Il Matrimonio

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  1. silente2.0
     
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    E' un periodo di sperimentazioni.
    Feedbackatemi e vi ricompenserò con ricchi premi e cotillons.

    Il Matrimonio

    La fotografia è limpida, scintillante.
    Uno stormo di persone abbracciate l’una con l’altra occupa tutto lo spazio possibile. Un parente in più e il ritratto esploderebbe in una fontana di cravatte, tacchi a spillo e generosi décolleté. Le pareti esterne della chiesa sono ricoperte di familiari e consanguinei, amici e conoscenti, e poco o nulla si vede del contesto ecclesiastico. Squilibri di età e di capelli e di rughe vengono livellati dalla fiorente coppia al centro del palcoscenico, che ravviva l’adunanza con sorrisi stordenti e occhi colmi di spensierata follia.
    Lui. Lei. Nero e bianco. Più e meno.
    Sotto gli sgoccioli afosi del sabato pomeriggio, gli anelli, bene in vista, folgorano più della luce del flash
    Poi, nuovi click.
    Cinque scatti e cinque posizioni diverse. Mentre lo Sposo bacia la Sposa. Mentre un Bimbo Pestifero s’intromette con linguacce decorative. Mentre vengono lanciati in alto dagli amici. Mentre vengono coccolati dalla gravità. Mentre cadono su un pavimento di mani.
    L’ultima immagine è per il gruppo che si scioglie e si sparpaglia. Padri e madri e fratelli e sorelle e nonni e zii e anche qualche cugino. Per non parlare degli amici. Motori e stomaci rombano impazienti. Si formano code chilometriche di auto e fiocchi bianchi e clacson goderecci. Il matrimonio e la festa proseguono a Villa Marini.

    Villa Marini è un palazzo del ‘600, immerso in un fogliame che genera frescura come eccitanti cubetti di ghiaccio. Un cuore di sei piani lastricati in pietra gialla si erge imperioso, rinchiuso da una cinta muraria di mattoni e sudori di passate generazioni. Rilievi di cupidi e di saggi e di uomini e donne e di banchetti sono scolpiti sulle facciate esterne, e statue sfoggiano i loro fisici scultorei e antichi piedistalli lasciano spazio all’immaginazione su quanto potessero sostenere nell’antichità.
    E poi, il prato. Una distesa di verde che sfuma nel cielo estivo, con decorazioni di querce e pini che hanno cullato la crescita del mondo.
    E ancora gli altri edifici – dimore e magazzini, disposti lungo il perimetro esterno della recinzione –, antichi pilastri di una cultura artistica che ha trovato il culmine in questo culmine collinoso.
    Non solo. Oggi c’è qualcosa in più.

    Qualcosa in più che ha la forma di una magione vacillante. E di impalcature e gru e martellanti baraonde sonore, agevolate da un incessante via vai di Alcuni Scalcagnati Operai. Non è festivo, il loro sabato soleggiante. Non è nemmeno calmo, tranquillo o razionale.
    Il Papà della Sposa, il maggior finanziere della giornata di festa, discute con il Capo dei lavori.
    «Non c’è il capo dei lavori» dice il Capo. È un orango con caschi di banane come spalle.
    «Chi comanda, allora?»
    «Io.» Il Capo si gratta la testa e una pioggia di polvere firma il vestito di Papà, che si sbraccia, furibondo.
    «Cos’è... questo?» Papà è furibondo. Il frastuono del cantiere gli frigge il cranio più del sole.
    Il Capo reagisce spazzolandosi i capelli.
    «Allora?» Papà è paonazzo.
    «È un cantiere. Ristrutturiamo un...» Ci pensa su, il Capo, incerto. Fa anche una smorfia. «Boh, un qualcosa. Non so come si chiama. È un palazzo.»
    «Ma abbiamo noleggiato la villa! Per il matrimonio! E voi non c’eravate!»
    «Stava per cadere» sbuffa il Capo. «Addosso alla villa» precisa.
    Si confrontano ancora, i due, mentre la folla carnevalesca varca il regno matrimoniale odierno – occhi curiosi si direzionano sul mento quadrato del Capo e sul ciuffo di capelli bianchi di Papà, isolato come un’oasi in un deserto di braci. Volano parole e minacce e intimidazioni. Impassibile, il Capo promette di fare il minimo rumore possibile, poi sputa e imbraccia un martello pneumatico. Non conoscono le promesse, le macchine. Loro possono fare casino.

    Casino è il buffet di antipasti, preso d’assalto come una nave inerme da feroci pirati. Mani voraci catturano manicaretti sfiziosi come ostaggi – spietatamente giustiziati da denti e gole mai sazie.
    Tartine. Pizzette. Bocconcini.
    Graziose Cameriere accolgono sguardi bramosi di leccornie, versano liquidi colorati in calici brillanti, sorridono e sorridono e sorridono ancora più forte. Le loro divise trattengono il timore di sfidare la massa affamata.
    Tramezzini. Scaglie di grana. Crostini
    Briciole e gocce si sparpagliano sulle labbra e sulle camice e sulle giacche. E intanto l’alcol, per quanto esiguo, si mischia già al sangue. Gli invitati gareggiano in prove di risate tonanti e guance arrossate. È un pareggio all’unanimità.
    Panini. Olive ascolane. Salsa rosa.

    Salsa rosa come la prima macchia sul vestito bianco. Una stella deformata di maionese e ketchup. Dallo schizzo, gli occhi stuzzicanti della Sposa si stampano in quelli del marito. Basta un cenno, un battito di ciglia malizioso, e si stringe un accordo tacito.
    La strada per la toilette è un trampolino per ovvi ammicamenti e dita curiose, che aumentano progressivamente fino a sfociare in un torpido bacio, celato da mure opportune, costruite nel posto giusto.
    Il bagno è un’insospettabile sala da ballo e, dopo aver chiuso a chiave la porta, è un’improvvisata camera da letto. La prima notte di nozze è già stata anticipata cinque anni orsono, in un impeto di passione trascinante sui sedili posteriori di una vecchia Punto. Non era peccato ieri, non è peccato ora. E visto il costo dell’abito da sposa, è conveniente sfruttarlo il più possibile, anche quando dev’essere in parte sollevato, per evidenti pulsioni fisiche.
    «Non è molto romantico» commenta lui.
    «Neanche la tua macchina lo è mai stata» precisa lei.
    Dentro, i corpi si fondono, creando un’unica entità, e sfrigolano energia. Fuori, salta la corrente. Uno sbalzo elettrico. Forse è colpa dell’unione dei festeggiati. Forse degli Amici Musicanti impreparati.
    Resta il fatto che, ignari, gli sposi continuano.
    Ma non c’è posto per sguardi curiosi, qui. L’accesso è negato ai non addetti ai lavori.

    I non addetti ai lavori sono Due Scalcagnati Operai che stanno abbandonato il cantiere. L’improvvisa mancanza di corrente elettrica è un ostacolo insormontabile per la conclusione dei lavori. Un sovraccarico, si pensa, un eccesso di altoparlanti e microfoni e luci e stramberie elettroniche, e sia Villa Marini che il cantiere si ritrovano sperduti in un deserto senza oasi.
    Varcano il cancello e la festa inebria le loro menti e le loro tute logore di polvere e sporcizia. Accolti tiepidamente dalla folla disinteressata, cercano spiegazioni, cercano risposte, cercano Papà.
    Vagano con lo sguardo.
    Tendono le orecchie.
    Ma il frastuono godereccio impedisce loro di parlare.

    Parlare è l’unico desiderio dello Zio. Un flusso incontrollabile, una parola dopo l’altra, non necessariamente dotate di un filo coerente che le colleghi. Parlare. Conversare. Strepitare. La sua più grande aspirazione.
    Ma non ne è capace, lo Zio.
    Lo Zio che non è sposato, che non ha una progenie a cui ereditare le sue limitatezze sociali. Lo Zio sprovvisto di amici, conoscenti, soci, confidenti. Lo Zio che se ne sta in disparte, in un angolo ombreggiato, camuffato con l’ambiente circostante. Lo Zio che mangia in silenzio, per non disturbare. Lo Zio che cerca anche di non respirare, in modo da non essere considerato. Lo Zio che nessuno vuole, che nessuno cerca.
    Lo Zio che si riprende e controlla il respiro.
    Perché lì, nei pressi di un tombino sollevato che svela l’accesso al mondo di sotto, lontano da tutti e da tutto, quello che vede necessita al più presto di essere condiviso.

    Condiviso come l’amore degli sposi.
    Nonostante la grossa macchia di vecchiume sul vestito di lei. Nonostante il respiro irregolare di lui e la voglia nei pantaloni. Nonostante il lavabo staccato e agonizzante, senza più un muro che lo sostenga.
    «Dovevi fare più piano» lo rimprovera lei.
    «Se facevo più piano rimanevo fermo» si giustifica lui.
    «Dai la colpa a me?»
    «Di certo non la do a me.»
    «Stai dicendo che ho rotto il lavandino perché peso troppo?»
    «Sto dicendo che adesso c’è un buco nel muro, ed è meglio se ce ne andiamo di qui prima che se ne accorga qualcuno.»

    Qualcuno come Papà, che è reduce da un’eruzione vocale con gli Amici Musicanti, ragazzi che devono suonare e vivacizzare la serata.
    Capelli lunghi. Tatuaggi. Pirsing. Soci dello Sposo, figurarsi. Buoni a nulla, altroché. Attaccano due spine e fanno saltare la corrente. Accendono una cassa e bruciano le lampadine. Collegano un filo e prendono la scossa.
    «Incapaci» commenta.
    Ma ora è tutto a posto. Ci ha pensato lui, e staccando, spegnendo e scollegando, ha risolto la situazione con un certo savoir faire. La luce è tornata, e Papà è soddisfatto.

    Soddisfatto non lo è invece il Capo.
    È troppo tempo che i Due Scalcagnati Operai sono fuori, e anche se la corrente è tornata, non c’è gratificazione nel congiungersi al martello pneumatico senza aver qualcuno da comandare. Alle porte della sera, il cantiere è ormai semivuoto, ma deve ruggire gli ultimi ordini per completare il lavoro giornaliero e prepararsi mentalmente a una meritata domenica di riposo.
    «Scansafatiche!» sibila tra i denti.
    Sferra un colpo ai blocchi di cemento che sostengono la gru. Nessuna reazione.
    Sbuffa, il Capo.
    Nessuna reazione significa nessun godimento. Nessun godimento significa nessun gioco.

    Giocare, secondo il Bimbo Pestifero, è un’attività che richiede la presenza di altri bambini. Da solo non può fare nulla. E, dopo aver rotolato, saltato, frignato, scalciato e importunato, si ritrova senza immaginzione.
    Ad attraversargli l’autostrada creativa ci pensa per fortuna una quercia secolare, un intreccio di rami e corteccia e radici che costeggia la cinta muraria. Scatenato, il Bimbo Pestifero si arrampica, cade, riprova, scivola, ritenta, trova un appiglio, poi un altro e infine un buon punto di sosta.
    Ma è un ramo meno robusto degli altri. Un ramo che oscilla. Un ramo che, saltandogli sopra, addirittura dondola.
    Il crack! è uno schiocco di frusta. Il Bimbo Pestifero ritrova l’istinto e ridiscende a terra mentre la quercia, mutilata, lascia cadere un suo braccio al di là del muro, dove prospera il groviglio di cavi del cantiere. Ancora una volta, salta la corrente.

    La corrente da ripristinare è l’ultimo dei pensieri dei Due Scalcagnati Operai. Spento l’apparato uditivo, in favore di un maggiore sfruttamento di quello visivo, si lasciano cullare dalla visione angelica.
    Davanti a loro, infatti, le Graziose Cameriere scambiano sguardi suadenti e inviti impliciti. Riempiono calici allettanti ed espongono merci a cui non si può rinunciare. Sbattono ciglia lussuriose e sciolgono capelli profumati.
    Un passo e poi un altro, e i Due Scalcagnati Operai sono vittime del canto di sirena, sono ebeti manichini, sono ubriachi di sorrisi.

    Sorrisi che svaniscono dal volto della Sposa quando incrocia Boccoli Biondi. Boccoli Biondi che finge di parlare con lo Zio. Boccoli Biondi che simula uno baratto di salatini con una Graziosa Cameriera. Boccoli Biondi che scruta lo Sposo.
    Boccoli Biondi che, innocente, si avvicina.

    Avvicinarsi a Papà è un obiettivo importante per lo Zio.
    Non vuole recuperare un rapporto parentale mai sviluppato. Non gli interessa complimentarsi per la festa della Sposa. Deve solo parlargli. Parlargli di quello che ha visto.
    Ma Papà lo ignora e passa oltre, verso l’impianto luci/audio, dove gli Amici Musicanti hanno ripreso a litigare con l’elettricità.
    Le parole dello Zio sfumano nell’aria. Per un istante diventano grida.

    Grida autentiche sono invece gli ultimi ordini del Capo.
    Di nuovo senza corrente. Ancora senza Operai. Quei Due Scalcagnati, in particolare.
    Chiaro che non sa del Bimbo Pestifero. Non vede il ramo spezzato. Immagina soltanto. E agisce. Raccoglie la rabbia e la mescola con l’ira e la frustrazione e l’isterismo, poi i suoi piedi lo portano alla festa.

    Festa che doveva avere un invitato in meno. Di genere femminile.
    Il ghigno ottuso dello Sposo non sfugge alla Sposa.
    «Che ci fa lei qui?» lo rimprovera.
    «Lei chi?»
    La Sposa indica Boccoli Biondi e scaglia una saetta dall’indice.
    «Ti ha dato un bacio!»
    «Sulla guancia» si giustifica lui, gli occhi annebbiati dal torpore.
    «È la tua ex!»
    «Non lo è mai stata!»
    «Nei tuoi sogni sì!»
    «Ma è tua sorella!»
    Il duello verbale si placa per un istante di attenta esaminazione reciproca. Di colpo riaffiorano ricordi che si credevano sepolti e sospetti sempre rinnegati. Gli occhi dello Sposo trasudano impaccio e ammirazione, quelli della Sposa bacilli di fiamme. Poi lui si ricompone.
    Lei no.
    «L’hai toccata!» grida, attirando sguardi e punti di domanda.
    «Per forza: mi ha fatto gli auguri!»

    Auguri, tanti auguri di serena sopravvivenza, sono il lascito delle Graziose Cameriere ai Due Scalcagnati Operai. C’è il Capo, nei paraggi, e il nirvana momentaneo evapora come l’aperitivo nei loro bicchieri.
    È un lampo di razionalità, afferrato per sbaglio in un’atmosfera brilla e compiacente.
    Si dirigono al cantiere, i Due Scalcagnati Operai, ma promettono di ritornare. Come omaggio alle signore, lasciano un’impronta di intonaco su uno sfizioso bocconcino.

    “Bocconcino” è l’unico commento che esce dalla bocca del Capo per adulare Boccoli Biondi. Poi un fischio, che sigla il suo apprezzamento. Uno sguardo d’intesa, che scivola via su grossi muscoli oliati da una giornata di lavoro cocente.
    Ma è soltanto un istante di pausa dal furore costante dell’ultima ora. Capo chino e petto in fuori, il Capo mette da parte il fascino e si dirige come una mandria di buoi verso Papà. Vuole spiegazioni, scuse e magari un naso da rompere.
    Non vede l’esile figura dello Zio che, in cerca di orecchie disponibili al suo racconto, gli taglia la strada. Lo travolge, senza ripensamenti. Inflessibile come un temporale.

    Temporale che si fa sentire in lontananza. Tuoni. Brontolii. I Due Scalcagnati Operai lo ignorano. Le orecchie foderate di parole ammiccanti e gli occhi annebbiati di curve sinuose.
    Mentre il buio invade il cantiere, riordinano il materiale. Raccolgono gli attrezzi. Barcollano. Trovano il ramo spezzato. Lo gettano di lato. Notano le spine staccate. Le attaccano. Sfidano il martello pneumatico che si è acceso da solo. Perdono. Lo insultano. Vacillano. Lo lasciano perdere.
    Quando decidono che è finito il turno, non vedono, non sentono, non percepiscono il potente strumento del Capo mentre aggredisce una colonna. Non rilevano la crepa che si apre sul pavimento.
    Si limitano a farsi comandare dall’alcol e a cadere.

    Cadere è il risultato ottenuto dopo una spinta vivace del Bimbo Pestifero – una marachella innocente che gli costa sgradevoli impronte di scarpe sui pantaloni.
    Soffocare è l’effetto di un ostacolo inaspettato come Boccoli Biondi. Aggrappato al décolleté della donna, il mondo si tinge di rosa e profuma di fragranze sognanti.
    Chiudere gli occhi e assaporare il ricordo di un amore passato, giovanile, stupido, è tutto quello che non deve fare.
    Lo Sposo, invece, lo fa.

    «Fa...» dice il Capo, ma parlare non è di certo la sua volontà primaria. Ora che Papà è davanti a lui, preferirebbe trovare un’intesa rapportando le sue nocche contro gli zigomi del vecchio. Ma quando nota le luci accese, la rabbia gli evapora dalle narici.

    Narici che emettono fumo come quelle di un diavolo ruggente, ecco l’immagine attuale della Sposa.
    Frammenti di logica le suggeriscono che non può essere quello il motivo di tutto. Che ci sarà un malinteso. Che a nulla serve pensarla in questa maniera, visto che...
    No, questo è troppo. Il sorriso ebete dello Sposo è uno specchio delle sue intenzioni.
    E allora tre passi che si trasformano in corsa, due mani che diventano pugni, una letizia che muta in paura, e Boccoli Biondi è a terra.

    Terra che trema, terra che romba. Vibrazioni che fluttuano, attraverso tunnel invisibili. Scosse che si propagano, come echi rabbiosi senza direzione. Filtrazioni di rumore che stimolano pulsioni reattive primitive. Onde sonore che si propagano, che lasciano il cantiere e si intrufolano in Villa Marchesi.
    E spiriti irrequieti che vengono punti.

    Di punti ne serviranno molti a Boccoli Biondi. Il sangue le ricopre i capelli e la Sposa le ricopre il corpo. E poi è un coagulo di schiaffi e unghiate e morsi e cucchiai e forchette e occhi storditi e mani aliene che si intromettono.
    «Puttana!» grida. Poi si volta verso lo Sposo. «Bastardo!»
    Lui, stordito, non risponde.
    «Lei!» riprende la Sposa. «Sempre e solo lei, hai voluto, di’ la verità!» Continua a vomitare la sua furia matrimoniale, ma a zittirla ci pensa un tuono, improvviso messaggero di un temporale imminente.

    Imminente è l’accompagnamento sonoro degli Amici Musicanti, ma hanno pupille che galleggiano nell’alcol e cervelli foderati di stuzzichini. Quando accendono l’impianto, accendono il buio.

    «Buio!» esclama finalmente lo Zio. Disperato, si frappone tra i due gladiatori. «Buio!»
    «Cosa?» chiede Papà.
    «Li ho visti, nel buio!»
    «Cosa?» brontola il Capo
    «Nel buio, là sotto!»
    «Cosa?» ribattono insieme i due maschi dominanti.
    «I Topi!»

    Topi che si riversano, come acque in tempesta, lungo le intercapedini delle pareti. Topi che calpestano, come eserciti in marcia. Topi che cancellano, come magma invincibile. Topi che abbandonano le cantine di Villa Marchesi. Topi che trovano un’uscita, un varco, un passaggio insperato. Topi che attraversano lo specchio. Topi che fuoriescono da un buco.
    Nei pressi di un lavandino staccato.
    Che penzola inerme.

    Inerme è la gru, in balia del vento. Traballa, come in bilico su un burrone, il vuoto che la attende con calore.
    Inerme è il carico di travi che trattiene coraggiosamente. Oscilla, come un pendolo inarrestabile, che cronometra il tempo mancante.
    Inerme è il cantiere. Vuoto, come una discoteca la domenica mattina. A parte due figure rannicchiate, in disparte, che tentano di sopravvivere.

    Sopravvivere è una faccenda tosta, per Boccoli Biondi. In fuga dal dolore e dalla vergogna, pensa di trovare sollievo e accoglienza nel buio della sera burrascosa. La brezza sostenuta del temporale estivo le asciuga le lacrime vermiglie, ma non è sufficiente. Una donna ha bisogno di una sola cosa, dopo aver pianto.
    Uno specchio.
    Quando Boccoli Biondi apre la porta della toilette, un fiume di peli e code e zampe scorre tra i suoi piedi. Prima di gridare, prima di correre, prima di strapparsi i capelli, salta, Boccoli Biondi. E poi cade.

    Cade anche la prima goccia di pioggia. Singola. Isolata. Innocua. Risuona nella festa come un colpo di tosse in chiesa. Amici e parenti e conoscenti che si osservano perplessi, cercando di ritagliare figure fidate nell’oscurità, l’accolgono con speranza purificatrice. Sospiri ridondanti e sudore e pianti creano un silenzioso accompagnamento sonoro.
    Il senso di attesa si fa insostenibile. Poi i cieli si spalancano, e il temporale si abbatte sulla folla, cancellandola.

    Cancellare l’immagine di un marito fragile, bugiardo e traditore, ecco il desiderio della Sposa.
    Lo guarda.
    «Non è come pensi» dice lui. Attende. Trema. Suda. «Certo, sarebbe molto più facile se tu mi parlassi e mi dicessi a cosa stai pensando.»
    «Hai fatto la corte a me solo per... lei?»
    Inutile mentire. «All’inizio... sì... vedi... io ero cotto di tua sorella, ma lei non mi vedeva... e non sapevo come avvicinarmi... e tu eri così gentile... e poi lei si è trasferita... e siamo rimasti tu e io...»
    «Siamo stati proprio noi due, tu e io, a far nascere la nostra storia! Cinque anni. Cinque! E questo è il nostro matrimonio!» Una lacrima. Una soltanto. «Perché?»
    «Perché speravo che tua sorella tornasse.»

    «Torna qui!» gridano al Bimbo Pestifero. Ma la curiosità è troppa. Irresistibile.
    Li ha visti, i Topi, eccome se li ha visti. Tanti così. Una marea.
    Lo dice. Lo urla a tutti. Ma non è sua la voce che sente. Sono quelle di Papà e del Capo che gridano: «Topi... Topi! Topi!»

    Topi implacabili, che macinano metri e si abbuffano di buio.
    Topi che scatenano isterismi vocali e reazioni impulsive prive di controllo.
    Topi che divorano la pioggia, chiedendone ancora, di più.
    Topi che assaggiano gli strumenti degli Amici Musicanti.
    Topi che trasformano le Graziose Cameriere in Ululanti Bocche Contorte.
    Topi che che scaldano le corde vocali dello Zio come mai prima d’ora.

    Ora si può dire che la festa è ricominciata. Peccato per la pioggia, che ostacola e rallenta e, più che altro, infradicia ogni strategia di fuga. Si corre, si salta, si rotola, si striscia, e si prega e si implora, e si tace e si trattiene il respiro, e si resta anche immobili, pietrificati dalla sorpresa, mentre il diluvio scrosciante cerca di lavar via le indecisioni.

    Indecisioni che dividono il futuro prossimo dello Sposo.
    Da una parte l’amore odierno della Sposa, quello superficiale utile allo scopo, tramutato in affetto inevitabile date le circostanze. Dall’altra l’amore eterno di Boccoli Biondi, quello profondo e sincero, anche se mai ricambiato.
    In mezzo, i Topi, ancora lontani da lui e dal suo cuore frantumato.
    La Sposa, rannicchiata su stessa, indifferente alla piaga biblica piombata su Villa Marini.
    Boccoli Biondi, che naviga la flotta animale su un trono di code.
    Aggrappato a una colonna di fortuna, lo Sposo pensa. Fino a quando lo Zio gli passa accanto, lo prende con sé e gli impone un ordine.

    Ordine che, per certi versi, si impossessa della folla urlante, mentre si dirige inevitabilmente verso l’enorme cancello d’entrata. È uno sciame composto, definito, con una meta ben chiara e, come fonte inesauribile di autoalimentazione, punti luminosi che incendiano la burrasca: occhi.

    Occhi decisi, fermi. «Salva le ragazze!» esclama lo Zio. «Tutte e due.»
    E allo Sposo il futuro ora appare chiaro. Si risolverà tutto. Ovviamente. È pur sempre una storia d’amore, questa. Annuisce, lascia la sua postazione sicura, percorre metri ancora vergini al passaggio dei Topi e si trascina dalla Sposa. Viene cacciato con un lungo mugolio di silenzio e collera repressa e tremenda delusione.
    Prova allora con Boccoli Biondi, sbalzata accanto a un grosso pino. Porge un bacio, poi un braccio, quindi una mano e infine un sorriso. Viene allontanato in maniera più consistente: calci.
    Tornare dallo Zio brucia come un dito sulla stufa. «Non mi vogliono.»
    Lo Zio osserva la scena, sospira, prende lo Sposo e si fonde con la folla ululante. Grida: «Mi sembra il minimo.»

    Minimo è lo sforzo del Capo mentre solleva Boccoli Biondi.
    «Ti salvo io, baby» dice. In cambio riceve un abbraccio. Uno di quelli per i quali lo Sposo sarebbe in grado di mettere in piedi un matrimonio finto e, per giunta, rovinarlo.
    Più affatico è Papà mentre si carica la Sposa sulle spalle. Barcolla. Indietreggia. Stringe i denti. Resiste.
    «Eri più leggera l’ultima volta che ti ho preso in braccio» mugugna.
    Aspettano il momento opportuno, poi sono atomi dell’organismo in fuga.

    Fuga che si interrompe, sul valico del cancello. È un secondo. Una fulminea analisi della situazione. Una logica che colleghi il vento sferzante e la gru priva di controllo. Quando la funzione si risolve, il gruppo riprende la marcia e, come clemenza divina inaspettata, la tempesta scuote definitivamente l’argano solo quando l’ultimo invitato ha lasciato Villa Marini.
    La gru oscilla e dondola e infine cade, una slavina di ruggine e bulloni, sul cancello della villa. Assieme alla cinta muraria invalicabile nega così l’uscita della curiosa mandria di Topi e, nel caso qualcuno ne avesse sentito la necessità, l’ingresso ai fuggitivi.
    Il temporale strepita la sua supremazia con schianti elettrici che illuminano lo sfondo, mentre squittii insistenti protestano per il divieto così repentino. I Topi saggiano la consistenza delle mura e del cumulo di ferro, tentano un approccio timido tra i pochi spazi, poi annusano la libertà di Villa Marini e tornano a correre senza meta.

    Meta irraggiungibile per lo Sposo, Boccoli Biondi giace svenuta sulle spalle del Capo. Lo Sposo li vede salire su un’auto che strombazza la propria fretta. Le altre formiche fradice fuggono dalla pandemia topesca munendosi di mezzi irrequieti e rumorosi.
    Un Bimbo Pestifero caricato a forza dai suoi genitori.
    Delle Graziose Cameriere che cercano coraggiosi cavalieri nel cantiere.
    Degli Amici Musicanti che sacrificano alla pioggia anni di sudati risparmi elettrici.
    Un Papà che, lasciata una figlia al nuovo proprietario, segue l’altra a bordo dell’auto del Capo.
    Restano gli sposi, incorniciati da un’alluvione che, solo ora, promette prossimi schiarimenti.

    Schiarimenti impossibili, è palese, nel futuro amoroso dei due sposi.
    Lui guarda lei, implorante, conscio che, dicendo la verità, ha fatto l’errore che distruggerà la sua vita.
    Lei guarda lui, indifferente, conscia che, affrontando la realtà, ha evitato l’errore che avrebbe potuto distruggere la sua vita.
    Forse.
    «Ehm» dice lo Sposo. La luce lunare filtra dalle nubi e modella i suoi abiti bagnati su un corpo cedevole. Deve provare, deve cercare, deve rimediare alla colpa. Una macchina del tempo o un avvocato sarebbero utilissimi. Ma mentre aspetta l’invenzione della prima o l’arrivo fulmineo del secondo, balbetta e inciampa e si schiarisce la gola. «Il sole» riesce a dire infine, additando i raggi lucenti. «Cioè, la luna.»
    «La vedo.»
    «È come un...» Lo Sposo le dice che è un segno, un perdono ultraterreno, una benedizione celeste sulla loro unione. Dice che è un incoraggiamento divino. Dice che è l’unica strada da prendere. Che è stato uno sbaglio. Che ha capito. Che cambierà. Dice questo e molto altro. Gesticolando. Le parole sono bloccate nella gola, tutte ammucchiate.
    «Certo» risponde lei. Poi sale sulla Cinquecento appositamente noleggiata, smonta, si strappa lo strascico troppo voluminoso, sale e accende il bolide. Spasmi di fumo e tintinnii di lattine salutano lo Sposo.
    E lì, accigliato sul sentiero melmoso, piange la sua pochezza.
    «Non abbatterti» lo consola lo Zio, unico superstite pronto a soccorrerlo. «Guarda me.»
    Lo Sposo lo guarda.
    «Soli si sta meglio.»
    Lo Sposo si dispera.
    «Vuoi parlarne?»
    Lo Sposo ulula alla luna il suo dolore.
    La luna conferisce un aspetto particolare al contesto. Le nubi che si allontanano, la polvere sollevata dalla caduta della gru che disegna figure curiose nell’aria, il nuovo stato di Villa Marini sullo sfondo.
    Nonostante lo sfavore sentimentale, si potrebbe immortale la scena in una fotografia.
     
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  2. bravecharlie
     
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    letto. a livello contenutistico è divertente, anche se un po' caotico. forse ci son troppi personaggi, descritti in maniera non proprio originale (sembrano un po' macchiette), e in più non si capisce bene dove vuoi andare a parare (mi aspettavo, a un certo punto, una parodia de "i topi nel muro" di Lovecraft ma se l'intento era questo non l'ho colto). L'invasione dei topi non mi è sembrata quasi per nulla funzionale allo svilupparsi degli eventi, anzi si ha l'impressione che le cose sarebbero andate così anche senza di loro (mi riferisco agli sposi che si lasciano, alla biondona che va via col capo, ecc.) perché le premesse si erano instaurate già prima dell'irruzione dei roditori.

    A livello formale, la scelta di far iniziare ogni trafiletto con la parola con cui finisce il precedenze è simpatica, ma alla lunga crea un effetto-ridondanza sinceramente un po' fastidioso. in un racconto più breve forse non si sarebbe notato, qui un po' l'ho avvertito. Inoltre ho notato un eccesso di aggettivi, frasi coordinate e polisindeti che rendono i periodi un po' "indigesti" a volte.

    altrove lo stile pare un po' troppo barocco, come qui:

    CITAZIONE
    La strada per la toilette è un trampolino per ovvi ammicamenti e dita curiose, che aumentano progressivamente fino a sfociare in un torpido bacio, celato da mure opportune, costruite nel posto giusto

    qui ci son due aggettivi ripetuti:

    «
    CITAZIONE
    Io.» Il Capo si gratta la testa e una pioggia di polvere firma il vestito di Papà, che si sbraccia, furibondo.
    «Cos’è... questo?» Papà è furibondo

    fatto, compare. se era un esperimento sinceramente ti preferisco in versione originale :sisi: , quaando vai dritto sparato al punto, senza fronzoli e con idee che quasi sempre sono genialate. spero di esserti stato in qualche modo utile, alla prossima :)
     
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  3. silente2.0
     
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    Tencs. :)
    Sì, sto provando un po' di cose nuove, così, per mantenermi in forma. :D

    Per il resto, concordo su tutto quello che segnali. Di fondo erano gli stessi punti che rendevano perplesso anche me. :)
     
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  4. Paolo_DP77
     
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    Bello, mi è piaciuto. Un vero spasso, direi. E ci sono i topi ;)

    CITAZIONE
    Feedbackatemi e vi ricompenserò con ricchi premi e cotillons.

    Ok, mi hai convinto. Ti mando il mio indirizzo in PM. Un cinque chili di olive ascolane può andare. :)

    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Parlare è l’unico desiderio dello Zio. Un flusso incontrollabile, una parola dopo l’altra, non necessariamente dotate di un filo coerente che le colleghi. Parlare. Conversare. Strepitare. La sua più grande aspirazione.
    Ma non ne è capace, lo Zio.

    Non mi sembra funzioni a dovere questa "controdefinizione". Meglio essere più diretti nel dire quello che lo zio è e quello che vorrebbe essere.

    CITAZIONE
    Sfidano il martello pneumatico che si è acceso da solo. Perdono. Lo insultano. Vacillano. Lo lasciano perdere.

    non mi convince, credo che questi aggeggi abbiano una doppia impugnatura di sicurezza, se non vengono afferrati con entrambe le mani non si accendono. E' pratica comune attaccare una delle due con il nastro adesivo, tanto per aumentare i rischi. O potrebbe essere difettoso, però questa cosa andrebbe detta. Anche in questo caso potrebbero semplicemente staccare la spina, però magari troppo tardi.

    CITAZIONE
    Inutile mentire. «All’inizio... sì... vedi... io ero cotto di tua sorella, ma lei non mi vedeva... e non sapevo come avvicinarmi... e tu eri così gentile... e poi lei si è trasferita... e siamo rimasti tu e io...»

    Mh, invece anche se fosse oggettivamente inutile mentire, qui ci vedrei di più una linea del tipo: "negare l'evidenza", da parte dello sposo, che magari si fa cmq scappare la "frase sbagliata". E ci sono decisamente troppi puntini. :)

    CITAZIONE
    Più affatico è Papà

    affaticato

    CITAZIONE
    poi sono atomi dell’organismo in fuga

    cellule?

    CITAZIONE
    Lui guarda lei, implorante [...] Lei guarda lui, indifferente

    Lo so che è voluto, però non mi piace, da un punto di vista sonoro. Per mantenre il parallelo di espressioni: "Lui guarda lei, la implora [...] Lei guarda lui, lo ignora".
    In generale c'è una certa abbondanza di aggettivi e avverbi. Il linguaggio rende un po' la ridondanza della festa matrimoniale, per cui secondo me ci può anche stare in una certa misura. Il registro dovrebbe cambiare un poco nelle scene al cantiere, magari, non so.

    I raccordi tra i cambi di scena sono simpatici, mi piacciono, però sono un po' troppi. Sceglili bene. A me alcuni sembrano superflui, ad esempio:
    CITAZIONE
    Aspettano il momento opportuno, poi sono atomi dell’organismo in fuga.//Fuga che si interrompe

    La scena è più o meno sempre quella. Quando invece raccordi due scene diverse, la cosa ha un effetto decisamente migliore.


    ciao
     
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  5. silente2.0
     
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    Grazie, Paolo!
    Dritte preziosissime, le tue! :)
     
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4 replies since 2/3/2009, 12:59   76 views
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