Camerati
di Luca Pagnini
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12 aprile 1944 I due uomini accanto alla fontana non dimostravano più di venticinque anni. Un terzo giovane fumava appoggiato alla Nuova Balilla 1100 nera, parcheggiata sul bordo della strada sterrata. Sebbene tutti indossassero abiti civili e le loro voci – e quindi il loro idioma – non fossero udibili a chi li stava osservando, la pistola mitragliatrice MP 38 a tracolla di uno dei tre e l'automobile inconfondibile lasciavano pochi dubbi sulla loro identità. Sotto le chiome dei castagni, i raggi del sole filtravano macchiando il terreno con forme luccicanti, repentine come folletti. Era uno splendido pomeriggio d'aprile, inaccostabile alla morte. Ma la morte non ha preferenze, né di tempo né di luogo. La prima raffica di mitra, partita dalla macchia, stroncò la risata di uno di quelli alla fontana. Il compagno accanto a lui scomparve nel retrostante greto dell'Arno, che in quel punto era appena un torrente. La seconda raffica freddò il terzo uomo mentre tentava di ripararsi dietro l'auto. Quando i partigiani della brigata "Faliero Pucci" si avvicinarono con cautela a controllare i corpi, ebbero la conferma di aver ucciso due tedeschi delle SS. Del terzo, fuggito lungo l’argine, persero le tracce nella boscaglia.
I
La canzone proveniente dalla radio a transistor era fastidiosa. Quel gruppo di capelloni, che le cronache dicevano originari di Liverpool, imperversava anche in Italia. Altero Bassi non sopportava la musica moderna, tanto meno quella inglese. Maledicendo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti d’America, e tutti i loro abitanti, smorzò il volume. Anche la diffusione del rock and roll era una conseguenza della sconfitta, pensò. Irritato, strappò il foglietto dell’11 aprile 1964 dal calendario appeso al muro e si sedette al piccolo tavolo di legno appoggiato sotto la finestra affacciata su via Maffìa. La sedia impagliata si stava sfilacciando su un lato, doveva proprio sistemarla. Arrivato dalla Spagna tre settimane prima, era stato fortunato a trovare subito quell’alloggio a poco prezzo. Era in un vecchio fabbricato popolare, ma aveva una cucina economica a legna con buon tiraggio, un fornelletto elettrico e un acquaio. Inoltre, particolare importante, il bagno comune era in fondo al corridoio del piano e non nel cortile. Una stanza in San Frediano, il quartiere più malfamato e comunista di Firenze, per il momento era il massimo che si potesse permettere. Al pensiero di chi fossero i suoi vicini di casa sorrise. Se solo avessero immaginato.
Nella luce brillante del pomeriggio, si accese l’ultima cicca del portasigarette e ricominciò a scrivere.
1942
Il mio trentottesimo compleanno lo festeggiai nella depressione di Deir el Munassib, nell'Africa nordoccidentale, tra il caldo asfissiante, le malattie, la sporcizia, la fame e la sete. La morte. Di fronte, oltre i campi minati, le divisioni inglesi del generale Montgomery. Forse festeggiare non è il verbo adatto, diciamo che sopravvissi al mio trentottesimo compleanno nelle trincee scavate dagli uomini della 185^ Divisione Paracadutisti "Folgore", di cui facevo parte. Da luglio, dopo la prima battaglia nei pressi di El Alamein, ci eravamo attestati in attesa che l'avanzata verso Alessandria d'Egitto riprendesse con il vigore dimostrato fino a quel momento. Era convinzione degli alti comandi – così ci dicevano gli ufficiali – che la linea anglosassone avrebbe ceduto presto. Nessuno osava dubitare apertamente di quella previsione, tanto meno del Duce che l'aveva pronosticata da mesi, però più il tempo passava, più la nostra convinzione si affievoliva.
Nel nostro settore, il primo bene a scarseggiare fu la benzina. Già a metà settembre i rifornimenti erano stati ridotti all’osso, quindi, con la mancanza di carburante, erano diminuiti anche gli approvvigionamenti di cibo e, infine, quelli di acqua. La sofferenza da sete era quotidiana, e a tratti sfiorava il grottesco. Come la volta in cui l’acqua arrivò puntuale, ma su autobotti usate in precedenza per la benzina: imbevibile, i primi tempi; solo quando capimmo che a quella non ne sarebbe seguita altra per chissà quanti giorni, nessuno ne gettò più una goccia. Di giorno il termometro arrivava a superare i cinquanta gradi all’ombra, mentre la notte precipitava sotto i dieci. Non ho mai capito a cosa fosse dovuta quella differenza, per me assurda. Un mattino commisi l’errore di attardarmi nelle retrovie, all’aperto e a piedi. Il calore era tanto forte che le rocce sembravano fondersi, un'illusione ottica che mi pare si chiami "miraggio inferiore". Con i polmoni in fiamme e la netta sensazione di morire, cercai protezione sotto uno sperone di roccia. Appena il tempo di ripararmi e uno Spitfire sfrecciò a volo radente in cerca di prede facili, come ero io fino a un attimo prima. Il caldo, di solito assassino, quella volta fu provvidenziale, un vero paradosso del deserto. Poi c’era "el ghibli", il vento secco proveniente dal centro del Sahara. Il suo passaggio cancellava il mondo e la sabbia, scagliata a decine di chilometri l’ora, sferzava la carne come carta vetrata. Dopo una tempesta di ghibli, non esisteva pertugio che non fosse infestato dalla rena finissima del deserto. Se non altro, poi impiegavamo il tempo ripulendo le armi.
Ammassati come topi attendevamo nell’inedia che qualcuno, tra Rommel e Montgomery, si decidesse a prendere l’iniziativa. Alle ventuno esatte del 23 ottobre, fummo accontentati. Nel giorno del mio compleanno, mentre assieme ai camerati brindavamo con il cordiale delle razioni, le artiglierie alleate iniziarono a martellare le nostre linee come non si era mai visto. La fine della campagna d’Africa era iniziata.
II
La mano stanca posò la penna e poi lisciò i capelli radi e brizzolati, pettinati all’indietro con la brillantina come si usava trent’anni prima. Nella sera incombente, la luce della lampadina da pochi watt era appena sufficiente per leggere. Controvoglia Altero Bassi decise di prendersi una pausa, si alzò e dopo aver indossato l’unica giacca di lana che possedeva uscì per andare al tabaccaio di via Sant’Agostino.
«Buonasera signor Bassi». «Buonasera». «Le solite dieci Nazionali senza filtro?» «Sì, grazie. Mi scusi, signora Vanna, ma ancora...» accennò lui titubante. «Niente pensione?» «Purtroppo no. A fine mese salderò...» «Non si preoccupi: fare credito a lei è un dovere, mi creda... Ecco le sue sigarette. Buona serata». «Grazie mille, signora. Arrivederci». Anche il fornaio e il lattaio gli facevano credito e Bassi, benché grato, non ne capiva il motivo. Forse la signora Vanna lo aveva in simpatia e aveva passato parola. O forse era per il suo aspetto mite e inoffensivo, da vecchio avvilito, sofferente e bisognoso. Guardandosi allo specchio lui stesso si sarebbe dato dieci anni in più.
Come ogni sera da quando era arrivato passeggiò fino a piazza Santo Spirito, dove i tigli ripiantati dopo la guerra erano di nuovo alti, e si sedette su una vecchia panchina di pietra davanti al comando del Distretto Militare. Accesa una sigaretta, per qualche secondo osservò il fumo salire in volute dalle forme arabesche. Alcuni piccioni, impegnati a litigarsi un pezzo di pane secco, lo distrassero. Chissà come, gli venne in mente l'umanità. Di scatto si alzò deciso a continuare il suo viaggio nel passato la sera stessa, magari aggiungendo alla luce della lampadina quella di una candela.
1943
Il proclama dell'armistizio, letto alla radio da Badoglio l'8 settembre, mi sorprese a Firenze, in licenza dalla scuola di paracadutismo di Viterbo.
Dopo la ritirata di El Alamein ero stato assegnato al 285° Battaglione "Folgore" formato in Libia con i sopravvissuti, quindi ero stato rispedito in patria ad addestrare le reclute. Nella disgrazia, nonostante la morte e la distruzione a cui avevo assistito, la mia fede nell’ideale fascista si era fortificata; il nemico da battere per me era sempre lo stesso. Quella sera le mie convinzioni furono messe alla prova. In strada sembrava fosse scoppiata la rivoluzione. Da un lato i civili a festeggiare quella pace effimera e vergognosa, dall’altra i militari lasciati senza guida. Per il momento rientrare a Viterbo era impossibile, quindi la mattina dopo mi recai al comando di distretto in Santo Spirito per ricevere indicazioni, ma nessuno me ne dette. Il caos era totale; le autorità militari, a quanto pareva sorprese quanto me, attendevano ordini che non arrivarono mai. In compenso, nel giro di poche ore, ad arrivare furono i tedeschi.
Tre giorni dopo Benito Mussolini, che era in stato di arresto dal luglio, fu liberato. Il 17 settembre, mentre nascosto con mia moglie e i suoi genitori aspettavo di decidere cosa fare, il Duce annunciò da radio Monaco la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, con Roma capitale. Il Re infame era fuggito, ma la vera Italia non si arrendeva. L'onore era salvo, la vittoria ancora possibile.
III
Altero poggiò la tazza di caffellatte sul tavolo e si accese la prima Nazionale della giornata. Aveva dormito pochissimo. Come preso dal delirio di una febbre malarica, all’alba stava di nuovo scrivendo. I mesi e gli avvenimenti correvano veloci sulla carta, impossibili da arrestare. Al rientro dalla Spagna, gli era sembrato tutto molto chiaro. Ora, man mano che i fatti riaffioravano alla memoria, quella certezza vacillava. Aveva deciso di scrivere i suoi ricordi per rinfocolare il rancore, per ritrovare la rabbia perduta da tempo e convincersi che stava facendo la cosa giusta. Ma era davvero giusta? Qualcuno bussò alla porta interrompendo quel flusso di pensieri ed emozioni che non riusciva più a gestire. «Signor Altero, la vogliono al telefono». «Vengo subito».
La sola linea telefonica del palazzo era allacciata nell’abitazione della signora Faggi, al piano terra. Mentre Bassi entrava nella casa, molto più grande e pulita della sua, la donna lo redarguì sottovoce indicando un orologio a pendola: «Dica al suo amico che non è questa l’ora di chiamare». Annuendo, Altero vide che erano da poco passate le sette. Nervoso, afferrò l’apparecchio: «Sì?» «Sono io». La voce dell’ex camerata Francesco Giannetti, l’unica persona che sapesse del suo ritorno a Firenze, non aveva alcuna nota di cordialità. «Allora, sono d’accordo con il prezzo, ma vogliono la garanzia che la lista sia originale e non abbia copie». «Garantisco su tutto io, non serve altro. Sono l’unico, qui, a non aver mai tradito». Il tono della frase non ammetteva repliche. Dopo un breve silenzio, l'altro riprese: «Va bene. Mi rifarò vivo presto». Il volto di Altero si rilassò.
1944
Alle primissime luci dell'alba del 13 aprile, con i camerati della GNR e decine di Waffen-SS e paracadutisti della Divisione "Göering" salimmo a Vallucciole, una piccola frazione arrampicata sul versante aretino del monte Falterona, là dove nasce l'Arno. Durante l'ascesa pensavo al fiume e a mia moglie, alle decine di volte che avevamo passeggiato felici sui lungarni di Firenze. In un’altra vita. Poco più di un mese prima, l'11 marzo, la sua era stata interrotta da un bombardamento alleato. Cento volte le avevo detto di lasciare la nostra casa nel quartiere di Rifredi; era troppo vicina alle acciaierie Pignone, un qualsiasi altro luogo sarebbe stato più sicuro. Purtroppo la sua testardaggine fu pari al coraggio che dimostrò fino alla fine per non abbandonare i genitori, troppo anziani per spostarsi. Non ho più rivisto neanche il suo corpo.
L'operazione che stavamo svolgendo venne spacciata come rappresaglia per l'uccisione di due soldati delle SS, avvenuta nel pomeriggio del giorno precedente. In realtà, il rastrellamento di quella parte dell'Appennino tosco-romagnolo era già stato programmato da tempo. La necessità di tenere libere e sicure le vie secondarie intorno alla "linea Gotica", che dal Tirreno all'Adriatico tagliava in due l’Italia, era preponderante su tutto e il metodo utilizzato per ottenere lo scopo non prevedeva tentennamenti. Tutti gli abitanti delle zone interessate venivano cacciati con il terrore e la violenza, i centri abitati distrutti; i banditi chiamati “partigiani”, isolati dalla popolazione rurale che intendesse aiutarli, dovevano essere annientati. Da quando, nell'ottobre del '43, ero entrato nella Guardia Nazionale, non era la prima volta che partecipavo ad azioni del genere; ciò che vidi quel giorno, però, superò di gran lunga qualsiasi orrore avessi incontrato in tutto il resto della guerra. L’ordine era quello di fare terra bruciata, e terra bruciata facemmo.
Una smorfia di dolore vivo, come se la carne provasse ancora chissà quale sofferenza, deformò i lineamenti di Altero. Lo sfogo che stava vomitando su quei fogli, nelle sue intenzioni destinati al fuoco della cucina economica, lo stava sopraffacendo. Ma non poteva fermarsi, c’erano ancora da scrivere le cose più importanti. L’uomo accese l’ennesima sigaretta e proseguì.
Nelle abitazioni trovammo solo vecchi, donne e bambini. Gli uomini erano tutti in guerra, prigionieri e deportati, o alla macchia. In tanti furono uccisi subito nelle case, nei loro letti; altri furono prima raggruppati nella piazzetta del villaggio. Alcuni vecchi, che si reggevano a mala pena in piedi, vennero giustiziati sulle scale di casa. Le donne urlavano e piangevano, quasi tutte cercando di riparare i bambini e le bambine in abbracci inutili. Qualcuna ci insultava, molte ci pregavano di avere pietà. Ma quel giorno, la pietà si tenne lontana da Vallucciole. Nessuno fu risparmiato. Vidi un soldato delle SS lanciare in aria un fagotto, come fosse un pallone, e poi colpirlo con una raffica della sua MP 38 prima che ritoccasse terra. Per fortuna, pensai, la madre del neonato avvolto lì dentro era già stata uccisa.
Con noi di Firenze, c’erano anche i camerati di Forlì e di Arezzo. Mentre i paracadutisti della "Göering" distruggevano tutto con i lanciafiamme, il comandante del plotone romagnolo ebbe l’idea di far saltare in aria la canonica in cui erano rinchiuse una ventina di persone, tra le quali il prete. Visto che ce la siamo portata dietro, usiamola, disse riferendosi alla dinamite. Dopo che le cariche furono piazzate, qualcuno scommise sull’esito dell’esplosione. Vinse chi aveva puntato sul crollo completo: la detonazione fece sbuffare calcinacci e polvere dalla base dei muri perimetrali, come se un gigante avesse soffiato dall’interno; dopo un paio di secondi dall’onda d’urto, con un movimento rallentato, i muri collassarono su se stessi, seguiti dal tetto rimasto quasi intatto fino a quando non toccò il suolo. Il cumulo di macerie lasciava pochi dubbi sulla presenza di eventuali sopravvissuti; con efficienza teutonica, un paracadutista scatenò la lingua di fuoco che imbracciava e i dubbi furono azzerati. Era guerra, continuavo a ripetermi, solo guerra.
IV
«Alle sei, davanti a San Miniato». «Ci sarò». Chiudendo il telefono, Altero sentì lo stomaco contrarsi. Salutò frettoloso la signora Faggi e risalì nel suo monolocale dove vomitò un grumo di bile. Alle sei, dopo lo scambio concordato con il Giannetti, sarebbe stato finalmente ricco e libero. Ricco e libero, si disse più volte per convincersi. Della ricchezza in realtà non gli importava, era la libertà dalla vendetta ciò che desiderava di più. O almeno così credeva, da quando aveva ritrovato quel vecchio documento stropicciato.
1945
Dopo otto mesi di assedio, a metà aprile la linea Gotica cadde. Il giorno 21, gli angloamericani erano in procinto di entrare anche a Bologna. Prima di lasciare la città dovevamo distruggere gli archivi della GNR e tutti quei documenti che non era opportuno cadessero nelle mani degli alleati né, soprattutto, in quelle dei partigiani. Come il ritornello di una brutta canzone, stavamo rivivendo quanto accaduto nei primi giorni dell’agosto ’44 a Firenze, anche se in quell’occasione si trattò di un trasloco eseguito in fretta, ma senza abbandonare quasi nulla. I tedeschi avevano fatto saltare tutti i ponti sull’Arno – tranne Ponte Vecchio che però venne ostruito demolendo i palazzi sulle vie di accesso – per guadagnare tempo. Firenze insorse per mano dei partigiani l’11, quando ormai le truppe alleate erano a pochi chilometri dalla città e io, con il resto del comando fiorentino della Guardia Nazionale, in Emilia.
A Firenze resisteva ancora un briciolo di speranza, a Bologna era solo una disfatta. Mentre gettavamo i documenti nel falò al centro della stanza che era stata del Federale felsineo, un foglio sfuggì alle fiamme posandosi accanto al mio piede. Lo raccolsi, ma il rumore di spari provenienti dal piano inferiore mi allarmò; lessi soltanto una parola: Vallucciole. Senza indugiare misi il foglio in tasca e scappai con gli altri camerati. Anche a Bologna l'insurrezione popolare stava anticipando l'arrivo delle truppe regolari. Sul camion che ci trasportò oltre il Po, mi ricordai del documento, lo presi e lessi: quella che avevo davanti era la lista ufficiale, bollata e firmata dal Console della Milizia di Firenze, con indicati tutti gli appartenenti alla GNR che avevano partecipato alla strage del 13 aprile '44. Non so perché quel giorno decisi di conservarlo. Dopo vent'anni passati a nascondermi, è arrivato il momento di scoprirlo.
V
Camminando svelto Altero raggiunse il piazzale di Porta Romana da via de' Serragli. Sotto l'enorme bastione che si ergeva a difesa della città dalla metà del '500, valutò se procedere a piedi oppure prendere l'autobus. Decise per la seconda opzione, ma prima di recarsi alla fermata entrò nella tabaccheria accanto al caffè Petrarca e, oltre le solite Nazionali, comprò una busta in cui introdusse i fogli con i suoi ricordi e il vecchio documento originale. Il bigliettaio sull'autobus aggrottò la fronte quando Bassi gli sorrise radioso.
Il cancello di San Miniato al Monte era aperto. Con la sigaretta accesa tra le labbra, Altero salì la scalinata fino alla terrazza in cui si estendeva il sagrato antistante la basilica e si voltò ad ammirare il panorama. Vent'anni in esilio, pensò con rammarico, vent'anni esatti a fuggire. «Fausto Lisi, perché sei tornato?» La voce di Giannetti, alle sue spalle, sorprese Altero Bassi due volte. Era dal 1945 che non si sentiva chiamare con il suo vero nome. «Lo sai», rispose senza voltarsi. L'altro lo affiancò. Più alto e massiccio di lui, sembrava anche molto più giovane. Rare rughe incorniciavano il bel viso aggraziato da un paio di baffi, sottili e neri. «No, intendo il motivo vero». «Forse per l'onore», o forse per espiare, si disse Altero, senza sapere bene cosa. «Quale onore? Di certo con la storia della lista hai smosso un casino, ma l'onore... Ci sono dei nomi lì sopra che non vogliono, non devono essere disturbati. Carriere politiche si reggono sulla brevità della memoria, lo sai. Dovevi restare in Spagna...» «Dove ho vissuto con l’elemosina dei franchisti!» proruppe Altero, gettando la cicca e afferrando il bavero del trench di Giannetti, «Abbandonato al mio destino proprio dai camerati», la parola suonò come un insulto, «mentre loro, voltagabbana della peggiore specie, si ingrassavano al trogolo della democrazia!» «Non riavrai l'onore vendendo la lista al miglior offerente». Francesco era calmo. Altero lasciò la presa: «Forse no, ma almeno pagheranno un prezzo per la loro viltà. E io otterrò giustizia». Ma giustizia per chi? Nella mente di Altero una nuova, possente consapevolezza stava prevalendo. Per qualche minuto i due contemplarono il tramonto. «Quelli non si fidano. Non ti lasceranno andare via». Il tono di Giannetti adesso era sconsolato. «Non importa», bisbigliò Altero. Fulminee e nitide, le immagini che da anni cercava di scacciare lo trafissero. Come in trance, udì la sua voce mormorare: «Sono stanco di sognare quegli sguardi, quelle grida. I pianti, l'odore... sogno persino l'odore dei corpi bruciati». Destato dalla presenza del vecchio amico, lo guardò. «Erano tutti innocenti, Francesco... Tutti». Finalmente sapeva cosa fosse giusto fare. Sorpreso da quell'improvviso capovolgimento, Francesco Giannetti tacque. Alla fine fu Altero a parlare. «Addio camerata Giannetti». Ora i due uomini si guardavano negli occhi. «Ma... la lista? I soldi?» «Non importa, non importa più niente». Con un ultimo sguardo Altero ammirò la sua Firenze tingersi di arancio, quindi si diresse al negozio di souvenir della basilica e comprò un francobollo. Con mano sicura scrisse sulla busta "ANPI - Firenze" e imbucò il suo atto di giustizia nella grossa cassetta rossa appesa lì accanto. Davvero libero si avviò nel crepuscolo, uscendo dalla porta medievale su via delle Porte Sante, senza notare le due sagome scure che lo seguirono.
Fine
Note: GNR – Guardia Nazionale Repubblicana ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Gli avvenimenti relativi a Vallucciole sono tutti purtroppo realmente accaduti, compresa l'uccisione dei tedeschi nell'antefatto. Tutto il resto, tranne ovviamente gli eventi storici, è solo frutto di fantasia.
Edited by black cat walking - 8/6/2011, 19:05
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