[USAM Showdown 2010] Madre, Patria
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[USAM Showdown 2010] Madre, Patria

di G.Vanderban 38.6K

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    SPOILER (click to view)
    Ciao a tutti! ho rielaborato il primo racconto postato per l'edizione passata di USAM (era la XIII). L'ho rivisto pesantemente, rimanendo fedele alla traccia portante. L'ho finito con il fiatone, quindi non so bene come sia venuto, ma mi andava di rispolverare un racconto a cui tengo molto dandogli una visione differente. L'originale è qui: https://xii.forumfree.it/?t=38131277

    Madre, Patria



    — Allora? Saputo niente?
    Il tono della ragazza è fin troppo apprensivo, poggia il vassoio sul tavolo e si avvicina alla macchina.
    — Erano stranieri, quasi di sicuro Rumeni.
    Oltre alla risposta, dal finestrino spunta una massa di capelli ricci e neri, la faccia compiaciuta è imperlata da un sorriso ebete.
    — Uno l’hanno preso. Mi sa che l’ingegnere l’ha impallinato come si deve.
    — Che dici? non ci sarà mica scappato il morto?
    Lei si porta le mani alla bocca quasi volesse ammutolire l’ultima parola.
    — Magari! — ribatte il ragazzo allargando il ghigno. — Però il vecchio non c'ha tutta 'sta gran mira. Io ho solo visto l'ambulanza che portava via qualcuno e...
    Il ragazzo non fa in tempo a finire la frase: l’amico alla guida della Tigra sgomma via e lui per lo strattone va quasi a sbattere la tempia contro il montante dello sportello.
    Daniela rimane sul margine del marciapiede, accanto ai clienti seduti ai tavolini del bar. Ha scorto anche lei il lampeggiante blu all’ingresso del paese. In un battibaleno la Ford con la fiancata fiammeggiante è già in fondo al viale, i due reporter d’assalto si faranno un altro giro e torneranno per l’aggiornamento; un’agenzia Ansa su quattro ruote, rapida ed efficiente.
    Da quando si è diffusa la voce di un furto e una sparatoria Daniela continua a pensare a Nico. Un presentimento la tiene in ansia. Riflette ad alta voce, per convincersi: No, non può essere, lui non c'entra niente con questa storia.
    Ne è sicura, Nicolae certe cose non le farebbe mai, anche se è uno di loro. Però, pensandoci meglio, è tutto il giorno che non si fa vedere.
    La ragazza guarda verso il bancone, Toni è lì che sistema le tazzine, un lavoro che dovrebbe fare lei, sarà per questo che la sua espressione è più scura del solito. Rientra con la speranza che il ragazzo si faccia vivo al più presto; ogni giorno che passa ci tiene sempre di più a Nicolae. Ormai in paese per tutti è Nico, non solo per lei. Lo chiamano così gli amici di bevute, il benzinaio all’angolo e la ragioniera della sua ditta quando il quindici del mese gli consegna la busta con i soldi. Nonostante la normale diffidenza, con il tempo si è capito che è uno di quelli venuti per rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Dapprincipio non è stato facile, a Daniela glielo ha raccontato Nico nei momenti in cui era in vena di confidenze.
    Pure lei ha aspettato un po' prima di farci amicizia. All'inizio, quando non lo conosceva, lo serviva in fretta, infastidita dalle occhiate verso le sue tette. Ora il suo sguardo le fa piacere e lo ricambia soffermandosi sui bicipiti in bella mostra mentre gli passa la tazzina di caffè, lungo quanto il suo sorriso.
    Le ripete spesso che somiglia a Ilary Blasi, e lui vorrebbe essere il suo Totti. Ogni volta che ripensa a quella battuta si mette a ridere, ma non stavolta. Ha paura che si possa essere cacciato in qualche guaio.
    A lui ci tiene davvero, è diventato una persona speciale e non solo perché lo trova carino. In effetti Nico è un bel ragazzo: fisico asciutto, spalle robuste, gli occhi di un azzurro intenso; ma il viso gentile, da ragazzino con il rossore sulle gote, inganna. Una volta lo ha visto infuriarsi: i suoi lineamenti si erano trasfigurati, i suoi occhi parevano ingrigiti, avrebbe spaccato il mondo intero. Ce l'aveva con un tipo venuto da fuori, un vecchio parente, forse. Lei aveva cercato di calmarlo, lui però era fuori di senno. Nonostante sgobbasse nei cantieri come manovale sei volte a settimana, la sua forza sembra centuplicarsi quando s’arrabbia sul serio.
    Daniela scaccia i pensieri bui e si rimette dietro al bancone, Toni è lì accanto, a darci dentro con il cestello della lavastoviglie e con i borbottii:
    — Da non crederci, fino a stamattina regnava una pace e una tranquillità da far invidia al camposanto. E stasera il finimondo. Pare sempre di stare al cimitero, ma il due di Novembre. Porca puttana, ‘sta storia non ci voleva. Non si riesce mai a mandarla dritta.
    Daniela lo guarda, non può essergli di conforto e allora se ne sta zitta. In effetti il suo principale si è sempre impegnato per evitare discussioni fra i compaesani e gli immigrati, un compito non facile in questi tempi. A lui conviene, certo, ci fa i soldi. Lei che ci combatte tutti i giorni deve ammettere che gli stranieri sono gente strana. Se ne stanno ore intere, feste comprese, nella confusione delle macchinette mangia soldi, a bere birra e aspre sorsate di “palinca”, una bomba fatta apposta per stordire i ricordi della loro terra.
    Anche Nico passa il tempo in questo modo: nei tavolini del bar, a intrecciare risate e storie di quando vivevano là, in Madrepatria. Per loro nulla cambia fra le sere o le domeniche mattina, quando il sole sostituisce il lampione e da rapaci si trasformano in rettili sonnacchiosi, pronti a bersi i primi raggi e l’ennesima Ceres, quando ancora devono evaporare i fumi di alcol della notte precedente. Sembrano cenci stesi all’aria, ad asciugare, in attesa di una ventata di novità che non arriva mai.
    Il padre di Daniela dice che sono zingari dentro case in affitto, cuori di pietra e gambe d’argilla. Lui lavora per il sindacato e di storie sugli immigrati ne ha sentite molte, non tutti sono dei ladri o dei bugiardi, dice sempre che a parte i chilometri fatti per arrivare fino a noi, di strada in Italia non ne faranno mai.
    Lei certe cose non le capisce, ha lasciato presto la scuola per lavorare: il mondo e il paese in cui vive coincidono troppo spesso. Per scoprire che la Romania non è proprio dietro l’angolo si è andata a riguardare l'atlante. Osservando la cartina d’Europa ha rivisto il viaggio di Nico, così come di molti altri, buoni o cattivi; una sola via per arrivare, due per sopravvivere: sgobbare o rubare. Nei momenti di sconforto, il ragazzo si sfogava:
    — Che ci sono venuto a fare in Italia? A ubriacarmi con la stessa schifezza di quando stavo a casa mia? Tanto valeva essere rimasto là, avrei risparmiato chilometri e insulti.
    Eppure, due o tre bicchieri di palinca buttati giù uno dietro l’altro, bastano per gettarsi dietro le spalle il malessere del giorno. L’intruglio, a prova di fegato, passa in un batter d’occhio dal portabagagli ai loro stomaci. Nella piazza davanti al bar, la domenica mattina, li vede i furgoni con la targa straniera, fermarsi il giusto tempo per scaricare le bottiglie, sistemare i pacchi da spedire ai parenti, pronti a ripartire per il viaggio contrario portandosi via l’odore pungente di prugne macerate nell’alcool.
    Daniela batte con forza sul ripiano il manico del filtro, dà due colpi decisi alla manovella della macinatrice dei chicchi di caffè e si ripete l’unica domanda della sera:
    — Che fine ha fatto Nico?

    ******

    — Attento, stronzo!
    La macchina sfreccia a un palmo dai piedi di Vito: non ha fatto neanche in tempo a mettere il naso fuori dalla porta e già si deve incazzare. I soliti coglioni che tirano a manetta le loro macchine modificate, più adatte per scorrazzare giù all’autodromo anziché in paese.
    — La prossima volta l'erba te la faccio pagare il doppio — fa Vito, riconoscendo l'auto.
    Quando arriva al bar gli scappa una domanda: Che succede stasera?
    Capisce al volo che è capitato qualcosa di grave. Il tipo accanto all’ingresso, uno stronzo con cui aveva discusso per via di una dose pagata in ritardo, lo guarda con più disprezzo del solito.
    Rimane sul marciapiede e dal vetro dà un’occhiata all’interno, verso il bancone. Daniela e Toni se ne stanno muti, come pesci in un acquario illuminato a giorno; sembrano tutti e due molto nervosi. Finalmente la ragazza si accorge che la sta fissando, dice una parola all’uomo e poi esce per andargli incontro.
    — Dove diavolo si è cacciato Nico? — fa lei, senza neanche salutarlo. Lo prende per un braccio e lo trascina da una parte per poterci parlare a quattrocchi.
    — Nico? Non so, è tutto il giorno che non c’è. Dal lavoro non è venuto. Perché, non è al bar?
    — No, che non c’è...
    Adesso Daniela inizia a preoccuparsi davvero. Vito è preso alla sprovvista dal tono della ragazza, forse perché ha dormito tutto il pomeriggio e per cena si è finito l’ultimo tocco di fumo.
    — Ma cosa cazzo è successo?
    — Non sai niente?
    — No.
    — Hanno rubato giù in villa. Dicono che l’Ingegnere ha sparato ai ladri, forse c’è scappato il morto.
    Vito rimane di sasso. Ci vuol poco per ricollegare ogni cosa: la villa dell’ingegnere, i discorsi di Nico, il bastardo di Tamas che riappare in giro dopo secoli. Il suo è più di un presentimento.
    — Quel figlio di puttana di Tamas...
    Daniela lo guarda, la sua faccia sembra ancora più preoccupata.
    — Chi diavolo è Tamas? — fa lei.
    Vito scuote la testa.
    — È un bastardo... Senti ora vado a vedere dove è Nico. Non ti ha detto dove stava al lavoro in questi giorni?
    — No, perché? Mi aveva detto in un casale qui vicino...
    — Niente, forse so cosa fatto lui.
    — Vito, ti prego, non farmi stare in pena. Che diavolo sta combinando Nico? Ti prego, dimmelo.
    — Non so, Daniela, io non so, mi spiace. Tu stai tranquilla, Nico è bravo ragazzo, non come me. Lo sai. Ora però vado e ritorno a dirti tutto. Ciao.
    Vito ha faticato a nasconderle l’ansia che gli cresceva dentro: Tamas. Il colpevole è senz’altro lui. Avrebbe voluto dirgli come quell'avanzo di galera aveva cambiato la vita sua e di Nicolae. In bene e in male.

    Prima di conoscerlo, ai tempi in cui vivevano dalle parti di Timisoara, lui e Nico si guadagnavano il pane con il contrabbando e qualche furto, se gli andava bene della stessa merce consegnata. Le notti le trascorrevano nella decrepita caserma della Securitate, dismessa dopo la caduta del regime. Sonni non certo riposanti, fatti a occhi chiusi e mente sveglia a catturare il minimo scricchiolio sospetto.
    Conobbero Tamas un pomeriggio, all’osteria; si era presentato spacciandosi per Ungherese. Lui e Nico si stavano facendo un bicchiere dopo aver scaricato quattro casse di vino nel retrobottega quando il tizio, seduto al tavolo accanto alla cucina, aveva attaccato bottone. In ultimo se ne era uscito fuori con una proposta:
    — Venite con me in Italia. Ci sono un sacco di possibilità per fare soldi, di quelli veri. Non fate i fessi, basta un niente e la vostra vita cambierà da così, a così — promise, rovesciando la mano a mostrargli il palmo, per poi offrirgliela in una stretta.
    — Approfittatene. Il destino vi sta servendo un passaggio da prendere al volo. Domani trovatevi qui alle tre, pronti per partire.
    Lui e Nico si erano guardati in silenzio. Dopotutto che avevano da perdere? La ricchezza bisognava andarsela a prendere dove stava, il tipo aveva ragione.
    All’appuntamento Tamas non era stato affatto puntuale. Se ne stavano per andare via: diffidavano del tipo, una faccia poco raccomandabile. Oltretutto la sera prima si erano presi una sbronza colossale e la testa ancora gli doleva. Invece la macchina era arrivata sul serio, con un’ora di ritardo, ma era arrivata giusto in tempo per non fargli salire in gola i dubbi.
    — Scansate gli scatoloni e metteteli uno sull’altro. Forza, che si parte!
    Prima di avviarsi avevano cercato di trovare una sistemazione decente, senza riuscirci. Se ne stavano silenziosi, non solo a causa della scomodità dell’auto, stipata all’inverosimile. Buona parte del viaggio lo fecero con il gomito e la spalla puntati contro i cartoni di bottiglie “Ursus”, la regina fra le bionde; si misero uno di qua e uno di là, per rendere stabile il tutto.
    Mentre la macchina macinava chilometri il timore più immediato era che gli cadesse addosso la pila di scatole; l’altro, non meno pressante, era la destinazione finale del viaggio. Ci vollero una notte e un giorno per attraversare mezza Europa. Il cartone in cima agli altri, ormai vuoto, lo buttarono fuori dal finestrino appena superata la dogana con l’Italia, dopo che era filato tutto liscio. Il poliziotto, alquanto assonnato, aveva rigirato in tutti i versi i documenti prima di riconsegnarglieli. Sembravano in regola, ma in effetti non lo erano. Dal finestrino di dietro Vito osservava inquieto il movimento delle mani dell’Italiano, fino a quando con un cenno del capo non gli diede il permesso di andare. Appena ripartiti, Tamàs si era messo a ridere.
    — Strappa un altro cartone, che mi si è fatta sete, dobbiamo festeggiare, alla faccia loro!
    Si era scolato un’altra birra in due secondi. All'ennesima, smanettando sul cambio, con la bottiglia d’impiccio, aveva lanciato una bestemmia perché se l’era rovesciata sui pantaloni. Per via della sbandata, dovettero usare tutte e quattro le mani per non far cadere i cartoni. Dopo l’ultimo fuori programma il viaggio era proseguito in modo più confortevole. Erano riusciti perfino a mettersi comodi, ma restavano vigili, pungolati oltre che dagli angoli delle scatole, premuti sui fianchi, anche dal pensiero di come avrebbero dovuto ripagare il piacere. Tutto aveva un prezzo: per Tamàs, l’ungherese, era un “lavoretto” al mese.
    Vito lo sapeva bene, fino a quando quel rotto in culo non si era trovato di meglio da fare, aveva pensato lui a tenerlo buono. Nicolae aveva scelto di andare a lavorare in cantiere, di droga non ne voleva sapere.
    — È roba sporca — diceva. — E di roba sporca ne ho piene le tasche.
    Così, c’aveva pensato lui a saldare il debito. Almeno questo credeva Vito, fino a quando non era scappata fuori la storia del furto in villa.

    ******

    — Ma tu guarda ‘sto stronzo, non c’ha proprio un cazzo da fare.
    La voce dell’autista sembra voler richiamare l’attenzione del Maresciallo Colaianni, lui si solleva sui talloni e si volta a guardare dalla feritoia del vetro opacizzato: i fari azzurrini di un’auto spiccano nel buio della strada.
    — È quel buono a nulla di Sansovino, riconosco la macchina. Tutto il giorno in giro con il suo bolide. Non c’ha proprio niente di meglio da fare. La prossima volta che sto di pattuglia lo fermo e gli faccio passare la voglia di andare su e giù per il paese a mille all’ora.
    — Fortuna che siamo arrivati. Come va di là?
    Il tipo alla guida dell’ambulanza tiene alto il tono della voce per farsi sentire dal dottore.
    — Per il momento è tranquillo, gli ho dato un sedativo.
    Il medico rassicura l’autista. Dà un’altra occhiata al ragazzo: se ne sta immobile, mugugnando inquieto la solita parola: — Mama...
    L’ambulanza svolta verso il pronto soccorso, l’auto continua a seguirli. Colaianni la vede accostare al di là della sbarra rimasta alzata.
    Il maresciallo dei carabinieri salta giù e si sposta di lato per far sfilar via la barella. Vorrebbe proprio andare verso l’Opel Tigra, però non può allontanarsi dal ferito. Ma sa anche che nelle condizioni in cui si trova non potrebbe andare da nessuna parte. Uno dei due bulletti è sceso dalla macchina, è allegro come se piovessero banconote da cinquanta euro. Sarà che a lui gli è andata per traverso la cena, e non gli viene certo da ridere, anzi, è incazzato nero.
    — Dottore, vado a dire due paroline a quei simpaticoni, arrivo subito. Tanto il tipo non scappa di sicuro.
    Il capellone con la faccia da scemo, in piedi e con il gomito poggiato sopra lo sportello aperto, lo conosce bene. Lavora all’officina della Renault, lo vede ogni volta che va a fare il tagliando. Avrebbe da dirgliene, ma non sa se ne vale la pena, potrebbe vendicarsi al momento del cambio dell’olio. Il Maresciallo rallenta il passo e si ferma a due metri dal cofano su cui spicca l’adesivo di un’aquila pronta a ghermire una preda.
    — Allora, che vogliamo fare stasera? Lo sapete che non si corre appresso a un’ambulanza?
    — Marescià, mica volevamo fare niente di male, solo vedere chi stavano portando via. È uno della zona?
    — Non posso certo darle a voi certe informazioni, sono cose delicate. Su forza, sgombrate l’ingresso, questo è un ospedale, non stiamo al cinema.
    — E su maresciallo, ci dica a chi hanno sparato: è uno di quei Rumeni, vero?
    — Allora non ci capiamo. Vi ho detto che ve ne dovete stare buoni. Tornate in paese, chiaro?
    — Dai Marcè, salta su che so io dove dobbiamo andare.
    L’autista ha pure la faccia tosta di guardare storto il carabiniere.
    La Tigra parte a razzo, il Maresciallo si segna in testa il numero di targa, neanche fosse così difficile risalire a loro. Tanto non vale la pena, non potrà fargli niente a quei due buoni a nulla.
    Osserva la macchina che scompare in direzione del paese, poi s’avvia verso il pronto soccorso. Lo aspetta una lunga notte. Ha una sola richiesta, tanto per sollevarsi un po’: Speriamo che il Brigadiere Apicella si ricordi di portare il thermos pieno di caffè.

    *******

    L’Ingegnere se ne sta adagiato sul dondolo del giardino, un plaid buttato sulle spalle, gli hanno detto di starsene lì per non inquinare le prove, appena possibile sarebbero potuti rientrare. Si volta indietro, la moglie è in piedi, qualche metro più in là, e sta parlando al telefono; i suoi capelli, di colore ramato e solitamente con la messa in piega fatta, sono scompigliati, assomiglia a un'attrice di un film spagnolo visto due sere fa alla Tivù. A chi li vedesse, più che vittime di un furto devono sembrare due superstiti di un terremoto.
    Il carabiniere, dopo aver raccomandato al capannello di gente davanti al cancello di tenersi alla larga, ritorna verso di lui, di certo vuole saperne di più su tutta la faccenda.
    — Mi scusi Ingegnere, immagino lo spavento e tutto il resto, però dovrebbe darmi qualche informazione. Capisca la situazione...
    — Faccia pure, ma lo ripeto: ho sparato per legittima difesa.
    — Sì, non si preoccupi, al momento non è questo l’importante, vogliamo capire in quanti erano e di che nazionalità. Capisco che rientrare a casa e trovarsi davanti a dei ladri non è uno scherzo. Mi sembra che stavate rientrando con la macchina. Dove eravate stati?
    — Dovevamo passare la serata in teatro, ma avevamo fatto tardi, l’opera era già iniziata e siamo dovuti ritornarcene via.
    — In casa era rimasta vuota nel frattempo o avete della servitù?
    — Be’ c’è Irina. Ma stasera aveva la serata libera.
    — Quindi, non c’era nessuno in villa?
    — No, nessuno.
    — Chi era a conoscenza di questa cosa?
    — Non saprei, i nostri amici... non so proprio chi altri, a parte Irina.
    — Va bene, mi dica come sono andate le cose: lei è rientrato in casa e cosa ha notato?
    — L’ingresso della villa era tutto sottosopra, c’erano due sacchi lasciati sul pavimento. Compreso al volo la situazione, ho fatto cenno a mia moglie di stare zitta e di rimanere di fuori.
    — È stato lei a chiamare il centododici?
    — No, mia moglie. Io, sentendo i rumori venire dal piano superiore, sono andato subito in studio a prendere la pistola. È tutto in regola, è registrata. Ho il porto d’armi.
    — Questo lo verificheremo, non si preoccupi. Dicevamo: lei ha sentito i rumori e anziché allontanarsi è salito al piano di sopra?
    — Non volevo che dei bastardi mettessero le mani sulla mie cose. Ci sono oggetti molto preziosi. Mia moglie è una collezionista d’arte.
    — Ha fatto un’imprudenza, lo sa questo?
    Il vecchio abbassa la testa, poi riprende il racconto, come volesse sviare dalle sue responsabilità.
    — Lo so, a mente fredda lo riconosco. Avrei fatto meglio a starmene buono, invece sono salito le scale e mi sono diretto in salotto, dove c’è la cassaforte. E lì ho visto il tipo. Ma il tutto è durato pochi secondi.
    — Che aspetto aveva l’uomo?
    — Era un ragazzo, giovane, ma di più non saprei dirvi, era in penombra e davanti a sé teneva in mano un quadro molto prezioso, un frammento di una pala del quattrocento, per essere precisi. Lì per lì ho preso paura, quello ha fatto un gesto e così ho sparato. Due colpi, uno dietro l'altro.
    — E sua moglie nel frattempo dov’era? Così per sapere, poi ascolteremo anche la sua testimonianza, ovviamente.
    — Deve avermi seguito, perché non appena ho premuto il grilletto ho sentito lei che gridava : “che cosa hai fatto!”.
    — Un ultima domanda: come mai l’antifurto non era collegato?
    — l’abbiamo dovuto scollegare per via dei lavori nel garage e...
    L’ingegnere scatta in piedi, come punto da uno spillone, la coperta ricade in terra.
    — Che mi venga un colpo — fa il vecchio, raccogliendo da terra il plaid.
    Con passo rapido taglia il vialetto d’ingresso, imbocca la piccola discesa accelerando il passo, quasi cadendo. Supera la jeep e si ferma davanti alla porta del garage. Osserva le pietre accatastate da una parte, in attesa di essere piazzate per completare il muretto ddi contenimento, poi esclama: — Il muratore! Quel gran figlio di puttana. È stato il ragazzo della ditta!
    Prende una pietra fra le più piccole e la scaglia contro la porta del garage. Il carabiniere gli si fa incontro per calmarlo, lui è accecato dalla rabbia. Inizia a urlare contro il colpevole di tutto quel casino. Il secondo militare dell'arma, lasciato a contenere la piccola folla, accorre per capire cosa sta succedendo, portandosi dietro anche la curiosità dei paesani.
    L’ingegnere continua a sbraitare, ormai anche i sassi hanno capito a chi sono rivolti i suoi insulti.


    ******

    — Dammi un Fernet, Toni. Che stasera è una serataccia.
    La Ford Tigra è tornata a rombare dopo aver lanciato in pasto al popolo l’ultima novità: roba grossa. Ernesto, a sentire quel nome, a momenti non gli prende un accidente. Guarda gli occhi della barista, la sua faccia vale più di tante chiacchiere. Solleva la coppola e si passa una mano sul liscio della pelata e abbassa lo sguardo ai piedi. Senza lasciarle il tempo di fare domande le spara addosso la realtà dei fatti:
    — Hanno portato Nicolae all'ospedale. L'ingegnere gli ha sparato, dice che è entrato in casa sua per rubare.
    Il piattino in mano a Daniela cade sulla pedana con un tonfo, balla un poco sul legno della pedana, così come le sue mani mentre lo raccoglie. Almeno non si è rotto, a differenza di qualcosa dentro di lei.
    — Ma cosa stai dicendo? Chi te l’ha detto?
    — Marcello, viene dalla villa, dice che l’ingegnere l’ha riconosciuto. Mi spiace Daniela, non so dirti altro. Nico era l'ultima persona al mondo da cui mi aspettassi una cosa simile. Non so proprio che dire.
    Gli viene da urlare a Ernesto. L’ha messo lui Nico a lavorare nella ditta. Non sa se è più grande il dispiacere o la paura di essere coinvolto. Ha lavorato insieme quasi un anno con Nicolae, è il suo capomastro, si era affezionato al ragazzo. Da due giorni stavano lavorando alla villa dell'ingegnere. Tutto si collega, adesso. Più facile del previsto la soluzione del mistero. Sì, se ci ripensa, Nico al lavoro era diventato insofferente.
    — Stamattina Nico non ci stava proprio con la testa, l’ho ripreso per l'ennesima volta. Gli ho detto se per lui quello che aveva impastato era cemento: sembrava di stare a rimescolare del caffellatte, scivolava via dalla cazzuola. Gliel’ho detto: “Ma che c’hai nella zucca oggi?”. Ma lui ha scrollato le spalle, altro che impastare sabbia e cemento. La testa gli frullava come una betoniera. Lì per lì, pensavo che si era preso una cotta per la cameriera, l'avevo visto parlarci a lungo durante la pausa per il pranzo, anziché starsene con noi gironzolava intorno alla villa. Ora capisco il perché: stava pensando a come fare per entrare di nascosto.
    Il volto di Daniela è diventato dello stesso colore del piattino che stringe forte in mano, le braccia buttate lungo i fianchi, è sul punto di sciogliersi in lacrime. Ernesto la vede correre nel retro del negozio, scompare lanciando un mugolio che esplode in un pianto.
    — Bel cavolo di lavoro ha fatto Nico, adesso chi li sente a tutti quanti. Hai voglia a dirgli che son gran lavoratori. Quelli ce l’hanno dentro al sangue la delinquenza.
    Ernesto sente le voci provenire dall’altra parte, la loro, se ne stanno a cianciare in quella cavolo di lingua che lui non riesce a capire, e come potrebbe?
    La tensione è alta. Tra i paesani ogni parola scivola via velenosa, serpeggia nella stanza, qualcuno si farà male, se continua così. Un gruppetto di Rumeni ha già rischiato di fare a botte con due bulli del posto, dalla stanza accanto avevano sentito che c’era chi li apostrofava come ladri.
    Toni getta con forza lo strofinaccio sul bancone. Anche lui si sente tradito, così come Daniela, così come lui, le sue mani nodose stringono il bicchiere d’amaro come fosse un passerotto a cui si impedisce di spiegare le ali. I brutti pensieri di quella sera, invece, sì che vorrebbe che volassero via.
    Ernesto a Nicolae ha insegnato tutto: a impastare due palate di sabbia e una di cemento come si deve, a passargli nel verso giusto le pietre e i mattoni quando se ne stava sospeso sopra la palanca e a bere senza attaccarsi alla bottiglia, altrimenti ti può arrivare una martellata sui piedi. Il ragazzo, grazie a lui, sarebbe in grado di tirare su un muricciolo anche da solo. Ernesto ha un tarlo che continua a morderlo: Perché Nico ha fatto quest'enorme stronzata?
    A questa domanda potrebbe rispondere solo una persona.

    ******

    Nicolae se ne sta sdraiato sulla barella, torcendosi per il dolore. Il tipo vestito di arancione, seduto accanto a lui, più che dargli conforto sembra compiacersi delle sue sofferenze. Nico sa che questa sera ha fatto una stronzata che pagherà a caro prezzo; ora più che mai è convinto che la felicità è un carretto senza ruote. Il volontario della croce rossa armeggia con una siringa e delle fiale, la faccia è sull’incavolato, d'altronde ha le sue buone ragioni: uno che entra in casa d’altri per fregargli i risparmi di una vita non risulta particolarmente simpatico.
    Che ne può sapere lui di quanto sia stata difficile la sua vita? La colpa, se si trovava lì, era di lei: di sua madre.
    Nico non ci aveva più pensato prima di oggi, troppe le lacrime spese, troppe le pene. Sforzandosi, rivedeva la sua frangetta inumidita dal vapore che risaliva dal coccio in cui sfriggeva del pollo o dalla pentola in cui ribollivano le verdure dell’orto. I lineamenti delicati ne accentuavano la malinconia, così come il velo di fumo che usciva dalla stufa; sullo sfondo, le calze di nailon appese per farle asciugare in tempo per rimettersele la mattina dopo.
    Sua madre. Forse ora invecchiava serena, consolando un uomo oppure era infossata sotto uno strato di terra, un nome su di una croce senza memoria e neanche un fiore a rallegrare la sua eterna tristezza. Non era mai riuscito a sostituire il suo volto con un'immagine più gioiosa, come nel giorno in cui avevano preso il treno per andare al mare. Avevano giocato a lungo sulla riva, lui correva svelto tra le onde, i pantaloni risvoltati all’insù e i piedi a mollo. Per pranzo si erano divisi una carpa allo spiedo, per dolce una pasta farcita di mandorle e vaniglia, specialità del grazioso ristorante con i tavoli di pietra e le sedie eleganti. Tra le venature del marmo, puntandoci l’indice, il bimbo aveva rintracciato il verde degli occhi di lei, le punte dei piedi a sfiorare le mattonelle a scaglie bianche e nere, mentre dondolavano soddisfatti per un pasto straordinario. La donna aveva deciso, grazie a una paga più generosa del solito, di goderseli i suoi sudati guadagni, altrimenti spesi per l’affitto e la scorta di patate.
    Seduta al tavolo aveva avuto sorrisi per tutti. Per la coppia del tavolo accanto e per il cameriere, particolarmente scherzoso mentre la serviva come si conveniva con una vera signora. Forse le sue smancerie si dovevano perché si aspettava come mancia una “sveltina” da consumare nel retro del locale. Magari era per tale motivo che al ritorno l’umore di lei era nero come il mare appena lasciato, ultima immagine stampata nella memoria prima dell’imminente distacco.
    La sua vita si era messa a correre al contrario dal momento in cui la madre l’aveva abbandonato all’Istituto per l’Infanzia. Sono passati tanti anni da quel giorno. Imbrigliato sulla barella rivede lei: una sagoma ritta davanti al cancello, l’espressione tranquilla di una mamma che accompagna il figlio a scuola e non all’orfanotrofio. Prima di andare, la madre gli aveva allacciato l’ultimo bottone della camicia, lui con il dito dentro al colletto, perché non c’era abituato a quella sensazione di soffocamento. Dopo aver allentato la morsa sul collo, era tornato a stringere la busta di plastica con dentro due magliette, un pantalone di velluto a coste larghe, un maglione e qualche paia di mutande.
    Continuava a tenersela al petto mentre la donna in tailleur blu, aggraziata quanto un sergente dell’esercito, cercava di farsi dire se la mamma o il papà erano ancora vivi, se aveva dei fratelli.
    — Dimmi, piccolino, come ti chiami?
    Lui se ne stava muto di fronte a un bicchiere di latte riempito fino all’orlo. Era tentato di berlo, ma non voleva cacciarsi nei guai. Era sotto un doppio ricatto: se avesse iniziato a bere, poi di sicuro non sarebbe più riuscito a tenere la bocca chiusa.
    — Tu non dire niente, altrimenti la mamma muore e non viene più a riprenderti — gli aveva imposto lei, mentre lo sospingeva su per il viottolo. Viceversa, il latte e la fetta di biscotto dovevano sciogliere i suoi timori. Ma anche volendo, cosa avrebbe mai potuto dire? Di fratelli o sorelle non ne aveva, figurarsi un padre. Ci aveva rinunciato a dare sembianze a un'ombra. Troppi i nomi spiattellati dalle malelingue: non era mai riuscito a capirci niente.
    Sentiva le chiacchiere delle vecchie accovacciate fuori dell’uscio, su sedie più sciupate di loro, con nient’altro da fare se non parlar male di chi passava. Insultavano quel figlio di nessuno quando se lo ritrovavano davanti: pantaloncini logori, sempre scalzo, la faccia porca, così come la canottiera. La usava perfino come sacca, tenendola stretta sul bordo per appoggiarsi in grembo il bottino conquistato.
    — Figlio di un cane, ma una madre che ti guarda non ce l’hai? Piccolo bastardo!
    E gli tiravano dietro le pietre a portata di mano nella speranza di fargli cadere parte delle mele fregate. Lui se ne scappava saltellando, le mani a tenere il marsupio improvvisato, buffo quanto un canguro. Aveva resistito il più possibile dentro all’orfanotrofio, un ritrovo per anime in cerca di un sostegno finto quanto il sorriso cerimonioso del Direttore. Il Signor Petrescu lo tirava fuori per le occasioni ufficiali insieme all’abito elegante. Durante certe visite, le teste dei ragazzi anziché sberle ricevevano carezze altrimenti la responsabile della fondazione per gli aiuti internazionali, nel suo francese vaporoso quanto la messa in piega, avrebbe sospeso i finanziamenti.
    Chissà, magari adesso l’avranno chiuso quel posto di merda. La stessa merda in cui si era ficcato Nico. Sentiva anche lui quell’odore insopportabile, la puzza di sconfitta non era mai riuscito a togliersela di dosso, riaffiorava a tempo debito, come una fogna senza via di sbocco.

    *******

    La faccia della donna al di là della porta a vetri del reparto sbircia assonnata il nuovo arrivato. La tipa apre come si fa con un ospite di troppo, e si incammina zoccolando davanti alla barella, saprà anche lei che sta arrivando uno pizzicato a rubare a casa d’altri. Nico ha la conferma non appena varca la soglia della sala operatoria, nonostante il dolore il sentimento di vergogna gli si è piantato in petto, come un proiettile. Sanno anche loro chi è arrivato. Uno dei tanti bastardi, ma non sanno come sia difficile starsene allo stesso tavolo con chi ha il portafogli pieni di soldi pronti a offrire da bere, ostentando una ricca generosità, contrapposta al suo modo di tirare a campare. Loro non hanno certo il mal di schiena, non trasportano un’infinità di secchi di calce sulle spalle, fin quasi a spaccarsela. Lui, con ostinazione, aveva difeso la sua onestà, così come la volontà di lasciarsi dietro le spalle le malefatte passate. Era sempre più difficile vivere nel soffocante sottoscala, in cui entrava giusto il letto, e i panni li teneva nel borsone ficcato sotto la rete del materasso. L’avrebbe volentieri cambiato con una camera più grande e confortevole, magari con un appartamento tutto suo, dove potersi vedere con Daniela senza provare imbarazzo del buco in cui viveva. Rimpiangeva quasi la vecchia casa.
    La sua mente diventa d’un tratto lucida a causa dell’odore pungente di disinfettante che ammorba l’aria. Quell’odore pungente l’aveva sentito soltanto una volta prima di allora, quando era ancora in orfanotrofio. Di quell'esperienza, tutta da dimenticare, gli era rimasta la cicatrice sotto al mento, lasciata dai punti cuciti in modo sgraziato. Oltretutto ai medici aveva dovuto dire che era “caduto” dalle scale, per non passare dei guai con l’inserviente:
    — Il nostro caro Nicolae è un po’ troppo vivace, non sta un attimo fermo — aveva confermato Vasile, il più stronzo fra tutti gli stronzi impegnati a vigilare sulla sua irrequietezza. Lo teneva forte per un braccio mentre i medici gli curavano la ferita. Nico se ne era rimasto per un quarto d’ora a labbra serrate, a sopportare i bruciori provocati dal cotone imbevuto di tintura di iodio, ravvivati dall’acido che gli montava per le parole del sorvegliante, inzuppate di bugie. Di sevizie, da ragazzino, così come altri insieme a lui, ne aveva patite abbastanza, tanto da fingere di non aver subito certi dolori, invece ne avrebbe portato per molto i segni, lenti a sparire quanto lo sgorbio sotto al mento.
    Di cicatrici, crescendo, ne avrebbe collezionato ben più grandi. Si vedevano solo quando faceva il bagno: due coltellate di striscio all’addome e una alla spalla destra. Era il marchio della strada, faticoso farsi rispettare, anche se negli anni c'era riuscito.
    Quella era stata la molla che aveva fatto scattare la voglia di fuggire via. Così, a tredici anni, stanco delle prepotenze, aveva tagliato la corda. Gli inservienti non si erano certo dannati l’anima per corrergli dietro. Aveva camminato per giorni, i passi svelti ad accorciare la distanza tra lui e un posto qualsiasi, il più lontano possibile dall’Istituto. Il buio si andava infittendo e lui, per darsi forza, scalciando sassi e lanciando legni oltre il ciglio del sentiero, canticchiava:
    Io-s fecior de morosan [Io sono figlio di Morosan]
    Sed în codru câte-un an, [Sto nel fresco per un anno,]
    Si la mândra câte-o luna [Alla mia amata per un mese]
    Ca-s fecior de mama buna.[Perché sono figlio di buona madre.]
    Le strofe di una vecchia canzone gli tornano in mente, sotto lo sguardo dell'infermiera. Lei scuote la testa e poi se ne esce fuori:
    — Andiamo bene, questo si mette pure a cantare...

    *******

    L’autobus dopo aver fatto il giro della piazza si avvia verso il viale, arrivato all’altezza della farmacia si ferma. Irina se ne sta con le braccia legata al sedile, accanto all’autista. A parte loro due ci sono soltanto tre operai di ritorno dalla fabbrica. L’autista non ha smesso un attimo di puntarle addosso le sue voglie. Irina c’è abituata a sentirsi desiderata, non le dispiace affatto. L’uomo dopo aver aperto le porte la saluta ammiccando:
    — Ciao. Ci si vede la settimana prossima.
    Irina sorride e scende di corsa e fa per avviarsi verso casa. Una presa al braccio la blocca. Si volta con sguardo disperato. Quando vede chi sta strattonandola cambia espressione.
    — Vaffanculo! Ma sei scemo? Vuoi farmi prendere un colpo?
    Vito è davanti a lei. Non faccia non è di chi voleva farle uno scherzo.
    — Che avete combinato tu e Nico? c’entra Tamàs, vero?
    — Ma di cosa dici?
    — Lo sai benissimo. Il furto.
    — Di che furto vai parlando.
    Lei non capisce dove vuole arrivare Vito.
    — Giù, in villa, non dirmi che non sai niente.
    Dà uno scrollone per togliersi di dosso la mano di Vito che continuava a tenerla stretta.
    — Furto in villa? Ma quella dell’ingegnere?
    Irina fa un passo di lato e poi crolla a sedere sul primo gradino, la schiena poggiata contro la serranda del negozio.
    — Non fare la santarellina con me. Io capito tutto. Nico stava lavorando in villa no?
    — Sì, perché?
    — Non fare stronza, lo sai bene, sei stata tu a farlo entrare.
    — Ma cosa cazzo dici?
    Irina comincia a tremare, e non per via del freddo che sale dal marmo. Cerca di capire cosa diavolo sta succedendo: se anche solo l'Ingegnere sospetta di lei, e dove lo va a trovare un altro lavoro?
    Guarda Vito, lui è un amico di Nico e ha tutta l’aria di uno che non dice cazzate. Pensa a oggi. Nico faceva domande, molte, era entrato la prima volta in casa per bere un caffè, poi quando gli aveva fatto sistemare una presa elettrica in salotto aveva visto il quadro, quello molto prezioso, a cui la signora teneva tanto. Ora ricorda. Nico aveva detto qualcosa di strano sul dipinto, una cosa assurda:
    — Io, questo viso, lo conosco bene.

    *****

    Nel letto d’ospedale Nico non sa darsi pace, non solo per via del risveglio dall’anestesia. L’epilogo del furto era stato così rapido, un secondo prima era nella stanza estasiato, subito dopo se ne stava aggrovigliato tra i cespugli del giardino, tibia e perone della gamba rotti e una morte nel cuore, stringendo in petto il suo quadro. Insieme alla gamba si era spezzato anche l’incantesimo. Le luci blu dei lampeggianti dell’auto dei carabinieri erano arrivati come una liberazione. Ora lo attendono quattro angoli di mura, a mirare la stessa porzione d’orizzonte, insieme a qualche altro rumeno o nordafricano.
    Una cosa però gli è chiara: è vivo per miracolo, o meglio per un angelo. Nico lo ripete per l’ennesima volta, anche se rischia che qualcuno gli dia del “matto”.
    La mattina stessa Irina, inconsapevole, l'aveva portato su al primo piano, Nico aveva osservato, rapito, la bellezza della donna di fronte a lui. La pelle d’avorio, l’espressione del viso di un’infinita serenità eppure al tempo stesso raggiante. Aveva deciso tutto da solo: voleva quel dipinto.
    Quando era ritornato la sera, per portarsela via, prima di staccarlo dal muro era rimasto immobile, di fronte a lei, timoroso, al punto da perdere la cognizione del tempo e del luogo. Poi l'aveva tirata giù, stringendola con delicatezza tra le mani, portandola al petto, per farla sua. In quel preciso istante era entrato nella stanza l’ingegnere. Nico rivede ogni scena come fosse un film.
    Il padrone di casa gli aveva sparato addosso due proiettili. Il primo aveva mandato in frantumi il vetro della finestra, il secondo aveva scheggiato il quadro, che gli aveva fatto da scudo, per andarsi a conficcare sul bordo della tavola. lui preso dal panico era volato giù dal balcone nel tentativo di salvarsi, portandosi appresso l’immagine sacra.
    Il viso di donna che voleva tenere con sé, per cui aveva affrontato quell’assurda esperienza.
    La visione di lei, con il bimbo stretto tra le braccia, aveva smosso le viscere delle sue emozioni infantili, la pelle d’avorio, l’espressione del viso di un’infinita serenità eppure al tempo stesso triste di chi conosce ciò che sarebbe capitato in sorte. Era lei, sua madre, così come se la ricordava, curva sui fornelli, a friggere ali di pollo nella cucina di casa.
    Il ritorno alla cruda realtà, un futuro fatto di sbarre e imposizioni, non gli avrebbe impedito di credere che a salvargli la vita, per quanto disgraziata, fosse stata proprio sua madre.
    Nico se ne rimane disteso, lo sguardo in apparenza perso tra i fili che sostengono la gamba in trazione. In realtà se ne sta a borbottare le sue strambe preghiere, rivolte a un angelo improbabile: con in volto un sorriso da Madonna e nel petto un cuore da puttana.

    Fine



    Edited by VdB - 12/2/2010, 16:41
     
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  2. shivan01
     
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    Che dire? È una storia triste, vera come possono esserne molte altre vissute da gente nelle condizioni del protagonista. Ben narrata, semmai con il guizzo finale che poteva essere più marcato.
    La narrazione fluisce via un filino lenta ma in modo omogeneo e tutto sommato coerente con cosa si sta raccontando.

    alcune note in spoiler.
    SPOILER (click to view)
    il racconto ha bisogno di una passata di revisione proprio dal punto di vista della pulizia. Ho trovato, in questa versione diverse cosette da sistemare. Alcuni sono errori, a mio parere, altre sono magari cose che avrei provato a mettere diversamente. Come sempre, poi fai tu, sia chiaro.


    doppie punteggiature all'uscita di molti dialoghi, ricorre spesso la combinazione "?,"

    Nicolae.
    Non vorrei sbagliare, ma il termine rumeno corretto è "Niculae". Boh.

    Nonostante sgobbasse nei cantieri come manovale sei volte a settimana, la sua forza sembra centuplicarsi
    tutto il racconto è al presente, tranne quella frase. Che tu la metta al passato ci può anche stare, ma in questo caso non regge la consecutio temporum.

    Pare sempre di stare al cimitero, ma il due di Novembre.

    Nei momenti di sconforto, il ragazzo si sfogava:
    — Che ci sono venuto a fare in Italia?
    sei andato a capo dopo i ":", qui e in qualche altra occasione

    Lui e Nico si erano guardati in silenzio. Dopotutto che avevano da perdere?, la ricchezza bisognava andarsela a prendere dove stava,
    i "?," ricorrono anche fuori dei dialoghi

    sollevarsi un po’:
    anche qui

    o lei che gridava : “che cosa hai fatto!”.
    qua c'è da levare lo spazio prima di ":", mettere maiuscola la c di "che" e togliere la doppia punteggiatura

    — l’abbiamo dovuto scollegare
    questo dialogo appare all'inizio della riga e quindi l'articolo va maiuscolo

    Gli viene da urlare a Ernesto.
    questa frase è un po' gergale, al limite ci andrebbe una virgola dopo urlare

    sfriggeva
    non so se questo verbo esiste

    Di cicatrici, crescendo, ne avrebbe collezionato ben più grandi.
    qui metterei "Di cicatrici, crescendo, ne avrebbe collezionatE DI ben più grandi."

    — Vaffanculo! Ma sei scemo? Vuoi farmi prendere un colpo?, Vito è davanti a lei.
    In tutto il dialogo che parte da questa frase mancano le chiusure.


    è un buon lavoro, ma serve una bella revisione. Ti devo dare un tre, ed è un peccato
     
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  3. VdB
     
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    CITAZIONE
    — Vaffanculo! Ma sei scemo? Vuoi farmi prendere un colpo?, Vito è davanti a lei.
    In tutto il dialogo che parte da questa frase mancano le chiusure.

    Porca miseria! grazie, per la fretta mi era saltato via di mente!
    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Nicolae.
    Non vorrei sbagliare, ma il termine rumeno corretto è "Niculae". Boh.

    Niculae è un cognome, non un nome proprio:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Nicolae_Ceau%C5%9Fescu


    Edited by VdB - 12/2/2010, 09:37
     
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  4. shivan01
     
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    CITAZIONE (VdB @ 12/2/2010, 09:19)
    CITAZIONE
    — Vaffanculo! Ma sei scemo? Vuoi farmi prendere un colpo?, Vito è davanti a lei.
    In tutto il dialogo che parte da questa frase mancano le chiusure.

    Porca miseria! grazie, per la fretta mi era saltato via di mente!
    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Nicolae.
    Non vorrei sbagliare, ma il termine rumeno corretto è "Niculae". Boh.

    Niculae è un cognome, non un nome proprio:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Nicolae_Ceau%C5%9Fescu

    ok, avevo premesso che era un dubbio
     
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  5. VdB
     
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    CITAZIONE
    ok, avevo premesso che era un dubbio.

    Be' così te l'ho tolto: Oh, il protagonista si chiama come te!! :asd: (e come uno dei più spietati dittatori che la storia conosca!!) :diablo:
     
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  6. shivan01
     
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    ehehe quale onore!
     
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  7. VdB
     
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    edit: rivista punteggiatura sui dialoghi... speriamo bene! :azz: :aumm:
     
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  8. Daniele_QM
     
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    Il racconto è cambiato molto dall'altra volta. Mi sembra più completo anche se rimane piuttosto lento nel suo svolgimento. Credo che una descrizione così accurata delle storie di questi personaggi starebbe bene in un romanzo o in un racconto luogo. Così è molto condensata e poco digeribile almeno per me. Comunque in rapporto con gli altri in gara opto per un tre.
     
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  9. marramee
     
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    Ciao, io l'ho letto adesso per la prima volta e devo dire che mi piace molto, soprattutto come costruzione. Molto visivo. Bello anche il finale. Sarebbe un tre e mezzo, però non riesco ad arrivare a quattro perché lo considero appena un gradino sotto ad altri racconti in gara.
     
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  10. domit
     
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    Ciao :)

    Credo che sfoltendo un pochino il racconto sarebbe più graffiante.
    Sicuramente la focalizzazione alterna sui personaggi gioca a favore del racconto, che, però, mi pare eccessivamente diluito.
    Il finale mi è piaciuto.
    Per me è un tre.
     
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  11. bravecharlie
     
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    ciao, il racconto ha alcuni punti deboli e altri forti, secondo me.

    forti:
    è scritto piuttosto bene, senza molti refusi (ho trovato una "faccia porca" e poco altro), la punteggiatura mi pare faccia troppo uso dell'asindeto ma può essere una tua precisa scelta (in effetti conferisce più velocità alla narrazione). Buona la scelta di spostare l'attenzione sui diversi protagonisti della vicenda, che conferiscono una visione globale di ciò che spesso accade in piccoli paesi al verificarsi di certi fatti.

    deboli:
    per quanto sono certo che tu abbia fatto di tutto per evitarlo, cadi parzialmente nel cliché e la storia non riesce a elevarsi al di sopra di tanti racconti di cronaca, assumendo nel contempo un alto valore "realistico" ma un non sufficiente valore "narrativo". Inoltre, sebbene tu abbia cercato di farci entrare nelle vite dei protagonisti tramite molte analessi, se ne ricava una sensazione di fondo piuttosto fredda, al punto che non sono riuscito a empatizzare con nessuno di loro. risulta inutile l'accenno di vito al mega-delinquente che li ha portati in Italia (e la conseguente lunga analessi) perché poi questi non ha ruolo nella vicenda, così come i bulletti motorizzati e il brigadiere che fanno un po' macchietta ma non incidono sulla storia. Forse troppo "carica" emotivamente l'analessi della sua infanzia, al punto di ottenere l'effetto contrario.

    In conclusione non posso non apprezzare il tuo intento di scrivere un racconto vero e concreto come un pezzo d'asfalto, incentrato su un problema sociale attualissimo, ma credo che forse avresti dovuto scegliere un'altra struttura, magari eliminando certi personaggi e le loro analessi e concentrandoti di più su Nico, la sua ragazza e la storia della madre. invece hai voluto dargli un taglio "corale" che, probabilmente, in una storia di sole 40000 battute appare troppo sacrificato. qui c'è carne al fuoco per un romanzo, bisognerebbe sviluppare meglio e in libertà di caratteri ogni punto.

    sperando di non aver scritto boiate, ti lascio 3 e ti saluto con un "alla prossima" :)
     
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  12.  
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    Amante Galattico

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    non lo avevo letto nella prima incarnazione

    è un bel racconto, scritto in maniera lucida e precisa; forse il limite maggiore è che è come diluito in tutta la prima parte, forse per la necessità di dover introdurre molto.


    Metto un 3
     
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  13. VdB
     
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    Il limite di ciò che ho scritto è così evidente che non posso che prenderne atto (me ne sono accorto mentre cercavo di quagliare tutto il materiale, ne ho anche una versione in prima persona, forse la migliore fino a questo momento), ma l'aver snaturato la versione iniziale era la condizione per arrivare a una diversa voce di narrazione che dovevo sperimentare. Mi interessava poter ampliare la storia, e quei personaggi che ora appaiono sfocati serviranno a completarla. Spero che l'approvazione sulla qualità della scrittura (grazie per averla riconosciuta) serva a farmi venire la voglia di rendere più organica la struttura della storia (con tutto il materiale son presto arrivato a circa novantamila caratteri). Rimane il dubbio: ne vale la pena? in effetti cadere nel cliché è il dubbio più grande che mi sconsiglia di provare. Vedremo...
    Al momento grazie a Daniele, Marica, Alfredo, Stefano e Alberto per il tempo speso in una lettura non cortissima (e in effeti anche un po' noiosetta, lo risconosco :imploro: ).
    Tanks!
    Van
     
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  14. Munzic Reload
     
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    Ai seminato molto bene: non mi è pesata per nulla la lettura. Bello lo stile, scorrevole e piacevole. Ho apprezzato anche il disegno molto realistico ed efficace.

    E nel momento del raccolto che secondo me sorgono i problemi, nel senso che hai seminato troppo e non puoi raccogliere tutto quanto in una solo pomeriggio di lavoro (insisto con la metafora rurale, scusa. :) )
    Diventa evidente lo spazio troppo limitato dei caratteri. Dopo tutto il lavoro che hai fatto, la fine soffoca un po' la storia.
    Hai costruito tutto un scenario che non è più da soli 40.000 caratteri. Ci sono un sacco di personaggi che hai disseminato, ma non espresso nel loro intero potenziale.

    Un consiglio? Vai avanti perché sento che la storia freme per essere esplorata. E hai tutti gli strumenti per farlo.

    Voto: Sono indeciso tra il 3 e il 4. Se ti do 4 non ti siedi sugli allori, vero? :)
     
    .
  15. esimon
     
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    Ciao :)
    Bel racconto, equilibrato e scritto bene. Effettivamente magari una sfoltita gioverebbe. Per me è un 4
     
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14 replies since 11/2/2010, 10:44   239 views
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