalla e lo fece trasalire. – Guarda, eccola, è lei. – Chi? – Come chi? La fanciulla che siamo venuti a conquistare. Tindaro stava tornando e aveva a fianco a sé la splendida Leda. Dietro Tindaro e Leda c'erano tre ragazze velate e per ultima Peribea. Il piccolo corteo salì su un palco coperto preparato per l'occasione. Le tre ragazze si tolsero il velo, ma rimasero nascoste dietro Tindaro e la sua sposa. Quando fu certo che tutti stessero guardando nella loro direzione, Tindaro si scostò e fece avanzare la ragazza al centro. – Ecco, questa è mia figlia Elena. La ragazza fece due passi avanti, poi sorrise e chinò lo sguardo. Era bionda come sua madre, ma alta e nobile come suo padre. I suoi occhi sembravano aver rubato il colore al mare. Come avrebbe detto un aedo, Afrodite stessa aveva baciato Elena con i suoi doni. In un angolo del cortile, Agamennone e Menelao stavano ridendo. Erano appoggiati coi gomiti a un muretto e tenevano un piede alzato contro le pietre, guardando tutti gli altri dall'alto in basso. Odisseo tornò a guardare sul palco. Accanto a Elena, c'era un'altra ragazza bionda, che era chiaramente la sorella tanto le somigliava. Non era altrettanto bella, ma sembrava molto dolce. – Quella è Clitemnestra. Non è male, ma certo, con una sorella così, non c'è gara. Fossi in lei mi sentirei la più sfortunata ragazza d'Acaia. Odisseo sorrise per riflesso alla battuta di Diomede. Pensò di nuovo al suo sogno e abbassò lo sguardo chiudendo gli occhi. – La terza invece è sua cugina. – Quale? La terza ragazza era rimasta nascosta a Odisseo, Diomede lo afferrò e lo fece spostare di lato perché la vedesse. Si era girata a parlare con sua madre, Odisseo poteva vedere solo i capelli, neri e lucidi come quelli di Peribea. Iniziò a provare una strana sensazione alla pancia, poi la ragazza si voltò e sembrò guardare proprio lui. Sorridergli persino. Il cuore di Odisseo si fermò. Erano suoi, gli occhi verdi come smeraldi che aveva visto in sogno. – Si chiama Penelope ed è la figlia di Icario. Lui la adora e non se ne separa mai. Se ne separerà, invece: i sogni dell'alba non mentono mai. Odisseo avrebbe portato via Penelope e ne avrebbe fatto la sua sposa. Ancora non sapeva come, ma sapeva che sarebbe stato così. Il resto della giornata passò come in un sogno. Di nuovo le donne della casa di Tindaro scandalizzarono tutti i presenti, perché salirono su un carro e li seguirono. Non avrebbero partecipato alla caccia, ma avrebbero guardato da lontano, in un posto sicuro. Odisseo non si risparmiò, voleva far colpo su Penelope e un paio di volte gli parve che lei lo guardasse. Ma gli parve anche che lei lo deridesse con le altre. Era imbarazzante, doveva assolutamente sapere se lei l'aveva notato o no e se la sua impressione era stata buona. Al banchetto serale le tre ragazze non parteciparono, come il giorno prima. Odisseo era distratto e i canti eroici gli sembravano anche più noiosi del solito. Diomede non gli badava: gli aedi cantavano di una spedizione contro Tebe, a cui il padre di Diomede aveva partecipato senza fare ritorno, ed era diventato triste e taciturno. Così Odisseo uscì dalla sala e andò nel cortile. Come la notte precedente, cercò di concentrarsi sul problema di Tindaro. Lo poteva dividere in due parti: a quale dei due fratelli far sposare Elena e come convincere gli altri ad accettare la decisione. Odisseo li aveva osservati durante la caccia, i due sembravano molto uniti; ma Menelao aveva chiaramente un senso di rivalsa nei confronti del fratello. Equilibrare i loro poteri, facendo sposare Elena a Menelao, sembrava una buona soluzione. Ci poteva essere un unico ostacolo: l'ingordigia di Agamennone. Odisseo si portò lontano dall'ingresso della sala, un po' perché lo disturbava il caos, un po' perché non ci teneva a farsi vedere mentre parlava da solo. Lasciò il cortile e si addentrò nella reggia. Il sentiero preso da Odisseo iniziò a salire, ma lui non fece molto caso a dove stava andando. A un certo punto si sentì afferrare da dietro e fu sbattuto contro un muretto. Un uomo armato lo stava minacciando con una lancia. – Chi sei? – Odisseo, di Itaca, sono uno degli ospiti di... – Cosa ci fai qui? Odisseo si guardò intorno. Era arrivato quasi in cima alla collinetta. Alla luce della luna, vide una donna in disparte. Doveva essere Leda, ma non poteva esserne sicuro. La donna si avvicinò. – Portalo dentro, là. – Ma, mia signora... – Fa' come ti ho detto. Indicava una grande capanna rotonda, con le pareti di pietra scheggiata, proprio sulla sommità della collinetta. Odisseo entrò, spinto dalla guardia. Si ritrovò in una sala ampia, dove c'erano cinque telai posti in cerchio. Sapeva dov'era: sua madre, a Itaca, aveva una stanza come quella, anche se con solo due telai, uno per sé e uno per sua figlia, la sorella di Odisseo. Tre paia d'occhi lo stavano guardando, ma lui vedeva solo quelli di Penelope. Lei gli sorrise e abbassò lo sguardo. Le altre due, Elena e Clitemnestra, ridacchiavano in un angolo. Leda lo spinse avanti ed entrò anche lei. – Cosa ci facevi qui? – Niente, mia regina, sono uscito a prendere aria e mi sono perso... Odisseo non riusciva a smettere di guardare Penelope, completamente affascinato. Per quanto fosse vero, quello che diceva non era molto credibile; ma non sapeva come fare. Leda si mise tra lui e Penelope e gli prese il mento con una mano. – Guarda me. Allora, cosa ci facevi qui? Odisseo si scosse e cominciò a rendersi conto del guaio in cui si era cacciato. Gli occhi di Penelope lo avevano stregato, ma Tindaro era un grande re, un re che non poteva permettersi di essere messo in ridicolo. – Perdonami, mia signora, io non intendevo offendere la tua casa, mi sono davvero perso, non so come sono finito qui. Ti prego di perdonarmi, accetterò ogni punizione che Tindaro vorrà impartirmi, riconosco il mio errore. Leda scoppiò a ridere e Odisseo ne rimase sconcertato. Anche le sue figlie si stavano divertendo, solo Penelope sembrava preoccupata e si avvicinò a Leda. – Ti prego, zia, lascialo andare, sono sicura che ha detto la verità, che non voleva fare del male a nessuno. Leda lo scrutò e gli girò intorno. Odisseo tornò a fissare Penelope, che era così bella quando si preoccupava per lui. Lei gli sorrise di nuovo. Leda gli parlò da dietro le spalle. – E a cos'è che stavi pensando per esserti distratto così? Odisseo non le badava, c'era una curva nel collo di Penelope, poco prima della spilla che reggeva la sua tunica, che era molto molto più interessante. – Pensavo al problema di Tindaro. – A cosa? – Sì, al problema dei pretendenti, risolvere rebus mi aiuta a distrarmi. Certo, in quel momento non ne aveva un gran bisogno, di distrarsi. Leda sembrava interdetta, come se non riuscisse a credere alle sue orecchie. Odisseo normalmente non le avrebbe mai detto nulla dei suoi pensieri, ma adesso aveva appena scoperto che Penelope aveva anche una spalla e persino un intero braccio oltre la spilla che reggeva la sua veste. Lo trovò irresistibile. – Credo di sapere come risolvere il problema. Leda lo afferrò per il gomito e lo costrinse a voltarsi. – Cosa stai dicendo, ragazzo? Era troppo tardi. Odisseo cercò di ripensare a quello che le aveva appena detto, ma non lo ricordava. Doveva sembrare uno stupido in quel momento. Leda lo prese per le spalle. – Hai detto che sai come risolvere il problema dei pretendenti di Elena? Odisseo la guardava. Il volto di Leda non gli lasciava molte scelte: se voleva cavarsela doveva insistere. – Sì, io sì, so come risolvere questo problema. La guardava con tutta la sicurezza di cui era capace. Leda lo lasciò andare e disse a Penelope di mandare qualcuno a chiamare Peribea, poi indicò a Odisseo un angolo in cui potevano sedersi. – Allora, spiegami quale sarebbe la tua soluzione. Odisseo non aveva nessuna soluzione, quindi decise di prendere tempo. Magari gli sarebbe venuta qualche idea mentre ne parlava. – Prima di tutto, ho diviso il problema in due parti. Primo, bisogna scegliere uno dei pretendenti, secondo, bisogna trovare il modo di farlo accettare agli altri. – Giusto. Anch'io farei così. Odisseo avrebbe volentieri discusso di ogni pretendente, con le sue qualità e difetti, ma Leda non gli consentì nemmeno di iniziare. – Agamennone o Menelao. Quale tra questi due? A sentire i loro nomi, Elena scoppiò a piangere, presto imitata da Clitemnestra. Odisseo si girò verso di lei. La situazione per Elena doveva essere molto pesante in quei giorni: né Agamennone né Menelao sembravano uomini piacevoli da sposare. – Menelao. – Perché? – Perché Agamennone è già un re. – Ma è un re assetato di potere. – Sì, ma anche suo fratello lo è. Però Agamennone non invidia Menelao. Se Agamennone ottenesse anche il regno di Sparta e prendesse così tutto il potere per sé, Menelao finirebbe per rivoltarglisi contro e questo sarebbe la rovina, per Micene, per Sparta e alla fine per l'Acaia intera. Leda assentì. Peribea entrò in quel momento e si sedette con la cognata. Da vicino, Odisseo notò che sembrava davvero una naiade. Questo pensiero lo fece girare in cerca di Penelope e la sorprese che lo stava fissando. Il cuore iniziò a battergli all'impazzata. – Ma bisognerà comunque dargli qualcosa. Odisseo non ascoltava quello che Leda gli stava dicendo, aveva perso ogni cognizione del tempo e dello spazio. Si riebbe solo quando si accorse che Leda lo stava scuotendo. Peribea si mise a ridere, si alzò e andò dalle ragazze. – Su, avanti, per voi è ora di andare a dormire. Le tre ragazze protestarono, soprattutto Elena voleva restare lì per ascoltare. Ma Peribea non sentì ragioni. Uscendo, Penelope si girò per un'ultima volta verso Odisseo e lui la salutò alzando piano piano la mano. Sentiva di avere un sorriso ebete sulla faccia, ma non riusciva a toglierselo. Leda lo afferrò per il polso e lo costrinse a girarsi. – Dicevo, bisognerà comunque dargli qualcosa. – Ad Agamennone? – Sì. Odisseo aveva esaurito i ragionamenti, da lì in avanti doveva improvvisare. Leda aveva detto la cosa giusta, Agamennone non poteva tornare a Micene a mani vuote. Quando Peribea rientrò, le due donne rimasero qualche minuto a parlare tra loro. Odisseo non aveva la più pallida idea di cosa dare in cambio ad Agamennone, l'unica cosa a cui riusciva a pensare, a parte Penelope, erano le lacrime di Elena. – Clitemnestra. – Come? – Fa' sposare ad Agamennone l'altra tua figlia, così legherai indissolubilmente il prestigio di Sparta alla sua stirpe. Agamennone ha già tutto il resto, ma gli manca la nobiltà. Leda lo guardò scuotendo la testa. Doveva essere già dura sacrificare una figlia, ma due doveva sembrarle insopportabile, anche se era necessario. Elena sarebbe rimasta a Sparta, ma Clitemnestra, la piccola e dolce Clitemnestra, sarebbe partita per sempre per Micene. Assentì, ma non mostrava più molta voglia di continuare. Peribea le andò vicina, Leda sembrava sul punto di scoppiare a piangere, così Odisseo si alzò e fece per uscire. – No, aspetta. Leda aveva ricacciato indietro le lacrime. Aveva alzato la testa e si era raddrizzata. È davvero una regina, la moglie di un grande re. – Devi parlare con Tindaro. Domani, durante la colazione. Ti manderò a chiamare. Parlerai con lui e gli spiegherai tutto il tuo piano. Adesso vattene, non è più prudente che resti qui. Lo congedarono e Odisseo uscì. Doveva tornare in fretta al cortile, prima di essere fermato di nuovo. – Aspetta... Una voce, da un angolo del sentiero. Odisseo si voltò e la luce della luna illuminò Penelope. Lei era lì, lo stava chiamando, lo aveva aspettato. Erano soli. Odisseo si avvicinò un po', ma lei fece un passo indietro e chinò la testa. – Come ti chiami? – Odisseo. – E da dove vieni? – Da Itaca. Penelope alzò gli occhi. Era così bella, Odisseo doveva toccarla, allungò una mano e le sfiorò una spalla. Lei la ritrasse, ma poi non fece nulla per evitare che lui ci appoggiasse la mano. – E' un'isola molto lontana. – Sì. Ma c'è molta acqua. Penelope scoppiò a ridere. Lo guardò, poi gli diede un bacetto su una guancia. Odisseo si sentiva stupido, come gli era venuto in mente «c'è molta acqua»? Si girò, lei si stava allontanando, ma lui riuscì ad afferrarle il polso e stringerlo. Temeva di farle male, ma lei non sembrava accorgersene. Si guardarono ancora negli occhi, poi i loro visi si avvicinarono, lui poteva sentirla respirare, dolce e affannata. Pensò che avesse paura, ma non poteva averne quanta ne aveva lui. Le loro labbra si sfiorarono, lui le infilò la mano lungo il fianco e la tirò a sé, baciandola come non aveva mai baciato nessuna. Lei gli si abbandonò completamente e posò la testa sulla sua spalla. Dopo un tempo troppo breve, Penelope gli mormorò un lieve «devo andare» all'orecchio, che lui scambiò per una dichiarazione d'amore. La guardò allontanarsi, lei si voltò e camminò all'indietro, lo salutò con la mano, gli sorrise, poi si girò di nuovo e scappò via. Odisseo scese per il sentiero come in trance. Quando rientrò nella sala, ancora si stava cantando delle gesta di un qualche eroe, ma ormai tutti i presenti erano stanchi. Più di qualcuno si era già messo a dormire in un angolo. Tindaro e Icario quindi si alzarono, congedarono gli aedi e augurarono a tutti la buona notte. Sdraiato per terra accanto a Diomede, Odisseo era più tranquillo: aveva a disposizione tutta la notte per trovare una soluzione che andasse bene a Tindaro. Si passò una mano sulle labbra. Penelope era così dolce ed era così bello baciarla. Il matrimonio tra Agamennone e Clitemnestra era un buon risarcimento per Agamennone, per fargli accettare il matrimonio di Elena con Menelao. Odisseo si chiese se qualcosa di simile potesse andar bene anche per tutti gli altri. Non gli parve un'idea malvagia. Lui si sentiva già a posto, non avrebbe certo protestato, un bacio di Penelope valeva tutti i matrimoni con Elena. Per gli altri forse non sarebbe stato così facile, ma grazie a un risarcimento, i pretendenti si sarebbero rassegnati, anche perché tutti conoscevano la forza del re di Micene e di suo fratello. Si rilassò e cercò di immaginare cosa ognuno di loro avrebbe potuto desiderare come compenso, ma ben presto l'unico suo pensiero furono gli occhi di Penelope e il sonno si impadronì di lui. Si ritrovò in una grande sala, molto simile a quella della reggia di Tindaro, ma completamente vuota. Al centro, anche qui un focolare rotondo, con una strana fiamma blu irreale. Odisseo si avvicinò fin quasi a toccare la fiamma, dove vide guerra e distruzione. Vide i capi achei contendere Elena a Menelao, vide Tindaro morto e Penelope che piangeva. Si svegliò di soprassalto. Era ancora nel cuore della notte. Si chiese se la soluzione a cui stava pensando avrebbe portato a questo risultato e si convinse di no, che sicuramente un dono di compensazione avrebbe pacificato gli Achei. Aveva paura di addormentarsi di nuovo, di rivedere Penelope piangere. Sentiva il peso della responsabilità che la promessa fatta a Leda gli stava dando. Capì di essere veramente lontano da casa e per la prima volta sentì la mancanza di suo padre. Forse avrebbe fatto meglio a confessare di aver mentito e andare incontro alle conseguenze. Verso l'alba, sognò di nuovo di trovarsi nella sala col grande focolare dalla fiamma blu. Aveva paura di avvicinarsi, ma la curiosità fu più forte. Questa volta, si ritrovò in un accampamento, e vide una grande flotta, con navi che si susseguivano a perdita d'occhio, tante quante non avrebbe mai pensato che il mare potesse contenerne. Diomede gli si avvicinò. – Odisseo, qualcosa non va? – No, questo è solo un sogno. Dove siamo? – In Aulide. Attraversò l'accampamento e vide un ragazzo biondo che lo salutava, ma che lui non riconobbe. – Diomede, che ci facciamo qui? – Partiamo, per la guerra. – Tutti? Insieme? – Sì. Un principe straniero ha rapito Elena. Odisseo si svegliò. Dalla tenda di pelli di capra filtrava una luce azzurrina, era l'alba. Si mise a sedere. Diomede aveva un sonno agitato accanto a lui, lo sentì mormorare la parola «padre». Si alzò e uscì sotto la veranda, dove aspettò che tutti si svegliassero. Presto Tindaro l'avrebbe fatto chiamare e Odisseo si sarebbe tolto ogni peso dal cuore. Più tardi, una delle schiave lo cercò e gli indicò l'ingresso da cui di solito entrava Tindaro. Odisseo attraversò tutta la sala e superò il tavolo reale. Quando stava per toccare la tenda, si girò indietro e vide Agamennone che lo stava guardando. Odisseo ebbe paura per il modo in cui lo fissava, scostò la tenda e si precipitò oltre la soglia. Riprese fiato e si guardò intorno. Era una piccola stanza di servizio. Un'altra schiava gli indicò l'uscita e si ritrovò in uno dei sentieri della sera prima. Tindaro lo stava aspettando di fronte a un'altra capanna con le pareti in pietra spaccata, molto simile a quella dov'erano conservati i telai. Anche qui, si trattava di una grande stanza rotonda, ma in questa c'era solo una sedia alta ricoperta di pelli di cervo e di cinghiale, dove prese posto Tindaro. Per terra, c'erano delle altre pelli che facevano da tappeto e su cui il re lo invitò a sedere. Icario si era sistemato invece su un mucchio più alto vicino al re. Tutt'attorno, le pareti erano ornate con armi da caccia e da guerra. – Mia moglie ha detto che vi siete parlati ieri sera. – Sì, grande re. Devo scusarmi con te, ieri sera non sapevo dove mi trovassi. – Non ha importanza adesso. Leda ha detto che hai suggerito Menelao come sposo di Elena. Odisseo pensò che a Sparta le donne dovevano essere tenute davvero in grande considerazione, se Tindaro stesso ammetteva così apertamente di discutere di tali questioni con sua moglie e di ascoltare la sua opinione. Si chiese se gli sarebbe piaciuto comportarsi così con Penelope. – Sì. Io ritengo che... – Mi ha spiegato anche il resto. L'ho trovato molto saggio e penso che seguirò il tuo consiglio. Tindaro non era felice dei due matrimoni, lo si leggeva nel lieve tremore nella voce. Ma è la scelta giusta da fare, nessuno può capirlo meglio di lui. – Resta quindi un solo problema. – Ecco, grande re... Odisseo era titubante, non tanto perché non avesse ben chiara la soluzione che aveva in mente, quanto perché improvvisamente non gli sembrava più una grande idea. Perché andasse a buon fine, bisognava capire cosa ogni singolo pretendente avrebbe desiderato per tirarsi indietro. E niente avrebbe impedito a chiunque di loro, una volta arrivato a casa, di considerare inadeguato il dono ricevuto. Quindi cambiò il suggerimento all'ultimo minuto, ricordandosi del suo sogno. – Prima di rivelare la tua decisione, devi farli giurare che difenderanno la tua scelta e il matrimonio di Elena, chiunque sia lo sposo che sceglierai. Tindaro sgranò gli occhi e assentì sorridendo. – Odisseo, figlio di Laerte, la tua soluzione è semplice ed elegante. L'averla individuata ti rende merito e onora la tua famiglia. Odisseo non era meno stupito di lui del consiglio che gli era uscito dalla bocca. Vide il sollievo sul volto di Tindaro: il re era soddisfatto della soluzione. – Bene. Adesso non ci resta che risolvere un ultimo problema. – Quale, grande re? – Oh, ma è molto semplice. Cosa desideri come ricompensa per i tuoi servigi? – Grande re, nulla, la tua riconoscenza e le tue parole mi sono sufficienti. – Suvvia, ci sarà pure qualcosa che vuoi. Odisseo sapeva cosa chiedere, ma non osava farlo. Distolse lo sguardo. Era troppo, quello che avrebbe voluto chiedere. Guardò Icario, che gli sorrideva incoraggiante. – Insisto, giovane Odisseo. Le tue sagge parole devono essere premiate. – Non è qualcosa che hai tu, grande re, è qualcosa che appartiene a tuo fratello. Come gli uscivano le parole dalla bocca? Odisseo temette di essere posseduto da un demone che parlava al posto suo. Icario sorrise imbarazzato verso Tindaro. – Parla, hai aiutato mio fratello in questo momento difficile, se sarò io a ricompensarti ne sarò più che lieto, mi sembrerà di aver contribuito alla buona riuscita della questione. Non sa cosa voglio da lui. Ma Odisseo non riusciva a impedirsi di chiederlo. – Vorrei sposare tua figlia, Penelope, e portarla nella mia casa, a Itaca. Il sorriso sparì dal volto di Icario. Iniziò a contorcersi e sfregarsi le mani e i suoi occhi divennero lucidi. – Capirò se mi dirai di no. – No, la mia parola è stata data. Del resto, prima o poi avrebbe dovuto succedere e... Icario distolse lo sguardo. Odisseo si pentì di averglielo chiesto, ma il demone dentro di lui iniziò dei lunghi festeggiamenti. Tindaro mise una mano sulla spalla di Icario e sorrise a Odisseo. – Bene, vorrà dire che celebreremo tre matrimoni invece di uno solo com'era previsto. Ma non farne parola con nessuno fino a questa sera. Odisseo si congedò da Tindaro e Icario. Scese dal sentiero di corsa e con un sorriso a cui si sarebbe potuto appendere la pelle di un grosso cervo. Tornando verso il cortile avrebbe voluto urlare la sua felicità, ma non poteva parlarne neanche a Diomede. – Che ti succede? Ti vedo allegro. – Oh, non sai, be', capirai stasera. Andarono di nuovo a caccia. Odisseo riuscì a mancare quasi ogni animale a cui tirava, ma non gli importava nulla. Durante il pranzo di mezzogiorno, una schiava gli portò dei dolcetti, fatti di miele e mandorle tritate, avvolti in veli sottilissimi di pasta e cotti nel forno del pane. La schiava gli sussurrò all'orecchio il nome di Penelope e corse via. Mentre mangiava uno di quei dolci, Odisseo vide Tindaro parlare con Agamennone, che era anche più serio del solito. Alla fine i due si strinsero la mano e Agamennone parve soddisfatto. A sera, Tindaro fece come Odisseo aveva suggerito. Li riunì tutti e li fece giurare. Odisseo, Diomede, Aiace e tutti gli altri sfilarono davanti a Tindaro e si impegnarono a proteggere il matrimonio di Elena. Agamennone, fatto il giuramento, si girò verso Odisseo e gli fece uno strano sorriso, a cui lui rispose con un cenno della testa. Agamennone doveva sapere di chi era l'idea di tutta quella cerimonia e in quel momento Odisseo non ebbe più paura di guardarlo. Quando tutti ebbero giurato, Tindaro annunciò i tre matrimoni. Le ragazze furono presentate una per una. Quando fu il turno di Penelope, le gambe di Odisseo iniziarono a tremare. Diomede se ne accorse e si girò verso di lui. – Che ti succede? – Ti ho detto che avresti capito... Tindaro, dal tavolo reale, stava invitando Odisseo a raggiungere sua nipote. Diomede scoppiò a ridere e si mise ad applaudire. – Per Zeus, questa poi... Ci furono giorni di festeggiamenti, poi i convitati iniziarono a tornare a casa. Quando fu il turno di Agamennone, tutte le donne si misero a piangere. Alla fine, spazientito, Agamennone afferrò Clitemnestra per un braccio, la caricò sul carro a forza e partì senza voltarsi indietro. L'ultimo ad andarsene, prima di Odisseo, fu Diomede. Fu una partenza triste e strana: si conoscevano da pochi giorni, ma sembrava che avessero passato fianco a fianco tutta la vita. Diomede promise a Odisseo di andare a trovarlo nella sua isola. Venne anche per Odisseo e Penelope il momento di congedarsi. Lei abbracciò suo padre e sua madre, poi salì sul carro e, a un suo cenno, Odisseo frustò i cavalli e partirono. Penelope rimase a lungo in silenzio e Odisseo si avvide che piangeva. La strinse a sé e lei gli sorrise. Dopo una mezza giornata di cammino, si accorsero di una nuvola di polvere che li seguiva. Penelope si spaventò e Odisseo fece correre i cavalli. Ma la nuvola si avvicinava: era un altro carro, e c'era un uomo sopra che gridava. – Ridammela! Ridammela! Ridammi mia figlia! Icario. Odisseo fermò i cavalli sotto un albero e aspettò che Icario li raggiungesse. Scesero dai carri. Icario abbracciò sua figlia, poi si girò verso Odisseo. – Ti prego, resta nella mia casa. Non posso separarmi da lei. Odisseo gli mise una mano sulla spalla. Non disse nulla, lasciò che Icario sfogasse la sua disperazione. Poi prese la mano di Penelope. – C'è già un re e un erede nella casa di Sparta. Odisseo non aveva bisogno di spiegare ad Icario cosa intendesse: per Penelope era meglio così, a Itaca sarebbe stata una regina, a Sparta solo una delle tante parenti del re, sposata a un uomo troppo intelligente per non essere un pericolo. Icario la guardò, arrivando quasi a implorarla. Penelope si girò verso Odisseo, le venne da sorridere e arrossì. Si coprì il volto col velo e salì sul carro di Odisseo. Icario chinò la testa e accettò la sua decisione. Si sedette sotto l'albero, appoggiato al tronco e li guardò andar via. I due novelli sposi proseguirono verso Itaca. Penelope si aggrappò al braccio di Odisseo e posò la testa sulla sua spalla. Aveva ancora il volto semicoperto. Odisseo si girò per guardarla e di lei vide solo, come nel suo sogno, due occhi verdi come smeraldi.
Edited by =swetty= - 1/4/2011, 18:51
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