La caccia selvatica

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  1. Magister Ludus
     
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    La caccia selvatica

    di Daniele Imperi

    Senza voltarsi, sempre correndo, Zamin corrugò il viso in una smorfia e caricò il fucile.
    E ora, la caccia stava per iniziare.

    - La corsa selvatica, Riccardo Coltri


    Corri, Zamin, corri!
    Ansimava, sudando sotto il tabarro, nonostante il freddo. Il campo era ormai distante, dietro di lui, lontano forse anche nel tempo.
    No, era successo da poco. Il campo era morto e poi risorto. E la gente... stava ricostruendo ciò che era stato dimenticato.
    Zamin stringeva il fucile carico, gli stivali che pestavano l'erba umida. Correva... da quanto? Minuti, ore forse. Doveva mettersi in salvo, trovare un rifugio, una casa. Raggiungere il villaggio più vicino. Con le munizioni che aveva, avrebbe potuto tenere a bada i cani da una buona postazione. E se la gente del villaggio avesse avuto gli schioppi, allora avrebbero potuto ucciderli tutti.
    Ripensò a Munari e Ederle. E agli altri abitanti. I nuovi. Sarebbero venuti anche loro, coi cani.
    Lui era l'annunciatore, in fondo, colui che portava la testimonianza della rinascita. Dopo di lui, sarebbe giunta la corte del re.
    Del cane sovrano.
    E ci sarebbe stato un nuovo contagio.
    Corri, Zamin, corri!

    1.
    «Arriva qualcuno». Sartori si accovacciò, tenendo il fucile pronto e spiando fra i due massi la valle sotto di lui. Tirò il gancio e armò il percussore. Forse è uno di loro, pensò. Del villaggio rinato.
    Gasser gli toccò il braccio. «Aspetta» disse. «Vediamo che fa».
    Giù, sotto lo sperone di roccia su cui stavano di vedetta i due uomini, uno sconosciuto correva. Armato.
    «Forse è un agente dell'U.I.» disse Gasser. «Ne hanno mandati parecchi, a indagare. Anche soldati, hanno detto».
    «O forse è un contagiato».
    «Non ci son movimenti. Non sembra, almeno».
    «E allora perché corre?»
    «Forse è inseguito da qualcuno. O da qualcosa».
    «Non possiamo farlo entrare nel villaggio. Dobbiamo prima controllare, lo sai».
    «Va bene. Tu scendi da nord. Io gli chiudo la strada da sud».
    I due si separarono, correndo veloci e silenziosi fra i massi.

    2.
    Zamin si fermò, riprendendo fiato. Tese l'orecchio. No, nessun latrato. Forse era presto. Forse la ricostruzione aveva la precedenza. Ci sarebbe stato tempo per prenderlo. Quando il borgo avesse assunto la forma primigenia, allora sarebbe partita la caccia.
    E lui sarebbe stato pronto.
    Un'ombra.
    Movimenti fra la vegetazione davanti a lui, in mezzo agli alberi. Zamin armò il fucile. Non s'era fermato che per pochi minuti, in quella giornata di fuga dal campo. Aveva fame, freddo. Era stanco.
    «Buttate quell'arma».
    La voce proveniva dagli alberi, ma lui non vide nessuno. Il cielo stava scurendo. Aguzzò la vista, cercando forme nel bosco fitto. Poi una figura venne fuori, con uno schioppo puntato contro di lui. «Buttate quell'arma» ripeté.
    «Anche il mio è carico» disse Zamin. «Siamo uno contro uno».
    «No, noi siamo in due».
    Si voltò, senza fare movimenti bruschi. L'avevano preso in trappola. S'era fatto circondare senza neanche accorgersene.
    «Sentite, non son qui per cercar guai». Lentamente, posò il fucile a terra. «Sono un agente, sto»
    «Toglietevi il tabarro» l'interruppe il primo uomo.
    «Cosa?»
    «Il tabarro. Toglietevelo».
    Zamin obbedì. Son briganti, pensò. Forse ne esco solo alleggerito. Anche se morirò di freddo senza mantello.
    «Adesso tirate su la camicia».
    Nel frattempo, il secondo uomo s'era avvicinato. «Fate come vi dice. Alzate la camicia. Vogliamo vedere la pelle».
    Zamin fece come gli veniva chiesto. Mise a nudo il ventre, l'aria della sera che lo pungeva. I due uomini l'osservarono e poi si scambiarono uno sguardo. Avevano visto la cicatrice. Ma non c'era niente sotto, aveva già controllato.
    «Potete rivestirvi» gli disse il secondo uomo. Poi si avvicinò e l'ombra di un fucile si disegnò sul volto di Zamin. Un dolore sordo e la sua mente si spense.

    3.
    I suoni giunsero confusi. Anche le immagini, come offuscate da nebbia, andavano e venivano, alternandosi con momenti di tenebra. Tentò di parlare, ma non ci riuscì. Allora decise di alzarsi – perché era sdraiato, poteva almeno capire questo – ma ricadde sul letto.
    «È presto» gli disse una voce. «Restate giù. Vi porto qualcosa da bere».
    Una donna.
    Dove si trovava?
    Un dolore alla testa. Si tastò con le dita. Bende. Erano umide. Poi ricordò i due uomini ai margini del bosco. L'avevano colpito e poi portato qui. Dove?
    Una mano gli sollevò il capo. «Bevete, ma attento che scotta. È vino caldo, con dentro delle erbe. Vi farà bene».
    Zamin sorseggiò il vino. Aveva un sapore amaro, ma era buono. Il calore gli penetrò nel corpo e una sensazione di leggerezza e calma s'impossessò di lui. Si lasciò ricadere e sentì la mente svuotata. Il dolore della ferita sembrò scomparso. Guardò la ragazza. Era molto giovane, aveva lunghi capelli biondi e un viso ovale. Quanti anni avrebbe potuto avere?
    «Ne ho sedici» ripose. Poi sorrise, vedendo lo stupore nello sguardo dell'uomo. «È stata Marcolfa a insegnarmi. Ma lei è più brava di me. Io posso leggere, capire, soltanto i pensieri più semplici».
    «Marcolfa? Chi è?»
    «È la madre del nostro villaggio. Colei che ne custodisce i confini. Più tardi la incontrerete». La ragazza gli prese il bicchiere e gli rimboccò le coperte. «Io mi chiamo Frine. Adesso riposate».
    Zamin la vide allontanarsi, chiudere la porta. Poi le palpebre si fecero pesanti e l'uomo sprofondò nel sonno.

    4.
    «Si sta svegliando».
    «Avete capito chi è?»
    «Un agente dell'U.I., come aveva pensato Gasser».
    «E che ci faceva qui attorno?»
    «Forse stava solo scappando».
    «Ma ha la cicatrice».
    «Sì, sentiremo che dirà la Madre. Va' ad avvertire Mair».
    Zamin aprì lentamente gli occhi. Due uomini se ne stavano in piedi davanti al suo letto. Lo osservavano. «Chi siete?» domandò. «Dove sono?» Si mise a sedere, strofinandosi il viso. Tentò di ricordare gli ultimi avvenimenti della giornata. La corsa, la fuga dal campo. L'incontro nel bosco e la botta in testa. Poi la ragazza di nome Frine. «Dove sono?» ripeté.
    Uno dei due uscì. L'altro gli si avvicinò e l'aiutò a mettersi in piedi. «Ce la fate?»
    «Sì, ma non avete risposto alla mia domanda».
    «Lo so. Presto avrete le vostre risposte».
    Zamin si sentiva debole. Su una sedia accanto al letto vide il suo tabarro, ma non il fucile. Lo cercò con lo sguardo, ma nella stanza non c'era.
    «Quello adesso non vi serve» disse l'uomo.
    «Leggete tutti nel pensiero, qui?»
    «No, solo Frine e Marcolfa. Ma non è difficile indovinare che cosa stavate cercando. Adesso venite con me, dovete mangiare qualcosa». Si avviò, aspettandolo sull'uscio. «Io mi chiamo Santorre».
    Zamin rispose con un cenno, poi si mosse.
    L'uomo lo condusse in una cucina, al piano di sotto, e lo fece sedere. Una vecchia rimestava in un calderone che fumava sopra le braci di un camino. Il profumo era buono. Santorre prese una forma di pane e la tagliò in due, dandone una metà all'altro. Poi gli portò un bicchiere e glielo riempì di vino. La vecchia versò in una scodella una zuppa bollente e la mise a tavola, davanti a Zamin, senza neanche guardarlo. «Grazie» disse l'uomo alla donna, che parve non sentirlo. Prima di mangiare guardò Santorre, come in attesa del suo consenso per cominciare il pasto.
    «Mangiate» disse l'uomo.
    «E voi?»
    Santorre sorrise. «L'ora del pranzo è finita. Avete dormito per oltre mezza giornata».
    Il vino, pensò Zamin. Il vino che gli aveva fatto bere Frine. Era dunque accaduto ieri. Aveva passato la notte e l'intera mattina successiva a letto, perso in un sonno profondo e senza sogni. La testa non gli doleva più, ma aveva ancora le bende. Le sfiorò con una mano. Non erano più umide. Qualcuno aveva provveduto a cambiarle, forse la stessa ragazza.
    Mangiò avidamente, intingendo grossi pezzi di pane nella zuppa calda. Bevve d'un fiato il vino e Santorre gliene versò dell'altro.
    Dopo mangiato, la vecchia sparecchiò, sempre senza guardare l'uomo né dire niente. Santorre gli fece quindi cenno di seguirlo. Quando uscì, Zamin poté finalmente vedere dov'era stato portato. Era un villaggio che non conosceva, con case in pietra dalle porte e finestre rinforzate. C'era gente che lavorava, non in maniera frenetica, ma con una calma determinata. Uomini armati stazionavano ai confini dell'abitato, seminascosti dal fogliame. Qualche sentinella stava sui tetti degli edifici e scrutava il bosco. Altri uomini costruivano barriere con tronchi e grossi rami e alcune donne portavano viveri in ceste e acqua in conche di rame. Sembravano tutti prepararsi a un'imminente battaglia, pensò Zamin.
    «Una battaglia ci sarà». La voce di Frine lo colse di sorpresa e la ragazza scoppiò a ridere. «Dovreste stare più attento a cosa osservate e a come osservate» aggiunse, poi raccolse da terra un fascio di legna e scappò via.
    Zamin non poté fare a meno di abbozzare un sorriso.
    «È una brava ragazza» disse Santorre. «Le vogliamo tutti bene, qui. Ha perso entrambi i genitori quand'era bambina ed è stata allevata da Marcolfa».
    «È la terza volta che la sento nominare» disse Zamin. «Frine m'ha detto che è la madre del villaggio. Che significa?»
    «Qui al villaggio abbiamo un capo, si chiama Mair e lo conoscerete fra poco. Stiamo andando proprio da lui. E poi c'è Marcolfa, una donna anziana, ma forte, dotata di strani poteri. È lei che ha fondato il villaggio».
    «È dunque un centro nuovo, questo?»
    «No, il villaggio esiste da almeno un secolo». Santorre si voltò verso Zamin e gli sorrise. «Ve l'ho detto, Marcolfa ha strani poteri».
    Stregheria, pensò Zamin. Anche qui.
    L'uomo lo condusse verso una costruzione a un piano, davanti a cui stava una sentinella armata. Aprì la porta ed entrò, seguito da Zamin. Dentro c'era un grosso tavolo, proprio in mezzo alla sala, presso cui sedevano alcuni uomini. Zamin riconobbe quello che l'aveva colpito il giorno prima. In fondo vide Frine darsi da fare per accendere il fuoco in un largo camino. La ragazza si accorse di lui e gli sorrise. Una vecchia stava seduta in disparte, borbottando qualcosa sottovoce mentre con le mani rinsecchite tormentava un piccolo oggetto. Quella doveva essere Marcolfa, pensò l'uomo.
    Poi la vecchia si alzò di scatto, facendo quasi cadere la sedia, e lo fissò. I suoi occhi erano quasi gialli. «Il segnato!» urlò, indicandolo. Cave canum nuntium!»

    5.
    Zamin sedeva assieme agli altri uomini. Marcolfa era stata allontanata e Frine era andata con lei. Nel camino adesso ardeva un bel fuoco e l'aria nella sala si stava scaldando abbastanza in fretta.
    «Zamin» disse l'uomo che si chiamava Mair, come se volesse scovare in quel nome qualche segreto nascosto. «Ho già sentito il vostro nome, assieme a quello che è successo vicino a Marniga».
    «Sapete del contagio?» domandò Zamin.
    «Sappiamo molte cose, qui» rispose Mair. «Sappiamo delle vostre indagini e di quel che v'hanno fatto». L'uomo si accigliò. «Non potete restare. Non per molto ancora. Siete un segnato».
    «Un segnato? Che significa? Che volete dire? Perché quella Marcolfa m'ha chiamato»
    «Canum nuntium?» finì per lui Mair. «Perché siete il loro annunciatore. Voi avete corso. Non ricordate? Avete corso coi cani. Avete fatto parte della corsa selvatica».
    Zamin si portò una mano al volto e chiuse gli occhi. «Era stato solo un sogno, io»
    «No, non è stato un sogno. Voi avete corso con loro. Voi avete visto il cane sovrano».
    «Ma come fate a sapere tutto questo? Che cos'è questo villaggio?»
    «Venite con me» rispose Mair. «E saprete». L'uomo si alzò e si avviò verso l'uscita. Zamin guardò gli altri uomini, che se ne restarono zitti a osservarlo. «Venite» lo esortò Mair. Zamin lo seguì.
    Fuori, la gente lo guardava. La voce s'era sparsa, adesso tutti sapevano chi era. Un segnato. Cercò Marcolfa e Frine, ma non le vide. Mair lo condusse ai confini del villaggio, imboccò un sentiero che s'inerpicava fra gli alberi, fino a infilarsi in una cengia che portava a un gruppo di rocce su cui cominciò ad arrampicarsi. «Seguitemi» disse. «Ma fate attenzione».
    Quando raggiunsero la cima, Mair indicò sotto di loro. «Il villaggio» disse. «Che cosa vedete?»
    Zamin guardò. Un anello. Le case di pietra erano disposte come seguendo un cerchio. Una prima fila e un'altra ancora, più interna. «Che cosa significa? Chi ha costruito questo villaggio?»
    «Santorre non v'ha detto?»
    «Santorre m'ha detto che avrà poco più di cent'anni e che l'ha fondato Marcolfa. Ma voi sapete che non è tutto. Dunque, parlate. Che cos'è questo villaggio? Chi siete tutti voi?»
    Mair guardò verso il basso. La sua gente continuava a lavorare alle barriere. Riconobbe i punti in cui le sentinelle se ne stavano silenti, occultate alla vista. Vide le donne andare e venire, i bambini giocare. «Siamo un avamposto» disse infine. «Siamo qui in attesa che la caccia abbia inizio».
    «La caccia?»
    «La caccia selvatica. Quel che è successo a Marniga è solo l'inizio e voi lo sapete bene. Non è rimasto molto tempo».
    «M'hanno lasciato andare...»
    «Ma vi riprenderanno. E allora non saremo più amici».
    Zamin lo guardò, confuso.
    «Non vi ricorderete di chi v'ha curato e sfamato» continuò Mair. «Sapete anche questo».
    L'altro ripensò a quel che vide quel mattino nuvoloso.
    Munari era in una posizione strana. Ingobbito, rigido in un cappotto. Immobile, aveva la testa bassa e sembrava fissare per terra.
    Anche Ederle era fermo
    .
    Una rinascita. Con una nuova consapevolezza, una nuova mente, una nuova vita.
    Non mi ricorderò di queste persone, pensò Zamin. Neanche di Frine. «Sono un pericolo per voi» disse. «È per questo che devo andarmene».
    «Non proprio» rispose Mair. «Ma voi porterete gli altri. Qui o altrove. E ci sarà una battaglia. Uno scontro di cui nessuno di noi può prevedere la fine».
    «Capisco». Zamin alzò lo sguardo e fissò l'altro negli occhi. «Vi ringrazio per... per tutto quel che avete fatto per me fino a questo momento».
    Mair annuì. «Adesso dobbiamo tornare. Tra poco farà scuro e non sarà prudente restare fuori». Poi si volse e cominciò a discendere.
    Fu allora che un urlo li costrinse quasi a correre.
    «Che cos'è stato?» chiese Zamin, mentre si aggrappava alle rocce.
    Mair aveva già raggiunto la cengia e l'aiutò. «Forse non c'è più tempo» rispose. Quando Zamin toccò terra, l'altro si mise a correre. «Sbrigatevi!»

    6.
    Al villaggio c'era confusione. Quando i due uomini arrivarono, cominciarono anche gli spari. Uno, due. Poi latrati, lamenti. Altri spari, grida umane.
    Mair fermò un uomo. «Adelchi, cos'è stato?»
    «Cani» rispose l'altro. «Ne han visti le sentinelle, fuori del villaggio, ai margini del bosco. Hanno sparato, forse ne han colpito qualcuno».
    «Ridatemi il fucile» disse Zamin. «Li aspetterò fuori di qui e poi si vedrà».
    «Sta bene» disse Mair. «Adelchi, accompagnalo da Santorre».
    I due s'avviarono. Trovarono l'uomo nei pressi della casa dove c'era stata la riunione poco prima. Zamin si guardò attorno. Gente armata si preparava a sostenere la furia della corsa. Non c'erano donne in vista e si augurò che Frine fosse al sicuro. Santorre l'accompagnò in quella che chiamò l'armeria, in realtà un vano ricavato all'interno di una costruzione. Zamin riconobbe il suo fucile e lo prese.
    «Vado» disse.
    «Buona fortuna» rispose l'altro, porgendogli la mano.
    Zamin si avviò. Attorno a lui la gente sistemava altre barriere, rinforzava porte e finestre, urlava ordini. Nessuno gli badò, mentre attraversava il villaggio. Neanche quando passò vicino a Mair, questi mostrò d'essersi accorto della sua presenza. Proseguì.
    Gli parve di aver già vissuto quel momento. Ricordi non molto lontani tornarono a galla, immagini di uomini al lavoro, qualcosa accaduto poco tempo prima.
    Poi rammentò.
    Continuò a camminare fino a che non vide più nessuno di loro.
    Fino a che non fu fuori dalla contrada.
    Là, accelerò il passo, sempre senza voltarsi.
    Dopo un po', corse.

    Era la sua fuga dal campo. Uno, due giorni prima? Non ne era più sicuro.
    Corri, Zamin, corri!
    Zamin correva, il fucile in mano. Si allontanò dalle case, raggiungendo il bosco.
    E poi li sentì.
    Latrati.
    Si acquattò dietro una roccia, a ridosso di un albero. Da una tasca tirò fuori una cartuccia. Lentamente, con mano ferma, aprì l'otturatore, la inserì, richiuse l'otturatore e armò il percussore. Poi attese.
    Fino a che vide i primi cani. Neri, come ombre notturne, correvano verso di lui. E dal bosco apparvero delle figure umane. Due, che riconobbe.
    Munari e Ederle.
    Se ne restarono in mezzo agli alberi. Zamin vide i movimenti sotto gli abiti e puntò l'arma contro i due. Poi spostò la mira e sparò. Un cane cadde, uggiolando.
    Ma gli altri gli furono addosso prima che potesse ricaricare.
    I cani lo travolsero, di nuovo com'era accaduto giorni prima. E ancora una volta Zamin sognò, o credette di sognare.
    Gli parve di sentire una musica lontana, arpe, flauti, e gente che cantava e rideva. Voleva muoversi, andare verso quella melodia, ma gli era impossibile. Aveva dolore dappertutto. Qualcuno, o qualcosa, lo teneva fermo.
    Forse si trovava ancora in quello strano villaggio, nell'anello di case che fungeva da avamposto. Forse era a letto, ferito, e Frine lo stava medicando. Tentò di aprire gli occhi e si ritrovò a guardare un muso di cane su un corpo umano. La testa coronata annuiva, e pareva sorridere.
    Poi tutto fu buio e il silenzio l'avvolse.

    7.
    Il dolore cessò. Zamin aprì gli occhi e si ritrovò circondato. C'erano cani ovunque. Mosse una mano a cercare il fucile e sentì una risata volgare alle sue spalle. La presa mancò, le dita, le unghie, rasparono il terreno a vuoto. Azzardò uno sguardo in quella direzione e si sentì gelare.
    Non era la sua mano, quella.
    Era una zampa. La zampa di un cane.
    Che ci faceva attaccata al suo arto? Che gli avevano fatto?
    Guardò ancora e vide. Il pelo nero gli copriva tutto il braccio. Zamin era sdraiato, forse nello stesso punto in cui era caduto dopo che la corsa dei cani l'aveva investito. Ventre a terra, come una bestia, gli arti ripiegati. Le zampe ripiegate.
    Va', sentì dire dalla stessa voce alle sue spalle.
    Arcuò la schiena e, a fatica, si alzò. Si ritrovò, inconsapevolmente, a quattro zampe. Nuovi odori gli arrivarono alle narici e pensieri elementari riempirono la sua mente. Si sentì pervaso di nuova forza. Tutto ciò che era stato prima svanì, nell'istante stesso in cui si alzò da terra e osservò il mondo da un'altezza diversa, da un diverso punto di vista.
    Adesso, era uno di loro.
    Va', Randagio, disse ancora la voce.
    Zamin, il cane che era stato Zamin, si voltò. Una figura avvolta da un mantello lo stava osservando. Era un uomo alto, magro, ma con la testa di cane, una corona di pietra poggiata sul capo. Aveva già visto quell'essere, era il cane sovrano. Il suo sovrano.
    Va', Randagio, ripeté.
    Aveva un nuovo nome, ora. Non più Zamin, che nella sua mente era scomparso assieme a tutti gli altri ricordi della vita precedente. Ma Randagio. Il re l'aveva nominato messo della corsa selvatica. Avrebbe corso davanti agli altri cani, ad annunciare ovunque la nascita del nuovo regno.
    Si voltò, annusando l'aria in cerca di una pista da seguire. In cerca di un villaggio. Odori che già aveva avvertito, che conosceva, si trasformarono nella sua mente primitiva in immagini. Uomini, donne. E una ragazza giovane. Un villaggio c'era, davanti a lui, ma avvertì un pericolo, qualcosa che avrebbe rallentato la corsa, che forse l'avrebbe sopraffatta. Un potere forte, non più di quello del suo sovrano, gli suggerì un inconscio orgoglio, ma pur sempre un'energia da non sottovalutare.
    Captò altri odori, più lontani. Un borgo, a ovest. Si mosse in quella direzione, dapprima fiutando una pista a terra, lentamente, poi accelerando l'andatura.
    Dietro di lui, intanto, i cani fremevano, in attesa del suo segnale.
    Infine, corse. La traccia lo stava guidando verso la nuova meta, dove sarebbe avvenuto un nuovo contagio.
    Senza voltarsi, sempre correndo, Zamin corrugò il muso in un ringhio e guidò il branco.
    E ora, la corsa stava per iniziare.
     
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  2. Peter7413
     
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    Ola!
    Il racconto è scorrevole e si lascia leggere bene.
    I miei appunti vanno all'attinenza con il libro di riferimento.
    Personaggi: rispetto all'originale usi Zamin, ma, a mio avviso, non lo becchi in pieno tratteggiandolo in modo troppo morbido. Zamin è concentrato solo su se stesso, estremamente puntiglioso, molto schizzinoso e difficile nei rapporti sociali. Il tuo Zamin è quasi passionale, nota la bellezza della ragazza, mangia e beve senza difficoltà da tazze e piatti non suoi e soprattutto non risulta antipatico agli abitanti del villaggio.
    E poi, il tuo è un racconto avventuroso, il che non è un male, ma poco mi ha ricordato dell'originale. Parallelo il discorso sullo stile: semplice, di facile fruizione, concentrato sull'azione il tuo mentre quello di Coltri è a tratti quasi volutamente ostico e poco propenso alla facile lettura.
    In riferimento al villaggio in cui si imbatte Zamin mi viene anche da chiederti come mai tu abbia voluto creare questa dialettica con quello colpito dalla furia della corsa selvatica, quasi come lo fosse sempre stato. Nel senso che dal tuo racconto mi è sembrato che gli abitanti di questo villaggio siano da sempre in lotta (chiamiamola così) con il Borgo quando invece sappiamo che fino all'assalto finale era abitato da gente normalissima.
    E infine una domanda: questo villaggio che hai descritto, così fuori dal tempo e dallo spazio conosciuto (risultando, penso, non segnato sulle mappe) lo hai trovato come una leggenda locale o è frutto di una tua invenzione?
    Concludendo: un racconto molto godibile che, sempre a mio avviso, si discosta però troppo dal libro di riferimento.
    A rileggerci presto!

    Edited by Peter7413 - 19/5/2011, 22:57
     
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  3. Magister Ludus
     
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    CITAZIONE (Peter7413 @ 19/5/2011, 15:05) 
    Personaggi: rispetto all'originale usi Zamin, ma, a mio avviso, non lo becchi in pieno tratteggiandolo in modo troppo morbido. Zamin è concentrato solo su se stesso, estremamente puntiglioso, molto schizzinoso e difficile nei rapporti sociali. Il tuo Zamin è quasi passionale, nota la bellezza della ragazza, mangia e beve senza difficoltà da tazze e piatti non suoi e soprattutto non risulta antipatico agli abitanti del villaggio.

    Da una parte ti do ragione, ma dall'altro dico che:

    1. Zamin sta fuggendo e sa che sarà inseguito e farà una brutta fine

    2. Notare la bellezza di una ragazza non significa essere passionali, se una è bella, lo è e basta. Tra Zamin e Frine non nasce una storia d'amore, c'è solo simpatia

    3. E dove dovrebbe mangiare e bere dopo due giorni senza cibo e senza le sue stoviglie? :)

    4. Non ho nemmeno scritto che sta simpatico agli altri. E poi uno mica può stare antipatico a tutto un villaggio.


    CITAZIONE
    E poi, il tuo è un racconto avventuroso, il che non è un male, ma poco mi ha ricordato dell'originale. Parallelo il discorso sullo stile: semplice, di facile fruizione, concentrato sull'azione il tuo mentre quello di Coltri è a tratti quasi volutamente ostico e poco propenso alla facile lettura.

    Non ho riscontrato difficoltà nella lettura nello stile di Coltri, e credevo anzi di averlo imitato pure troppo :D

    CITAZIONE
    In riferimento al villaggio in cui si imbatte Zamin mi viene anche da chiederti come mai tu abbia voluto creare questa dialettica con quello colpito dalla furia della corsa selvatica, quasi come lo fosse sempre stato. Nel senso che dal tuo racconto mi è sembrato che gli abitanti di questo villaggio siano da sempre in lotta (chiamiamola così) con il Borgo quando invece sappiamo che fino all'assalto finale era abitato da gente normalissima.
    E infine una domanda: questo villaggio che hai descritto, così fuori dal tempo e dallo spazio conosciuto (risultando, penso, non segnato sulle mappe) lo hai trovato come una leggenda locale o è frutto di una tua invenzione?

    Rispondendo alla prima domanda: ho voluto scrivere una sorta di seguito del romanzo. Gli abitanti del villaggio sanno di quello che è successo, è vero, ma per la natura stessa del villaggio. Il fatto che lo sappiamo loro, non include che debbano saperlo tutti.

    Per la seconda: è tutto frutto della mia fantasia :)

    Grazie per i commenti.
     
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  4. rehel
     
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    Vedi, Peter, nei tuoi commenti metti parecchio in risalto una non adeguata attinenza al libro e ad altre cose che riguardano la corsa selvatica. Questo sia per il mio racconto che per quello di Magister Ludus. Ma il regolamento parla di:

    ° Ogni racconto dovrà prendere chiaro spunto dal libro del mese, scelto dalla redazione tra i libri del catalogo di Edizioni XII. A tal proposito si faccia riferimento al calendario ufficiale di ULAM, in calce al post; detto calendario verrà aggiornato ogni due mesi;

    ° Per racconto ULAM si intende un racconto spin-off che raccolga le tematiche, le ambientazioni, uno o più personaggi, del libro del mese.

    Sui personaggi l'ho detto subito, io ho difettato, Ho richiamato due di loro, ma solo come cadaveri. Ma per il resto credo ci siamo ampiamente coi riferimenti previsti.
    Si parla di chiaro spunto, di tematiche e ambientazioni, e personaggi della storia, e anche per quella di Magister mi sembra lui abbia dato una sua personale interpretazione, ma nei canoni previsti.
    Del resto lo spirito di ULASM non credo sia quello di produrre dei cloni, ma delle cose che fanno riferimento a una storia, alla sua specifica atmosfera e ai personaggi.
    Io penso che tutti e tre abbiamo fatto un buon lavoro in questo senso, poi deciderà la giuria, ma trovo inesatto puntualizzare che la corsa selvatica resa da uno o dall'altro sia diversa da quella concepita dall'autore e via di questo passo. Credo che la cosa importante sia stata creare qualcosa di diverso, di nuovo e allo stesso tempo collegato allo spirito e all'atmosfera del libro.
    :)
     
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  5. Peter7413
     
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    Giuseppe, quello che dici è tutto più che giusto.
    Io mi sono infatti inizialmente premurato di sottolineare che i racconti mi sono piaciuti e che sono tutti validi. Poi mi sono dedicato all'attinenza con quello che, secondo me ( e lo sottolineo, secondo me), è lo spirito di Ulam. Sotto questo aspetto ho delle riserve che ho condiviso con voi. Poi è ovvio che ognuno la veda a modo suo, ci mancherebbe!
    Oh, scrivo dal telefono (sono appena arrivato a Medolago) e non la faccio lunga. Se vi va si puó intavolare un'interessante discussione, ma risponderò domani!
    A presto!
     
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4 replies since 2/5/2011, 13:03   122 views
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