Sconosciuto
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Sconosciuto

di Roberto Bommarito - 19k

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  1. RobertoBommarito
     
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    Attenzione: questo scritto ha contenuti destinati a un pubblico adulto. Leggendo di seguito dichiari sotto tua totale responsabilità di avere più di 18 anni. Se terminologia o situazioni esplicite possono offenderti o andare in contrasto con la tua morale, sei pregato di chiudere questo post.

    Sconosciuto.


    È così facile mandare la propria vita a puttane. C'è chi sostiene che le scelte non esistono. E se qualcuno mi domandasse cosa ne penso io, risponderei che hanno ragione. O per lo meno ne hanno in parte. Le scelte non esistono, è vero. Ma solo finché non inizi a farle.
    Avevo quattordici anni il giorno che un certo Diego mi mise davanti una pasticca gialla, del Bacardi e un bicchiere di vetro con l'impronta schifosa del suo pollice, separò con la lametta due piste di bamba e, allungando il braccio, mi disse di farmi prima un tiro. Fino a quel momento non avevo mai bevuto, mai fumato, non mi ero mai fatto, e sopratutto non avevo un fottuto numero, non uno dico, da potere aggiungere sotto la voce "amici" del mio primo Nokia.
    Ci trovavamo in un garage puzzolente, brandelli di cartone, pacchetti accartocciati di Lucky Strike e bottiglie vuote sparse dappertutto, dove Diego diceva di essersi trombato tutte le ragazzine del quartiere e dintorni, benvenuto nel suo piccolo regno. Da qualche mese a quella parte avevo preso a giocare a pallone. Non che ne fossi capace. Il pallone era un oggetto alieno in cui mi capitava d'inciampare, ma a scuola ero un emarginato. Le poche volte che aprivo bocca, il suono della mia voce sorprendeva non solo gli altri ma anche me stesso. Ero noto come "Adolf", per via dei ridicoli baffetti che ero costretto a esibire perché mia madre sosteneva fosse ancora troppo presto per radermi. Mi salutavano col braccio teso. Facevo pena, ma a quattordici anni fare pena è normale, anche se sei l'unico a non saperlo. Insomma, presi a rincorrere il pallone, sperando si accorgessero di me.
    Diego ci teneva a ripetere sempre a tutti, il tono della voce oltre la soglia dei 60 decibel, perché era così bravo da essere l'unico in campo ad avere diritto di inzuppare di sudore la maglia numero dieci del Brasile. Capitano della sua squadra e, siccome non gli bastava, pure di quella avversaria, lui correva ridendo, calciava ridendo, faceva gol ridendo ancora più forte. Diego era un coglione, ma io non ero da meno, anche se in modo diverso. Un giorno, finita l'ennesima partitella con un improbabile numero di reti, mi disse: «Ehi, Adolf, hai da fare?»
    Avrei potuto dire di no, tornarmene a casa e fare ciò che facevo ogni sera: ammazzarmi di seghe. Sdraiato, seduto, in piedi, me ne facevo in media cinque, sei al giorno. Ma alla settima era come sparare a salve. Pulsava, il cazzo pulsava, senza che nulla venisse fuori. Solo una sensazione di prurito alle palle.
    Oppure avrei potuto dire di sì, rischiando di cambiare tutto.
    Ripeto: è così facile mandare la propria vita a puttane.

    Non so bene da dove cominciare. Questa è la prima vera confessione della mia vita. Sì, "confessione" è la parola giusta. Non che il mio desiderio sia quello di essere perdonato per gli errori commessi. Malgrado le lezioni di catechismo, non ho mai creduto che basti davvero così poco per guadagnarsi l'assoluzione. Troppo facile, ammettere le proprie colpe protetti dall'anonimato del confessionale. Troppo coveniente, ripetuto. In altre parole, troppo ipocrita. La ragione per cui sto scrivendo questo è solo dare un senso, una ragione, alle mie azioni. Che mi gettino pure addosso tutta la merda che desiderano, ma nessuno avrà modo di dire che è tutta colpa del mio cervello intossicato, che la mia è solo pazzia.
    Suppongo potrei cominciare dalla verità. Quella intera intendo, omessa dalla Pubblicità Progresso perché, chi può dirlo?, potrebbe avere il risultato opposto sulle persone, stimolando magari la loro curiosità, specialmente quella di nasi, polmoni e braccia vergini, questa gioventù prima bruciata, poi X, e oggi... cosa? Forse semplicemente fuori posto. Indirizzata, trasportata, trascinata dove capita dal Caso.
    Come me.
    L'erba è Rhapsody in blue di Gershwin. Un inizio comico, ridicolo, così come lo è il primo tiro che ti fai. Comico, ridicolo, ma in qualche modo accattivante, indimenticabile. Basta sentire l'attacco iniziale una volta per non dimenticarlo mai più. Per desiderare anzi di riascoltarlo, di riascoltare quella melodia goffa, quella melodia che ti fa pensare al cliché della strafiga che un secondo crede di stare calpestando il mondo sotto i tacchi e quello dopo inciampa. L'erba è quell'attacco ridicolo che vuoi rivivere come la prima volta, anzi meglio, e poi quella calma caotica, l'occhio del ciclone, la teoria della relatività di Einstein denudata di ogni principio matematico: il tuo tempo non ha più a che fare col ritmo frenetico del mondo che ti circonda, né con la gravità del cemento armato, degli edifici, del traffico. Tutto diventa leggero, solo leggero. Ti fai un altro tiro e, Cristo, se non ne vale la pena.

    Diego mi disse che se volevo dimostrargli di essere un tipo cazzuto, ma cazzuto per davvero, adesso era il momento giusto. Ma quello non era solo il momento giusto, no, era il Grande Momento. Era un rito di passaggio, o qualcosa del genere. O per lo meno lo era per me.
    Le cose che da piccolo mi interessavano davvero, quelle che mi facevano dimenticare il resto del mondo, non interessavano agli altri bambini. Loro, gli altri bambini appunto, guardavano i Puffi. Al limite canticchiavano le canzoncine di Cristina d'Avena e di quell'orrendo peluche rosa che non ricordo come cazzo si chiamasse. O se cantasse davvero anche lui. Comunque, non importa. Cosa importa è che io, invece, rubavo di nascosto i vinili del nonno. Da Beethoven al Country, dai Beatles a Nina Simone, gli trovavo di tutto. Aveva anche un giradischi in mogano. Una roba stupenda. Passavo ore ad ascoltare pezzi che conoscevo a memoria. E quando dico ore intendo in realtà giorni estesi in settimane, mesi, anni. Prima di scoprire il piacere di strizzare il pisello, la crudeltà di difetti che non sapevo nemmeno di avere e i falsi rimedi per l'acne, sognavo di divenire musicista. Non sapevo esattamente di che genere, ma avevo questo bisogno istintivo di riprodurre la stessa bellezza immateriale che m'ispirava la musica. Desideravo toccarle, quelle note. Tastarle fra le dita, come fossero un oggetto. Farle mie.
    Ma poi, tutto d'un tratto, divenne così facile vergognarmi di tutto ciò che ero, di tutto ciò che amavo, che guardandomi allo specchio speravo di vederci riflesso qualcun altro. Niente più sogni a occhi aperti. Sopraggiunsero invece cose più urgenti. Bisogni di accettazione. Di inclusione. Di sostituzione. Questa era la mia occasione per diventare più simile a Diego e meno a me stesso. Appunto: anch'io ero un coglione.
    Così presi la canna, la strinsi fra le labbra e non successe nulla. Diego disse: «Ma che è, la prima volta?» E io ovviamente dissi di no, no, no, macchè. E lui disse: «Certo, come no! Aspira, Adolf. Devi aspirare». E io lo feci. La mano tremava, ma lo feci. In modo automatico. E quando mi disse di inghiottire la pasticca, ero già bello in botta. Quando mi riempì il bicchiere, io gli feci: «Un altro». E quando mi disse di sniffare, persi i sensi.
    Mi risvegliai non so quante ore dopo. Sulla t-shirt, del vomito. Suppongo il mio. Fuori era buio. Diego mi aveva lasciato solo nel garage, nel suo piccolo regno. Forse si era spaventato. O più semplicemente ero troppo pesante da trasportare altrove. Oppure con ogni probabilità non gliene fregava proprio un cazzo. Comunque, persi di nuovo i sensi. Lo so perché mi ricordo che un attimo dopo fuori splendeva il sole. Mi alzai aiutandomi col muro.
    Non dico che quel giorno ho mandato a puttane la mia vita. Dico che il solo modo di capire cos'è l'innocenza è perderla.
    Quel giorno non ho rovinato tutto. Ho solo iniziato a farlo.
    Ero fuso. Avrei voluto prendere il bus ma non avevo un soldo in tasca. Casa mia distava pochi isolati. Mi toccava farmela a piedi.
    Quello che ricordo sono frammenti. Briciole di un mosaico mangiucchiato dal tempo. Diapositive mentali, confuse e accavallate. Ricordo un senso di leggerezza alle braccia, alle gambe, quasi non mi appartenessero: eseguivano gli ordini in ritardo, come fossi un palombaro che fatica a muoversi sott'acqua. Il marciapiede sembrava di gomma. Avevo la sensazione di sprofondare di uno o due centimetri a ogni passo, solo per venire poi risputato in superficie. Ricordo delle cose impossibili. Le strade erano vuote. Ma era giorno: non potevano essere vuote. Lo sono, però, nella mia memoria. Vuote, dico. Non un'auto, non un passante. No, mento. Un passante c'era. Ed è proprio questa la prima volta, infatti, che mi capitò di vederlo. Di vedere il mio Sconosciuto. Mi passò vicino, senza nemmeno guardarmi.

    Conta due, conta tre, una hawaiana che ciondola i fianchi in fast forward, che sorride, che parla con l'ombelico, vieni, tranquillo, è luce, è fiato corto, parole che diventano shim-pa-um-da-da, il significato traducibile in ogni lingua del mondo, oltre ogni confine di razza e di perché, dalle margherite nei capelli ai machete che mozzano braccia di bambini, seni, poi urla, anime e clitoridi sacrificati, l'inferno è un servizio giornalistico in testa, l'impotenza in loop, il dolore in loop, il loro, il tuo, ora distanti, inconciliabili, e tira di nuovo e conta uno, due, tre, è i-i-impapa-shiti-pi-ti-mi ba-da-mpa-frenesiiiiiiiiiiiiiii è la cocaina-ina-ina è Biancaneve in reggicalze, la figa umida e perfetta incorniciata di merletto è strisce come binari è la tua vita riflessa sulla carta stagnola è Betty Carter è moccio rosso sangue è ta-ta-ta-ta tata è so how was I to resist?

    Dev'essere una persona che non conosci, con la quale non hai mai parlato, che però ti capita di notare. Non una volta, ma più volte. Non la conosci e in qualche modo sai che non la conoscerai mai. Ma ti capita di incrociarla per strada. Oppure in un bar. O, che cazzo ne so, sul tram. Nei posti più improbabili, insomma. Più volte a distanza di mesi, di anni. La vedi. La noti. E ti domandi se è solo una coincidenza o se magari anche quella persona ha notato te allo stesso modo.
    Diego invece è stato il mio Serpente. Io Adamo ed Eva insieme. Perché fino a quel momento avevo vissuto in un giardino dell'Eden, popolato forse da Bob Dylan e compagnia bella piuttosto che leoni vegetariani, daini e usignoli, chissà, ma pur sempre il mio personale fottutissimo giardino dell'Eden. Ma dopo Diego ne vennero altri. Altri soffi di vento, altre correnti. O meglio spinte, spinte tutt'altro che metaforiche. Spinte, spintoni e il primo pugno dato e quello ricevuto. E poi la mia prima tipa.
    «Cazzo.»
    «Scusa.»
    «Ti ho detto di non venirmi sopra!...»
    Lei si chiamava Beverly. Beverly come la città statunitense. E quell'odioso serial Tv. Ogni volta che lo dico la gente non mi crede. Non le ho mai domandato perché i genitori - padre italiano, madre croata - avessero deciso di darle un nome americano, ma si chiamava Beverly.
    «Aspetta.»
    «Cosa?» fece lei, asciugandosi la pancia con gli Scottex: «Per poco non mi prendevi in un occhio!».
    Io, per sfuggire all'imbarazzo, dissi: «Ci facciamo un tiro? »
    «Dio, ma quante te ne fai al giorno?»
    «È Marocco, mica cazzi. Comunque, non mi hai ancora risposto.»
    «Risposto a cosa?»
    «Ce ne hai uno anche tu o no?»
    «Uno di che?»
    «Uno tuo.»
    Lei sbuffò. La guardai annusare il fazzoletto sporco e fare una smorfia schifata, poi gettarlo via. Ora floscio, curvo, rugoso, il mio cazzo sembrava un lombrico a cui mancava il conforto del suo piccolo tunnel sotterraneo. Lei disse: «Di nuovo con quella storia dello Sconosciuto?»
    «E allora?»
    «Beh, forse. Cioè, se ci penso...» Beverly fu anche la prima a cui feci la domanda, la prima a rispondermi di sì. «E con questo?»
    «Ti sei mai domandata se possa avere un significato?»
    «Sai cosa? Ti fai troppe pippe mentali.»
    «Credi sia solo un caso che ci capita di notare quella persona, proprio quella persona lì, e non un'altra? Sai a chi somiglia il mio Sconosciuto? Hai presente Benny Goodman? Un po' a lui e un pochino anche a Sinatra. Frank Sinatra. La stessa faccia acqua e sapone da foto in bianco e nero.»
    «Se hai questa fissa della musica, perché non impari a suonare qualcosa?»
    «La vita mi ha portato altrove.»
    «Di questo passo finirai in ospedale o in prigione o entrambe le cose, altroché.»
    «Strano però, no? Voglio dire, perché proprio questo tipo?»
    «Forse è come domandarsi perché camminiamo invece di volare: non c'è un perché. Lo facciamo e basta. Gli uccelli volano. Noi no. E' una questione di puro Caso.»
    «Se fosse una questione di puro Caso non si ripeterebbe.»
    «Fammi fare un tiro.»
    «Oh, adesso hai cambiato idea?»
    Dopo Beverly, iniziai a farlo con chiunque incontrassi. Aspettavo il momento giusto: quando si esauriscono tutte le stronzate che si dicono per riempire i tempi morti. La mia era una domanda-imboscata. Le domande-imboscata sono quelle che ricevono le risposte più sincere. Perché le persone non se l'aspettano, non sono pronte a liquidarti con un luogo comune o con una risposta preconfezionata. Ogni volta la risposta era sempre la stessa.
    La mia non è pazzia.
    So cosa dico: ognuno di noi ha un suo Sconosciuto.

    L'eroina non si chiama davvero eroina. L'eroina si chiama in tanti modi diversi e uno di questi è "catrame nero". Non puoi fare a meno di pensare a cormorani con le ali appiccicose soffocare in una pozza d'olio. A spiagge una volta giallo-oro, paradisi da cartolina, adesso ricoperte di vergogna. Catrame nero è un nome adeguato. Perché ti trascina giù, in un abisso senza fondo. L'eroina è il vuoto.
    Sono un uomo solo. I miei punti cardinali sono sempre stati nomi e cognomi transitori. Incidentalmente nella mia vita. Incidentalmente importanti oggi, addio domani. Se qualcuno mi domandasse dove sono stato tutto questo tempo? non saprei cosa rispondergli. Certo potrei dirgli che dopo Beverly ci fu Veronika e dopo Veronika, Maria. Che venni cacciato da scuola da un prof. che faceva di cognome Lagni. Un mio compagno di classe, Scoppio lo chiamavano tutti per ragioni che ignoro, mi aveva lasciato copiare. La solita storia: Lagni se ne accorse. Punì il sottoscritto. Scoppio pure, peggio. Lo fece con gusto, il bastardo. Mi salutarono a calci in culo, dopo avere dato a Lagni del pezzo di merda di fronte alla classe intera. Potrei raccontare di altri guai che ho avuto poi o di come mi ritrovai a fare il cameriere nel locale dove lo stesso Scoppio lavorava. Disse che cercavano gente. Poi a te piace tanto la musica. Mi fece: «Perché no?» e io non seppi rispondere in altro modo se non facendogli eco: «Perché no?» Non saprei dire dove sono stato davvero perché non ho mai preso una decisione, non una sola, in vita mia. Sono solo capitato se non in un posto in un altro. Mi sono lasciato portare qua e là, ovunque, ma sempre via da me stesso.
    Fino a che punto bisogna spingersi per riprendersi la propria vita?
    The New Cotton Club, si chiamava il locale. Nulla a che vedere col leggendario club della New York anni '20, quello reso famoso dalla sovrabbondanza di gangster, piume di pavone e irresistibili cosce nude. Questo più che un club era la tana di un ratto, troppo pochi metri quadrati e immagini pseudo-nostalgiche in bianco e nero dei "Roaring Twenties" alle pareti, ma comunque abbastanza fuori posto, qui nel cuore del Bel Paese, da isolarti per bene dal resto del mondo.
    Fra luci soffuse e tavoli pieni e vuoti, passavano un po' di tutto. Dal Miles Davis delle origini, quello pacato, riflessivo, malinconico, capace di accarezzarti l'anima come se sapesse meglio di te dove scovarlatela, all'acid: improvvisazioni che sembravano più stringhe di rumori casualmente annodati fra loro che non musica. E sotto i tavoli, a parte le note, passava in abbondanza anche tutto il resto. E tutto il resto, a questo punto della mia vita, poteva essere solo catrame, tanto catrame nero.
    È trascorso tanto di quel tempo dai giorni in cui inciampavo nel pallone che quei ricordi sembrano appartenere a qualcun altro. Nel corso degli anni ho rivisto il mio Sconosciuto altre dodici volte. Nei momenti più assurdi. Apparentemente senza che ci fosse un perché, una logica. Dico "apparentemente", sì, perché le volte successive alla prima hanno un'importanza solo marginale, se si considera l'episodio originale, il primo appunto, o meglio il significato del primo episodio.
    La mia cacciata dall'Eden.
    La mia ingenuità mandata a puttane.
    La perdita della mia innocenza.
    L'allontanarmi da quello che sarei dovuto essere.
    Mi trovarono privo di coscienza nel cesso del locale, la spada ancora attaccata al braccio con la stessa fottuta tenacia di una zecca. Quando chiudi gli occhi non vedi il buio, ma la luce che ti attraversa le palpebre. Arancione, invasiva. Anche quando elimini ogni fonte di luce esterna continui comunque a vedere spettri di oggetti e forme fluttuare sopra di te. E quando spariscono anche questi, non è il buio a sopraggiungere, ma altre immagini: quelle che persistono l'indomani mattina, solo per qualche minuto, il tempo di renderti conto che volente o nolente ti aspetta un'altra giornata da vivere. Il buio, quello vero, è una condizione innaturale. Non puoi descrivere il buio a chi non lo conosce. Ma è questo l'overdose. Il buio. Il vuoto. Io sono sopravvissuto al vuoto. Grazie Narcan. Ma è stato culo, nient'altro. I medici me lo dissero scuotendo la testa, la fronte tutta corrucciata. L'ennesima giovane vita destinata allo sciacquone. Eppure era come se la mia vita non mi appartenesse. Come avrebbe potuto importarmene?
    Quella stessa sera - avevamo aperto da poco - avevo detto a Scoppio: «Oh».
    «Che ti rode?»
    «Vedi quello? Quello lì.»
    «Sì, ma non puntare.»
    «È lui.»
    «Lui chi?»
    «Il mio Sconosciuto.»
    «Quello? Sai chi è quello?»
    Non sono pazzo. Sono solo uno che ha avuto la fortuna di comprendere quello che altri ignorano. «No, chi è, scusa?»
    «Quello è... non mi ricordo come diavolo si chiama, adesso» disse Scoppio: «Ma mi sa che lo vedremo spesso da queste parti. Dicono se la cavi poco male col sax».
    Non sono pazzo quando dico che il vostro Sconosciuto è colui che sareste potuti essere ma non siete stati. La vostra controparte.
    Il mio Sconosciuto è l'uomo che sarei dovuto essere io fossi stato abbastanza sveglio da commettere i miei errori piuttosto che quelli di qualcun altro. I miei errori, miei solo, nati dal mio estro, dalle mie voglie, dai miei perché, non da quelli del Caso. Il mio Sconosciuto è il risultato delle scelte che io non ho mai fatto.
    Ripeto: fino a che punto bisogna spingersi per riprendersi la propria vita?

    Ho solo preso una decisione. La prima. Forse, al di là di tutto, qualcuno capirà. Forse in fondo m'importa solo che qualcuno capisca, come se bastasse questo per non sentirsi soli. Mai più soli. Questa volta non è stato il Caso a comandare le mie azioni. Per la prima volta, sono stato io.
    Questa è una confessione.
    Cosa so di certo è che adesso che la giusta alternativa a me stesso non c'è più, adesso che lui, il mio Sconosciuto, non c'è più, adesso sono io l'unico inevitabile modo in cui posso essere. Adesso, malgrado tutti gli errori, sono comunque io la migliore versione di me stesso: un ragazzo esasperato, un coglione, un omicida che se non altro ha trovato il coraggio di scegliere.

    Edited by RobertoBommarito - 17/4/2010, 08:43
     
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    Losco Figuro

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    Non voto perché trovo difficile dare un giudizio al racconto, non mi prende ma in gran parte è un problema di genere e non è il caso che voti influenzato da questo.
    Mi limito a degli appunti sparsi.

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Da qualche mese a questa parte avevo preso a giocare a pallone.

    "a quella parte", il riferimento non è al presente in cui narra

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Un giorno, finita l'ennesima partirella con un improbabile numero di reti, mi disse: «Ehi, Adolf, hai da fare?».

    Refuso: "partitella". Il punto alla fine non va messo, già la frase ha un segno di punteggiatura alla fine.

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    La ragione per cui sto scrivendo questo è solo per dare un senso, una ragione, alle mie azioni.

    Direi che il "per" è di troppo. "La ragione è dare un senso"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Loro, gli altri bambini appunto, guardavano i Puffi. Al limite canticchiavano le canzoncine di Cristina d'Avena e di quell'orrendo peluche rosa fosforescente che non ricordo come si chiamasse.

    Magari "fluorescente", non mi pare che brilli al buio ^__^

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Sulla t-shit, del vomito.

    Ecco, magari a quel punto lo è diventata davvero, però "t-shirt" :-D

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Mi toccava farla a piedi.

    "farla" cosa? O "farli", gli isolati, o "farmela", andarci.

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    dalle margherite nei capelli ai macete

    "machete"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    «Ti ho detto di non venirmi sopra!...»

    Dovendoli proprio accoppiare, i segni di punteggiatura non lui e la tipa, meglio ...!

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Non le ho mai domandato perché i genitori - padre italiano, madre croata - decisero di darle un nome americano, ma si chiamava Beverly.

    "avessero deciso"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Lei sbuffò. La guardai annusare il fazzoletto sporco e fare una smorfia schifata, poi gettalo via.

    Refuso: "gettarlo"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Perché le persone non se l'aspettano, non sono pronti a liquidarti con un luogo comune o con una risposta pre-confezzionata. Ogni volta la risposta era sempre la stessa.

    "pronte" (le persone), "preconfezionata"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Se qualcuno mi domandasse dove sono stato tutto questo tempo? non saprei cosa rispondergli.

    Perché quel punto interrogativo? :huh:

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Questo più che un club era la tana di un ratto, troppi pochi metri quadrati e immagini pseudo-nostalgiche in bianco e nero dei "Roaring Twenties" alle pareti, ma comunque abbastanza fuoriposto, qui nel cuore del Bel Paese, da isolarti per bene dal resto del mondo.

    "troppo pochi", "fuori posto"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    I medici me lo dissero squotendo la testa, la fronte tutta corrucciata.

    "scuotendo"

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    «Quello è... non mi ricordo come diavolo si chiama, adesso» disse Scoppio: «Ma mi sà che lo vedremo spesso da queste parti. Dicono se la cavi poco male col sax».

    "sa", senza accento

    CITAZIONE (RobertoBommarito @ 1/4/2010, 03:03)
    Questa è una confessione. Se qualcuno la sta leggendo vuol dire che ho trovato il coraggio di premere sull'acceleratore senza sterzare all'ultimo momento.

    Non l'ho capita. Se l'ha scritta prima di fare quello che afferma di aver fatto (ma allora che confessione è?), non vedo perché il fatto di poterla leggere dipenda da questo. Se l'ha scritto dopo allora sa già di averlo fatto e non vedo il perché del dubbio.
     
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  3. RobertoBommarito
     
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    Grazie CMT,

    sempre utilissimi i tuoi commenti!
     
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  4. s-m-n
     
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    Scrivi davvero molto bene. Questo racconto è interessante e mi ha preso durante le descrizioni degli avvenimenti più importanti, ma lo trovo un po' troppo frammentario. Non so come spiegarlo, ma preferirei una storia più lineare con un inizio e una fine piuttosto che vari racconti ambientati in momenti differenti.

    Poi capisco che sia anche un genere e uno stile di scrittura. Dando un voto per la tecnica darei 4, per il mio "gusto" sarebbe 2 per cui metto un 3 di media.

    Simone

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    www.simonenavarra.net
     
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  5. RobertoBommarito
     
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    Grazie Simone, per lettura, voto e commento!
     
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  6. rehel
     
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    Un racconto scritto con uno stile che strizza l'occhio al flusso di coscienza, mentre da un altro lato sembra indulgere al difetto della prima persona narrante lanciata a briglia sciolta, quasi fuori controllo.
    E se è vero che una storia lunga, o addirittura un romanzo, sarebbero per me poco digeribili, se così scritti. Una vicenda di questa lunghezza ci può stare.
    Io credo di avvertire parecchia bravura dietro questo pezzo. Non si può improvvisare, ci vuole mestiere e classe. Lo ripeto, non è il mio genere, ma io sento che questo è un signor pezzo, nel suo genere.
    Mi è piaciuta molto una frase:
    SPOILER (click to view)
    Il mio cazzo sembrava un lombrico a cui mancava il conforto del suo piccolo tunnel sotterraneo.

    Anche in questo caso azzardo un 4. ;)
     
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  7. RobertoBommarito
     
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    Ti ringrazio molto, rehel.

    Credo che narrare in prima persona sia non privo d'insidie. Ho letto alcuni romanzi che secondo me non potevano essere scritti diversamente, come per es quelli di haruki murakami. Secondo me alcune storie possono essere scritte solo in prima persona, così come altre al contrario solo in terza. Forse è proprio la storia a volte a richiedere di essere narrata in un modo e non in un altro. Sono contento che tu l'abbia apprezzato.

    Non commento nulla sulla frase del lombrico... :D

    (Però credo che hai dimenticato di lasciare il voto :P ).
     
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  8. rehel
     
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    Oooopppssss... ;) fatto!
     
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  9. marramee
     
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    Ciao.
    Questa volta la storia è senz'altro più coerente di quella dei racconti precedenti, di facile comprensione. Forse per questo l'ho trovata un po' povera. L'originalità del racconto sta nello stile in cui scrivi, nel tuo modo di raccontare gli eventi, che sono comunque un po' frammentari.
    SPOILER (click to view)
    Non mi convince del tutto la logica del finale: perché uccidere il suo doppio e poi suicidarsi? Non lo trovo molto logico, sarebbe più comprensibile se facesse una o l'altra delle due azioni. Anche le spiegazioni che tu dai non reggono: il protagonista ha sempre fatto scelte, anche se sbagliate. Dal racconto non mi pare che abbia subito alcuna costrizione. Il fatto stesso che l'altro esista implica che queste scelte sono state fatte, ed è un po' troppo riduttivo attribuirle al Caso, un voler cercare una giustificazione a tutti i costi.


    Neanche stavolta riesco a darti quattro, perché il tuo stile, per quanto originale, lo trovo sempre un po' pesante e costruito.
    Comunque un tre pieno.

    A proposito:
    CITAZIONE
    Ciò CHE so di certo è CHE adesso CHE la giusta alternativa a ciò CHE sono non c'è più, adesso CHE lui,

    c'è un leggero eccesso di CHE.
     
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  10. RobertoBommarito
     
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    Grazie per lettura, voto e commento.

    QUOTE
    Non mi convince del tutto la logica del finale: perché uccidere il suo doppio e poi suicidarsi?

    ma lui non si suicida. uccide la sua alternativa investendolo, sì, ma leggendo la frase finale è ovvio che non si uccide, altrimenti come potrebbe essere "ora la migliore alternativa di se stesso" se fosse morto?

    QUOTE
    Ciò che so di certo è che adesso che la giusta alternativa a ciò che sono non c'è più, adesso che lui, il mio Sconosciuto, non c'è più, adesso sono io l'unico inevitabile modo in cui posso essere. Adesso, malgrado tutti gli errori, sono comunque io la migliore versione di me stesso: un ragazzo esasperato, un coglione, un omicida che se non altro ha trovato il coraggio di scegliere.

    QUOTE
    Anche le spiegazioni che tu dai non reggono: il protagonista ha sempre fatto scelte, anche se sbagliate.

    come viene ripetuto diverse volte nel racconto, fin proprio dalla prima battuta, è l'opposto: il protagonista, nella sua testa (ed essendo narrato in prima persona è questa l'unica dimensione che conta) è convinto di non avere mai fatto alcuna scelta

    QUOTE
    Le scelte non esistono, è vero. Ma solo finché non inizi a farle.

    è proprio questo il punto del racconto. fino alla scelta (come dice lui stesso, la prima) di uccidere la sua alternativa, lui non ha mai scelto. è convinto di essersi fatto portare qua e là dal caso.
    QUOTE
    Ho solo preso una decisione. La prima.

    QUOTE
    «Se hai questa fissa della musica, perché non impari a suonare qualcosa?»
    «La vita mi ha portato altrove.»

    QUOTE
    Mi fece: «Perché no?» e io non seppi rispondere in altro modo se non facendogli eco: «Perché no?»

    QUOTE
    questa gioventù prima bruciata, poi X, e oggi... cosa? Forse semplicemente fuori posto. Indirizzata, trasportata, trascinata dove capita dal Caso.
    Come me.

    e questi sono solo alcuni esempi. il Caso è l'opposto della scelta. è questo il punto del racconto. ed è ripetuto tantissime volte, dall'inizio alle battute finali.

    QUOTE
    ed è un po' troppo riduttivo attribuirle al Caso, un voler cercare una giustificazione a tutti i costi.

    il punto non è se è riduttivo o no. questa è la storia del personaggio. se in realtà le sue siano state scelte o meno non ha alcuna importanza, perché quello che conta è cosa il personaggio crede. nient'altro. può anche avere torto: non cambia nulla. quello che conta è cosa il personaggio crede nella sua testa. questa è la sua storia. conta solo cosa lui crede essere vero, non cosa è vero.

    Edited by RobertoBommarito - 5/4/2010, 07:51
     
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  11. marramee
     
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    Non l'avevo proprio capito, scusa. Così la storia assume la sua logica. Ti consiglio di rivedere un attimo gli ultimi due paragrafi, però, perché possono indurre in errore.
    SPOILER (click to view)
    Prima dice che farà una cosa, e dopo di aver ucciso il suo doppio. Con questa impostazione non si riesce a capire bene la sequenza temporale. Cercherei di farli un pizzico più chiari.

     
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  12. RobertoBommarito
     
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    Ok, grazie del consiglio.
     
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  13. Gordon Pym
     
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    Ciao RobertoBommarito, ho trovato il tuo un buon pezzo, che ho apprezzato nel complesso fatto salvo forse per qualche paragrafo intriso di gergo "tecnico" e frammentario nella struttura, ma capisco che è voluto, e probabilmente si addice al soggetto narrato.
    Lo stile mi è piaciuto, arrivo a 4.


    Qualche parere:

    CITAZIONE
    ... dove Diego diceva di essersi trombato tutte le ragazzine del quartiere e dintorni, benvenuto nel suo piccolo regno.

    La frase che ti ho sottolineato mi spiazza. La farei precedere da due punti, ma soprattutto a chi ti riferisci con "benvenuto"? Al lettore? A te? Non so, secondo me è di troppo.

    CITAZIONE
    Facevo pena, ma a quattordici anni fare pena è normale, anche se sei l'unico a non saperlo. A non sapere che è normale, intendo.

    Anche questa la considero di troppo, non per i motivi dell'altra ma perché è un'elaborazione dell'ovvio.

    CITAZIONE
    Capitano della sua squadra e di quella avversaria

    ? ... è un'iperbole?

    CITAZIONE
    Ti fai un altro tiro e, Cristo, se non ne vale la pena.

    Secondo me dopo la "e" ci vorrebbero i puntini di sospensione.

    CITAZIONE
    Le cose che * mi interessavano davvero

    * ci aggiungerei un "da piccolo", visto che se non ho capito male in questo paragrafo ti riferisci a un periodo precedente.

    CITAZIONE
    Questa è una confessione. Se qualcuno la sta leggendo vuol dire che ho trovato il coraggio di premere sull'acceleratore senza sterzare all'ultimo momento.

    Quel "vuol dire che" lo trovo fuorviante (inizialmente pensavo fosse andato a suicidarsi, lasciandoci appunto questa confessione) - se non la legge nessuno significa che non hai commesso il fatto/trovato il coraggio di prendere una decisione?
    Insomma, l'esistenza della confessione, già bella che scritta perchè l'omicidio è stato commesso, prescinde la sua ipotetica lettura.
     
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  14. RobertoBommarito
     
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    Grazie Gordon Pym,

    ci sono tratti dove ho fatto molta attenzione a come scrivevo, parti strutturate diciamo così, e altri in cui mi sono lasciato totalmente andare (un po' alla ali smith in the accidental), ignorando anche le regole grammaticali, in entrambi i casi volutamente. per es:
    QUOTE
    dove Diego diceva di essersi trombato tutte le ragazzine del quartiere e dintorni, benvenuto nel suo piccolo regno.

    non è grammaticalmente corretto ma nel scriverlo mi è balzata in mente l'espressione e ho voluto aggiungerla. come per es:
    QUOTE
    Disse che cercavano gente. Poi a te piace tanto la musica.

    lì avrei dovuto scrivere o la seconda frase fra virgolette oppure: poi a ME piaceva tanto la musica. ma invece è quella l'espressione che mi è venuta in mente scrivendola, e ho preferito lasciarla così. non so esattamente perché, forse mi sbaglio, ma credo renda più l'idea di cosa si vuole dire. credo sia in qualche modo più intimo.

    per altre cose invece sono d'accorto. per es:
    QUOTE
    Le cose che * mi interessavano davvero

    o la parte finale.

    provvederò a rimediare.

    grazie di nuovo.

    Edited by RobertoBommarito - 7/4/2010, 07:12
     
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  15. nescitgalatea
     
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    A me è piaciuto davvero molto. Sarà che amo questo genere un po' visionario ma contaminato, in modo violento, ai fatti reali della vita, sarà che lo trovo forte e allo stesso tempo disperato, che mi è piaciuta davvero molto l'idea dello sconosciuto, che condivido in maniera totale la narrativa "esasperata", la proprietà e la varietà nel linguaggio, che, per dirla breve, sarà quattro!

    Qualche suggerimento/annotazione:

    "O per lo meno hanno ragione in parte" Metterei "o per lo meno ne hanno in parte"
    "Facevo pena... ecc ecc" questa frase la aggancerei alla storia del pallone perché messa lì mi dava l'idea che il personaggio facesse pena per i baffetti e via dicendo
    partirella - refuso - partitella
    "Che mi gettino pure addosso..." e a seguire, tanti, troppi "che"...
    perconfezzionata - refuso, una zeta sola
    Ultimo capoverso: non inizierei con Cosa ma con Quello e sempre nella prima riga ci sono troppi "che".

    Il passaggio "conta due, conta tre..." è bellissimo! Anche alcune trovate come Beverly, come il cemento nero, oltre a varie soluzioni narrative che hai adottato e che sono davvero molto interessanti.

    grazie
     
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23 replies since 1/4/2010, 02:03   529 views
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