LA CANZONE DELL'UOMO CON LE DITA DI FIAMMA
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LA CANZONE DELL'UOMO CON LE DITA DI FIAMMA

FANTASCIENZA 27700 BATTUTE

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  1. rehel
     
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    Anche se sono stonato, ecco a voi...


    La canzone dell’uomo con le dita di fiamma

    1


    La testa del blutth, quella strana imitazione di cammello color antracite, si voltava in continuazione per tentare di assaggiarmi con la sua lingua prensile. Doveva trattarsi di una specie masochista per amare con tanta insistenza il peso che lo rendeva schiavo di una fatica immane. Era in ogni caso una razza mal riuscita, soprattutto in fase digestiva, visto che ogni due minuti l'animale ruttava come un ossesso.
    Il deserto non aveva fine. Scorreva sotto gli zoccoli dello stupido quadrupede che macinavano sabbia da una duna all’altra. Un vento leggero, anziché recare sollievo, riusciva solo a infiltrare pulviscolo negli occhi e nelle orecchie. Dietro di me la fila dei blutth si snodava per almeno cinquecento passi; tutto il popolo degli Hanaki, a piedi o distribuito sulle schiene gibbose dei blutth, era in viaggio verso l’oasi.
    Mi avevano raccolto più morto che vivo. Dal punto in cui la mia astronave era atterrata, ero riuscito a percorrere solo un paio di miglia. Poi mi ero accasciato sotto il sole implacabile di quel pianeta aspettando la morte. Invece erano arrivati loro: gli Hanaki, l’ultimo popolo, nella loro lingua che il multi-traduttore mi permetteva di capire. Si trattava di un idioma semplice. Dieci di minuti di training sonoro e di riprese video e il sensore aveva iniziato a produrre nelle mie orecchie il significato delle loro parole.
    Le dune di sabbia sfilarono ininterrotte per ore. Ero sul punto di svenire quando mi si avvicinò uno degli Hanaki. Sentii che lo chiamavano Kamalh, era piuttosto alto se paragonato agli altri. Mi squadrò a lungo. Forse stava cercando di capire come stessi e io finsi di essere in condizioni peggiori di come mi sentissi in realtà. E proprio in quel momento il blutth si scatenò cercando di leccarlo freneticamente con la lingua, come se avesse riconosciuto un amico di vecchia data.
    - Buono, stai buono dolcezza – disse l’Hanaki. Poi si allontanò cavalcando il suo animale. E io sperai che la frase fosse riferita al blutth, perché decisamente l’indigeno non era il mio tipo.
    Ancora ore e ore di marcia accompagnata dal tonfo ovattato degli zoccoli sulla sabbia. Poi ci fermammo in pieno deserto. Prima che la mia nave atterrasse malamente su quel pianeta, il calcolo degli strumenti di bordo aveva stimato giornate con una durata di poco più di diciassette ore. Comunque fosse, anche se il sole appariva basso sull’orizzonte ed eravamo prossimi al tramonto, il caldo non dava tregua.
    Gli Hanaki si attivarono, sembravano formichine frenetiche. Montarono capanne fatte con teli di fibre vegetali, accesero fuochi e le donne si misero a cucinare. Gli uomini davano da mangiare agli animali tenendosi alla larga dalle loro lingue prensili e bavose. Nel volgere di pochissimo tempo la notte avvolse lo spazio tutto attorno a noi. Qualcuno mi mise in mano uno spiedo di carne e un pezzo di qualcosa che con una certa immaginazione sembrava del pane.
    Mangiai in silenzio studiando la tribù nella quale ero capitato. Era primitiva, senza un briciolo di tecnologia, andarsene e tornare nello spazio era impossibile. Avrei dovuto aspettare che arrivasse qualcuno a cercarmi guidato dalla presenza della mia nave distrutta. Il problema era chi sarebbe giunto per primo: i buoni o i cattivi?
    Ero ancora piuttosto debole e il vino dell’albero del Kmell, che mi avevano dato in dose abbondante, cominciava a fare effetto. Scivolai dentro la pelle di blutth che costituiva il mio giaciglio, sperando che dentro non vi fosse una lingua pronta ad animarsi al mio contatto. Poi caddi in un sonno profondo.
    Il giorno dopo marciammo ancora per diverso tempo. Poi una frattura nel paesaggio piatto del deserto: una macchia più scura che galleggiava su un orizzonte di basse dune dorate. Giunti più vicino mi resi conto che di trattava dell’oasi.
    I piccoli degli Hanaki cominciarono a strepitare. I blutth allargavano le narici allo spasimo. Avvertivano la presenza dell’acqua e agitavano le lingue in ogni direzione, salvarsi dalla loro saliva appiccicosa divenne impossibile. La carovana accelerò il passo e alla fine giungemmo al verde dell’oasi.

    2

    Gli Hanaki non erano più di seicento. A sentire loro si trattava dell’ultima specie umana di quel pianeta. Pianeta una volta molto più verde e con un clima mite, ma che da tempo si era trasformato in una fornace rovente. Facevano eccezione solo alcune oasi sparse come isole galleggianti in un mare di sabbia. La tribù era nomade. Sfruttava le risorse di una zona verde fino a che iniziavano a depauperarsi, poi, prima di comprometterle troppo, gli Hanaki caricavano ogni loro bene e partivano verso un’altra oasi che nel frattempo si era ripopolata.

    Due mesi di vita con gli Hanaki mi avevano permesso di conoscerli abbastanza. Adesso era sera, dopo la cena resa abbondante dal cospicuo numero di gattopardi delle rocce catturati quel giorno dai cacciatori, lentamente i fuochi si spegnevano. Kamalh, fra gli Hanaki quello che sembrava essere una sorta di capo, alzò il volto al cielo stellato e cominciò a cantare una nenia triste. Le parole raccontavano di un mondo che un tempo era stato verde e molto più ospitale nei confronti dei propri figli. Di quando gli uomini erano così tanti che non li si poteva nemmeno contare, più numerosi delle colonie di formiche blu e quando ancora non si chiamavano Hanaki, l’ultimo popolo, ma avevano un altro nome ormai dimenticato. La prima luna salì rapida nel cielo, mentre basso sull’orizzonte un altro satellite sembrava sostare gonfio e giallo a causa della diffrazione.
    Al centro del gruppo i piccoli erano già a dormire. Fra gli Hanaki i figli erano di tutti. Le donne di tutti, il cibo per tutti. Vidi alcuni dei giovani appartarsi fra gli arbusti. Anche Kamalh fra poco si sarebbe defilato. Mai da solo, mai con meno di due femmine.
    Quando smise di cantare si avvicinò.
    - Tu vieni dalle stelle, vero? – chiese.
    Sorrisi. – Da così lontano che non puoi immaginare.
    Avevo imparato discretamente il loro linguaggio e non utilizzavo quasi più il traduttore. Kamalh rimase pensoso per un po’, poi anche lui sorrise: - Nella tua terra ci sono molte oasi?
    Non potevo dirgli la verità e così mi ritrovai costretto a mentire: - Sì, ma non così tante come potresti pensare. Immagina che siano tre, quattro volte più numerose.
    - Deve essere un gran bel posto allora. Sarai ansioso di ritornarci.
    - Il mio blutth di ferro è rotto e credo che dovrò rimanere per un lungo tempo.
    Kamalh annui. – Sai, non si sta male, qui.
    Sorrisi di nuovo: - No, hai ragione; non si sta male. Ma dimmi, quante primavere hai?
    Kamalh mi guardò stranito. Non capiva, non poteva capire. Le primavere, in quel luogo infernale, erano scomparse da chissà quanto tempo. Ora esisteva solo un’abbacinante, interminabile estate.
    Si alzò in piedi. Mi toccò la spalla indicandomi una delle femmine che stava in un gruppetto a una decina di passi.
    - Sherem; si chiama Sherem. Ti guarda spesso, non te ne sei accorto?
    Guardai in quella direzione. Trovai lo sguardo della ragazza. Un sorriso spontaneo su un viso bello e intenso.
    Mi voltai verso Kamalh: - Dici che?
    Lui rise di gusto piegandosi in due. - Sei buffo straniero. Non serve parlare, no, non serve. Ma sei hai bisogno di parole ti posso cantare una canzone d’amore.
    Declinai con garbo. Kamalh si allontanò. Guardai verso la ragazza Hanaki; sorrideva mentre veniva verso di me. Erano mesi che non toccavo una donna e lei era particolarmente attraente. Con la luna, è noto, il romanticismo può raggiungere vertici di livello assoluto, con due lune nel cielo la faccenda divenne inevitabile. Il sesso fra un uomo e una donna era la stessa materia ovunque nell’universo.

    3

    Si stava bene nell’oasi. C’era abbondanza d’acqua. I kmell, gli alberi che crescevano in quel posto, erano esuberanti e le loro foglie costituivano la base dell’economia degli Hanaki. Da quelle fronde si ricavavano fibre tessili, in effetti visto il caldo, per vestirsi bastava poco. Il frutto era una sorta di pane lungo mezzo braccio, dal gusto un po’ dolciastro. Cotto sulle braci ardenti costituiva l’alimento base della loro sussistenza. Ma nelle pozze delle oasi si trovavano una razza di rane rossicce a dire poco gustose e alcune specie di gasteropodi bivalve che, oltre al cibo, fornivano anche il principale colorante rosso. Il nero veniva ricavato dalle braci combuste. Altri colori non ce n’erano, tutti i tessuti Hanaki, il vasellame, le terraglie, insomma ogni cosa dipinta, era colorata di soli due colori: rosso e nero. E a quel modo ero vestito anch’io, con un saio a strisce bicolori lungo fino ai piedi.
    Nell’oasi prosperavano alcune specie di uccelli e anche le loro uova facevano parte della dieta, con la consueta raccomandazione di non abusarne per evitare il loro sterminio. Alcune erbe selvatiche erano utili come principi medicamentosi buoni un po’ per tutti gli usi. Era un mondo estremo, rovente di giorno, gelido la notte. E quando la temperatura precipitava verso lo zero ci si poteva riscaldare solo vicino ai fuochi accesi. Gli Hanaki utilizzavano delle pietre focaie di colore brunastro. Ma erano rare, così che spesso, por potere innescare le fiamme, si trovavano a manovrare frenetici con corde e pezzetti di legno secco. Dopo tre sere tirai fuori il mio laser e accesi il fuoco in un istante. Gli Hanaki attorno a me rimasero senza fiato, mi guardavano come fossi un blutth che non ruttasse da giorni. Poi le loro facce s’imbiancarono di sorrisi e gli Hanaki cominciarono ad agitare le mani in segno di grande soddisfazione. Da quella sera divenni l’addetto all’accensione del fuoco; l’uomo con le dita di fiamma, così mi chiamarono.
    Quasi fosse un rito obbligato, solo dopo che le canzoni di Kamalh avevano raccontato le vecchie saghe dell’Ultimo popolo, ci si rintanava nelle pelli di blutth al riparo di capanne costruite con frasche. I giovani della tribù si accoppiavano in apparenza del tutto ignari della precarietà della loro esistenza. Kamalh, a turno, dormiva con tutte le femmine, senza troppo badare alla loro avvenenza, quasi si trattasse di un suo preciso dovere sociale. Io facevo coppia fissa con Sherem, visto che tutte le sere veniva a trovarmi nella mia capanna. E con lei a fianco le notti non erano troppo fredde.

    4

    L’oasi stava cominciando ad accusare i segni della nostra presenza. Le capre silvestri faticavano a trovare erba fresca. Gli alberi di kmell apparivano ogni giorno più spogli del loro fogliame, si avvicinava il tempo di un nuovo viaggio nel deserto verso un’oasi rigenerata dalla nostra assenza.
    Fu con una certa solennità che Kamalh annunciò l’inizio della marcia verso Ahrrau: detta la Bella o anche la Santa. L’oasi più verde, la più grande, la più amata dagli Hanaki. Quando la destinazione prevedeva questo sito, allora la festa nel popolo era grande.
    La sera prima ci furono canti e balli intorno ai fuochi. Gli uomini si sfidarono in prove di abilità e di coraggio mentre le donne ballavano in preda a una frenesia indecente, fino al punto di cadere a terra stremate. Si dormì poco. Si bevve e si mangiò a sazietà, si cantò e ci si amò fino a notte fonda.
    Il giorno seguente fu una sofferenza. Troppo vino di kmell mi aveva lasciato un ricordo ben preciso, mascherato sotto la forma di un mal di testa feroce. Camminavo dietro un blutth vecchio e più puzzolente degli altri. E se mi fossi soffermato troppo a pensare che per raggiungere l’oasi ci sarebbero voluti cinque giorni di viaggio nel deserto, mi sarei lasciato volentieri andare a terra per essere stritolato fra gli zoccoli dell’animale che seguiva.
    Tuttavia, se i blutth avevano dei difetti, erano dotati anche di innegabili pregi. Erano animali resistenti e si nutrivano quasi esclusivamente di erbe spinose. Se era vero che ruttavano in continuazione, lanciando sovente peti devastanti, e se non stavi più che accorto la loro lingua bavosa ti imbrattava a ripetizione, era certo che per attraversare il deserto non c’era amico migliore.
    Il pomeriggio del secondo giorno Kamalh mi chiese di accompagnarlo in un luogo non troppo distante. Si trattava di una cresta rocciosa dove tempo addietro avevano notato uno zampillo d’acqua nel lato sottovento. Era possibile che col trascorrere degli anni si potesse formare una nuova oasi e voleva controllare come effettivamente stesse la situazione.
    Partimmo in quattro, tutti sulle groppe dei blutth. Dopo un paio d’ore giungemmo in vista della cresta: pochi spuntoni di roccia che sporgevano per una decina di metri dal suolo sabbioso. Per un attimo credetti di vedere delle nuvole che si sfilacciavano sulle punte, ma era solo sabbia portata dal vento che decollava come da una rampa di lancio.
    Aggirammo la cresta e fummo sul lato riparato dal vento del deserto. Quasi nel mezzo, dove le rocce formavano un ricovero naturale, alcune piante verdi facevano da corolla a un piccolo specchio d’acqua largo poche braccia. Al nostro giungere alcune folaghe dorate fuggirono sbattendo le ali, mentre Kamalh studiava la scena interessato.
    Si avvicinò alla pozza e scese. Fece qualche passo in avanti, poi allargò inaspettatamente le braccia annaspando mentre la sua figura sprofondava nel terreno.
    - Un pozzo di sabbia! – urlarono i due Hanaki, poi presero a lamentarsi disperatamente.
    Io mi lanciai giù dal blutth e corsi verso Kamalh, che come mi vide cominciò a gridare di stare lontano.
    I pozzi erano buche ricoperte di sabbia finissima. Se uno ci finiva dentro era morto. Nonostante i tentativi non c’era possibilità di salvezza. La sabbia risucchiava il malcapitato e tutti coloro che per cercare di salvarlo si avvicinavano troppo a lui.
    Feci ancora qualche metro, poi mi fermai a guardare Kamalh che agitava le braccia come se cercasse di nuotare in quel pozzo di sabbia che lo stava tirando giù. Lo aspettava una morte veloce per soffocamento, oppure una più lenta agonia a causa della sete una volta giunto in fondo al budello di morbida rena.
    Presi il laser e lo puntai. Il raggio si spalmò davanti a Kamalh e cominciò il suo effetto. La sabbia vetrificava e diventava dura. Continuai senza risparmiare energia, attento solo a non ustionare le membra di Kamalh. In breve la sabbia attorno all’Hanaki divenne uno strato vetroso e solido al quale lui poteva aggrapparsi per non sprofondare.
    Allora feci un segno agli altri due. Scesero e corsero da Kamalh. Lo presero per le braccia e lo tirarono su, poi cercarono di adagiarlo a terra, ma lui rifiutò sdegnato e si mise in piedi, anche se le gambe ancora gli tremavano.
    - Kamalh ringrazia l’uomo con le dita di fiamma – disse. Poi risalì sul blutth e ci fece segno di allontanarci da lì.
    - Il terreno è troppo infido. Forse al tempo dei figli dei nostri figli sarà tutto a posto, ma adesso è meglio restare alla larga. Andiamo!
    Durante il ritorno mi avvicinai a Kamalh.
    - Hai mostrato un grande coraggio, non hai avuto paura nemmeno per un istante? - Gli chiesi.
    – Io non sono stupido. Ho spesso paura. Che l’acqua venga a mancare, che le oasi cedano all’invasione della sabbia del deserto, che il caldo aumenti ancora. Eppure non lo dico mai a nessuno perché paura non posso permettermi di mostrarla. Loro hanno fiducia in me e se vedessero che vacillo come potrebbero seguirmi? Non confido mai a nessuno i miei dubbi, non posso. E se mi confido con te è perché tu vieni da lontano e prima o poi vi farai ritorno. Ringrazio gli antenati che mi hanno dato una forza immensa per guidare il mio popolo, fino a che avrò forza io lo farò.
    - Kamalh, tu sei un grande uomo.
    Lui appoggiò la mano aperta sul mio cuore e io feci lo stesso. Significava che il suo spirito era col mio e il mio col suo.
    Solo verso sera raggiungemmo la carovana. La voce di quanto era accaduto corse da cima a fondo per il popolo degli Hanaki e a un certo punto tutti mi guardavano sorridendo, agitavano le mani indicando la punta delle dita facendo strani sbuffi con la bocca, e ridevano allegri.

    5


    Ahrrau, la Bella, La Santa, rispondeva in pieno al proprio nome. Dopo la massiccia aridità del deserto tanto verde faceva impressione. L’acqua abbondava. C’erano cinque pozze e una cascatella freschissima. Gli alberi erano numerosi come le stelle nel firmamento. Quando si alzavano in volo gli stormi delle flarghe, gli uccelli che popolavano le oasi, oscuravano l’orizzonte.
    A sera tutto era sistemato. Nel cielo c’erano tutte e cinque le lune di quel mondo, un evento così raro che pochi anziani ne ricordavano un altro uguale.
    Kamalh si schiarì la voce e prese a cantare. Un vento dolce lambiva la pelle annunciando il freddo della notte. Le parole della canzone parlavano di cambiamenti e della fatalità e della rassegnazione con cui l’ultimo popolo li affrontava.
    “Niente è per sempre.
    Tutto è un grande ciclo, così tramandano i vecchi.
    Un tempo c’era più fresco e pioveva spesso.
    Poi è venuto un grande caldo,
    ma un giorno il clima cambierà ancora e vedrai,
    verrà anche troppo freddo.
    Con i tuoi occhi tu lo vedrai, vedrai che sarà vero.
    Adesso vivi per ogni istante.
    Prega per un nuovo giorno, per una quieta notte, per un amore ritrovato.
    E davvero altro non ti serve perché tu sei un uomo dell’ultimo popolo
    e questo ti salverà.”

    Dopo le prime strofe la voce di Kamalh venne doppiata da quella di un ragazzo. Lo riconobbi, si chiamava Nuun, un cugino di Sherem. Cantava bene, con note limpide e acute. La melodia si dipanava suggestiva sulle note di una scala pentatonale.
    Finita la canzone Kamalh si alzò in piedi: - Nuun sarà il nuovo cantore quando io non avrò più voce per l’ultimo popolo. – Alzò le braccia e incitò la tribù: E adesso fate sentire la vostra approvazione a questo ragazzo.
    Tutti saltarono in piedi come se fossero stati morsicati dai gattopardi delle rocce. Il vino delle palme prese a scorrere nelle bocche degli Hanaki che ballavano in cerchio pestando i piedi ritmicamente.
    - Ha una bella voce, vero? – chiese Kamalh guardandomi negli occhi mentre annuiva con la testa.
    - Splendida – risposi.
    Bevvi d’un fiato il vino.
    - Non lo hai scelto solo per quella dote, giusto?
    Kamalh allargò le labbra a dismisura in un sorriso da ragazzino: - È molto intelligente. Aiuterà il suo popolo come pochi saprebbero fare.
    - Sono convinto di sì – risposi. – Così come sono certo che saprà creare belle canzoni.
    - Questa è quasi tutta sua – rispose Kamalh.
    - Davvero? – chiesi sinceramente stupito.
    - Conosco gli uomini, so scegliere bene.
    E detto questo si allontanò.

    6

    Tre giorni dopo Kamalh mi venne a cercare.
    - Devi vedere una cosa – mi disse con la faccia scura come una notte senza luna. – Ma non dire niente a nessuno.
    Mi condusse ai limiti dell’oasi, dove gli alberi di kmell erano più fitti, dietro un ammasso di rocce, fra le quali una spaccatura permetteva il passaggio di un uomo alla volta. Subito dopo il passaggio c’era uno spazio di poche decine di metri; una piccola radura erbosa priva di alberi.
    Avvertii una sensazione fredda alla nuca.
    - Ecco il nostro uomo – disse una voce.
    - L’indigeno canterino è stato di parola – gli fece eco un’altra voce che subito prese a ridere sguaiatamente.
    Una mano frugò nelle tasche del mio saio ed estrasse il laser. Un calcio mi fece finire a terra. Con una prospettiva dal basso all’alto vidi tre uomini armati che mi fissavano.
    I cattivi avevano vinto la corsa.
    Negli scavi della Compagnia erano accadute troppe brutte cose. Su Krraam, seicento nativi avevano trovato sepoltura anticipata in una miniera di antimonite. Su Metauro IV i morti non li contavano nemmeno più. E così era avvenuto anche in quattro giacimenti su altri pianeti dove avevo lavorato. Ero un testimone scomodo che non aveva nessuna intenzione di stare al gioco e di tacere. Il programma di protezione testimoni non aveva funzionato affatto. Corruzione endemica un po’ a tutti i livelli. La conseguenza era stata una fuga precipitosa a bordo della prima nave che avevo trovato a portata di mano.
    Ero stato inseguito e il mio mezzo era stato colpito. Ero comunque riuscito a sganciarmi per precipitare poi su questo pianeta arido. Speravo che a trovarmi per primo fossero stati coloro che mi dovevano salvaguardare, ma non era andata in questo modo.
    Guardai Kamalh, allibito; come aveva potuto? Poi capii. Gli avevano offerto cose che non poteva rifiutare, perché avrebbero contribuito alla sopravvivenza della sua tribù per chissà quanto tempo, forse fino alla prossima generazione quando un altro cantore avrebbe guidato la sua specie. Potevo io giudicarlo?
    Mi si avvicinò una faccia ricoperta di tatuaggi. Era un cacciatore di taglie rituale. Veniva dal pianeta Mossh; non lo faceva per soldi, lo guidava il suo “Bushido-nah-va”, un codice d’onore crudele e spietato.
    - Alzati, la nostra nave ci aspetta.
    Lo feci, era inutile opporsi, sarebbe servito solo a farsi ustionare col laser troppe parti del corpo.
    - I ragazzi – disse Kamalh.
    Il cacciatore annuì col capo verso uno degli altri due suoi compagni. Uno di loro fece un segno e da dietro dei cespugli altri uomini lasciarono uscire tre ragazzi della tribù degli Hanaki.
    Quando furono vicini Kamalh li abbracciò baciandoli a uno a uno sulla testa.
    - Andiamo – disse loro.
    Si avviarono verso la spaccatura. Kamalh si girò una volta sola, ma nel suo sguardo non c’era traccia di vergogna.
    Un colpo rude sulla schiena mi fece capire che anche io dovevo muovermi, in tutt’altra direzione, ma senza indugi.
    Uscimmo dall’oasi senza essere visti da nessuno. La nave della pattuglia da caccia doveva trovarsi poco lontana, da qualche parte del deserto.
    Erano otto uomini in tutto, in fila indiana contro un sole basso che accecava con la sua luce rossastra. Io ero nel mezzo e ogni tanto venivo percosso da qualcuno dietro di me che a quanto pare si divertiva a colpirmi e poi a riderne.
    Camminammo per un’ora, poi dietro una grossa duna trovammo la loro astronave.
    Il cacciatore di taglie gracchiò un nome incomprensibile alla radio da polso, ma dall’astronave non venne segno di vita. L’uomo imbracciò il suo laser e si mise in posizione di combattimento, gridando ordini agli altri membri della squadra.
    Un calcio mi fece piegare in due dal dolore. Mi ritrovai a terra. Un paio di quegli uomini stesi dietro di me avevano tutta l’intenzione di utilizzarmi come scudo umano. Poi fui trascinato dietro a delle rocce fra le quali tutti si erano riparati.
    Dalla nave una voce metallica invitò ad arrendersi. Lì dentro erano entrati ospiti inattesi.
    Il cacciatore sbraitò ancora ordini. Si apprestava a dirigere il gruppo lungo una via di fuga laterale quando uno di loro lo prese per un braccio e gli indicò qualcosa.
    Dall’orlo della grande duna gli Hanaki stavano scendendo in groppa ai loro blutth. Erano almeno centocinquanta, tutti adulti e, a guardare bene le loro facce, tutti parecchio arrabbiati.
    Il cacciatore di taglie si piegò sulle ginocchia. Abbassò due volte la testa e, mentre si rialzava, prese a salmodiare il suo canto funebre. Afferrò due armi, lanciò verso i nemici che accorrevano il suo urlo di guerra e si preparò a morire.
    Uno dei suoi, che indossava le mostrine della Compagnia, gli sparò una scarica paralizzante alla nuca. – Idiota – disse. Poi sputò sul cranio del cacciatore e lasciò cadere il laser.

    7

    Era venuto il giorno della partenza. Era il mio ultimo colloquio con Kamalh.
    - Lo so che il tuo mondo non è così arido. Ma grazie per avermi usato così tanto riguardo – disse.
    Gli sorrisi:- Posso farvi andare via da questo posto. Una nave da carico vi trasporterebbe con un solo viaggio verso un mondo nuovo; così pieno di animali che non riuscireste nemmeno a immaginarli. E verde come l’oasi più verde che la vostra mente possa concepire. Un mondo nuovo solo per voi, vergine; ce ne sono tanti nell’universo, mentre la vita è così rara.
    Kamalh mi guardò senza parlare. Girò la testa verso la sua gente, poi scosse il capo.
    - Seguimi – disse. Mi condusse a un piccolo terreno nell’oasi. – Qui vengono sepolti coloro che muoiono durante questa sosta. Ogni volta un diverso appezzamento di terreno in una diversa oasi viene scelto per questo scopo. Ogni volta che ci nutriamo di un prodotto di un’oasi sappiamo che è fatto anche coi resti di un nostro antenato. Tutto è un ciclo e noi siamo parte del tutto. Nell’acqua, nel vino, nella carne degli uccelli e degli animali ci sono reminiscenze di coloro che ci hanno preceduto; e così accadrà a noi. Siamo nati qui. Moriremo qui; non possiamo andare in nessun altro posto. Privi dell’essenza di coloro che ci hanno preceduto, cammineremmo nelle tenebre.
    Mentre ritornavamo indietro Kamalh si mise a ridere da solo. A un certo punto si piegò in due. Lo guardai: aveva le lacrime agli occhi.
    - Davvero credevi che ti avrei venduto? – chiese.
    - La tua tribù avrebbe avuto parecchio da guadagnare. E poi ho visto che ti avevano preso tre ragazzini in ostaggio.
    E così mi raccontò che i cattivi avevano preceduto i buoni, ma di poco. Un esponente della Sicurezza Federale si era infiltrato nell’oasi e aveva parlato con lui. Assieme avevano elaborato quel piano per poter catturare il cacciatore di taglie e i suoi accoliti senza rischi per gli ostaggi e la cosa aveva funzionato perfettamente.

    8

    Tutta la tribù era venuta a salutarmi e mi aveva accompagnato presso le due navi.
    Il cacciatore di taglie stava in un angolo, legato a dovere come i suoi aiutanti. Aveva tentato di uccidersi per sottrarsi al disonore della cattura, poi aveva addentato alla gola colui che lo aveva colpito. E per costringerlo a mollare la presa ce n’era voluto del bello e del buono. Un paio di Hanaki armati di robusti randelli di kmell lo sorvegliavano in continuazione.
    - E loro? - Chiesi a Kamalh.
    - Sono troppi per essere sfamati. Troppo malvagi per essere lasciati liberi. Ma non c’è problema, gli Hanaki non sprecano nulla.
    Sollevai le sopracciglia preoccupato. – Non vorrai...
    Kamalh sorrise e si mise subito all’opera per accendere un fuoco. – Quando sarai andato via dovremo comunque riprendere le vecchie abitudini.
    Strabuzzai gli occhi, consapevole di avere sul volto la più incredula delle espressioni.
    La voce di Kamalh allora si ruppe in una risata fragorosa.
    - Sì, straniero, mi fai ridere. Davvero credevi che…
    - Volevo solo darti corda, Kamalh.
    - Confessa, ci hai creduto. Oh… sì, eccome se ci hai creduto. Dovevi vedere la tua faccia. – E dicendo questo mi assestò sulla schiena una pacca che da vecchio le mie ossa avrebbero ricordato di sicuro.
    - Li lasceremo a Bakur, la più piccola delle oasi. Ogni tanto andremo a trovarli, giusto per vedere che non si siano scannati fra di loro; ne sarebbero capacissimi.
    Mentre ascoltavo il cantore Kamalh, vidi Sherem. Il suo profilo si stava gonfiando rapidamente. Le sorrisi compiaciuto, una parte di me sarebbe comunque restata per sempre con l’ultimo popolo.
    - Non sarà per un tempo troppo lungo. Quando il processo finirà li farò venire a prendere – dissi a Kamalh. – Adesso non troverebbero posto nel ventre del blutth di ferro che mi riporterà a casa..
    - Sì, ma senza fretta. Sono troppo pochi per consumare tutte le risorse. A Bakur staranno benissimo e impareranno tante cose.
    Poi Kamalh mi indicò Nuun. Il ragazzo si era piazzato davanti a tutti. Si schiarì la voce e disse ad alta voce di avere scritto la sua prima cantica da solo, senza l’aiuto di nessuno: La canzone dell’uomo con le dita di fiamma.
    E si mise a cantare:
    Questa è la canzone
    dell’uomo con le dita di fiamma
    venuto e tornato dal cielo
    con un blutth dal ventre duro
    Ma un regalo ha lasciato qui con noi
    un piccolo dono per il nostro futuro.

    Appena Nuun smise di cantare mi avvicinai a lui. Presi il mio laser e glielo donai.
    - Non sarai solo il nuovo cantore, ma anche l’uomo con le dita di fiamma.
    Gli Hanaki gridarono il loro assenso. Saltavano e ballavano ebbri di gioia. Avevano un nuovo cantore, giovane e bravo che allo stesso tempo era in grado di procurare facili accensioni dei fuochi; almeno fino a che non fosse terminata l’energia del laser.
    - Per noi le canzoni salgono al cielo, - disse Kamalh - si arrampicano da una stella all’altra e raggiungono i confini dell’universo. Sono convinto che ovunque tu andrai, un giorno potrai sentire ancora la mia voce, o forse quella di Nuun. Non so quale canzone giungerà a te, ma ascoltala attentamente, sarà la voce dell’ultimo popolo che ti parlerà e ti dirà che è ancora vivo.
    Kamalh sospirò a fondo prima di parlare ancora: - So di non avere molto tempo da vivere; lo spirito di un antenato me lo ha sussurrato in sogno.
    - Vieni con me, allora. Se non si tratta di qualcosa di inesorabile ti posso fare guarire.
    - Ne abbiamo già parlato – rispose asciutto.
    Non c’era altro da aggiungere.
    Entrai nella nave. Chiusero i portelli. Un tremore diffuso, poi sotto ai miei piedi si propagò una vibrazione sorda: la spinta dell’accelerazione che ci portava verso il cielo. Dagli schermi vidi l’immenso deserto e le oasi, oramai ridotte come puntini di verde sparsi qua e là.
    Chiusi gli occhi prima che l’immagine svanisse del tutto, assorbita dal nero vuoto cosmico. E nelle orecchie rimase solo l’eco triste di una canzone che un giorno, ne ero sicuro, in qualche modo avrei riascoltato.

    Edited by rehel - 16/5/2011, 17:06
     
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