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Il cadavere dormiente
Vi sono cose, al mondo d'oggi, che sfuggono alla comprensione dell'intelletto umano. Esse sembrano appartenere alla sfera dell'occulto, a tutto ciò che l'uomo rifugge e teme, mentre sono semplicemente terrene, come la vita. Sono, anzi, parte della vita stessa, anche se la medicina, nonostante i suoi progressi, non sia ancora in grado di fornire una precisa spiegazione a quei particolari stati del corpo umano. Possiamo soltanto attribuirne la causa ad altre condizioni e circostanze, ma sono solo congetture, che non possono trovare, per ora, validi riscontri per una giusta classificazione. Il fatto che voglio narrare accadde tanti, tanti anni fa, ma gli eventi e i personaggi coinvolti in quella triste e dolorosa vicenda mi obbligano a mantenere il più assoluto riserbo su nomi e luoghi. E sulle date, anche, così che non sia possibile risalire a nulla. Questa mia decisione non vuole ripararmi da azioni illegali commesse. Sono colpevole, certo, lo ammetto senza vergogna. Ma se si può chiamare colpevolezza, se si può chiamare reato l'aver salvato una vita umana, una vita che ha sofferto e che ha ritrovato ora la serenità e la salute, allora sì, allora chiamatemi pure criminale. Certi segreti sono custoditi per lei, a cui non deve essere fatto più alcun male. È per lei che ho abbandonato la professione medica, che ho cambiato nome e città, che ho intrapreso una nuova vita. Per lei ho commesso quei piccoli reati, soltanto per salvarla da una vita di miseria o, peggio, dalla morte. A quel tempo, nei primi mesi del 18.., ero un medico affermato. Esercitavo nel piccolo centro di P., un paese tranquillo dell'Italia centrale. A dire il vero, capitava spesso che mi dovessi spostare da un paese all'altro, ma quei luoghi mi piacevano, l'aria era salutare e gli inverni non particolarmente freddi. La gente del luogo, sebbene dalla mentalità provinciale e ristretta, era di animo buono, di piacevole compagnia, salvo rare eccezioni. Una di queste era il signor M., un ricco proprietario terriero che viveva in una grossa casa circondata dal verde e dalle piantagioni, nella periferia del paese. Era un uomo senza scrupoli, furbo, egoista. Aveva sposato una bella donna, la signora L., e io mi meravigliai di come una creatura così gentile e pura sia stata attratta da una persona come M., ma è risaputo che l'amore sia cieco. Se qualche malalingua vedesse in questo matrimonio un opportunismo calcolatore, sappia che la signora L. non era certo povera. Era diventata la moglie di M. perché innamorata di quell'uomo, tanto da mettere nelle sue mani tutti i propri averi, che mai più rivide. Due anni dopo il matrimonio, l'idillio di una vita felice e agiata svanì dalla mente – e dal corpo! – della signora. L'uomo aveva preso l'abitudine di viaggiare spesso, adducendo come scusa gli affari. Sebbene i proventi di quegli affari fossero ben visibili dal tenore di vita che conduceva, era fin troppo chiaro che per M. il matrimonio servisse solo come immagine. Una bella moglie, una bella casa, una bella vita: i tre ingredienti che gli avrebbero aperto la strada verso un successo sempre più grande. La solitudine della donna, tuttavia, continuava anche con la presenza del marito in casa. M. era sempre troppo occupato a gestire i suoi possedimenti e i contatti coi clienti e i collaboratori. Se ne stava chiuso nel proprio studio a scrivere lettere e a controllare i registri, oppure cavalcava per le sue terre. Vedeva la moglie durante i pasti, ma pranzi e cene avvenivano nel più cupo silenzio. Talvolta la signora aveva provato a iniziare una conversazione, che l'uomo aveva però sempre spento dopo poche battute. Se chiedeva di cavalcare con lui, si sentiva rispondere che non erano giri di piacere e che la moglie, in quei casi, sarebbe stata solo d'impaccio. La donna, seppur triste per quella situazione, sopportò con stoicismo, convinta che presto le cose sarebbero tornate nella normalità, che fosse soltanto un periodo di assiduo lavoro ad aver creato l'allontanamento del marito. Perché non si poteva certo chiamare matrimonio quell'unione. Era un'unione, certamente, ma dichiarata soltanto sulla carta, su un documento. La realtà era ben altra. La coppia era sposata da circa quattro anni, quando la donna rivelò le prime avvisaglie del male che la portò in breve tempo alla morte. Era caduta in uno stato di profonda malinconia, lo sguardo si era fatto buio, gli occhi, prima lucenti e allegri, apparivano ora socchiusi, sofferenti. Una leggera apatia si era impossessata del suo animo energico e vivo, unita a una sempre più accentuata mancanza di appetito. Mangiava quel poco che le occorreva per sostenersi, ma fu presto chiaro che non fosse sufficiente, poiché la donna cominciò a dimagrire. Il suo colorito roseo si trasformò in un pallore preoccupante, segno che soffriva anche di una certa anemia. Tutto questo scoprii e annotai durante la mia prima visita nella sontuosa villa di M. L'uomo, in apprensione per lo stato di salute di sua moglie, forse in un improvviso slancio di umanità, mi aveva mandato a chiamare da uno dei suoi servitori. Avevo provato a fare delle domande alla donna, poiché conoscevo – e chi poteva ignorarlo? – la sua triste condizione di moglie trascurata, e la signora, seppur timidamente, aveva dato conferma alle mie paure. Fui abbastanza discreto, non volendo turbare quell'animo così già provato, ma la donna disse chiaramente che era tormentata per la fine del suo matrimonio. Parlò davvero così: di fine. La poveretta era convinta che il marito avesse un'altra donna, ma in realtà la vera amante di quell'uomo era la ricchezza. Tentai di consolarla, usando parole studiate per non rischiare di pronunciare frasi di circostanza, che avrebbero sortito un effetto contrario. Le parlai della complessità del lavoro dell'uomo, che forse si sarebbe tutto sistemato a breve, ma la donna non ne era per nulla convinta. La salutai, congedandomi a malincuore da quella creatura che necessitava di non essere lasciata sola a se stessa, promettendole che sarei tornato spesso a trovarla. Prima di abbandonare quella casa parlai con il signor M., spiegandogli che l'affetto e la dedizione sarebbero stati la migliore cura per il male della donna. Era vittima di uno stato depressivo e soltanto il suo amore e la sua compagnia avrebbero potuto farla ritornare felice. La risposta che ricevetti non mi meravigliò. Disse che non aveva tempo per recitare la parte del fidanzatino innamorato, che la sua posizione e i suoi affari richiedevano e reclamavano tutte le sue energie e una presenza costante. Me ne andai, dicendo che avrei fatto presto ritorno per visitare sua moglie. Lo stato di salute della donna peggiorò. Si stava lentamente consumando dentro e quella sorta di malattia si rifletteva con forza nel suo aspetto fisico. Diveniva sempre più pallida, si trascinava per la casa come un fantasma, le occhiaie, sempre più profonde, che rivelavano una lotta interiore impressionante. Soffriva, e sembrava non esserci cura per quel suo male. Le mie visite non riuscirono ad alleviare il dolore che la divorava viva. Le somministrai dei farmaci, che però non le diedero alcun beneficio. Fu in una sera di inizio primavera che ebbi la sconvolgente notizia della morte della donna. Di nuovo uno dei servitori era giunto nel mio studio a comunicarmi un messaggio di M. L'uomo aveva trovato la moglie, al suo ritorno da un paese vicino, in terra accanto al letto, senza vita. Aveva tentato di rianimarla, scuotendola e gettandole dell'acqua sul viso, pensando fosse svenuta, ma invano. Quando arrivai alla villa, un'atmosfera lugubre mi accolse. La casa era in penombra, come se l'assenza di luce avesse potuto disturbare il sonno eterno della donna. Feci allontanare i servitori e persino il marito e la visitai. Il pallore era spettrale. Dal petto non proveniva alcun movimento. Le auscultai il cuore, ma nessun suono giunse alle mie orecchie. Le sollevai poi le palpebre e vidi due occhi senza più luce. Distesa sul letto, in camicia da notte, diafana, smagrita, sembrava deceduta già da giorni. Provai una fitta acuta a quel pensiero. Con le lacrime agli occhi uscii dalla camera e confermai il decesso al marito. I servitori piansero e si diedero da fare per vestire la donna. Ma l'uomo rimase senza espressione. Mi ringraziò e, guardando, pochi minuti dopo, il cadavere della moglie che giaceva sul letto, disse: «Sembra dormire, non trovate?» E in effetti era proprio così. La donna pareva assopita, il suo volto, sebbene devastato dalla malattia, sembrava più disteso, in pace. La pace dell'eterno riposo. Restammo là tutta la notte, io e il signor M., a vegliare la defunta, seduti uno accanto all'altro di fronte al grande letto. Nella stanza, buia se si fa eccezione per alcune candele, regnava il silenzio più assoluto. Ogni tanto uno dei servitori entrava in punta di piedi e chiedeva sottovoce se avessimo bisogno di qualcosa. Ma nessuno di noi due mangiò né bevve nulla. Le ore passavano con estrema lentezza. Vidi il vedovo M. assopirsi più volte. Era evidente che per lui quella morte fosse solo una seccatura. Io non staccavo gli occhi di dosso dalla donna. Mi sentivo in colpa, in un certo senso, per non aver saputo aiutarla, salvarla da quel destino che l'aveva portata alla tomba. Poco prima dell'alba mi sentii travolgere dal sonno. Riuscii a resistere, tornando a guardare il volto della defunta. La scarsa luce che rischiarava appena la stanza infondeva insoliti colori sull'arredamento e sul volto dei coniugi. Il pallore della donna sembrava essersi d'improvviso attenuato. E poi le ombre gettate dalle fiammelle tremolanti, che giocavano strani scherzi su quel corpo senza vita. Come di un corpo che respirasse debolmente. Mi riscossi dal torpore e dalle fantasticherie che la spossatezza di quella sera mi aveva infuso. M. si era svegliato, si era diretto alla finestra, scostando appena le tende, poi era tornato a sedersi. «Fra meno di un'ora albeggerà» disse. Annuii, come a conferma delle sue parole, poi accadde qualcosa che avrebbe gelato il sangue a chiunque. Per fortuna sono un uomo di scienza e non è così facile impressionarmi. Tuttavia quello che vidi, unito all'urlo dell'uomo che mi sedeva accanto, mi scossero i nervi, accapponandomi la pelle. Un altro, al mio posto, sarebbe morto di spavento o quantomeno impazzito. M. urlò, alzandosi e cadendo assieme alla sedia. Indietreggiò strisciando sul pavimento, un braccio alzato come a tenere lontano la visione che gli era apparsa davanti all'improvviso. Perché la donna, la defunta signora L., si era alzata a sedere sul letto, di scatto, gli occhi sbarrati, pronunciando con voce strozzata il nome di suo marito. Poi era ricaduta inerte, immobile, e la stanza era di nuovo sprofondata nel silenzio, eccettuati i mugolii senza senso dell'uomo. Io accorsi al capezzale, presi la borsa con gli strumenti che avevo lasciato sul comodino e mi apprestai a visitare la donna. Nel frattempo M. si riprese dallo choc. «Portate fuori da questa casa quel corpo maledetto!» disse, con voce tremante. «Ma cosa dite?» Mi ero voltato verso di lui con rabbia. Non potevo credere che, quantunque quel matrimonio fosse finito da un pezzo, un marito reagisse a quel modo. «Forse si è trattato soltanto» ma M. non mi fece terminare la frase e, adesso, gliene sono grato. Sosteneva che l'anima dannata di sua moglie avesse rianimato il cadavere, per punirlo delle scarse attenzioni che aveva rivolto alla donna durante la vita matrimoniale. Non so se l'uomo credesse davvero a ciò che disse, o se quella stupida superstizione fosse solo una scusa per sbarazzarsi della donna. Sinceramente a me non interessò, in quel momento. Avvolsi quel corpo così delicato in una coperta e lo trasportai alla mia carrozza. Dissi all'uomo che sarebbe stato da me fino al pomeriggio seguente, quando si sarebbero svolti i funerali. L'indomani mattina tornai alla villa. Parlai con uno dei servitori e gli dissi di far portare la cassa al mio studio. Avrei provveduto io stesso a deporre il corpo della signora nel feretro e a chiamare il carro funebre. E così feci. Nel pomeriggio si svolsero i funerali. M. fingeva di essere addolorato, i servitori piangevano e anche parecchia gente del paese dimostrava un profondo cordoglio. Io ero là assieme agli altri, a veder calare nella tomba una bara vuota. Sì, perché avevo riempito la cassa con dei sacchi pieni di terra, poi l'avevo chiusa e avevo chiamato il carro funebre. Nessuno seppe mai che in quella tomba non era stato sepolto alcun defunto. Vissi circa due settimane in compagnia di quel cadavere dormiente, mettendo in atto il mio piano. Avevo già in mente una destinazione e la luna nuova di quei giorni nascose i miei movimenti, che altrimenti sarebbero parsi non poco sospetti. Trasportai la mia roba nella carrozza, poi rientrai nello studio a prendere il corpo della donna. Lo adagiai all'interno, sistemandolo affinché non ricevesse troppi scossoni durante il viaggio. Alle tre di notte partii. Da quel giorno sono ormai trascorsi oltre trent'anni. Io, come ho già accennato all'inizio di questa storia, non ho più esercitato come medico. Redigere un falso certificato di morte, far svolgere un finto funerale e rapire una donna non mi avrebbero più permesso di continuare a svolgere la mia professione, suppongo. Così cambiai nome e trovai lavoro come insegnante. Qualche anno dopo mi sposai. Dopo mesi di cure e riposo e, soprattutto, di una vita felice e piena di amore, la signora L., che ora si chiama Elena, guarì perfettamente. Adesso siamo sposati e abbiamo due figli già adulti. Quello che avevo tentato di dire al suo ex marito, in quella lontana e triste notte, prima di essere interrotto, era che, molto probabilmente – e come avevo avuto modo di appurare in seguito – si era trattato soltanto di quella particolare condizione per cui il corpo umano viene temporaneamente privato di movimento e sensibilità. Condizione che va sotto il nome di catalessi.
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