Amante Galattico
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GLI ISPETTORI DELLA PESTE di Alberto Priora
Vigilia Il cielo è di un intenso colore azzurro; piccole nuvole dai bordi rosa stanno sospese come in attesa del calar della sera, la natura che si appresta a un nuovo passo del suo eterno girare. Tre uomini percorrono la curva di strada che da Castel San Giovanni porta a Corte Nuova e giungono in vista della locanda, la polvere che ricade secca attorno ai loro piedi. — Qui potrà andare bene — dice Giuliano osservando un garzone intento a inseguire il pollo che dovrà finire nel pentolone della zuppa. L’animale sembra più scaltro del giovane; saltella, corre e guizza, ed è sempre fuori portata. — Siamo sicuri sia meglio arrivare tutti e tre assieme e non uno alla volta? — chiede Tommaso dandosi una sistemata al saio, le mani che tirano il panno grezzo come se potessero farlo diventare nuovo. — Certo. Ne abbiamo già parlato. Siamo noi con le nostre azioni a creare la nostra fortuna. Insieme avremo voce più autorevole. E poi è l’Imperatore che lo vuole — risponde Malberto passando una mano sulla tasca in cui riposa un documento arrotolato. Da una porta si sente una voce irata urlare: — Allora scemo, hai preso quella gallina maledetta? Il ragazzo si ferma e si volta preoccupato verso l’uscio; poi torna a seguire l’uccello che aveva quasi preso, si allunga e, così facendo, scivola nel piscio di mucca finendo lungo disteso nella merda. Si rialza e tossisce a lungo, cercando di pulirsi il più possibile la faccia, gli schizzi color della mota che gli impastano i capelli. Poi afferra il pollo rimasto incauto a osservarlo e lo porta all’interno. — Sì, andrà proprio bene — conclude Malberto aprendo sul suo volto un enorme sorriso. La locanda non è né troppo grande né troppo piccola. Una costruzione centrale a due piani, accompagnata da altre due che le stanno appoggiate come cani in cerca di calore. La stalla e i recinti degli animali stanno sul retro. Da un ampio camino si eleva un filo di fumo di un pallido colore grigio. Quando i tre entrano si voltano verso di loro una ventina di facce. Quasi tutte di uomini. Qualcuno lo si riconosce come contadino della zona, ma altri sono di certo dei viandanti, fermi a fare sosta lungo una strada che germina un discreto passaggio in direzione di Bologna. Parlano tra loro in attesa di poter consumare la cena, con l’oste che si affanna a dirigere i suoi lavoranti: una ragazza dai capelli unti che si muove maliziosa tra i tavoli e una donna robusta che aggiunge legna sul fuoco. Malberto aspetta sulla porta e lascia che venga ammirato: i suoi abiti sono lussuosi, anche se impolverati, il suo atteggiamento curato a sufficienza da muovere rispetto. Con un gesto quasi impercettibile ferma gli altri due sulla soglia e aspetta. L’oste lo nota e, dopo una breve esitazione, gli si fa incontro. — Benvenuto nella mia locanda, gentil signore. — Siamo in viaggio per conto di Carlo, Imperatore del Sacro Romano Impero, e desideriamo ricevere vitto e alloggio — risponde Malberto guardando oltre l’uomo e alzando il tono di voce abbastanza da essere sentito dagli altri. — Sarà un onore, anche se… Malberto tocca la scarsella e fa tintinnare le monete. — Non sia mai che l’Imperatore non dia il giusto compenso ai suoi sudditi, che per questo lo amano. Tranquillizzato, l’oste guida i tre verso un tavolo posto vicino al camino ma al momento occupato da due contadini. Li fa spostare con un cenno. — Ecco, è pur sempre la fine dell’inverno. Qui starete bene. — La ringrazio anche a nome dei qui presenti Giuliano, esimio medico della corte imperiale e fratello Tommaso, dell’ordine dei carmelitani. — Viaggiate assieme o vi siete incontrati lungo la via, mio signore? — chiede l’uomo osservandolo attentamente. — Sazierò tutte le vostre curiosità — risponde Malberto. — Io sono ispettore di sua maestà imperiale, inviato verso Bologna in loro compagnia. L’oste rimane in attesa di qualcos’altro, la semplice introduzione che spiega ancora poco, ma Malberto chiede di portargli del vino e lo congeda. Non appena l’uomo si allontana, si rivolge a Giuliano e sussurra: — Poche parole ben dette sono meglio di molte dette inutilmente. Giuliano annuisce, ma è distratto; con lo sguardo sta osservando la ragazza che passa poco lontano dal tavolo, le fissa il sedere che vede agitarsi sotto la gonna. Un invito che già gli smuove il basso ventre. — Cerchiamo di non esagerare — mormora Tommaso. — Esagerare è la nostra maschera. Non si accontenteranno di meno — risponde Malberto aprendo un sorriso all’oste che sta tornando con in mano tre coppe e un orcio. Mentre versa il vino l’oste guarda Malberto e, non riuscendo a contenersi, domanda: —ispettore a che proposito? — A riguardo della grande moria che viene da oriente. L’oste scuote la testa. — Se ne è sentito parlare, ma si dice che sia limitata ai popoli senza Dio, che appunto vengono puniti per la loro colpa. E qui da noi Dio è presente — dà uno sguardo al frate, che annuisce in maniera vistosa, la sicurezza della fede che sembra spandersi attorno come un odore. L’oste va a dedicarsi ad altri avventori, e i tre bevono vino in attesa che sia pronta la cena che la donna sta rimescolando in due grosse pentole poste sul fuoco. Malberto scruta i presenti e li vede ogni tanto spostarsi, conversare tra loro e poi tornare al proprio tavolo. Alcuni contadini si recano presso uno dei viandanti, un mercante all’apparenza, e gli domandano qualcosa; poi si allontanano con espressione accigliata. — Adesso? — chiede Giuliano, il velo d’ansia che gli trasuda attorno. — Aspetta, amico mio. Ogni cosa a suo tempo; un tempo a ogni cosa. Non bisogna anticipare, o non riusciremo nei nostri intenti. E poi non è meglio se hai lo stomaco pieno? — Sì, sì — risponde il medico senza staccare lo sguardo dalla giovinetta, forse di sedici o diciassette anni, e dai seni che le gonfiano il petto. Quando questa arriva a portare loro il pane e le scodelle di zuppa, le sorride. Per tutta risposta lei non abbandona la presa della scodella che all’ultimo, quando la mano di lui già le carezza le dita. Ha gli occhi azzurri, le gote arrossate dal lavoro. — Ah, la bellezza della carne — sussurra Giuliano spezzando il pane e mettendone un pezzo nel brodo in cui galleggiano verdure e quello che era stato il pollo. — Non è solo la carne che è debole, credi a me, amico mio. Non hanno ancora finito quando un uomo ben vestito si avvicina al loro tavolo. —Buona sera a voi. Ho sentito che siete medici e che studiate la grande pestilenza. Malberto appoggia il cucchiaio e invita l’ospite a sedersi. — Solo uno di noi è medico. Io sono ispettore, incaricato dall’Imperatore Carlo di scoprire dove il male è già giunto e dove è più saldo nel rimanere. — So per certo che è confinato ben lontano da noi. — Lo era. Lo era soltanto. Ma esso avanza più veloce degli uomini che lo trasportano. L’uomo spalanca gli occhi, il turbamento che gli affresca il volto. — Ho sentito, ma non da queste parti. Dove io, aggiungo per chiarezza, sono solo di passaggio. — Nondimeno è nostro incarico verificare. — Verificare? — Anche le notizie si muovono veloci, e avrete certo sentito che il contagio è terribile e che la morte è atroce. Esso porta alta febbre e mali in varie parti del corpo, ma anche grave debolezza e vomito e delirio. Si formano pustole nelle zone infette che poi si infiammano e si gonfiano. Se si infiammano emettono liquami maleodoranti e ancor più infetti, tanto che è sempre meglio bruciare tutto ciò che aveva indosso il malato, che Dio abbia pietà di lui, e pure i suoi oggetti. Non si deve, quindi, trascurare un’accurata ispezione. Il mercante non risponde; si alza e si allontana, ma non riesce a rimanere solo al suo tavolo a lungo, perché altri gli si fanno dappresso. Si avvicinano ancora spavaldi, ma poi si allontanano nervosi. — È proprio vero che una delle sciagure dell’uomo è di non saper tenere a bada la sua curiosità — commenta Malberto, che intanto ha chiesto, e ottenuto, una seconda e ancor più ricca scodella di cibo. — Sbrigatevi a finire la vostra cena. Passa poco tempo, e l’oste giunge da loro con il viso su cui è emerso un certo pallore. Qualunque cosa avesse sentito in precedenza, adesso è ricoperta dalle voci sparse nella locanda. È bastato poco per far girare testimonianze e supposizioni, rese più vivide dal vino bevuto durante la cena. — Certo posso testimoniare che qui nulla è ancora accaduto di quanto dite. Malberto si alza di scatto tanto da rovesciare la scodella che, ormai quasi vuota, sparge un rivolo color oro sul tavolaccio. — Questo è compito mio. Mio e dei miei compagni — e detto questo estrae dalla tasca il documento, un rotolo di pergamena sul cui esterno spicca un sigillo di ceralacca. Lo sventola a lungo facendo ballare le lettere vergate a inchiostro davanti agli occhi dell’uomo. — Leggete qui il mio mandato ufficiale: che vengano controllati tutti in cerca di infetti e che ne basti la presenza di uno solo perché venga riferito alla milizia di sigillare la casa intera. Il respiro si blocca in tutti i presenti. Giuliano si alza, apre la sua bisaccia e ne cava fuori uno strumento di metallo, la lama che luccica malevola alle scintille del fuoco. Poi prende la maschera di color ocra dal naso appuntito e la indossa fissandola dietro la nuca con una cordicella. — Che gli uomini si facciano da una parte e le donne e le ragazze dall’altra. I presenti si separano come le acque del Mar Rosso davanti all’incedere di Mosé. Giuliano si para davanti al gruppo degli uomini e ordina loro di calare le vesti. — Ma come è possibile che ci sia la malattia qui? — protesta uno di loro. — Come? Abbiamo visto al nostro arrivo il garzone della locanda che tossiva di strana tosse. Anzi, come mai non è qui? Forse sta nascosto a soffrire? L’oste bercia un ordine, la voce più acuta di quanto vorrebbe, e il ragazzo spunta fuori dal retro. Ha un aspetto sporco, la pelle e i capelli di un alone malsano. L’oste abbandona le braccia sui fianchi. Basta questa ammissione a far zittire tutti gli altri e a spogliarsi. Giuliano li passa veloci, grattando in qualche caso macchie sospette con il suo strumento, palpando dopo essersi fasciato la mano con una stoffa imbevuta di olio, osservando le loro cavità davanti e dietro. — Non sono convinto — dice rivolto a Malberto e a Tommaso. — Devo riflettere sui risultati del mio esame. Ma intanto esaminerò le donne. Volta le spalle alla schiera di uomini nudi e guarda prima la ragazza e poi la donna adulta. — Ma non qui; sia rispettata la pudicizia. Andiamo in un’altra stanza. Indica una porta alle due donne e ne varca la soglia. Malberto e Tommaso fanno un passo avanti e si mettono a parlare tra loro, la voce alta quanto è sufficiente. — Temi che possa accadere qui quello che è successo a Lanca? — È il mio timore, sì — risponde il frate facendosi il segno della croce. L’oste ha un singhiozzo — E cosa è accaduto, per l’amor di Dio, ditemelo. — Siamo stati costretti a bruciare tutto, perché era troppo tardi. Sono bastati due infetti e il medico ha stabilito che la casa intera era compromessa. Un brusio dei presenti. — E non si può far nulla? Qui non ci sono malati, certo non due, ma se dovesse… — Il mio compito è essere ispettore. Per il bene di tutti, più che per il bene di pochi. — Sventura! — esclama qualcuno. — Ma riconosco anche che siete gente timorata di Dio! — si intromette Tommaso alzando lo sguardo verso dove sta l’Altissmo. — Forse prima che torni Giuliano… — Ah, no! — lo interrompe Malberto. — Cosa? Cosa? — domanda l’oste. Tommaso estrae dalla tasca del saio una boccetta che contiene un liquido di colore dell’ambra. — Se vi cospargete questo unguento della Terra Santa sul corpo, esso permetterà di mascherare ogni traccia per due ore. — Datecelo! — chiedono in coro. — È costata la vita ai martiri uccisi dai mori; le loro teste sono state esposte sulle mura di Gerusalemme in pasto ai corvi, lasciando una comunità spezzata e impoverita. Il loro sacrificio deve essere ripagato. Ed ecco che subito appaiono molte monete. Alcune nella mano del frate, altre nella mano dell’ispettore, che sulle prime scuote la testa a testimoniare la sua incorruttibilità e poi le unisce per accogliere quell’abbondanza che gli viene offerta. — Ecco! — dice Tommaso consegnando la boccetta — Ma fate presto, prima che torni il medico. Gli uomini si cospargono il corpo, si passano la boccetta, se la strappano di mano, quasi la fanno cadere accompagnando il rischio del disastro con una bestemmia. Quando Giuliano compare di nuovo ha un ampio sorriso, gli occhi luccicanti di soddisfazione. Fa un passo incerto e si aggiusta i calzoni. — L’esame… l’ispezione è stata condotta scrupolosamente e dichiaro le donne sane. Completamente sane. Guarda quell’assemblea di vermi nudi e unti alla luce dei candelabri, e con espressione rude passa accanto agli uomini schierati. Un paio li guarda meglio e li sfiora con lo straccio e con il metallo. Loro abbassano lo sguardo verso terra. — Dichiaro che non c’è infezione, per ora. Ma che non c’è neppure certezza nel domani. Che l’infezione, come la morte, giunge senza avvisare — poi si rivolge ai due compagni. — Quindi andiamocene. Fuori la strada è illuminata dalla luna, quanto basta per allontanarsi con passo svelto. — Vergine non era. Che quella ragazza deve aver avuto visita da tutti gli abitanti della zona e pure dai viandanti — ride Giuliano. — Ma si faceva certo pagare per questo. — Senza dubbio alcuno, ma è stato come affondarlo nel burro tiepido. Una giovane e morbida delizia dai seni sodi che ho potuto stringere mentre rilasciavo il mio seme dentro di lei. E Dio mi è testimone se non li ho stretti fino a farla gemere. — E l’altra? — domanda Malberto, sul volto un ghigno bagnato dalla luna. Tommaso è invece due passi avanti e scrolla le spalle. — Ho dichiarato anche la vecchia non infetta, anche se la mia ispezione è stata meno piacevole data la sua età. — Fortunato comunque. Noi invece guardavamo dei poveri diavoli cospargersi con piscio di cervo credendolo miracoloso. Ne dovrai preparare dell’altro, dottore. E così i tre si allontanano in fretta; la pancia e la scarsella piena due, le palle vuote il terzo.
Scoppio Il cielo è di colore grigio, e grandi nuvole cariche di pioggia stanno sospese nell’attesa di scaricarsi sul mondo. Tre uomini percorrono le strade del borgo semideserto, lo sporco che viene spostato a forza dai loro passi. Qualcuno li spia di nascosto da dietro le finestre, ma molte case adesso sono sbarrate e prive di vita. — Ho saputo di una casa che fa bene al caso nostro — dice Malberto. — Ma non siamo già passati di qui in precedenza? — Tommaso si guarda attorno. Un cadavere è riverso in un angolo, la carne delle braccia esposte rosicchiata dai topi che adesso osano avvicinarsi anche di giorno vista l’abbondanza a loro disposizione. — L’ho chiesto a uno che seppellisce i morti caricandoli su un carretto. Gli ho dato una moneta. Tommaso fa una smorfia. — Io gli ho dato una moneta. — Perché noi non ne abbiamo più — risponde Giuliano. — Sono passati molti giorni da quando abbiamo visitato quella locanda, di strada ne abbiamo fatta. — Non è mia la colpa se le avete sperperate tutte in cibo e in prostitute — risponde il frate. — Io faccio economia, ma i miei sforzi sono inutili se non fate la vostra parte. Malberto si arresta di colpo tanto che la sua veste, che striscia nella fanghiglia putrescente che copre la strada, fa a tempo a svolazzare; poi guarda il compagno. — Devi avere fiducia. La tua moneta ti verrà ripagata da quello che troveremo. — A Dio piacendo. — Non c’è mai abbastanza pienezza di Dio, ma vedrai che la troveremo. Riprendono il passo fino a una svolta. Malberto indica un edificio in pietra grigia, le finestre chiuse nel timore che vi possa entrare quello che sta fuori, ma la porta libera e senza scritte o simboli di alcun genere. — Eccola! Fate fare a me come al solito. Malberto bussa deciso e poi aspetta. Bussa ancora, stavolta con più forza. Qualcuno risponde dall’interno con voce preoccupata: — Chi è? — Sono un ispettore della pestilenza, venuto a controllare che il contagio non si sia esteso a questa casa. — Qui siamo tutti sani, andatevene. Malberto fa un passo indietro e schiarisce la voce: — Sono io a stabilire che cosa avete o cosa non avete. Avete forse qualcosa da nascondere? Aprite, nel nome sacro dell’Imperatore oppure farò venire le guardie ad abbattere questa porta. Giuliano sorride, perché le guardie le ha viste tutte caricate sul carretto nel loro ultimo viaggio verso la fossa comune. Carne per i vermi e nulla di più ormai, la sorte che gli ha abbandonati alla morte. La porta arretra. — Fate vedere! Malberto srotola la pergamena e la mostra all’uomo seminascosto dall’uscio. — Più vicino! — Non perdiamo tempo — risponde Malberto spingendo il battente e varcando la soglia. All’interno un uomo, una vecchia e una ragazza. Tutti e tre spaventati, ma apparentemente ben nutriti malgrado la carestia presente nella zona. I morti non coltivano campi e non uccidono maiali, non colgono frutta e non affumicano il pesce. — Sono un medico, inviato per accertarmi della presenza della piaga in questa casa — esclama Giuliano infilandosi la maschera e osservando la fanciulla che invece ha abbassato lo sguardo a terra. — Dovrò visitarla tutta. — Tutta — ripete Tommaso pensando invece alla dimora e a dove può essere nascosto del denaro. — Tu — dice Giuliano rivolgendosi alla ragazza — conducimi alle stanze superiori. — Che altri piani ci sono? — Avanti — esorta Malberto piantandosi a gambe larghe davanti alla famiglia. — Le cantine — risponde l’uomo impaurito. — Allora voi potete badare alla cantina e al resto, mentre io vado sopra — conclude il medico. — Le cantine sono ottime per nascondere cibo in eccesso — mormora l’ispettore seguendo l’uomo verso il basso. Giuliano sale invece le scale dietro la ragazza: è giovane, dalla pelle rosata e dai capelli castani; ha i fianchi stretti, il petto sbocciato da poco, i vestiti troppo usati in quella lunga reclusione. Lo conduce attraverso le stanze del piano superiore, dove Giuliano osserva distratto i letti e i mobili, sposta qualche soprammobile privo di valore. Il suo interesse è sulla giovane; i suoi occhi, anche se scuri, sembrano aver assunto un velo grigio di abbandono e di rinuncia. — Devo esaminarti per vedere se sei sana — le dice. — Come dite? — Togliti i vestiti, perché altrimenti non potrò determinare se il tuo corpo è mondo dalla pestilenza e dovrò dichiararti malata. Devo dire che sei malata? Avanti, avanti! La ragazza esita, poi fa cadere le vesti. Le mani accennano a coprire le parti intime e i seni. Giuliano ha uno straccio in mano, ma lo fa cadere a terra e inizia a toccarla, carezzandole le carni, insinuando le dita ovunque sia possibile. — E dimmi, quanti anni hai? — Quindici. — Bene, bene. Bella età — dice mentre sente il cavallo delle braghe stringergli. — Però non sono ben convinto, perché il morbo potrebbe essere ben nascosto. Devi girarti e piegarti. Metti le mani su quel cassettone e allarga le gambe. Ubbidisci, se non vuoi che la tua famiglia soffra della tua perdita. La ragazza china il corpo. Giuliano si abbassa i pantaloni e la prende da dietro; il membro si infila un poco a fatica, strisciando tra carne e pelo, poi inizia a spingere avanti e indietro senza ritegno. — Fare il medico richiede… grande preparazione e… un grande… impegno. C’è molta… fatica… studio… lavoro… ecco… ecco… Le assi del pavimento cigolano; ma anche se quel rumore si sente al piano sottostante, la cosa non gli importa. Anzi lo eccita ancora di più. Lo soddisfa quel pensiero di potenza. Lui che ha sempre dovuto contenersi, lui che sentiva di meritarsi di più. La mente torna al giorno in cui lui e i suoi due amici, scacciati dal cantiere in cui prestavano servizio come tecnici e contabili dopo essere stati sorpresi a rubare, hanno trovato il carro rovesciato lungo la strada, la bestia che lo trainava scomparsa, i cadaveri dei due occupanti abbandonati lì accanto, le teste spaccate che riversavano a terra il cervello. I banditi che avevano compiuto quell’opera avevano rubato il denaro, ma lasciato il documento, gli strumenti e i vestiti dell’ispettore e del medico. Erano certo incapaci di leggere e privi di qualunque istruzione non avevano intuito il loro potenziale valore. Ma Dio è nelle piccole cose, oltre che nelle grandi. E la disgrazia di quei due era diventata la fortuna di tre. E se si aiuta la sorte quando arriva, si costruisce la propria fortuna. Era bastato procurarsi gli abiti di un frate, un frate da derubare lo si trova sempre in giro, e quindi organizzarsi per iniziare a sfruttare gli stolti e i creduloni. Bastava usare l’ingegno e risparmiare così fatica. Usare le notizie che arrivavano da est per farsi aprire tutte le porte. E prendersi quello che viene messo loro a disposizione. I ricordi si mescolano alla lussuria, vanno avanti e indietro come il suo corpo; un flusso caldo che esce dal suo corpo e domina quello che lo circonda. — Ecco… ahh… l’ispezione… è… ahh… finita… — dice Giuliano osservando il rivoletto di sangue che scende lungo le cosce della ragazza. Quando scende vede che i suoi compagni stanno mettendo in un sacco carne, salami e patate. — L‘accaparramento — sta spiegando Malberto all’uomo — è vietato da un decreto imperiale. Chiunque venga scoperto a trattenere delle scorte, verrà fustigato sulla pubblica piazza. — Ma non potete prendere le nostre cose! — Osate dire che sono vostre, proprio ora che Dio ha mandato questo flagello in Terra per punire la mancanza di rispetto da parte degli uomini verso lui e gli altri? — esclama Tommaso che si sta legando una seconda scarsella alla cinta, gli averi di quella casa adesso in suo possesso. — Dovete ritenervi fortunati che non vi facciamo arrestare — dice Malberto, che accortosi del ritorno del medico gli fa un cenno interrogativo. — La malattia? Vuoi sapere se c’è la pestilenza in questa famiglia? — risponde sentendo la ragazza scendere incerta dietro di lui. — Certo. Giuliano guarda l’uomo che sta stringendo i pugni, la rabbia che cresce in lui, e poi alza la voce. — Rischio, grosso rischio. Rischio di contagio. Usciamo subito — e fa ampi gesti per spingere fuori i due compagni. Si chiudono la porta alle spalle mentre dall’interno si sentono urla e strepiti. Un gruppo di persone sta passando proprio in quel momento, seguono un carro su cui sono stati gettati corpi di bambini che non cresceranno più. — In questa casa è arrivato il morbo! — esclama Malberto tirando con forza il battente per evitare che la porta si spalanchi. — Non bisogna diffonderlo — e intanto agita la pergamena. Poi è costretto a usare entrambe le mani per impedire che la forza dell’uomo all’interno possa aprire il battente. Si sentono grida e il pianto della ragazza. La processione si ferma. Occhi stanchi valutano la scena. Un topo salta giù dal carretto con della carne tra i denti. — Hanno perso il senno per la febbre — dice Giuliano mentre Tommaso tiene alto un crocefisso e mormora delle preghiere. Qualche sguardo impaurito e poi mani che portano assi e chiodi, un martello che batte e sigilla l’ingresso, incurante delle proteste che vengono dall’interno. Malberto traccia dei segni sui muri con il gesso e avverte — Che nessuno entri e che nessuno esca. Vigilate, vigilate o la morte si porterà via anche voi, che già pesa sul capo di chi ci abita! La morte, la morte! Non date loro cibo o acqua, non date loro occasione di ungervi con la malattia. I tre si allontanano, lasciandosi alle spalle una casa destinata a diventare tomba.
Diffusione Il cielo è nero, e grandi nuvole cariche di cenere si alzano dai roghi dove bruciano i cadaveri; ormai chiunque ha rinunciato a essere seppellito o non ha più la forza di seppellire. Tre uomini percorrono le strade di Bologna cercando la loro nuova occasione, ora che soldi e cibo sono finiti da molti giorni e la loro vita si è fatta più difficile. Devono stare attenti a dove si cammina, perché sotto i loro piedi tutto è merda o lo è stata. — Non è pericoloso essere qui? — domanda Tommaso. — Non più che in altri luoghi. Bisogna vivere e prendere finché si può. E se non fossimo noi a prendere, lo farebbe qualcun altro al posto nostro. L’uomo è così — risponde Malberto scalciando un gatto scheletrico che gli si è avvicinato troppo, sopravvissuto ai ratti ora più grossi e pasciuti di quanto lo sia lui. — Peccatore. L’uomo è peccatore. La vita è breve e siamo limitati dalla miseria su ogni lato; dobbiamo prendere i gioielli che troviamo. Lussuria, gola, avarizia sono solo negli occhi di chi guarda — Giuliano subisce il fascino di quell’atmosfera acre e pungente, sente il membro tirarsi ogni volta che vede un cadavere di donna denudato dai pochi stracci che possedeva. La città è devastata dalla morte. Ci sono più persone morte che vive, e quelle vive sono divise tra quelle consumate dalla stanchezza e quelle devastate dalla rabbia, quasi in colpa di essere sopravvissute a parenti e amici. Ai lati delle piazze ci sono cumuli di corpi che vengono rosi da cani sbandati e dai topi, nelle case abitano spesso solo cadaveri infestati dai vermi, un lezzo nauseabondo gravita pesante nelle vie, vapori di decomposizione salgono come dita di nebbia. Rari, si muovono in strada gruppi di soldati simili a fantasmi, raccolti dai pochi governanti ancora in vita e pagati dieci volte più di quanto venivano pagati in precedenza. In qualche caso si incrociano gruppi di flagellanti, penitenti che organizzano preghiere collettive e si martoriano il corpo per espiare per tutti, aggiungendo così il loro sangue ai rifiuti immondi che ingombrano le strade, le loro ferite ai lamenti dei moribondi. — Ma c’è ancora qualcuno vivo da queste parti? Oppure siamo oltre le porte degli inferi? — chiede Tommaso stringendo forte il crocefisso di cui ha sfruttato finora le qualità. — Chi era in casa con qualche appestato ne è certo uscito, ma solo per poi rischiare in mezzo alla via. Come stiamo facendo noi. — Lasciando tutte le proprie ricchezze dietro di sé. Che da morti non possono comunque portarseli appresso. Ne dobbiamo approfittare adesso; faremo in fretta e poi ce ne andremo. Diventeremo dei gran signori, avremo abbastanza soldi da pagare gli altri per lavorare al posto nostro. La nostra tavola sarà piena e avremo tutte le baldracche che vorremo, anzi faranno la fila per alzare le gonne nel nostro castello. E anche i garzoni che altrimenti non trovi, Tommaso — Malberto fa un gesto osceno nei riguardi del frate, che diventa paonazzo e guarda altrove. Poco lontano si sentono delle grida. Provengono da un palazzo che sta quasi di fronte a loro, ma sembrano più grida di gioia che di dolore. — Chi è così pazzo da far festa in questi giorni? — Qualcuno che ci ha preceduto e ha trovato un tesoro? — aggiunge Tommaso, la voce secca e già delusa per quello che gli è sfuggito. L’edificio è elegante, contornato di marmo e con leoni di pietra, loro sì incuranti della malattia; tende verdi dai bordi dorati si agitano fuori dalle finestre dei piani superiori, mosse dalla brezza che spazza con vapori di cenere l’intera città. — Forse possiamo ancora approfittarne. — Basta che non siano armati — dice Giuliano che ha solo un coltellaccio e il suo strumento da medico. Malberto bussa forte sulla porta, poi bussa ancora più forte, temendo che il rumore rimanga sopraffatto dalle urla. Eppure dopo qualche momento qualcuno apre il catenaccio: un uomo con la camicia aperta, lo sguardo stravolto e i capelli scarmigliati li accoglie. — Per ordine di sua maestà l’Imperatore — comincia Malberto, ma solo per essere interrotto dall’uomo. — Morirà come tutti noi se solo il soffio pestilenziale lo raggiunge. Non c’è rimedio, non c’è perdono se non quello che potrebbe dare Dio. E Dio ha deciso di ignorarci. Ci ha abbandonato. — Come? — esclama Tommaso facendo un passo avanti, quasi offeso di non poter esercitare il suo ruolo di conforto nel Signore. — Ma voi siete qui a far festa? — Che altro dovremmo fare? Cos’altro ci resta da fare? Se domani o dopodomani saremo morti tanto vale usare il tempo rimasto. Che giovamento si ha a restare a piangere su tombe che comunque non ci stanno più ad ascoltare? — Poi l’uomo arretra, raccoglie una coppa di vino appoggiata su un tavolino accanto alla porta, ne beve un lungo sorso e fa cenno loro di entrare. — Ma chiudete la porta alle vostre spalle, che la morte non ci trovi o che faccia almeno fatica nel trovarci — l’uomo si volta e sale per una scala di marmo che porta al piano superiore. — È cosa saggia? — domanda sottovoce Tommaso ai suoi amici. — Stanno dando fondo a quello che gli resta. Lo consumano al posto nostro — Malberto si guarda intorno, lo stomaco che gli brontola. — E basterà aspettare la loro morte — anche lui con la voce bassa, Giuliano cerca di guardare nel corridoio, di percepire quello che accade più in là. Ci sono risate e canti, voci che percorrono i corridoi. Più avanti un’arcata conduce a un cortile interno che si sta scurendo per le ombre, percorso da sagome che corrono e si incontrano per poi lasciarsi. — L’uomo è folle fino alla fine — commenta Malberto. — E noi siamo così diversi? — Giuliano si fa avvicinare da una donna che si scopre i seni e poi, quando lui fa per afferrarla, gli sfugge ridendo. Qualcuno lancia monete da un balcone; il metallo luccica agli ultimi raggi del sole e rimbalza sulle pietre del cortile o si perde nell’erba. Tommaso inizia a raccoglierle, ma è preoccupato di quelle che non vede nel buio, dei tesori celati nelle tante stanze. — Una festa prima della fine. Possiamo unirci a essa. Per una volta che i ricchi sono disposti a condividere i loro tesori con i poveri, dovremmo approfittarne. — Prendiamo quello che c’è e andiamo via. Malberto scuote la testa: — Se domani mattina o fra due giorni saranno morti, qui non ci potrà entrare più nessuno. Verrà dato fuoco a tutto e tutto sarà perduto. Sempre che non ci sia davvero qualche appestato. In tal caso saremo perduti anche noi. Credo sia meglio fare in altro modo e approfittarne adesso. Torna sulla via, convincendo gli altri a seguirlo, e inizia a gridare ad alta voce finché non richiama l’attenzione di un drappello di guardie che sta passando poco lontano. Si tratta di uomini stanchi, i resti delle compagnie che una volta proteggevano le strade, sconfitti da un nemico che non possono vedere. Malberto la pergamena di ispettore al loro sergente — Richiamo la vostra attenzione su questo luogo. Si tratta di certo di un nido di untori, di eretici, di sodomiti, forse di ebrei, che adesso festeggiano con baccanali il loro successo. In nome del sacro Imperatore è necessario che voi interveniate. Il palazzo va sgomberato, i residenti allontanati e rinchiusi dove non possono spargere il morbo. Il soldato si mostra dubbioso e fissa Malberto e i suoi due compagni. Gli armigeri dietro di lui si agitano nervosi, la morte che ha appesantito i loro sguardi. — Se non interverrete dovrò fare rapporto all’Imperatore stesso quando rientreremo alla sua corte. Manderà le sue truppe a prendere il vostro posto. — Magari vi sbagliate! — accenna il soldato. — Mettete in dubbio il mio mandato? — risponde Malberto agitando il foglio come un vessillo di potere. — Non accettate il mio comando? Dalle ombre della strada risale un uomo, una corta barba grigia, l’aspetto ancora distinto malgrado il peso dello sfinimento, lo sguardo di comando capace di istillare rispetto e timore. — Che accade? — domanda. — Mi si chiede di intervenire, mio signore — gli risponde il sergente. — Da parte di chi? Malberto è adesso insicuro, ma deve mantenere la sua posa, reggere la maschera che si è imposto. — Da parte degli ispettori mandati dal vostro sacro sovrano Carlo. Chiedo, consiglio che gli occupanti di questa casa siano portati altrove invece di festeggiare per la loro opera di contagio. L’uomo blocca il braccio di Malberto e legge la pergamena. Poi lo guarda fisso negli occhi. — Questo è un mandato per Bartolomeo di Vallefosco e Francesco Rozzi, incaricati di raccogliere. Siete voi? — Certo — Malberto risponde forzando la voce. — Certo che sono io quel Bartolomeo. L’uomo ha gli occhi di ghiaccio. — Qui non si parla di tre persone, quanti siete invece voi, e dice di presentarsi a Venezia il 15 di febbraio. La settimana scorsa. Agitando col braccio quel foglio siete forse riuscito a convincere chi non sa leggere o chi aveva paura di quello che poteva accadergli. Ma un magistrato è colui che redige i documenti e io ho bruciato giorni fa la mia sposa e gettato i miei figli su di un carro senza neppure poterli abbracciare un’ultima volta. Non mi spaventa più quello che può accadere, non al punto da annebbiarmi la mente — il suo tono si fa più duro. — Allora siete voi Bartolomeo di Vallefosco? — Il foglio l’abbiamo trovato. No, ce lo ha dato un uomo moribondo attaccato dai banditi e a cui abbiamo promesso di proseguire l’operato. Promesso sulla sacra Vergine — dice Giuliano. —Zitto! — Malberto fa un passo indietro, ma scontra la schiena contro un soldato. Le alabarde si agitano. — O forse glielo avete preso voi con la forza? — incalza il magistrato nei riguardi di Giuliano. — No, no. — Per quel che resta della giustizia vi farò impiccare. E voi? — chiede il magistrato a Tommaso. — Siete un frate o un complice? Tommaso impallidisce e vede che ogni via di fuga è chiusa. — No, sono stato costretto da lui. L’ho incontrato che ungeva le panche delle chiese con il liquido di un’ampolla. Ha detto che se non lo avessi seguito, sarei stato il primo a essere appestato. Lo giuro, lo giuro. Malberto si agita, cerca di protestare, ma i soldati bloccano lui e il medico. — Untore anch’egli? — chiede il magistrato. Gli occhi di Giuliano lo tradiscono e vanno alla borsa. Quando una boccetta di liquido giallo viene trovata, ogni giustificazione cade su orecchie ormai già sorde. — Via, via! — dice il magistrato. — Sarà magari il mio ultimo ordine, ma che siano portati tutti e tre in piazza e giustiziati. Che il boia prima li castri e poi li squarti sui ceppi e ne bruci i resti; che tutta la gente per bene, quella che è rimasta, veda che c’è ancora giustizia in questo mondo desolato e senza pietà.
Conseguenza Il cielo del mattino è color della fiamma, e nuvole già stanche della giornata aspettano solo di dissolversi. I resti di tre uomini sono adesso mescolati alla merda che ha invaso le strade. Polvere erano in origine, corpo e mente sono stati per poco, e polvere sono tornati a essere.
Edited by Otrebla Bla Bla - 1/6/2011, 01:43
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