Un'Altra Vita
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Un'Altra Vita

di Stefano Pastor - 38mila caratteri

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    UN'ALTRA VITA


         «Muoviti, fottuto negro di merda! Usa quelle gambe, spingi!»
         La frusta schioccò, e fu Zeb a essere colpito. Moses continuò a spingere, con tutta la sua forza. La corda tesa gli segava il petto, sfregandolo a sangue.
         Il bue era davanti a loro, e anche lui tirava, gli zoccoli puntati sul terreno. La frusta colpì pure lui, che muggì.
         «Forza, avanti!» ruggì padron Hennessy. «Non servite a niente, siete inutili!»
         Non ci volevano quelle maledette radici proprio in mezzo al nuovo campo che Padron Hennessy aveva appena comprato.
         Un tempo doveva esserci un bosco lì, e benché i tronchi fossero stati tagliati e il terreno livellato, le radici degli alberi avevano creato un intrico sotterraneo che impediva qualsiasi coltivazione.
         Erano già due giorni che lavoravano, e finora avevano estratto le radici di otto alberi, ma era solo l’inizio, il campo era molto vasto. Moses dubitava che sarebbe riuscito a sopravvivere. Lui e Zeb, nonché il vecchio bue, dovevano sradicare una radice dopo l'altra, senza riposo.
         Non era ricco, padron Hennessy. Aveva una bella casa, dove viveva con la moglie e la figlia; sì, qualche volta Moses vi era entrato. Possedeva solo due schiavi in grado di lavorare nei campi, Zeb e Moses. La moglie di Moses, Pheby, cucinava per gli Hennessy, e Spencer, il loro unico figlio, grazie al cielo la aiutava in casa servendo in tavola. Era ancora troppo giovane per la vita nei campi, anche se Moses temeva che prima o poi li avrebbe raggiunti.
         Padron Hennessy non avrebbe dovuto comprare quel campo, non ce la facevano a coltivarlo, erano troppo pochi. Sarebbero stati pochi anche senza trovare quell'impedimento. Diceva sempre che avrebbe comprato un altro schiavo, ma l'occasione non si era mai presentata, o forse non l'aveva cercata.
         Non era un buon padrone, Hennessy, troppo esigente e pure violento, facile a scoppi d'ira. Moses non si lamentava mai, lui aveva una famiglia a cui badare. Zeb era più vecchio di lui ed era solo; sconfitto e perdente fin dalla nascita.
         Quando la radice si staccò dal terreno, Moses e Zeb caddero a terra per il contraccolpo. Il bue continuò il suo cammino, trascinandoli per qualche metro, assieme alle corde con cui erano legati.
         «E questo che diavolo è?»
         Faticavano a respirare, non avevano la forza di alzarsi, Moses vide padron Hennessy scendere da cavallo e contemplare perplesso la radice sradicata. Lo guardò avvicinarsi, poi farsi indietro. Sembrava preoccupato.
         Moses aiutò Zeb ad alzarsi, poi si trascinarono fino alla voragine. Presagiva aria di guai.
         Padron Hennessy taceva. Moses studiò lo strano oggetto impigliato nella radice e comprese perché era stato così complicato tirarla fuori. Sembrava di ferro ed era molto grande. Benché fosse sotto terra da chissà quanto tempo non si era arrugginito. Aveva una forma allungata, come quella di un proiettile di fucile, solo che era alto più di un metro.
         «Non toccatelo» ordinò padron Hennessy, con una voce insolitamente debole.
         «Cos'è, padrone?» osò chiedere Zeb.
         Hennessy non lo sapeva, ma forse lo sospettava, perché era sempre più preoccupato. «Dev'essere qui da parecchio.»
         Le radici l'avevano circondato, come se l'albero gli fosse cresciuto intorno, l'avevano incorporato e non sarebbe stato facile estrarlo.
         «Che dobbiamo fare?»
         Padron Hennessy non sapeva neppure quello, ma continuò a farsi indietro. Era combattuto, quell'oggetto poteva essere pericoloso, però non poteva certo lasciarlo lì, se sperava un giorno di poter sfruttare quel campo.
         Non gli andava molto di rischiare la vita dei suoi schiavi, ma non poteva fare altrimenti. «Non toccatelo, portate via la radice e basta. Laggiù, insieme alle altre.»
         Nel dire ciò continuò a indietreggiare, fino a raggiungere il bordo del campo.
         Moses iniziò ad avere paura, e chiese consiglio a Zeb. «Cosa credi che sia?»
         Zeb fece una smorfia, perché aveva avuto la stessa idea di padron Hennessy. «Un proiettile.»
         Moses fu tentato di sorridere. «Non esistono fucili così grandi!»
         «Non di un fucile, stupido! Di un cannone!»
         A Moses non era mai capitato di vedere un cannone, quindi lo considerò possibile. «Ed è pericoloso?»
         «Non lo so. Meglio non scuoterlo troppo.»
         Non ci sarebbero mai riusciti, avrebbero dovuto trascinarlo attraverso tutto il campo.
         Moses si girò a guardare padron Hennessy e vide che l'uomo gli stava facendo segno di continuare. Si sentì ancora peggio.
         «Cosa dobbiamo fare?»
         «Quello che ha detto lui.»
         Non c'era scelta. Anche se c'era pericolo per la loro vita, non potevano disubbidire.
         «Non rischierebbe mai il vecchio Athos,» disse Zeb.
         Loro lo chiamavano così, il bue. Moses aveva i suoi dubbi. Quel campo era diventato un'ossessione per padron Hennessy, non vi avrebbe mai rinunciato.
         Finse di crederci, anche per rincuorare Zeb, e si mise a pregare. Pregò per tutto il percorso, mentre trascinavano quella radice sul terreno. Cercarono di spianarlo, di togliere ogni pietra, perché non prendesse colpi. Furono lentissimi, ma padron Hennessy non si lamentò.
         Quando raggiunsero il limitare del campo fecero rotolare anche quella radice insieme alle altre, e tirarono un sospiro di sollievo.
         «Era ora!» tuonò padron Hennessy, ritrovando il suo vigore. «Buoni a nulla! Sempre a perdere tempo!»
         E continuò a sbraitare finché il sole non iniziò a calare e fu ora di tornare a casa.
         
         Moses e Pheby vivevano in una baracca, accanto alla casa dei padroni. Zeb abitava con loro, il suo giaciglio era in un angolo, separato solo da un lenzuolo appeso. Non c'era molta intimità, dormivano tutti insieme, e nella stessa stanza cucinavano e mangiavano.
         Pheby lo stava aspettando davanti alla porta, e questo fu nuova fonte di preoccupazione per Moses. In quel momento lei avrebbe dovuto essere nella casa padronale a servire la cena. In genere non la lasciavano libera che a notte inoltrata. Era agitata, infatti, e aveva fretta.
         «Parlaci tu» disse. «Cerca di aiutarlo.» Visto che il marito non capiva, scosse il capo con stanchezza. «Ha combinato un altro pasticcio e stavolta l'hanno frustato.»
         Moses si sentì il cuore in gola. «Chi è stato?»
         «Chi vuoi che sia stato?» ribatté Pheby, seccata. «La signora Hennessy, quella strega!»
         Strinse il braccio del marito e non disse altro. Si allontanò verso la casa.
         Zeb era sfinito, ma sospirò. «Vado a controllare gli animali.»
         Gli aveva concesso un po' di intimità, e Moses gliene fu grato. Non era facile per lui accettare certe cose. Anche se Spencer era suo figlio, gli Hennessy restavano comunque i suoi padroni, e a loro tutto era concesso.
         Entrò nella baracca a capo chino, perché quel compito era troppo gravoso per lui.
         Spencer era a terra, steso sul letto, e stava piangendo. Pheby l'aveva già curato, infatti aveva un impacco sulle spalle, ma alcune gocce di sangue l'avevano già sporcato. Il bambino aveva otto anni, ma era così piccolo e fragile da dimostrarne solo sei.
         Non aveva importanza cos'avesse combinato, se rovesciato un bicchiere o fatto cadere a terra una posata, Spencer non era adatto a servire in casa dei padroni. Aveva sempre la testa piena di sogni, non si concentrava. Non passava settimana senza che venisse punito almeno una volta. Presto, molto presto, si sarebbe ritrovato anche lui a lavorare nei campi.
         Cosa poteva dirgli Moses? Quale consiglio poteva dare a suo figlio? Come avrebbe potuto rincuorarlo?
         Si sedette solo al tavolo e si mise a piangere pure lui.
         
         «Cos'è?»
         Moses la tacitò subito, indicando il lenzuolo oltre il quale Zeb dormiva già da un paio d'ore.
         Pheby era sfinita. Senza Spencer ad aiutarla, il suo lavoro era stato ancora più pesante ed era dovuta restare più del solito. All'alba sarebbe dovuta tornare, per preparare la colazione.
         «Cos'è?» chiese di nuovo a voce più bassa. «Dove l'hai preso? L'hai rubato?»
         Moses alzò le spalle. In verità non lo sapeva neppure lui. «L'abbiamo trovato nel campo. Il padrone me l'ha fatto buttare via.»
         Questo non cambiava di molto la situazione. Pheby girò intorno al tavolo, guardando lo strano oggetto che Moses vi aveva posato sopra. «A che serve?»
         «Credo che sia un proiettile, o che faccia parte di un'arma. Qualcosa del genere.»
         Le sfuggì quasi un altro urlo. «E l'hai portato qui? Fallo sparire! No, non toccarlo, potrebbe farti del male.» Neppure lei sapeva come comportarsi. «Perché l'hai fatto?»
         Moses non lo sapeva, non aveva giustificazione. Appena Spencer si era addormentato, era tornato nel campo. Aveva impiegato quasi un'ora a districare l'oggetto dalle radici che lo imprigionavano. L'aveva trovato insolitamente leggero, date le dimensioni. Non era stato un problema portarlo a casa.
         Forse valeva qualcosa, ma per chi? Loro erano solo schiavi, non sarebbero neanche riusciti a venderlo, si sarebbero solo messi nei guai. Forse l’aveva preso solo perché voleva scoprire cosa fosse.
         «Cosa significa? Dimmi qualcosa!»
         Moses la implorò di fare silenzio, ma era troppo tardi. Fu Spencer a svegliarsi, per fortuna, e non Zeb.
         «Cos'è, papà?»
         Moses fu felice di vedere che aveva smesso di piangere. La curiosità ancora una volta era stata più forte del dolore. Quando fece per alzarsi, Pheby tentò di fermarlo.
         «Ce la faccio, sto bene.»
         Ma non era vero, perché raggiunse il tavolo barcollando. Vedendo le sue condizioni, Moses fu preso da vergogna e abbassò il capo.
         Spencer guardò a bocca aperta quell'involucro, che era più grande di lui. Girò intorno al tavolo, stupito.
         «Non toccarlo, è pericoloso!» si raccomandò Pheby. «È un'arma. Papà è stato pazzo a portarlo qui.»
         Spencer si arrampicò su una sedia e indicò un punto, arrivando quasi a toccarlo. «Qui c'è scritto qualcosa.»
         C'erano dei segni, sì, l'aveva notato anche Moses, però non aveva mai imparato a leggere né a scrivere.
         Pheby strinse le labbra, cercando di trattenersi, senza però riuscirci. «Tu lo sai leggere, Spencer?»
         Persino Moses sobbalzò. Era sbagliato, terribilmente sbagliato, se i padroni l'avessero scoperto non se la sarebbe cavata con qualche frustata. Ma non era colpa di Spencer, era Miss Lily la causa di tutto.
         Miss Lily era la figlia degli Hennessy, aveva sedici anni ed era una ribelle. Non si accontentava della vita nella fattoria, lei era voluta andare a scuola, anche se era una femmina. Litigava in continuazione con i genitori, e in fondo era la causa della maggior parte delle punizioni che erano state inflitte a Spencer.
         Lei gli riempiva la mente di idee assurde, gli diceva che al Nord gli schiavi non esistevano, che la schiavitù era sbagliata, gli aveva persino insegnato a leggere, di nascosto. Era una ragazza incosciente, e anche se con loro era sempre stata gentile, un giorno avrebbe causato la rovina di Spencer, Moses ne era convinto.
         «Non conosco questa parola» disse Spencer. «Non l'ho mai imparata. Devo chiederlo a Miss Lily.»
         «Cosa c'è scritto?» chiese Pheby.
         «C-A-P-S-U-L-A DEL TEMPO. Non so cosa sia capsula, però. Ci sono anche dei numeri. 15122050.»
         «Dev'essere il marchio di chi l'ha costruita» disse Moses, che aveva trovato qualcosa di analogo anche su altri oggetti.
         Strano nome, capsula del tempo. Chissà cosa voleva dire. Moses accantonò il problema e prese in braccio Spencer, cercando di non fargli male. «A letto, adesso. È già tardi. Domani decideremo cosa farne.»
         Lo strano involucro, simile a un proiettile e chiamato capsula del tempo, rimase lì, solitario sul tavolo, al buio.
         
         Moses quasi urlò. Pheby gli aveva infilato le unghie nel braccio. Spalancò gli occhi, ma l'alba non era ancora sorta. Sua moglie sembrava paralizzata, guardava il tavolo.
         La capsula era ancora lì, ma c'era anche Spencer. La stava toccando, muovendo.
         Moses cercò di tenere la voce bassa, per non spaventarlo. «Allontanati da lì. Non toccarla. Piano piano.»
         Spencer non diede atto di aver capito. Continuò a stringere quell'oggetto e a scuoterlo.
         Moses si alzò con attenzione, avvicinandosi timoroso. «Spencer, ti avevo detto di non toccarlo, può essere pericoloso.»
         Si sentì un sibilo che lo raggelò e Pheby lanciò un gemito. Spencer invece li guardò sorridendo. «Ce l'ho fatta! L'ho aperto!»
         
         C'erano cose dentro. Oggetti.
         Non sembrava un'arma, proprio per niente.
         Il coperchio era venuto via del tutto, e ora giaceva da parte. Non assomigliava più a un proiettile, adesso, ma a una gigantesca pentola.
         Spencer fremeva d’impazienza, e Moses interrogò Pheby. «Li tiriamo fuori?»
         Quegli oggetti sembravano innocui, a prima vista.
         Lei non rispose, non se la sentiva di prendersi quella responsabilità.
         Lo fece Moses, e iniziò a tirarli fuori dalla pentola. C'erano tre libri, persino lui sapeva cos'erano. Erano un po' diversi da quelli che aveva visto finora e la copertina era tutta disegnata. Li mise da parte.
         C'era un quadrato con dei segni luminosi che si muovevano. Parevano numeri. Restarono tutti a guardarlo, a bocca aperta.
         C'erano lettere, un pacchetto di lettere. Molte, non avrebbe saputo dire quante perché non sapeva contare.
         C'erano delle medaglie, almeno credeva che fossero medaglie, come quelle che davano ai soldati. E poi coppe, sì, pure quelle aveva già visto. Tante coppe, però queste erano molto più belle.
         Poi c'erano quelli che sembravano giornali, però erano pieni di disegni così realistici da sembrare persone vere. Quello lo spaventò proprio.
         Li nascose sotto i libri, perché Pheby non li notasse.
         Quaderni, tutti scritti. E infine un libro strano, quadrato, molto grosso.
         Spencer se ne appropriò. Lo aprì prima che potessero fermarlo.
         L'alba stava sorgendo, il primo sole entrava dalla finestra. Molto presto Pheby sarebbe dovuta andare al lavoro.
         C'erano delle scritte nella prima pagina, tutte diverse, realizzate con inchiostri strani, dai molti colori. Quando Spencer voltò pagina restarono a bocca aperta tutti quanti, perfino Pheby.
         Era un grande disegno, che riempiva tutta la pagina. Era il disegno più realistico che avessero mai visto. C'erano tante persone, in quel disegno, ma proprio tante. Non persone, la maggior parte erano bambini. Di adulti ce n'erano molto pochi.
         Non fu questo a sconvolgerli, però. Alcuni di quei bambini erano come loro. La loro pelle scura risaltava accanto alle altre candide. Erano più grandi di Spencer, ma non come Miss Lily, e i bambini neri tenevano per mano i bambini bianchi, come se non ci fosse nulla di strano. Al centro della foto ce n'era uno in particolare, un ragazzino nero con gli occhiali, che non poteva avere più di tredici o quattordici anni. Sembrava il festeggiato, teneva in mano due delle coppe che avevano trovato dentro la capsula e sorrideva. I bambini bianchi, intorno a lui, gli stavano battendo le mani.
         Moses si sentì di colpo malissimo. Chiuse il libro di scatto e disse: «Bisogna farlo sparire, subito! Bruciamolo!»
         
         L'avevano visto. Spencer l'aveva visto. Aveva visto un mondo diverso, il mondo di cui Miss Lily farneticava. Era questo il Nord? Era questo che succedeva su al Nord? No, non poteva crederci, non esisteva in nessuna parte del mondo un luogo dove bianchi e neri potessero stare insieme. Non in quel modo. Era solo un disegno, un disegno così perfetto da sembrare vero, eppure non lo era. Era un sogno, il sogno di qualcosa che non esisteva.
         «No, papà, ti scongiuro. Non farlo.»
         Pheby era andata al lavoro. Presto sarebbe toccato anche a Moses. Da un momento all'altro Zeb si sarebbe alzato. Spencer stava troppo male, sarebbe restato a casa, quel giorno. Il padrone gliel'aveva concesso.
         Moses doveva decidere, non c'era più tempo. Aveva promesso a Pheby che se ne sarebbe liberato, e quegli oggetti lo terrorizzavano, eppure lo sguardo disperato del figlio lo tratteneva dal farlo.
         Se i padroni li avessero trovati in possesso di un simile disegno li avrebbero frustati a morte. Perché correre un rischio del genere?
         «Ti prego!»
         Zeb si stava alzando, Moses sentiva il rumore oltre la tenda. Afferrò la capsula e la portò in un angolo della stanza. Gli mise davanti altri oggetti, per nasconderla.
         «Non toccarla!» intimò al figlio. «Se vuoi che non la butti via, non toccarla più!»
         Gli occhi di Spencer brillarono. «Te lo giuro, papà.»
         
         Otto radici dopo, alla fine di una pesante giornata passata nel campo, Moses e Zeb tornarono al capanno, sfiniti.
         Pheby era venuta a portare da mangiare, a mezzodì, perché il lavoro non poteva essere interrotto, e già l'aveva avvisato che non sarebbe potuta tornare fino a tardi, perché senza Spencer il lavoro per lei era doppio.
         Sperò che Spencer si fosse aggiustato, tutto il giorno solo.
         Si paralizzò appena messo piede dentro casa, ma non fu abbastanza pronto da fermare Zeb, che entrò pure lui, restando a bocca aperta.
         Spencer e Miss Lily erano seduti al tavolo, e spalancati di fronte a loro c'erano i libri e i quaderni che avevano trovato nella capsula. La stessa capsula era posata a terra, vuota.
         Moses non aveva il coraggio di aprire bocca. Spencer gli rivolse uno sguardo disperato. «Lo dovevo fare per forza! Non ero capace di leggerli!»
         Miss Lily li ignorò, pareva che neppure si fosse accorta della loro presenza, continuava a leggere.
         Non era una bellezza, e probabilmente non lo sarebbe mai diventata. Non anelava a sposarsi ed essere una buona moglie, aveva ben altre aspirazioni. Sognava solo di fuggire via, da quella casa, da quella città, da quel mondo.
         Restarono immobili a lungo, Moses e Zeb, senza osare farsi avanti. Era la prima volta che Miss Lily veniva in casa loro e non sapevano proprio cosa fare.
         «I suoi genitori la staranno cercando, Miss» si arrischiò a dire Moses.
         Miss Lily alzò appena gli occhi dal libro. «Ho detto che non mi sentivo bene e andavo a letto presto.»
         Poi più niente, tornò a leggere.
         Spencer alzò le spalle, come a indicare che neppure lui ne sapeva molto di più. Allora Moses si fece avanti, sempre restando in piedi.
         «Cosa sono?» osò chiedere.
         Miss Lily lo guardò. «È pazzesco!» esordì. Indicò i libri intorno a sé. «Questa è una scuola.»
         Qualcosa aveva intuito, guardando quel disegno, ma Moses non era certo di aver capito. «Che scuola? Una scuola dove?»
         Non gli rispose. Indicò invece il famoso libro quadrato, aperto proprio alla pagina del disegno incriminato e il suo dito si fermò sul ragazzo nero al centro. «È suo!»
         «Che cosa?»
         «Questo contenitore. La capsula del tempo. È sua. L'ha fatta lui. Qui c'è tutta la sua vita. Credo che fosse un grande onore. L'hanno fatta fare a lui perché era lo studente migliore. Un genio, dicono.»
         Moses restò a bocca aperta. «È un negro.»
         Miss Lily sbuffò. «Lo vedo anch'io che è un negro! Si vede che in quel posto non aveva molta importanza.»
         Moses aveva paura a chiederlo. «Quale posto?»
         Lei scosse la testa. «Loro dicono di essere del passato, ma non è possibile. Non è mai esistito nulla del genere. Mai.»
         Moses era talmente confuso e sfinito che osò sedersi senza chiedere permesso. Miss Lily neppure se ne accorse.
         «Lei comprende cosa c'è scritto, Miss?»
         «Molto poco» ammise lei. «La lingua è simile alla nostra, eppure troppo diversa. Ci sono tante parole di cui non comprendo il significato.»
         Indicò le carte sparse. «Cosa dicono?»
         «Parlano alla gente del futuro. Raccontano com'erano, che vita facevano. Li hanno scritti i bambini.» Indicò i quaderni, poi le lettere. «Hanno scritto ai propri nipoti e pronipoti, a coloro che un giorno le leggeranno. Alla loro famiglia nel futuro. Solo che è impossibile, questo passato non c'è stato.»
         «Quindi è... uno scherzo?»
         Sbuffò. «Ma che scherzo! Guarda qui!» Gli piazzò davanti agli occhi lo strano quadrato con i numeri luminosi. «Questo è un orologio! E funziona ancora! Scrivono che funzionerà per mille anni, senza bisogno di alcuna carica!»
         Moses restò a bocca aperta. Quell'oggetto non assomigliava minimamente a un orologio.
         «Che c'entra quel... quel negro?»
         «Te l'ho detto, era il primo della classe. Si chiamava Alan Freeman. Hanno dato a lui l'incarico di preparare la capsula del tempo, e dopo l'hanno seppellita.»
         «Perché?»
         «Perché qualcuno la trovasse nel futuro e vedesse come vivevano allora. Chi erano, cos'avevano fatto.»
         Gli mostrò le medaglie e le coppe. «Queste erano tutte sue, era un vanto per la scuola. Un genio della... fisica quantistica, non ho la minima idea di cosa sia!»
         «Non ho mai saputo che si seppellissero certe cose.»
         «Infatti! Non è mai successo! A chi verrebbe un'idea così assurda?» Tornò a indicare il disegno. «E questo è impossibile. Non esiste, non può esistere. Non è mai esistito.»
         Moses si bloccò prima di ripetere che era uno scherzo. «Allora che vuol dire?»
         Lei indicò la capsula. «C'è una data lì sopra, 15 dicembre 2050.»
         Moses non comprese neppure allora. «Che significa?»
         «Significa che questa capsula verrà seppellita fra trecento anni.»
         Moses restò a bocca aperta, perché la notizia esulava troppo dalla sua realtà.
         Miss Lily si mordicchiò un labbro. «L'apertura della capsula era stata programmata per il 2250, esattamente due secoli dopo. Si capisce dalle lettere.»
         «Ma di quando stiamo parlando? Quando è successo?»
         «Non lo so!» sbottò lei.
         Si alzò in piedi e si mise a girare per la stanza. «Forse una volta il mondo era così. Molto tempo fa. Forse la capsula non è mai stata aperta, ed è solo rimasta lì. Forse sono passati mille anni, o duemila. Forse proviene da Atlantide, chi lo sa, si dice che sia pure esistita. Forse...» Si bloccò e scosse il capo. «Ma che stupidaggini sto dicendo! Proviene dal futuro e basta!»
         Per Moses era una follia. «Il futuro?»
         «Dove altro potranno convivere i bianchi e i negri? Vedi un luogo, in questo mondo, dove ciò sia possibile?»
         «Il Nord» mormorò Moses, pentendosene subito dopo.
         Miss Lily fece una smorfia. «Non ci sono schiavi, al Nord, non ci sono catene, ma davvero credi che la situazione sia molto diversa?» Indicò di nuovo il disegno. «Quello non appartiene al nostro tempo, è impossibile.»
         Miss Lily accarezzò le coppe e le medaglie, sfiorò appena lo strano orologio, poi parlò con voce roca, senza girarsi. «Distruggi ogni cosa, brucia i libri, seppellisci la capsula. Mio padre non dovrà mai sapere cos'hai trovato.»
         Sfuggì gli occhi disperati di Spencer e corse via.
         
         «Papà, no!» Spencer piangeva mentre Moses dava alle fiamme i libri. Poi toccò ai quaderni. Erano troppo lontani da casa perché qualcuno li potesse vedere. Spencer era voluto venire con lui per forza.
         «Esiste» mormorò il bambino. «Esiste un luogo dove noi siamo liberi. Dove posso andare a scuola.»
         Moses stava sempre peggio. «Non esiste.»
         «Io l'ho visto, non lo dimenticherò mai.»
         Sarebbe stato la sua rovina, Moses ne era certo. Quel maledetto disegno avrebbe segnato la vita di suo figlio.
         Aprì il libro quadrato e tirò fuori il disegno, lo appallottolò e lo buttò nel fuoco. Ma ce n'erano altri dopo, e tutti raffiguravano quel ragazzo, Alan Freeman, mentre uomini e donne bianche gli consegnavano premi, mentre altri ragazzi bianchi gli battevano le mani. Moses piangeva, non ce la faceva più a resistere.
         «Papà, io voglio andare là.»
         Moses lo guardò incredulo. «Là dove?»
         «Là, dove c'è quel bambino. Voglio andare laggiù.»
         Oh, quanto avrebbe voluto anche lui che fosse possibile, che suo figlio potesse avere una vita come quella di Alan Freeman.
         «Perché è tornata indietro, papà? Perché è qui, adesso?»
         «Come?»
         «L'hanno seppellita perché la trovassero nel futuro. Invece l'abbiamo trovata noi. Ma è il passato, non l'hanno ancora costruita.»
         Moses certi concetti non era in grado di comprenderli. Sapeva che suo figlio era intelligente, molto più di lui. Ma questo non l’avrebbe affatto aiutato nella vita. «Lascia perdere, Spencer. A certe cose non c'è risposta.»
         Gettò il resto del libro nel falò e si rialzò.
         «Andiamo, adesso, domattina devi alzarti presto e riprendere il lavoro.»
         
         «Papà! Papà! Che giorno è oggi?»
         Moses aprì gli occhi più sfinito che mai. Si sentiva distrutto e fuori era ancora buio. «Mercoledì, Spencer. Ora dormi.»
         «Che anno! Che anno è questo?»
         Spalancò gli occhi. Non riusciva a comprendere la strana eccitazione di Spencer. «Lo sai, il 1750.»
         Spencer sorrise. «Il 5 settembre 1750!»
         «Se lo sai già perché me lo chiedi?»
         «È la data che segna l'orologio!»
         Lo mostrò bello fiero. I numeri sconosciuti lampeggiavano al buio, e questo spaventò ancora di più Moses. «Non l'hai seppellito!»
         «Guarda, papà, guarda! L'orologio segna la data di oggi!»
         «E allora?»
         «Com'è possibile? Se è stato seppellito nel futuro come fa a segnare il tempo all'indietro?»
         Doveva fidarsi di Spencer, lui i numeri non li conosceva. «È un mistero, va bene. Però...»
         «Non è un orologio! È questo che fa muovere il tempo! L'ha costruito quel ragazzo, sai? È stato Alan! L'hanno anche premiato per averlo fatto! È questo! È questo!»
         «Va bene, Spencer, sarà questo. Te lo puoi tenere, se vuoi. Basta che non lo fai vedere a nessuno. Adesso dormi.»
         Spencer si coricò, stringendo quell'orologio al cuore.
         «Io voglio andare là, papà» mormorò. «Fammi andare là.»
         Poi chiuse gli occhi e si addormentò.
         
         Il giorno dopo lo frustarono ancora, e fu terribile.
         Spencer non fece altro che combinare guai, non ubbidì a nessuno degli ordini che gli erano stati dati, sempre perso nei suoi sogni. Alla fine la signora Hennessy gli diede la giusta punizione, ma fu troppo violenta, al punto che Pheby la fronteggiò e si beccò due frustate anche lei.
         Quando Moses tornò sfinito dal campo trovò Spencer sul letto, in lacrime. La sua schiena era tutta insanguinata, Pheby non aveva avuto neanche il tempo di medicarlo.
         Mentre cercava di lavarlo senza fargli male, Spencer continuava a singhiozzare. «Fammi andare via, papà. Fammi andare laggiù.»
         Oh, Moses l'avrebbe fatto, se solo avesse saputo come riuscirci. Sì, in quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa.
         «Non voglio!» disse Spencer. «Non voglio. Non voglio.»
         Non voleva quella vita, e aveva ragione.
         
         «Fallo, ti prego, fallo.»
         Moses guardò incredulo Zeb, senza capire.
         Zeb era strano, quella mattina, mentre lavoravano nei campi. «Non ho capito molto di quello che avete detto. Ma fallo lo stesso. Se Spencer vuole andare via, lascialo libero. Non costringerlo a continuare questa vita.»
         «Ma...»
         Zeb non aveva proprio capito niente, altrimenti non avrebbe detto certe cose, Moses ne era certo. Di certo aveva sentito parlare anche lui del Nord, e immaginava che Spencer volesse fuggire laggiù.
         «Tutto è meglio di questa vita» continuò Zeb. «Tutto.»
         
         «Miss Lily, posso parlarle?» chiese Moses.
         La ragazza sembrava turbata, si guardò intorno. «Non dovresti lavorare? Che ci fai qui?»
         «Suo padre è andato in città, Miss Lily.»
         «Ti punirà lo stesso, se scoprirà che non stai lavorando.»
         Moses abbassò gli occhi ma non si mosse.
         «Mia madre?» chiese Miss Lily.
         «È in cucina con Pheby.» Prese coraggio. «È per Spencer.»
         La ragazza distolse lo sguardo. «Non posso farci niente, lo sai. Mamma non mi ascolta. Credi che non lo aiuterei, se ci fosse il modo?»
         «Vuole andarsene, Miss Lily. Vuole andare laggiù.»
         La ragazza fece solo una smorfia. Non ci fu alcun bisogno di spiegarle dove fosse laggiù.
         Moses tirò fuori dalla tasca lo strano orologio. «Spencer dice che è questo. È questo che gli ha permesso di tornare indietro. Dice che segna la data di oggi.»
         Una ruga apparve sulla fronte di Miss Lily. «Non l'hai distrutto!»
         Moses chinò il capo. «La prego. Spencer non ce la fa più.»
         Miss Lily prese in mano l'orologio e lo studiò attentamente. «Anche se fosse, cosa dovrei fare?»
         «Non lo so» ammise Moses.
         C'erano dei pulsanti, sopra i numeri, e Miss Lily li schiacciò. Alcuni numeri cambiarono.
         Miss Lily si guardò intorno, poi andò anche ad affacciarsi alla finestra.
         «Non funziona» disse. «Non succede niente.»
         Restarono in silenzio a lungo, poi Miss Lily gli chiese: «Che ne hai fatto della capsula?»
         «L'ho seppellita, come mi ha detto lei, Miss.»
         «Valla a riprendere, allora. Ti ricordi dove l'avete trovata?»
         Moses annuì.
         «Portala là, e fa venire anche Spencer.»
         
         «È la capsula, per forza.»
         «Che vuol dire?»
         Erano tutti lì, nel nuovo campo, intorno a quello strano oggetto. Moses e suo figlio Spencer, Zeb e Miss Lily.
         Lei maneggiò l'orologio. «Questo indica la destinazione, ma da solo non basta. È la capsula il mezzo. No, non è fatta per contenere libri, dev'essere qualcosa di diverso.»
         «Che dobbiamo fare, allora?»
         Restò in silenzio a lungo, poi si mise a passeggiare, sempre più nervosa. Iniziò uno strano discorso, che Moses non comprese del tutto. «Perché? Io odio la mia vita, questo non è il mio mondo! Credi che sia facile essere una donna, dover sempre dire di sì? Se c’è un mondo dove i negri sono allo stesso livello dei bianchi, non è forse possibile che in quello stesso mondo le donne siano pari agli uomini? Io voglio andare laggiù! Voglio disperatamente andare laggiù, non desidero altro.»
         Aveva le lacrime agli occhi, e Moses non riusciva proprio a capire.
         Lei continuò: «Non è per me. Non è me che sono venuti a prendere. A salvare. Non mi vogliono. Dovrò restare qui per sempre.»
         Il tempo scorreva, Padron Hennessy poteva anche tornare in anticipo, Moses era sempre più agitato. «Spencer, Miss Lily, cosa deve fare Spencer?»
         Miss Lily indicò l'oggetto. «Deve entrare lì dentro. Pensi di farcela, Spencer?»
         Moses si congelò. «Lì dentro? Per andare dove?»
         C'era una strana luce negli occhi del bambino. «Potrò andare là, dove c'è Alan? In quel mondo nuovo?»
         Miss Lily scosse il capo. «No, è impossibile.»
         «Che significa, allora?» chiese Moses vedendo la delusione sul volto del figlio.
         «Se anche riuscissimo a mandarlo laggiù, cos'avremmo risolto?» chiese Miss Lily. «La capsula è stata seppellita. Morirebbe soffocato, non ci sarebbe nessuno a liberarlo.»
         «Allora è tutto inutile!» esclamò Moses.
         Lei sorrise. «No, non è detto. Non è un caso se è arrivata qui, ma una scelta ben precisa. A questo serviva il contenuto, a farci capire. Noi sappiamo esattamente quando la capsula verrà aperta di nuovo. Ce l'hanno detto loro, ci hanno lasciato un messaggio. Il 15 dicembre del 2250, a mezzogiorno. Per allora è prevista la cerimonia di apertura.»
         Moses si sentì il cuore in gola. «Ma non possiamo sapere se succederà! Non abbiamo idea di come sarà il mondo allora! Se esisterà ancora! Potrebbero averla dimenticata! Potrebbe non interessare più. Potrebbe non esserci più nessuno ad aprirla.»
         «Già, potrebbe succedere» ammise Miss Lily.
         «Spencer potrebbe morire soffocato lì dentro, persino se funzionasse!»
         «Potrebbe, sì.»
         «Lasciami andare, papà, ti prego.»
         Spencer lo implorava. Moses si inginocchiò davanti al figlio. «Capisci cosa significa? Potresti morire lì dentro. Morirai certamente.»
         «Non voglio vivere qui, papà. Ti prego.»
         Che vita lo attendeva? Spencer non ce l'avrebbe fatta, Moses ne era sicuro. Era un bambino pieno di sogni, di illusioni. L'avrebbero annientato, completamente.
         Spencer gli scivolò via dalle mani e raggiunse la capsula. «Guarda, ci entro!»
         Non era facile, la capsula era stretta anche per lui. Ma Spencer era così piccolo che ci riuscì lo stesso. Faticava a parlare, schiacciato com'era nel suo interno. «Hai visto? Ci sto benissimo.»
         «Sì, è della sua misura» disse Miss Lily colma di tristezza.
         Moses tremava. Quanta aria poteva esserci lì dentro? Quanto poteva resistere prima di soffocare? Cinque minuti, dieci?
         «È una follia!» gridò.
         «Non voglio vivere qui!» urlò ancora Spencer.
         Che vita sarebbe stata la sua, sapendo di aver ucciso il proprio figlio? Perché era questo il cuore del problema: non avrebbero mai potuto sapere se ci fosse riuscito o no.
         «Che dobbiamo fare?» chiese a Miss Lily.
         Lei si mise a schiacciare i tasti e i numeri sull'orologio cambiarono. Poi si chinò sulla capsula e passò l'oggetto a Spencer. «Tienilo stretto.»
         Anche la sua voce tremava. «Ora richiudetela. E seppellitela dove l'avete trovata.»
         Il cuore di Moses impazzì. Seppellire Spencer, vivo? La sua mente si opponeva, con tutte le forze.
         «Perché? Che bisogno c’è?»
         «È da lì che è partita, tre secoli nel futuro. Qui un giorno verrà costruita la scuola, quella che avete visto anche voi. Ed è qui che la capsula verrà infine aperta.»
         «Ma...»
         «Sbrigatevi, prima che torni papà. Non deve scoprire cosa abbiamo fatto.»
         Moses lo amava, lo amava tantissimo. Lo amava al punto di lasciarlo libero. Anche se andava incontro alla morte, anche se inseguiva solo un sogno. Glielo disse. «Ti amo, Spencer.»
         «Anch'io, papà. Amo te e la mamma.»
         Poi chiuse la capsula e la sigillò.
         La calarono nel buco, lui e Zeb, e la seppellirono completamente. Moses non riusciva a smettere di piangere, la ragione gli urlava che in quell'istante Spencer stava morendo soffocato. Ma esisteva anche la speranza, una flebile illusione che il bambino non fosse più lì, che avesse raggiunto un mondo migliore.
         Restarono in silenzio a lungo, intorno a quel mucchio di terra, quasi fossero a un funerale.
         «È partito?» chiese alla fine Moses a Miss Lily.
         Lei non rispose.
         «Possiamo guardare, controllare. Siamo ancora in tempo.»
         Quanti minuti erano passati, quattro, cinque? C’era ancora aria nella capsula?
         Lei scosse il capo. «Non possiamo sapere quanto ci vorrà.»
         Moses stava impazzendo. «Se non avesse funzionato? Se in questo momento Spencer stesse morendo?»
         «Non credo...»
         «Non ce la faccio!» urlò Moses, e chiese a Zeb: «Aiutami a tirarlo fuori.»
         Scavarono e scavarono. Scavarono anche troppo, ma senza trovare nulla. La capsula non c’era più, era scomparsa, e con la capsula anche suo figlio.
         Moses aveva il cuore in gola, in lui si mescolavano gioia e disperazione, paura e speranza. Rivolse a Miss Lily uno sguardo incredulo.
         «Ce l’ha fatta? Spencer ce l’ha fatta?»
         La ragazza scoppiò a ridere.
         Moses non riusciva a condividere la sua felicità, aveva un solo pensiero in mente. Singhiozzò. «Come farò a dirlo a Pheby?»
         
         «Tiratela fuori! Aprite quella maledetta capsula!»
         «Si calmi, signor Freeman, non è ancora ora. Mancano tre minuti.»
         I nervi del grande vecchio stavano cedendo. Al centro del salone c’era una piastra metallica, piena di incisioni. Due date soprattutto risaltavano su ogni cosa. La capsula era lì, sotto quella piastra, ma finora nessuno l’aveva vista, non era mai stata alzata.
         Il vecchio girava intorno a quella piastra torturandosi le mani. Guardò la moltitudine che riempiva la grande sala, e lesse nei loro occhi la sua stessa tensione. Erano tutti pronti, l'équipe medica aspettava solo di intervenire.
         «Non importa, apritela lo stesso.»
         «Non possiamo rischiare, signor Freeman. Potrebbe non essere ancora arrivato.»
         Il cubicolo poteva essere vuoto, poteva non esserci nulla. Oppure poteva essere vuota la capsula, contenere solo vecchi libri. Poteva essere soltanto una leggenda. Oppure era già troppo tardi.
         Il signor Freeman si sentiva ogni istante peggio. Sua moglie gli sorrise. «Calmati caro, non agitarti. Pensa al tuo cuore. Andrà tutto bene, vedrai.»
         Anche loro lo attendevano, tutti quanti. Ma per il signor Freeman era più importante che per chiunque altro.
         «Ora!» gridò uno dei medici, controllando l'orologio.
         Erano esattamente le ore 12.00 del 15 dicembre 2250.
         In quattro afferrarono la piastra e l’alzarono. Un primo gemito percorse la sala. La capsula c’era. Sembrava integra, come se fosse stata appena seppellita. Sulla sua superficie non c’era un granello di polvere.
         La tirarono fuori e subito si diedero da fare per aprila. Si sentì un sibilo, e uno scatto. Poi una voce urlò: «C'è!»
         Il cuore del signor Freeman si fermò per un attimo.
         «È un bambino!» continuarono le urla. «È vivo! È ancora vivo!»
         Sua moglie cercò di farlo sedere, ma il signor Freeman la ignorò. Era pallido come un morto.
         «Ossigeno, presto! Ha bisogno di ossigeno!»
         Avevano rovesciato la capsula, lo stavano tirando fuori. Era minuto, quasi uno scheletro, vestito di stracci. La sua schiena era solcata di frustate, alcune stavano ancora sanguinando.
         «Oh mio Dio!» fece il signor Freeman.
         «Sta bene! Allontanatevi, fatelo respirare. Bisogna curare queste ferite, presto!»
         Spencer aprì gli occhi, vide tutta quella gente attorno a lui e si spaventò. Erano tanti, tantissimi, e lo stavano guardando. Non capiva le loro parole. Si mise a tremare.
         Si aprì un varco, per permettere a un vecchio di raggiungerlo. Un uomo bianco, che sorrideva.
         «Tu sei Spencer, vero? Zio Spencer?»
         Il bambino riuscì solo a balbettare: «Padrone...»
         Il vecchio l'abbracciò e lo baciò sulla fronte. Gli fece anche male alla schiena ferita, ma Spencer non si lamentò.
         «Non c'è nessun padrone» mormorò il vecchio. «Noi siamo la tua famiglia, tutta la tua famiglia. Sono così tanti anni che ti stiamo aspettando. Che mi sto preparando a questo incontro.»
         Spencer restò a bocca aperta, perché quell'uomo era un bianco, e si guardò attorno. C'erano tanti neri, ma anche dei bianchi. E molti dei neri aveva una carnagione chiara, come i figli che i padroni davano alle schiave.
         «Chi sei, p... signore?»
         Il vecchio sorrise. «Mi chiamo Alan Freeman.»
         Spencer scosse il capo perché non ci credeva, e l'uomo precisò: «Alan Freeman IV. Ho sempre atteso questo momento, fin da quando sono nato. Sapevo che sarebbe toccato a me.»
         «Cosa?»
         «Aprire la capsula. Ho sempre sperato che tu fossi lì, che fossi ancora vivo.»
         «Perché?»
         «Discendiamo tutti da loro, da Moses e Pheby. Tutti quelli che vedi qui, adesso, siamo la loro discendenza. La tua famiglia. Abbiamo sempre conosciuto la tua storia, ce la siamo tramandata per secoli. Il tuo coraggio è leggenda.»
         Il bambino era frastornato. «Io?»
         «Moses e Pheby ebbero altri due figli, dopo la tua partenza, e a loro raccontarono la tua storia. E quei figli la raccontarono ai loro figli. La storia di un bambino coraggioso che voleva la libertà, che era disposto a tutto pur di raggiungerla. È da te che viene il nome che ci siamo scelti, Freeman.»
         Spencer cercò di ragionare. «Alan Freeman è morto?»
         «Tanti anni fa, sì, era un mio avo. Io porto il suo nome. Anche lui sapeva la tua storia. E comprese che sarebbe toccato a lui, che era il momento. Che ti avrebbe salvato. Era un genio, sai? Un grande inventore. Dobbiamo a lui la ricchezza della nostra famiglia, fece delle scoperte straordinarie. Ma il viaggio nel tempo, quello no, non lo rese mai pubblico, quella scoperta morì con lui. La usò solo una volta, per mandarla a prendere te. Solo quella volta.»
         «Perché?»
         «Perché era importante, perché era già successo. Perché sapeva di poterlo fare. Perché tu te lo meritavi, zio Spencer. Si servì della capsula del tempo, senza che nessuno se ne accorgesse. Mise lì dentro il suo congegno e la rimandò indietro. La mandò solo per te, perché tu potessi usarla.»
         Il bambino chiuse per un attimo gli occhi. Temeva di fare quella domanda. «Sono libero?»
         Il vecchio si mise a ridere. «Certo che sei libero, Spencer Freeman. Sei libero di fare tutto ciò che vuoi. E non sei solo, non sarai mai solo, noi siamo qui per te, non abbiamo desiderato altro che incontrarti.»
         Allora riaprì gli occhi e vide intorno a sé decine e decine di volti sorridenti. Facce sconosciute, eppure non gli facevano più paura, né i bianchi né i neri. Parlavano una strana lingua, diversa da quella del vecchio.
         «Dobbiamo curare le ferite, signor Freeman» disse uno dei medici, ma Spencer lo lottò per alzarsi.
         Aveva bisogno di vedere, di sapere, di conoscere quello strano mondo che l'aspettava.
         Si fecero da parte per lasciarlo passare, come se fosse chissà quale personalità.
         Era una stanza molto grande, e Spencer la riconobbe, c'era anche in quei disegni nel libro. Quella era la scuola. Si trovava nella scuola di Alan Freeman, dove la capsula era stata sepolta.
         C'era una gigantesca finestra di fronte a lui, e Spencer si fece avanti. Restò a guardare a bocca aperta.
         C'erano colori, tantissimi colori a cui non era abituato. Strani oggetti volavano. Altri correvano a velocità pazzesca su bizzarre strade grigie. E le case! Le case erano talmente alte che toccavano il cielo, ed erano tantissime, a perdita d'occhio.
         Era quello il futuro?
         Il vecchio gli posò una mano sulla spalla. «Ce l'hai fatta, zio Spencer, tuo padre sarebbe fiero di te.»
         Papà era morto, e anche mamma. Erano morti Zeb e Miss Lily, erano morti da centinaia di anni, ormai. Spencer lasciò scorrere le lacrime.
         «Questa è la vita che sognavi, zio Spencer. Un sogno che è stato la nostra forza, che ci ha fatti diventare quello che siamo. Questa è la vita per cui hai lottato, bambino mio.»
         Anche il vecchio stava piangendo.
         «Un'altra vita» mormorò.

    FINE



    Edited by marramee - 14/4/2011, 00:48
     
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