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Propongo il racconto con cui ho passato il 2° turno alla RR, revisionato in base ai commenti ricevuti.
Zefiro
Non è vostra proprietà, questa. Col cazzo che non lo è. Figlio di Dio, Cormac McCarthy
Il vecchio guardò le minuscole forme che si muovevano sulla carcassa del cavallo. L'odore della carne putrefatta appestava l'aria dietro la casa, ma l'uomo parve non farci caso. Era stata la sua bestia, quella. L'aveva cavalcata per la campagna per tanti anni, caricandola di legna nei boschi vicini o arrivandoci fino in paese, per acquistare di che vivere. Era vecchia, come lui. Ma lui era ancora vivo, mentre il cavallo era morto, caduto in terra giorni prima, senza un fiato. Se n'era accorto una mattina, quand'era andato a spazzolarlo. Merda, aveva pensato, senza versare una lacrima, guardando l'animale riverso sul fango. Adesso che la sua vita stava andando al diavolo, non aveva più neanche quel cavallo, l'unico essere vivente con cui parlava ogni giorno. I vermi si agitavano frenetici sulla carne viva della bestia. L'uomo sputò in terra. Non aveva voluto seppellire l'animale. Un tempo, anni prima, l'avrebbe fatto. Ma adesso che quella non era più proprietà sua, adesso che la banca gli aveva portato via il terreno e la casa, chi se ne frega di seppellirlo, aveva detto. Ci pensassero quelli della banca. O chi si prenderà questo posto pieno di fango. Sentì il rumore di un'auto sulla strada. Portiere che s'aprivano e sbattevano. Alcune voci che riconobbe. Sputò di nuovo e si allontanò dalla carogna. L'ufficiale giudiziario arrivò assieme a due carabinieri. Era un uomo alto, in sovrappeso, con i capelli radi. Non l'aveva mai visto. I carabinieri erano invece quelli del paese vicino e li conosceva. L'avevano avvisato di quella visita giorni addietro. «Buongiorno» lo salutò l'ufficiale, «lei è il signor Zefiro Turri, immagino. Possiamo entrare?» «Se dico di no, tanto entrate lo stesso» rispose il vecchio. «Vorrei che capisse, signor Turri. Io faccio il mio lavoro e purtroppo lei ha ricevuto l'esproprio, per i motivi che ben conosce». «Sì, certo». L'uomo storse il naso. «Che cos'è questo strano odore?» «C'è una bestia morta». Zefiro li precedette fin dentro casa. Lasciò la porta aperta, senza invitarli a entrare. Poi andò in cucina e tirò giù da una credenza una caffettiera mal messa. La smontò, riempì d'acqua la caldaia e ci mise su il serbatoio. Armeggiò con un barattolo di caffè che non voleva aprirsi, prese un cucchiaio da un cassetto, versò la polvere nel serbatoio, rimontò la caffettiera e la mise sulla macchina del gas. Accese il fornello e si voltò. «Sedetevi» aggiunse, indicando il tavolo della cucina. I tre uomini si accomodarono. «Dunque, signor Turri» disse l'ufficiale, tirando fuori una cartella da una borsa e scansando con la mano alcune briciole rimaste sul tavolo, «questi sono i documenti di esproprio, definitivi. Entro un mese dovrà purtroppo lasciare la casa e il terreno. Avrà dove andare, dopo?» «E dove?» disse, sedendosi sull'ultima sedia libera, alle spalle dei fornelli. L'ufficiale giudiziario si scambiò uno sguardo con i carabinieri. «Non so, non ha figli?» «No». «Nipoti?» «No». «Amici o altri parenti?» «Non ho nessuno. Sono solo». «Ci sono delle case famiglia, che possono accoglierla e...» «Io non vivo con altra gente. Voglio stare solo». «E chi si occuperà di lei?» «Chi s'è occupato di me fino a oggi, eh? I vostri amici mi hanno mandato in guerra e quando sono tornato non m'hanno dato niente. Ho fatto il contadino per quasi cinquant'anni. Qui, su questa terra e su quella che m'avete già portato via due anni fa». «Capisco». L'uomo parve imbarazzato dalla sfuriata del vecchio. «Io le lascio ugualmente dei contatti». Aprì di nuovo la borsa e tirò fuori un paio di biglietti da visita. «Questa è una casa famiglia» disse indicandone uno, «e questo è un assistente sociale che potrà aiutarla a trovare un alloggio temporaneo». La macchinetta sul gas brontolò e un profumo di caffè si diffuse nella stanza. Il vecchio si alzò, senza rispondere, si diresse ai fornelli e spense il gas. Aprì uno sportello della credenza e ne prese un vassoio. Lo appoggiò sul ripiano, poi dallo stesso scomparto prese quattro tazzine spaiate coi piattini e da un cassetto quattro cucchiaini. Mise tutto sul vassoio. Versò il caffè nelle tazzine, poi prese una zuccheriera e portò il caffè a tavola. «Ho fatto il caffè» disse. Sedette di nuovo. «La ringrazio, ma non si doveva disturbare». L'ufficiale parve ancor più a disagio. Si volse verso i carabinieri, nella speranza che lo togliessero dall'impaccio, ma quelli invece ringraziarono e cominciarono a servirsi. Il vecchio prese i biglietti da visita, li guardò, poi si alzò di nuovo e li mise in un cassetto. Tornò al tavolo e sedette, osservò i tre uomini sorseggiare il caffè, prese il suo e iniziò a zuccherarlo con gesti lenti, la mano che tremava. L'ufficiale giudiziario poggiò la tazzina sul vassoio. «Vuole leggere i documenti, signor Turri?» Il vecchio continuò a girare il cucchiaio nel caffè, immerso nei suoi pensieri. «Tanto lo so che c'è scritto». «Comunque sono qui sul tavolo. Li legga, però». «Un mese, ha detto?» «Sì, entro un mese». Il vecchio smise di mescolare il caffè, si alzò, prese i documenti dal tavolo e li mise nel cassetto, dove aveva riposto i biglietti da visita. Si voltò per tornare a sedersi e vide i tre uomini rilassarsi sulla sedia. Apparivano sereni, come se le loro menti non avessero più alcun pensiero. Zefiro raggiunse il tavolo, prese il vassoio e lo portò al lavandino. Tornò dai tre uomini. Uno dei carabinieri aveva il capo che ciondolava, come se non riuscisse a restare sveglio. L'altro cercò di alzarsi. Il vecchio lesse nei suoi occhi un'ombra di sospetto, ma sapeva che era troppo tardi. Guardò l'ufficiale giudiziario che gli restituì lo sguardo, muovendo le labbra senza che alcun suono ne uscisse. «Che cos... cosa...» balbettò infine. «Vi ho visto prima che arrivavate» disse Zefiro. «Siete come quelli che si stanno mangiando il mio cavallo, là fuori. Vi attaccate alle carogne, a chi è già morto e gli portate via tutto, tanto a voi che vi frega?» L'uomo non sentì tutto quel che disse l'altro. Il sonnifero che Zefiro aveva messo nel caffè aveva fatto effetto e adesso i tre uomini dormivano profondamente. Si avvicinò a ognuno di loro, ne scosse il corpo con una mano e uscì. Si diresse sul retro, dove decine di mosche nere ronzavano impazzite sulla carcassa del cavallo. I vermi si affannavano sulla carne corrotta, bianchi come anime angeliche. Un leggero vento spirò da ovest, scompigliando i capelli del vecchio e portando lontano l'odore della morte. Zefiro alzò gli occhi al cielo. Era ancora azzurro. Sperò che nessuna nube arrivasse a rovinare i suoi piani. Raggiunse una piccola baracca in legno per gli attrezzi, costruita anni addietro poco lontano dalla casa. L'aprì ed entrò. Era buio. Tirò fuori di tasca una scatola di fiammiferi, ne prese uno e lo sfregò contro la superficie ruvida della confezione. L'odore di zolfo coprì per un attimo il tanfo della carogna dell'animale. Al debole chiarore del fiammifero trovò il lume a petrolio e l'accese. Soffiò sulla fiamma e gettò i resti del fiammifero a terra. Le latte di benzina erano tutte accantonate contro la parete di fronte. Ne prese due e uscì. Il vento era aumentato. Sollevava foglie morte e terriccio, ma Zefiro non vi badò. Socchiuse gli occhi, per ripararli dalla polvere che turbinava ovunque e raggiunse la casa strascicando i piedi, i nervi delle braccia tesi a sostenere il peso delle taniche. Tre figure stavano immobili sulle sedie, una soltanto accasciata sul tavolo. Il vecchio neanche le vide. Poggiò una latta in cucina, poi entrò nella camera da letto con l'altra e ne versò il contenuto sulle pareti, sull'armadio, sul letto e il resto sul pavimento. Rientrò in cucina, prese la seconda tanica e ne versò questa volta il contenuto nel piccolo bagno. Quando tornò fuori, soffiava un vento d'inferno. Si schermò gli occhi con una mano e raggiunse la baracca. Entrò e prese le altre due latte di benzina. Poi fece ritorno in casa, lasciando una delle latte fuori, e versò il contenuto dell'altra sui mobili della cucina, sul tavolo, sulle pareti e sul pavimento. Uscì di nuovo, chiuse la porta, raccolse da terra la tanica e bagnò le pareti di casa. Tornò alla baracca, prese il lume a petrolio e s'allontanò. Guardò un'ultima volta il cavallo. I vermi conquistavano sempre più carne ogni minuto che passava. Sputò a terra e proseguì verso casa. L'osservò come se non la riconoscesse, una semplice costruzione a un piano con appena una cucina abitabile, una camera da letto e un piccolo bagno. Ma quei vermi della banca gliel'avevano portata via. La casa e quel pezzo di terra pieno di fango. Il terreno che aveva coltivato per anni gli era stato già espropriato due anni prima dal comune. «Pigliatevela, questa maledetta casa!» urlò. «Pigliatevi tutto, vermi!» Sollevò il lume e lo lanciò contro la porta. Il vetro andò in frantumi e le fiamme attaccarono subito il legno. Il vento parve aumentare d'intensità, rovesciò una carriola ammaccata che Zefiro aveva lasciato accanto alla baracca, staccò uno scuro non bloccato da una finestra, che cadde a terra, fu subito sollevato in aria e portato chissà dove. Il vecchio si segnò, borbottando qualcosa. Non riuscì quasi a restare in piedi per tutto quel vento che s'era alzato. Le fiamme attaccarono le pareti, salirono fino al tetto e avvolsero l'intero fabbricato. Lingue di fuoco si sprigionarono dall'edificio, alimentate dal vento che infuriava. Arrivarono quasi a lambire il vecchio, che se ne stava a guardare la distruzione di casa sua a pochi metri di distanza. Zefiro non ricordava di aver mai visto un vento come quello. Ma gli andava bene. Avrebbe consumato la costruzione più velocemente. E ai vermi non sarebbe rimasto nulla. Un vetro esplose in una delle stanze. Il vecchio vide una parte del tetto che crollava e subito dopo un fracasso di mattoni e macerie coprì quasi l'ululato anomalo del vento e la voce dell'incendio. Poi Zefiro fu sbattuto a terra. Il vento soffiava adesso così forte che non riuscì a rialzarsi. Puntò le mani sul terreno fangoso e tentò di tirarsi su. La casa davanti a lui era un vortice di fuoco che sibilava come un drago impazzito. Il vecchio bestemmiò, ma le sue maledizioni si persero nella cacofonia di suoni che riempiva l'aria. Era spaventato. Per la prima volta in vita sua, dopo le sofferenze della guerra a cui era sopravvissuto, ebbe paura di quel fuoco demoniaco alimentato da un vento ancora più infernale. Tentò di allontanarsi strisciando sul terreno, ma la forte corrente d'aria lo tenne incollato a terra. Vorticava attorno alla casa per un raggio di parecchi metri. Zefiro non seppe dire se fosse davvero il vento ad alimentare il fuoco che lui aveva appiccato o se invece fosse il fuoco stesso ad aver creato quel vento mostruoso. O forse l'uno prendeva vita dall'altro. Il vecchio sentì le forze abbandonarlo. Le mani non fecero più presa sul terreno, le gambe si sollevarono. Si sentì trasportato verso la casa, come se il vento volesse prenderlo e lanciarlo in quel maelström di fuoco che non accennava a diminuire. Urlò più volte, affondando le dita rinsecchite nella terra fangosa, cercando una presa che non c'era. Poi volò via. Le mani si staccarono dal terreno e il corpo fu risucchiato dal gorgo di fiamme. Zefiro non ebbe neanche il tempo di pensare che fu dilaniato dal fuoco e scomparve per sempre.
I vigili del fuoco arrivarono qualche ora dopo, chiamati da un vicino che passava nei pressi del terreno. La casa era stata interamente consumata dalle fiamme. L'incendio aveva preso anche la piccola baracca di legno. Fra i resti della casa e quelli della baracca videro la carcassa annerita di un cavallo. Dove invece era la cucina, rinvennero i corpi carbonizzati di tre uomini, che non fu difficile identificare. Di Zefiro Turri non trovarono alcuna traccia.
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