[USAM Showdown 2010] I Monacheddi
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[USAM Showdown 2010] I Monacheddi

di Simone Lega - nero - 31000 k

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    I Monacheddi

    SPOILER (click to view)
    Marzo 2009. Felice di essere di nuovo tra voi :lol:


    All’epoca – erano gli anni quaranta – dicevano tutti di vivere a Siracusa, ma in realtà parlavano dell’isolotto di Ortigia.
    Oggi Ortigia è solo un quartiere, ma allora oltre il mare non c’era che campagna incolta. L’isola era piccola, stretta tra edifici bassi e storti, puzzolente e grigia, vecchia e marcia. Era bellissima.
    Ai tempi o eri pescatore, o muratore. Mio padre né l’uno né l’altro: faceva il netturbino. La spazzatura la lasciavano dietro le porte, e mio padre doveva salire le strette e viscide rampe di gradini caricandosi i sacchi sulle spalle. Era magrolino, e a sera tornava a casa distrutto. Ma sorrideva sempre. Aveva un gran bel carattere.
    I pantaloni però li portava mia madre. Me la ricordo seduta sulla sedia di paglia, che cuce o legge dal suo libro di cucina. Intendiamoci: all’epoca la fame ci divorava. C’era gente che si sarebbe scannata per un pezzo di pane, e lei possedeva questo libro grosso come un mattone e leggeva ricette che non avrebbe mai cucinato. Che senso aveva non l’ho mai capito; e a chiederglielo rispondeva:
    «Così appena mi fate arrabbiare ben bene, con un colpo in testa vi ammazzo!»
    Scherzava, ma noi bambini avevamo sempre paura che i genitori ci uccidessero, perché sapevamo leggere l’angoscia sui loro volti quando non avevano di che sfamarci.
    Eravamo io e mia sorella. Si chiamava Caterina, aveva sette anni ed era bellissima. Tutti ne parlavano come se da grande dovesse diventare una stella del cinema. Chi c’era mai stato al cinema?
    Non ero contento che dicessero queste cose di mia sorella. Non doveva diventare famosa, e gli uomini non avrebbero mai dovuto guardarla come le donne sui manifesti. Nessuno doveva arrivare a dire che mia sorella era una puttana. Caterina doveva restare con me.
    Quante volte ho fatto a botte per lei! Con i compagni di classe quando qualcuno ne parlava con poco rispetto, o con i bambini del vicinato, quando giocando insieme prendevano troppa confidenza. Bastava che parlassero più con lei che con me, che non ci vedevo più e si finiva a botte.
    Mi arrabbiavo perfino quando papà ‘scherzando’ le chiedeva a che età volesse sposarsi, o se avesse già un fidanzatino. Cominciavo a dare i numeri. Però mi vergognavo ad ammettere che ero geloso di mia sorella.
    Vivevamo in una delle tante case diroccate dell’isola. Una specie di grotta, con quattro mura e un tetto bucato. D’estate si moriva di caldo e d’inverno si gelava. Spesso dormivamo con le scarpe per il gran freddo, e le pareti erano nere per il fuoco che ogni giorno mamma accendeva per scaldarci. In quale stanza? Nella sola che avessimo! Un’unica stanza per mangiare e dormire. E una tenda davanti a un cono di legno con il tappo che fungeva da gabinetto.
    Questa era la nostra vita, ma ci credereste? A pensarci ora mi rendo conto che ero felice. Anche se avevo paura: quella rimasta nelle orecchie della guerra appena finita, quella di non riuscire a racimolare i soldi per il pane, la paura che Dio ci voltasse le spalle, che una mattina svegliandoci avremmo trovato il crocefisso storto alla parete; paura della strega che di notte si appollaiava sul tetto e ci spiava dalle fessure, che le bolle che scoppiettavano a un tratto sulla superficie del mare fossero gli annegati che sott’acqua pronunciavano il tuo nome… e non eravamo solo noi bambini a temere tutte queste cose, erano soprattutto gli adulti. Si pregava da mattina a sera. Baciavamo i crocefissi, e, a ogni ora del giorno, crocchi di donne sepolte da stracci neri recitavano il rosario.
    I fantasmi erano un pericolo reale. Potevano farti impazzire, picchiarti, rapirti.

    Sulla parete di casa nostra c’era una sorta di sportellino ossidato, con quattro lunghe fessure – sembrava una grata. Un giorno si aprì e una cosa scura scivolò sul pavimento. All’inizio non ce ne accorgemmo - Caterina e io giocavamo sul letto, mamma era seduta a rammendare.
    La cosa percorse tutta la casa prima che mamma la vedesse e lanciasse un grido. Seguì un silenzio spaventoso - si sentiva solo il crepitio del fuoco. I nostri occhi erano puntati su quella cosa immobile, in piedi al centro della stanza. A prima vista sembrava un grosso verme grigio, infagottato in una sorta di saio a punta.
    Non c’era tempo per riflettere. Mamma ci afferrò e fuggimmo lasciando la porta aperta e il fuoco acceso.
    Piangevo. Caterina invece no. Corremmo sotto la pioggia e ci rifugiammo a casa della comare Dora. Era una donna alta e vecchia, e i capelli biondi che le ricadevano sul volto rugoso sembravano una parrucca.
    Noi bambini ci sedemmo nell’angolo, vicino al fuoco. Casa della comare Dora pareva una caverna: più ti addentravi più era buio. C’era anche Assunta, la nuora, silenziosa e pallida, con la piccola Aurora in braccio.
    Mamma raccontò tutto alla comare Dora, lei andò a svegliare lo zio Antonio, suo marito, un vecchio che pareva avesse cent’anni, e lo mandò sotto la pioggia a chiamare nonna Pippa.
    A nonna Pippa ti rivolgevi quando dovevi fare innamorare qualcuno, o se volevi farti togliere il malocchio. Era grassa e aveva la faccia cattiva, ma tutti dicevano che era santa. Arrivò con il passo imponente, e volle che tornassimo a casa con lei.
    Entrò per prima ma quella strana cosa non c’era più. Ispezionò tutta la casa soffermandosi a lungo con la mano contro la parete.
    «È di qua che salgono» disse indicando la grata.
    «Ma che cosa sono?» domandò mamma, spettinata e scossa come durante i bombardamenti.
    Nonna Pippa non rispose. Ci fece sedere a tavola – avevo paura che quel coso si fosse nascosto sotto! – e ci fece pregare. Ripeteva formule strane e noi dovevamo dire in coro: «Sia fatta la tua volontà» oppure «Ascoltaci Gesù!». Poi d’improvviso sussurrò a mamma nel suo dialetto così stretto che noi bambini stentavamo a capirla: «Niente è. Avete i monacheddi.»
    «E che cosa sono?»
    «Cose buone. Spiriti che portano fortuna. Voi l’importante è che non gli date fastidio, fate finta di non vederli, e la sera gli lasciate un poco di mangiare. Qualche mollichina, e vedrai che vi portano bene.»
    A mamma veniva da piangere per il sollievo. Nonna Pippa posò la mano grossa e calda sulla fronte di ognuno di noi e a occhi chiusi bisbigliò una preghiera.
    Sulla porta, mamma le diede qualche moneta, come di nascosto, come se si vergognasse. Nonna Pippa le accettò austera, come se fosse lei a dare soldi a noi.
    Le sue ultime parole furono: «Non vi spaventate.»
    E se ne andò sotto la pioggia, nel buio. Tanto a nonna Pippa niente poteva fare del male.
    Rimanemmo a casa controvoglia, confusi più che spaventati, ad attendere papà. Mamma cercava di essere ottimista: quella creatura… quei monacheddi, non sarebbero più tornati. Caterina dimostrò un coraggio di cui non la credevo capace. Disse:
    «Se tornano li ammazzo!»
    «No!» esclamò mamma, «avete sentito nonna Pippa? Dovete fare finta che non ci sono, e ci porteranno fortuna. Soprattutto tu, Eduardo! Se li vedete non dovete toccarli.»
    Toccarli? Ero terrorizzato solo a pensarci!
    Fuori continuava a piovere, il fuoco si stava spegnendo e faceva freddo. Avevamo paura di avvicinarci a ravvivarlo perché anche se nonna Pippa aveva controllato tutta la casa, non ci fidavamo.
    Poi tornò papà, e fu un sollievo. Anche se, a ripensarci, quell’omino stanco come avrebbe potuto difenderci dai monacheddi?
    Lui e mamma parlarono a lungo, e noi ascoltavamo. Cercavano di convincersi che fosse una cosa buona. I monacheddi portavano bene, come aveva detto nonna Pippa. Avrebbero lasciato denaro in cambio di qualcosa da mangiare. Papà era ottimista, e alla fine sulle guance di mamma era tornato un po’ di colore. E quella sera cucinò le patate.

    Le patate erano un evento per noi. Mamma non le comprava: il proprietario della bottega era un suo lontano cugino, lei di tanto in tanto ci andava e faceva la boccuccia dolce pregandolo di darcene qualcuna. Quello si lamentava, sbuffava, ma alla fine cedeva, e mamma tornava con la sporta piena. Caterina ne andava matta, e io le cedevo volentieri le mie. Anch’io ci impazzivo, ma lei era pur sempre la mia sorellina.
    Dopo cena, mamma lasciò una candela accesa davanti a un piatto con due patate, e andammo a letto. C’erano due materassi: in uno dormivano i miei genitori, nell’altro Caterina e io.
    «Buonanotte» disse mamma, ma né io né nessun altro dormì.
    E quando a un tratto alzai la testa per vedere se la candela si stesse spegnendo, vidi un sacco di monacheddi sul tavolo. Mi gettai sul cuscino, mi strinsi a mia sorella, chiusi forte gli occhi e rimase solo il buio. E un battito urgente dal profondo, dentro di me.

    La mattina dopo fui svegliato dalle voci di mamma e papà. Sembravano secoli che non li sentivo così contenti.
    Sul tavolo, accanto al piatto vuoto e al mozzicone di candela spento, c’erano cinque monete. Papà se le rigirò tra le mani più volte e le addentò. Erano soldi veri!

    Passò un mese e, strano a dirsi, c’eravamo abituati ai monacheddi. Una delle cose che ci aveva raccomandato nonna Pippa era di non raccontare a nessuno di loro: doveva rimanere un segreto. A noi bambini lo avevano fatto addirittura giurare. La cosa ci aveva impressionato tanto che non ne parlavamo nemmeno tra di noi.
    Di notte, mamma teneva due candele accese sul tavolo e un sacco d’immaginette e statuine di Gesù e della Madonna, e, quando mi svegliavo e alzavo la testa, non riuscivo a distinguere i monacheddi dalle statuine. Ci lasciavano denaro, ma la casa sembrava diventare sempre più triste, e il capannello di vecchie che recitavano il rosario si era spostato davanti a casa nostra, nonostante nessuno avesse rivelato il segreto.
    In casa ormai si parlava solo sottovoce. Erano lontani i bei tempi, quando dal cortile venivano le grida degli altri bambini che giocavano, o quando Caterina e io strillavamo spensierati saltellando sul vecchio materasso.
    Casa nostra di notte apparteneva ai monacheddi, e avevamo timore perfino di andare al gabinetto, per timore di disturbarli e scatenare così chissà quale tremenda maledizione.
    Sopportavamo e andavamo avanti. Era così che si viveva: prima la guerra, ora i monacheddi da ingraziarci.
    Poi, un pomeriggio, mia madre uscì e ci lasciò soli. Caterina mangiava una nespola, io stavo disteso sul letto. Quando sentii il botto, nel dormiveglia saltai in piedi come un gatto.
    Una bomba.
    O forse anche peggio.

    Era successo che mentre Caterina mangiava, un monacheddu era uscito dal suo nascondiglio, si era arrampicato sul tavolo e aveva afferrato la nespola. Caterina non aveva mai avuto paura di quegli spiritelli, e invece di lasciargliela l’aveva tirata a sé. Avevano giocato a tira e molla per un po’, poi il monacheddu si era stancato e aveva deciso di tornare nella sua tana viscida.
    Ma non aveva fatto i conti con quel diavolo di mia sorella.
    La nespola era cibo: già ne vedevamo poco, e quella schifezza di gnomo l’aveva anche sporcata con i suoi braccini viscidi. Caterina adesso non riusciva più a mangiarla: le faceva senso anche solo sfiorarla. La rabbia le risalì lo stomaco e traboccò dagli occhi.
    Il libro di cucina di mamma era lì accanto.
    Caterina lo prese e lo lanciò contro il monacheddu, centrandolo in pieno.
    Quando vidi il grosso tomo per terra e quella punta scura che sporgeva da sotto, non compresi subito. Caterina piangeva e non mi rispondeva. Presi il libro per la copertina, E sotto c’era il monacheddu in una pozza di sangue nero. Sembrava proprio un minuscolo monaco. Avevo sentito dire da mamma che erano fatti d’aria, che sotto il saio non c’era niente. Non era vero, c’era il sangue.
    Non sapevo cosa fare. Il primo istinto fu di mettermi a gridare, a battere i piedi, ma mia sorella era più importante. Non sapevo cosa le avesse fatto, o se fosse ferita. L’abbracciai, cercai di calmarla. Tra un singhiozzo e l’altro mi raccontò la storia: non stava piangendo per ciò che aveva fatto, o almeno così disse. Piangeva per la nespola.
    Dovetti prometterle che gliene avrei procurata un’altra. Ma quando sembrava che si fosse calmata, domandò:
    «E adesso che succede?»
    Le accarezzai i capelli; com’era bella Caterina, con il naso che gocciolava e gli occhi brillanti di lacrime. Cosa potevo dirle?
    «Non succede niente, non ti preoccupare.»
    Speravo di aver ragione. Ma avevo la sensazione che sarebbe stato meno grave uccidere un uomo.
    In quel momento si spalancò la grata, e decine di monacheddi si riversarono sul pavimento.
    Urlammo, provammo a scappare ma le gambe non ci ressero. Ci accucciammo contro il muro, accanto alla porta, Caterina stretta a me, e io che le dicevo di non guardare; ed era come durante la guerra, rifugiati nelle antiche gallerie dei primi Cristiani, col sibilo crescente della bomba che cadeva, mamma che ci sussurrava di chiudere gli occhi, e l’attesa del bum!
    Ma stavolta il bum! non venne.
    I monacheddi si accalcarono intorno al loro compagno morto, frementi come topi. Non riuscivamo a vedere cosa stessero facendo. Mi aspettavo che lo portassero via, ma già immaginavo che da un momento all’altro si sarebbero scagliati contro di noi, e prima ancora che pensare a me, dovevo proteggere Caterina; dirle: «Scappa!», aiutarla. Ma non feci niente. E quando ritrovai le forze era già tutto finito.
    I monacheddi se ne tornarono nel loro buco, così com’erano venuti. Sul pavimento non c’era più niente, nemmeno il sangue.
    Sperai che Caterina non avesse visto, che fosse rimasta con il viso contro il mio petto. Non fu così.
    «Se lo sono mangiato!» esclamò scoppiando a piangere.
    «No, no, scema, se lo sono portato via!» insistevo.
    «Non è vero, li ho visti!»
    Continuai a negare, anche se era inutile.

    Ci precipitammo fuori e, seduti sul muretto, ragionammo su cosa fare. Dovevamo andare da nonna Pippa e raccontarle tutto, non c’erano altre soluzioni. La cercammo; due bambini spaventati in giro per le vie nere di Ortigia, mentre la sera calava inesorabilmente.
    La signora dell’Alimentari disse:
    «È passata adesso.»
    Ci mettemmo a correre ma non la trovammo da nessuna parte. Non sapevo che ora fosse, ci sentivamo persi. Sbucammo sul mare, e ci fermammo a fissare la placida, infinita distesa scura. Lo sciabordio delle onde ci calmò. C’era una barchetta legata a uno scoglio.
    «Prendiamola e andiamo via» propose Caterina, e io, per consolarla, le dissi di sì. Andare via, lontano, oltre il mare, oltre quella lacrima di terra che era Ortigia, il concentrato di tutti i nostri mali. Cosa c’era aldilà, l’America?
    L’America era bella, grande. Lo zio Nunzio era andato lì, abbandonando moglie e figli.
    Come noi stavamo abbandonando mamma e papà.
    Loro non sapevano niente, e i monacheddi si sarebbero vendicati sui nostri genitori. Lo dissi a Caterina.
    Il pensiero di salvarci condannando mamma e papà era insopportabile. Dovevamo tornare a casa, avvertirli e andarcene tutti quanti.

    Mamma non ci sgridò per essere stati fuori fino a dopo il calar del sole. Sembrava contenta. Io e Caterina ci ripromettemmo di parlarne quando sarebbe tornato papà. Non correvamo alcun rischio finché eravamo svegli, e al primo segnale di pericolo saremmo potuti fuggire.
    «Che vi bisbigliate voi due?» s’insospettì mamma.
    «Niente, niente.»
    «Avete i segreti, eh? Pure io e papà abbiamo un segreto. Una cosa bella!»
    «Cosa? Cosa?»
    «Ah, bisogna aspettare che torni lui!»
    Quando arrivò papà si creò subito un’atmosfera strana. Sembrava di essere tornati ai giorni in cui gli americani sfilavano per le strade distribuendo roba da mangiare, cioccolata e sigarette, e c’era un sorriso e una speranza sul volto e nel cuore di tutti.
    C’era allegria in casa: non che papà e mamma si fossero messi a scambiarsi effusioni – non era mai successo – ma era forse la prima volta che dimostravano l’uno all’altra di volersi bene.
    Ma che succedeva?
    In quel clima di festa io e Caterina eravamo in difficoltà: avremmo voluto raccontare dell’avventura con i monacheddi, ma d’altra parte volevamo anche partecipare a quella gioia. Ne avevamo bisogno più ancora del cibo.
    Poi papà prese dal davanzale della finestra una torta. Una torta vera, di noci. Strillammo dalla gioia.
    «Questa per i nostri piccoli amici monacheddi» disse papà, facendo calare un velo grigio sui nostri sorrisi. «… come regalo d’addio» terminò, con un sorriso misterioso.
    Regalo d’addio? Sì, i miei genitori avevano deciso che ci trasferivamo in una casa più grande, più bella. Una casa che aveva anche le stanze. Ed era proprio grazie ai soldi dei monacheddi che ora potevamo permettercelo. La casa non era ancora pronta, ma l’indomani ci saremmo già trasferiti dallo zio Enzo.
    Grazie, monacheddi, grazie di cuore, ma una notte in più insieme a loro, nemmeno i miei la volevano passare.
    «Siete contenti?» ci domandavano. Noi annuivamo, ma avevamo quel peso nel cuore, e sono certo che mia sorella la pensasse come me.
    Non raccontammo niente perché temevamo la reazione di mamma e papà. Ce ne stavamo andando da quella casa, certo. Ma dire cos’era successo poteva equivalere ad aprire una sorta di vaso di Pandora. Che ne sapevamo noi che uccidendo un monacheddu non avessimo magari attirato una maledizione che ci avrebbe seguito ovunque ci fossimo trasferiti? Parlarne avrebbe cancellato la gioia dai volti dei nostri genitori e sarebbe ricomparsa l’angoscia. La paura avrebbe reso la maledizione reale. Se avessimo taciuto avrebbero continuato a sorridere, e non succede niente di brutto quando sorridi. Senza dirci niente decidemmo di resistere per quell’ultima notte. In fondo c’erano mamma e papà, dormivamo tutti vicini, una notte sola, cosa poteva capitarci?
    E poi, se i monacheddi avessero voluto farci del male, quale occasione migliore di quel pomeriggio, ad assassinio ancora caldo, quando io e mia sorella eravamo soli e spaventati? E invece non ci avevano fatto niente.
    Trovai il coraggio necessario per sorridere a Caterina e strizzarle l’occhio.

    A tavola, papà ci fece ridere raccontando di quando era ragazzo e faceva il muratore con suo padre, e invece di lavorare si nascondeva e si addormentava. Mamma cucinò le patate, e io stavolta diedi tutta la mia porzione a Caterina. Avevo una fame da morire, ma ero felice al pensiero che tutto si sarebbe aggiustato, e volevo che lo fosse anche lei.
    Andammo al gabinetto uno dopo l’altro mentre mamma preparava la tavola per i monacheddi, con la torta bene in vista, e accendeva le candele.
    Poi ci mettemmo a letto.
    Al buio rassicurai mia sorella bisbigliandole all’orecchio tutti quei ragionamenti per cui i monacheddi non ci avrebbero fatto niente, e la feci ridere dicendo che se volevano farci del male, gli avrei lanciato addosso la mia palla facendoli saltare come tanti birilli. Poi le feci il solletico, e le risate aumentarono finché mamma non ci gridò di stare zitti e dormire.
    Diedi a Caterina il bacio della buonanotte, mi strinsi a lei e mi addormentai.
    Sognai che i monacheddi venivano fuori dalla grata - io e Caterina eravamo soli, era notte, e l’unica luce era una candela sul tavolo. Io mi mettevo davanti a Caterina per proteggerla e li supplicavo di lasciarci stare, che non era stata nostra intenzione fare del male al loro amico.
    E i monacheddi parlarono. Ci ringraziarono perché quello che avevamo ucciso era il loro re, cattivo come una vipera, che da secoli li maltrattava. Ora erano liberi di spogliarsi del saio e mostrarsi per quel che erano veramente: fate! Piccole, graziose, dolcissime fate.
    Allora si rivolsero a Caterina, e comparve una grande corona che brillava di pietre preziose; lei si chinò e i monacheddi gliela posero sulla testa.
    Ora era la loro salvatrice e regina.

    Fu un sogno molto bello. Mi svegliai sereno, che era già giorno, ma Caterina accanto a me non c’era più.
    Dalla spiacevole sorpresa al panico, passarono sì e no dieci minuti. Papà scappò fuori in pigiama e con il berretto da notte e si mise a cercarla. La voce si sparse, la cercavano tutti. Grida tonanti di uomini forti, strilli di donne, vocette squillanti di bambini, tutti:
    «Caterina! Caterina!»
    Ma Caterina non usciva.
    Io ero il solo a sapere dove fosse.
    «L’hanno portata via i monacheddi!» urlavo.
    Mia madre non capiva, e io piangevo e parlavo male.
    «Sono stati i monacheddi!» biascicai.
    L’attenzione di tutti si concentrò su di me.
    «Chi? I monacheddi?» sembro’ vociare l’intero quartiere.
    Vidi allarme nello sguardo di mia madre. Non dovevamo parlarne a nessuno, aveva detto nonna Pippa. Mamma temeva la maledizione dei monacheddi.
    “La sciagura c’è già caduta addosso!” avrei voluto gridarle.
    Mamma mi abbracciò, e quietò le domande della gente con un cenno della testa: erano solo le fantasie di un bambino.
    Per i miei era difficile crederci. Non si sarebbero mai messi a caccia dei folletti che gli avevano rapito la figlia, sulla base delle parole di un bambino sconvolto. Se volevo riprendermi Caterina, dovevo fare tutto da solo.
    Ma non doveva esserci nessuno in casa, se mi avessero visto scalzare la grata e infilarmi nel muro avrebbero pensato che ero diventato isterico, mi avrebbero fermato, magari portato via. E addio Caterina.
    E comunque, anche se mi avessero creduto, il passaggio attraverso la grata era troppo stretto per un adulto.

    Quando finalmente se ne andarono tutti e ricominciarono a cercarla, mi decisi. Con la scusa che mia sorella poteva anche tornare di sua volontà, rimasi a casa. Tolsi la grata arrugginita con un cacciavite e m’infilai dentro. Il buio era totale, e il passaggio era così stretto che strisciavo contro le pareti graffiandomi. I capelli rimanevano impigliati in chissà cosa e si strappavano.
    La paura era tanta, ma continuavo ad andare avanti. In tasca avevo un mozzicone di candela e i cerini di mamma, ma non c’era lo spazio per muovere le mani e prenderli.
    Il cunicolo era in discesa. Non avevo idea che fosse così lungo. Stavo andando sempre più giù - a volte un paio di occhi rossi brillavano nel buio. Udii con chiarezza numerosi squittii di topi. Rabbrividivo e piangevo, a un certo punto mi fermai. Non potevo continuare, era sempre più stretto.
    «Lasciatela stare! Ridatemi mia sorella, maledetti!» Urlai.
    Ma con quella vocetta sottile e rotta che avevo, potevo fare paura solo a me stesso. Non potevo nemmeno voltarmi e tornare al punto di partenza, a meno di strisciare all’indietro. Decisi di andare avanti, mi sostenevano i ricordi di me e Caterina insieme.
    Poi riuscii a distinguere un muro; c’era un buco. Lo attraversai, e sbucai in una camera lunga e bassa, verdastra di umidità - per terra ampi solchi scavati nella pietra.
    «Caterina!» gridai, ma l’eco della mia voce mi spaventò. Mi strinsi al muro, ricordai la candela in tasca e l’accesi.
    Sentivo un brusio. Avevo pensato fossero le voci della gente di sopra, ma poi il mormorio crebbe. Erano voci violente, risa sguaiate. Qualcuno bestemmiò tanto vicino a me che urlai. Ma non c’era nessuno.
    Ero intrappolato. Dirigevo la candela di qua e di là ma non riuscivo a vedere niente. Poi notai una figura seduta a terra. Mi avvicinai perché credevo di averla riconosciuta. Infatti era lei, Caterina!
    Ma i monacheddi la circondavano.
    Mia sorella non si muoveva - era svenuta. Mi serviva qualcosa per cacciare quelle bestiacce, ma mentre mi guardavo intorno alla ricerca di un candelabro o di qualsiasi altra cosa che potessi usare come arma, la luce della candela svelò un’ombra strana sul viso di Caterina. Guardai di nuovo. Le mancava il naso. Soffocai a stento un conato. Quando mi ripresi, mi accorsi che oltre al naso le mancava anche un pezzo di guancia. E chissà che altro. I monacheddi la stavano mangiando.
    Il dolore mi afferrò lo stomaco. Non riuscii nemmeno a gridare, caddi a terra incapace di muovermi e di respirare. La candela non si spense, ma illuminò la parete su cui era riverso il cadavere di mia sorella: vi era uno stretto reticolo di bocche nere, che non potevano che essere le tane dei monacheddi. Ero in un sepolcro, come quello in cui ci nascondevamo durante i bombardamenti. Sapevo che erano sconfinati, un labirinto di tombe sotterranee che si estendeva ben oltre Ortigia. Decine di leggende raccontavano di persone partite per esplorarli e mai più tornate.
    Mi coprii il viso con le mani, non volevo vedere, volevo che venissero a salvarmi; cominciai a strillare il nome di mia madre, ero come impazzito, tutto aveva iniziato a girare…
    Una voce mi calmò, chiamandomi per nome. Era impossibile, eppure sembrava quella di Caterina.
    «Eduardo?»
    Aprii gli occhi.
    Mia sorella era in piedi davanti a me: un manichino sfigurato con un sorriso che tremava.
    Mi misi a strisciare all’indietro - dalla gola mi usciva uno strano suono spezzato, una sorta di richiamo per uccelli.
    L’istinto di sopravvivenza mi guidò fino al buco da cui ero entrato; macchie colorate mi roteavano davanti agli occhi. Caddi a terra picchiando il mento, ma non sentii nulla. M’infilai nel buco, ma solo il mio corpo: io ero ancora paralizzato di fronte a mia sorella.
    Strisciai sbilenco come un coccodrillo - ragni e moscerini mi sbattevano contro gli occhi, ma non li chiusi.
    Corsi fuori da casa mia, all’aria aperta, e ancora mi sembrava di essere in quelle catacombe, con Caterina.
    Mi riebbi che stavo fissando la mia immagine nell’acqua della fontana. Le papere mi passavano accanto e s’immergevano, ignorandomi. Com’ero arrivato lì?
    Sentivo le voci della gente che accorreva; mi circondarono, mi fecero sedere. Ero tutto sporco e insanguinato, la bocca piena di ragnatele. Davanti a me solo facce sconvolte. Dietro la folla vidi la nonna Pippa, mi guardava negli occhi, cattiva. Sembrava dire:
    «È colpa tua, dovevi stare attento a lei! Non si può più fare niente.»
    Poi qualcuno mi prese in braccio: riconobbi la voce e il mento di mio padre. Poi non ricordo più niente.

    Mi svegliai al buio, tra il russare dei miei genitori. Ancora nella vecchia casa. Alzai la testa e vidi Caterina ai piedi del letto. Mi aspettava.
    Non si trattava della bambola torturata della cripta, era come l’avevo sempre vista. Era mia sorella. Ma dietro di lei vedevo le lunghe ombre dei monacheddi. Creavano un frastuono fastidioso, come se stessero ridacchiando.
    «Finalmente» disse Caterina tendendomi la mano, «Vieni?» continuo’, come se si aspettasse che mantenessi una promessa;
    «Dài, andiamo Eduardo!» Aveva fretta.
    Andare dove? In America? Pensai a quella barchetta solitaria - avremmo dovuto prenderla e andare via. Forse saremmo morti annegati, magari saremmo sopravvissuti. In ogni caso saremmo rimasti insieme.
    Ma Caterina non mi avrebbe portato in America. Mi avrebbe trascinato in quel tunnel di tombe per mangiarmi con i monacheddi. Non era Caterina, o almeno non lo era più.
    Però io volevo lo stesso andare con lei! Volevo credere all’America, chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare come alla fontana in braccio a papà!
    E così le dissi qual era la mia paura, scoppiando a piangere perché mi vergognavo di non avere il coraggio di seguirla: «Tu mi vuoi mangiare!»
    Quando tornai a guardarla, quello che vidi mi fece più male di una sua risposta affermativa: Caterina aveva un’espressione diversa. Mortificata, delusa che pensassi questo. Che la abbandonassi così.
    Gli occhi erano freddi, non mi guardava più. Pensava a sé, stava comprendendo di essere rimasta sola. Si voltò, e io balzai giù dal letto. Cercai di rincorrerla.
    «Va bene, va bene!» esclamai. «Vengo con te… Caterina? Scherzavo!»
    Ma rincorrevo solo l’aria. Lei era scomparsa.
    Non la rividi mai più.

    L’indomani ce ne andammo. Portammo via poche cose: la gran parte rimase chiusa lì dentro, compreso il libro di cucina. Papà e mamma non dissero una parola, camminavamo distanti verso casa di mio zio Enzo. Non salutammo nessuno.
    Credo che quella notte l’abbiano vista anche loro.
    Continuarono a cercare Caterina, ma quando papà tornava a casa, tra lui e mamma passava solo uno sguardo. Né sì né no. Sapevano benissimo che non l’avrebbero mai ritrovata.
    Due anni dopo, papà si ammalò ai polmoni. Se ne andò in fretta. Mamma invece resistette altri dieci anni, gli ultimi due trascorsi a letto, paralizzata.

    «Eduardo?»
    «Che c’è, mamma?»
    «Mi porti Caterina?»
    Le porsi l’unica foto di mia sorella che avevamo.
    «Ti ricordi quanto le piacevano le patate?»
    Ricordavo lei con la finestrella tra i denti che masticava e mi sorrideva. E i suoi occhi…
    Mamma premette le labbra sulla foto, a occhi chiusi. Affranta, schioccò mille baci.
    Quando fu sera, morì.

    A me è andata meglio. Cominciarono a costruire fuori dai confini di Ortigia, sono diventato muratore come mio nonno e ho fatto fortuna. Mi trasferii nella nuova Siracusa, cercando di dimenticare Ortigia.
    Nell’ottantasette, in primavera, decisi che era il momento di attraversare il ponte, e di vedere se la casa era ancora in piedi. Ortigia non era poi cambiata tanto dall’ultima volta che l’avevo vista, e l’edificio era sempre lì.
    Mi avvicinai, non molto in verità. Il cuore mi scoppiava.
    Qualcuno aveva inchiodato delle assi alla porta, le finestre erano murate. Dietro i vetri della porta riconobbi le tendine di mia madre.
    E poi c’era un fiocco viola accanto al battente, logorato e coperto di polvere dal tempo.
    C’era scritto: “Per l’Adorata Figlia”
    Frusciava al vento che si era levato all’improvviso. Mi strinsi nella giacca e tornai a casa.
    Dalla mia famiglia.
    Ho avuto quattro figli, nessuna femmina cui dar nome Caterina, e mia moglie è morta tre anni fa, dopo una vita trascorsa insieme. Ho raccontato ai miei figli mille volte della guerra e di mia sorella che scomparve nel nulla, ma senza mai dire una parola sui monacheddi. Ho mantenuto il segreto.
    Poi, raccontandolo ai miei nipoti, smisi di parlare di lei. Volevano le storie della guerra e della fame. Mi stupirei se qualcuno ricordasse chi fu zia Caterina.
    Ma le storie di guerra me le chiedono ancora. Ieri sera a casa di mio nipote, uguale.
    «Nonno, raccontaci di quando c’era la guerra!»
    «Ma è vero che Siracusa era solo Ortigia?»
    «È vero che abitavate in una stanza?»
    «Com’era vivere sotto i bombardamenti?»
    E io a parlare fino allo sfinimento. A fine serata Patrizia, la moglie di mio nipote, si è messa ad apparecchiare un’altra volta.
    Prima di rendermene conto avevo già chiesto perché. E la risposta la sapevo già.
    «Un’amica di mia cognata è medium, dice che se gli diamo da mangiare portano bene!» ha detto lei, non sembrava spaventata.
    “Sì ” pensavo, “portano bene perché finché gli dai da mangiare, loro non mangiano te”.
    Mi disgustava che quelle creature generate dai morti, come le mosche, mangiassero alla tavola dei miei nipoti. Per non parlare di quel che avevano fatto a me.
    Poi mio nipote ha esclamato: «La bambina! Digli della bambina!»
    Le vertigini. Una sensazione strana, come se fossi uscito da me stesso. E intanto raccontavano di questa bambina, comparsa solo una volta. L’aveva vista Patrizia, andando in bagno.
    Seduta a tavola mangiava dal piatto dei monacheddi.
    A Patrizia era preso un colpo. Aveva strillato e mio nipote era accorso, accendendo la luce.
    La bambina non c’era più, nel piatto erano rimaste solo due o tre patatine fritte.
    «Piacevano al fantasmino le patatine, eh?» ha commentato mio figlio.
    Poi si sono messi a parlarne. È stata mia nuora ad accorgersi di me.
    Mi tenevo alla sedia per non cadere, singhiozzavo senza riuscire a smettere, e annuivo.
    Mi hanno soccorso, non capivano e io non potevo spiegare, riuscivo solo ad annuire.
    Era da quell’ultima notte nella casa di Ortigia che non piangevo.
    “Sì” tentavo di rispondere a mio figlio, “Sì, le piacevano. Le piacevano tanto.”

    Edited by esimon - 2/2/2010, 10:26
     
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  2. marramee
     
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    Ciao,
    che dire? Geniale, un capolavoro, mi è piaciuto tantissimo. Visto che sono arrivato da poco sul forum non l'avevo ancora letto (oddio, ammetto che il titolo non mi ispirava tantissimo). L'atmosfera è perfetta, la storia affascinante, mantiene tutte le premesse senza calare di tono. Nessun appunto da fare (anzi no! uno l'ho trovato! hai lasciato in giro per il racconto gli appunti di correzione!).
    Che bello, il mio primo CINQUE!
     
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  3. Daniele_QM
     
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    Io continuo a dire che è straordinario. L'unica pecca - se vogliamo chiamarla così - è un finale forse troppo allungato. Lo dissi anche la prima volta mi pare. Allora il massimo che potevo dare era quattro. Stavolta è cinque. :)
     
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  4. Fini Tocchi Alati
     
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    Bello! Non c'è che dire: molto bello.
    Siccome però stiamo qua per trovare il pelo nell'uovo, ti dico che mi trovo d'accordo con Daniele sul finale e ti segnalo queste cosucce:
    - "Casa nostra di notte apparteneva ai monacheddi, e avevamo timore perfino di andare al gabinetto, per timore di disturbarli e scatenare così chissà quale tremenda maledizione.": ripetizione di timore;
    - "così chissà": mi suona male;
    - quando Eduardo accenna al vaso di Pandora, mi son chiesto come facesse a conoscerne la storia...
    - " continuo' ": t'è scappato l'apostrofo;
    - "dài": mi verrebbe da dire: "T'è scappato l'accento"... Mica si scriverà pure così?
    - "A me è andata meglio. Cominciarono a costruire fuori dai confini di Ortigia, sono diventato muratore come mio nonno e ho fatto fortuna. Mi trasferii nella nuova Siracusa, cercando di dimenticare Ortigia.": uhm... mi pare non leghino i verbi al passato prossimo con quelli al passato remoto. O sì?

    Sciocchezze, in ogni caso.
    Dico 5.
     
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  5. shivan01
     
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    vabbé, su questo racconto mi ero ampiamente sperticato al tempo.

    Voglio essere coerente e confermo il voto massimo
     
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  6. domit
     
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    Ciao :)

    Bel racconto.
    Bella l'ambientazione, bella la figura di Caterina e l'attacamento morboso di Edoardo che acuisce il dolore e la malinconia per la perdita della sorella.
    Ci sono scene disturbanti e toccanti, come valore aggiunto.
    Avrei visto bene una scrittura meno asciutta, ma anche così il tutto funziona egregiamente.
    Un bel quattro.
     
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  7. VdB
     
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    Voto quattro.
    Bella storia, ci hai lavorato sodo e rispecchia, credo, il tuo modo di porti nei confronti delle storie. Il protagonista è vivido e credibile, forse lo è meno il tono con cui racconta. Mi spiego: molto spesso sembra la voce di un bambino, solo a volte quella di un vecchio. Lo si riscontra nello stile delle frasi, semplici e dirette; è un pregio, indubbio, ma al mio occhio anche un difetto. Questione di gusti personali, forse. Di certo è nella rosa dei favoriti, se non il vincitore di quest’edizione.
    Ciao
     
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  8.  
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    Amante Galattico

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    Rimane uno di quei racconti che riesce a inquietarmi davvero, uno di quelli che dici "meno male che non accade veramente"

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  9. bravecharlie
     
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    mah, semplicemente uno dei tre migliori racconti mai postati in USAM. l'elemento fantastico irrompe nel reale senza una sbavatura che sia una, supportato da una scrittura malinconica e partecipe e da descrizioni talmente vivide da generare autentica inquietudine. al momento devo leggere solo quello di Marica, ma per ora questo per me è il top. Voto 6... ehm, no, 5...
     
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  10. Munzic Reload
     
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    Racconto solido, molto triste e malinconico. Con alcune immagini azzeccate e ben costruite.

    Stile fluido e ottimo ritmo. L'elemento sovrannaturale e ben incastrato in un'ambiente realistico tratteggiato con cura e mestiere.

    Un 4 pieno pieno.

    A rileggerti.
     
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9 replies since 1/2/2010, 13:48   262 views
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