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Ciao Laura, di seguito il mio commento. Spero che le abbondanti libagioni del dopo pranzo con il Jägermeister non abbiano inficiato il mio tentativo. Significativa l’introduzione che trasforma l’antico ὁ μὴ ὁρῶν colui che non vede", laddove l’essere cieco simboleggia sacralità e indice di capacità profetiche e saggezza, in un dissacrante termine “orbo” senza per questo perdere il connotato originale. L’orbo rimane, comunque, anche nel tuo racconto, l’unico detentore della verità sebbene nella forma (e attenzione alla contrapposizione con la sostanza ) il linguaggio sia molto innovativo e moderno, nella sostanza si mantiene comunque un canone classico. La struttura è comunque quella della leggenda e la funzione del personaggio viene lasciata immutata. Dunque, Omero è, e rimane, “colui che non vede” dotato di capacità profetiche, l’unico detentore della verità. Il tono colloquiale dell’introduzione, tolto il linguaggio aulico, finisce per conferire al racconto quasi un tono di confidenza; qualcosa che viene rivelato a pochi, a complici, i lettori del racconto. L’intento è chiaro e smaccatamente evidente: “sapete mantenere un segreto?” Questa funzione, da te ben orchestrata, ha lo scopo di catturare il lettore in modo tale da renderlo praticamente complice del misfatto, se così si può definire: l’orbo delira (ovvero esce dal solco) perdendo il connotato aulico: si può dire quasi che sbotti? Non ne può più di nascondere la verità e sta cercando qualcuno a cui poterla confidare. Il segreto viene svelato immediatamente. “Quel bellimbusto di Teseo…vabbè è un dato certo. L’assunto ch viene dato per certo è che Teseo non è proprio uno stinco di santo e che al labirinto c’era arrivato e aveva sconfitto il minotauro: questo è quello che sanno tutti, cosa nota, la voce corale del popolo. Al contrario, per quello che non si conosce, ecco che Omero, l’orbo, lo svelerà. Quest’ultima parte ha lo scopo di generare nel lettore la curiosità e di fare di queste poche righe una bellissima introduzione alla narrazione. Il lettore così irretito, complice nonché in preda alla curiosità non può che cedere alle “lusinghe” del racconto. La storia, lungi dall’essere una trasposizione in termini attuali del famoso mito presenta una simpatica e interessante variazione sul tema leggendario. Questa variazione sul tema viene sapientemente preannunciata con il diminutivo, dispregiativo “libercoli” che conterrebbero, alla fine, niente più che astruse falsità.
“Arianna al suo mostruoso fratellastro voleva un gran bene.”
Meraviglioso l’incipit. Molto divertenti gli “Ineluttabili moti dell’anima” chiariti dall’inciso tra le parentesi e l’immagine delle labbra più grandi di tutta la Grecia. Bellissima anche l’immagine dello stalliere Cleodas che fa anche un po’ “Amante di Lady Chatterly”. (Chissà perché lo stalliere nella storia della letteratura gioca sempre questo ruolo così “peccaminoso” :DDD MI scuso per la buffonata. Tornando al mio commento; sicuramente, il personaggio della madre in questo paragrafo rappresenta quello che Propp definisce personaggio donatore: quello che “si incontra casualmente, assai spesso nel bosco (capanna) in campagna, lungo la strada, lungo il cammino”. Mi dirai. Ma che c’entra la campagna? Quanto hai Bevuto? Riportavo il periodo. Quello che voglio dire è che la madre introduce gli avvenimenti e come se donasse la storia. Propp sostiene a proposito che “Quando due funzioni immediatamente successive vengono eseguite da personaggi diversi, il secondo personaggio deve sapere quanto è accaduto fino a quel momento. Il personaggio della madre “Fu la madre a condurla al labirinto; è lei che racconta della fulminea infatuazione per il toro; che racconta la peccaminosa passione ecc ecc”. Meravigliosa la solita storia dell’ape. Seguendo l’analisi di Propp, in questo senso i tuoi personaggi non sono onniscienti come Omero ma sono “ex machina”, ovvero seguono la trama del racconto e vengono presentati come calati (dalla tua “penna-argano-gru-di-legno” giù sul palcoscenico mitico) nella storia in modo assolutamente perfetto dopo essere stati introdotti dai personaggi già delineati. In questo senso “ciascuna informazione attraverso i personaggi si collega a un’altra man mano che si compone l’azione.” Nessun personaggio, tranne Omero (ovvero te), conosce la storia e tutti sono funzione attraverso il loro ruolo determinato. Ma vorrei mettere in evidenza un altra cosa molto più significativa, non che le precedenti non lo siano. Sicuramente nell’esposizione romanzata del mito porti all’estremo quel concetto proprio dell’antropomorfismo tipico della religiosità antica. L’innovazione del tuo racconto non sta tanto nel fatto di inventare una storia alternativa quanto di amplificare l’umanizzazione dei personaggi mitologici preesistenti ottenendo un ottimo risultato. Penso alla teoria di Jung sugli Archetipi ereditati dai nostri antenati sottoforma di personaggi mitologici e la componente psicologica che si portano dietro. Ecco, in un certo senso l’operazione che tu realizzi attraverso questo racconto è l’estremizzare i contenuti psicologici dei personaggi. Ma non è solo questo. Si può dire che viene meno la parte aulica ma aumenta di molto l’introspezione e la conseguente drammatizzazione dei contenuti. La chiave è sicuramente molto ironica e questo, a mio avviso non è un demerito; ma alla fine, inviterei il lettore (ovvero me stesso) a andare oltre il velo di Maya e a leggere il tuo racconto con l’attenzione che merita perchè c'è di più- Vera la chiave ironica e vero il racconto romanzato del mito ma al contempo, con le tue descrizioni attivi una funzione molto importante: la lettura del testo a vari livelli. Perché è vero che la storia è divertente ma alla fine c’è sempre la frase finale tipica di tutti i miti: “ὁ μῦθος δηλόi” come nel più classico dei miti. Poi c’è l’ironia e qui ci sono delle considerazioni da fare. C’è una tendenza culturale, una sorta di affezione italica, retaggio dei grandi poeti romantico/scapigliato-depressi di /inizio/quasi medio/medio/fine/inizio secolo che pone il racconto condotto con ironia, un gradino più basso nelle varie scale di valutazione. Ė ovvio che sto parlando di tendenza. Alludo a commenti del tipo “poi quando muore con le trecce morbide sull’affannoso petto” mi sento veramente triste; io lo sento, percepisco il dramma, bello. Il racconto mi ha lasciato qualcosa ecc ecc mentre il racconto che gioca sull’ironia si prende spesso il solito: “divertente ma mi dispiace, mi sono rallegrato ma oltre questo non ho sentito la lama nel cuore”. Attenzione. Parlo di tendenza. Tutto questo, questa tendenza voglio dire, è delittuoso nella misura in cui i poeti/scrittori del passato erano frutto della loro epoca; ciò che fa l’artista straordinario, in tutte le discipline è riuscire con la sua arte a sintetizzare le istanze della sua epoca. Noi non viviamo a fine ottocento e non siamo neanche neorealisti. A questo punto, quello che mi viene in mente, dal mio punto di vista di scalcagnato lettore e imbrattatore pasticcione di fogli elettronici, posso solo considerare che di fiction con queste trame neo realistico verghiane tardo romantico/ossaseppiacee con il male di vivere dentro ne abbiamo piene le televisioni: possiamo toccarci l’animo in qualsiasi momento con una storia banale di una madre coraggio, una a caso, o con il dottore sfigato di turno che è neuropsichiatra infantile e aiuta i bambini (certo l’idea di base di Gianni Amelio è un’altra cosa ovviamente) con una trama pessima, dialoghi banali ecc ecc. Basta accendere la tv per scoprire che di “Morti a Venezia fatte male” ce ne sono fin troppe. Ebbene si. Si muore ancora e si muore male. Al contrario, possiamo provare a fare un passo mentale in avanti e spingerci oltre la banalità e rivolgerci alla creatività. Allora, è possibile vedere oltre le categorie e valutare il coraggio di scrivere in un certo modo. Si perché si tratta molto spesso di essere fraintesi. Sbagliato! Non ci vuole poi molto a scrivere un pezzo di genere alla moda italica. Ci vuole però una certa bravura, e vista la situazione anche un certo coraggio, per pensare con la propria testa e scrivere oltre gli schemi. Allora, si scoprono pezzi come questo che presentano diversi livelli di lettura. C’è una complessità di base che rimanda a un certo simbolismo. Tutto è gestito con leggerezza; ma è l’effetto che l’autrice vuole ottenere. Il lettore è l’utente finale del prodotto percepisce alla fine solo il prodotto della complessa operazione culturale che qui viene fatta. Si può analizzare il pezzo da un punto di vista della struttura; già fatto sopra. Ma possiamo considerare l’aspetto legato alle sensazioni fisiche; ovviamente, è presente in ogni momento. Possiamo considerare la descrizione delle emozioni e dei pensieri dei personaggi: è presente anche quella. Alla fine emerge da questo racconto una miriade di riferimenti percettivi, un tessuto narrativo fitto di elementi simbolici, espressioni che rimandano a altri elementi: è un rimando continuo di molteplici elementi, dalla tradizione, al moderno, tutto su vari livelli di interpretazione e tutto in poche righe, alla fine. Ecco mi sono perso. E vabbè. Scritto questo, io voto 4 e basta.
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