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Mi sono un po' arenato sul racconto, magari potete darmi qualche... stravolgimento.
Il Mulino di Ollara
I temporali estivi, tanto a lungo paventati dal servizio meteo, erano infine giunti da oriente ad assediare la valle. Già dalle prime ore del mattino, plumbei agglomerati di nuvole avevano cominciato ad ammassarsi a ridosso del crinale, dove impazienti si aggrovigliavano in un denso ribollire vaporoso. Seduto sotto il portico, Marco assaporava l’aroma acre del suo sigaro toscano e intanto scrutava il sinistro ondeggiare della foresta che circondava il mulino come un vasto mare verde. Un cigolio stridulo si mescolava all’eco sommesso dei tuoni che ruggivano in lontananza; era la ruota a pale che sul retro del casale veniva sospinta dall’acqua del torrente. Marco aspirò nervosamente un paio boccate di fumo scuotendo la testa sconsolato. Con lo sguardo seguì i vacui nastri lattiginosi lambire le travi in legno della tettoia per poi scivolare sinuosi al di là del bordo esterno e disperdersi nell’aria tersa. Si alzò dalla panca e raggiunse il parapetto per guardare le prime stelle che facevano capolino nello stralcio di cielo sereno Fu allora che dal castagneto, in un gran stormir di fronde improvvisamente giunse un refolo d’aria più fredda che portava con sé il profumo del fogliame umido. Marco drizzò la schiena vedendo la livida massa di nuvole tracimata infine al di qua dei monti, fagocitare a grandi morsi la vasta distesa di limpido. Fece per tornare verso l’interno del portico, ma nel voltarsi barcollò emettendo un mugolio di dolore e solo il fortuito incontro della sua mano con la pietra di una delle colonne, gli evitò una rovinosa caduta. Intanto un’increspatura color verde pallido partiva dalle sommità delle colline, scorrendo rapida lungo i due versanti della gola in un grande agitarsi di frasche. In pochi istanti, preceduta da un fragore crescente e da un brusco calo della temperatura, una bordata di vento gelido investì il mulino. «Porca…!» fece appena in tempo a esclamare Marco sorpreso dalla potenza della folata d'aria polverosa. Un buio innaturale calò repentino sulla valle, mentre la punta del sigaro nella sua mano, tra sbuffi e svolazzi di fumo azzurrognolo, sfavillava di un arancione furente come il vento che l’avvampava. Marco lo schiacciò contro il muro e coi capelli che gli frustavano le guance e la camicia che gli scopriva la schiena, si diresse barcollando verso la porta. Un rimbombare di passi concitati irruppe alle sue spalle sulle assi di legno del portico. «Ce l’ho fatta, eccomi!» udì appena al di sopra del boato in cui erano immersi. Si girò e provò a parlare, ma una potente raffica lo costrinse a boccheggiare e a proteggersi a sua volta. In mezzo al turbinio di detriti e foglie, scorse tutto intorno le fronde dei castagni piegarsi e dimenarsi selvaggiamente nell’aria. «Sbrighiamoci a entrare, prima che il vento ci butti tutt’e due a gambe all’aria!» sollecitò il nuovo arrivato sospingendo Marco verso l’ingresso. S’udì un sospiro, un crepitio, poi uno schiocco e infine un’esplosione fragorosa che nel chiarore innaturale di una luce bianchissima, fece tremare la terra sotto i loro piedi. Gocce di pioggia grosse come castagne cominciarono a cadere, producendo i tonfi sordi dei fichi troppo maturi quando si staccano dai rami e si schiantano al suolo. Dapprima rade, la loro intensità aumentò rapidamente fino a divenire un vero e proprio nubifragio. Una nuvola d’acqua nebulizzata li colpì in pieno infradiciandoli, mentre la furia del vento strappava l'uscio dalle mani di Marco e lo mandava a sbattere violentemente all’interno. Si catapultarono in casa afferrando all’unisono la porta e riuscendo a malapena a farla girare sui cardini. Il vento ululava tutta la sua furia attraverso il varco indifeso, ruggiva e graffiava il legno e la pietra, mentre la luce tra la porta e il montante andava lentamente assottigliandosi, richiudendosi infine con un consolante scatto della serratura. «Che tempesta!» esclamò Marco, arruffato e sconvolto. «Incredibile» commentò la sagoma scura di fronte alla piccola finestra, dalla quale contemplava il muro d’acqua scrosciante «mai vista in tanti anni una roba del genere…». La luce abbagliante di due lampi in rapida successione rimbalzò tra le pareti della stanza, poi il roboante risuonare delle tegole, delle assi e delle lamiere tambureggiate dalla pioggia torrenziale, fu soverchiato dall’assordante esplodere dei tuoni. L’oscurità in cui ripiombò il locale subito dopo, era solidificata dal frusciare sordo, monotono che l’accanirsi del temporale produceva sulle strutture della casa, graffiato solo dal crepitare dei lampi e dal cigolare esasperato della ruota del mulino. «Tutto bene?» domandò l’uomo nel buio. «Sì… credo proprio di sì» farfugliò Marco in mezzo al rumore di stoffa scossata «sono solo un po’ scombussolato. Lei dovrebbe essere Piero, no?» domandò infine. «Sono io» rispose quello. «Alla buon’ora» s’udì dunque uno scatto e dal grande lampadario in ferro battuto appeso al centro della sala si diffuse una luce calda e rassicurante che sorprese Piero intento a frugare freneticamente all’interno del proprio zaino i cui spallacci si era lestamente sfilato appoggiandolo poi su una sedia vicino al caminetto. «C’è qualche problema?» chiese Marco con un tono perplesso e la mano ancora sull’interruttore. L’uomo sollevò la testa da dentro il sacco fissando lo sguardo sul ragazzo. I suoi occhi color della cenere erano sgranati e pervasi da un misto di determinazione e terrore. Nell’istante esatto in cui sembrava accennasse l’inizio di una spiegazione, il botto dirompente di un tuono li fece sobbalzare entrambi con lo sguardo rivolto al soffitto, quasi temessero potesse crollare da un momento all’altro. Ma le enormi travi di pino che lo attraversavano per tutta la sua lunghezza, non avevano avuto che un lieve fremito. Il locale era molto ampio, con le pareti in pietra e il pavimento di legno. Una decina di tavolini erano stati radunati a formare un unico grande desco al centro della sala, circondato da veri e propri scranni rustici con la seduta in paglia. Il rumore del vento che sibilava tra le asperità e gli anfratti del casale era intanto salito di intensità, fulmini a ripetizione illuminavano il contorcersi del bosco sotto la sferza della tempesta; eppure il cigolio della ruota a pale, sospinta con ancor più forza dall’impeto del diluvio, sovrastava tutto questo. «Dobbiamo sbrigarci» disse improvvisamente Piero tornando a frugare nello zaino. «Magari sarebbe potuto arrivare in orario, tanto per cominciare» commentò con tono sarcastico Marco «sono due ore che l’aspetto. È dall’altro ieri che maciniamo la sua roba con questo dannato cigolio che ci martella il cranio e che mi ha fatto venire un mal di testa della miseria!» «Dunque, sì… qui da qualche parte dovrei trovare quello che fa al caso mio…» commentava tra sé e sé Piero, guardandosi freneticamente intorno con le mani sempre immerse nella borsa, e soprattutto mostrando di non aver nemmeno udito le parole di Marco. «Piero, ma ha bevuto…» stava protestando Marco quando barcollò; istintivamente cercò di afferrarsi allo schienale di una delle sedie, ma queste era troppo distanti e lo mancò. Muovendo inutilmente le braccia in maniera lenta e scomposta, stava per accasciarsi pesantemente sul pavimento, ma la mano di Piero lo afferrò prontamente, sostenendolo. Il ragazzo parve riprendersi subito, ma rimase comunque qualche istante seduto a terra. «No, mi sa che forse sono io quello stonato» disse poi massaggiandosi il capo «non mi era mai successo prima e ora sono già due vertigini nel breve volgere di una decina di minuti». Un boato improvviso scosse i muri e fece vibrare i vetri delle finestre. Andò via la corrente e con essa la luce. «Accidenti, pure questa adesso!» protestò Marco nell’oscurità «devo prendere la torcia…». Prima che riuscisse a muoversi, una tiepida luce arancione si era già diffusa nel buio, proiettando lunghe ombre sulle pareti «ecco, adesso è a posto» stava sussurrando Piero davanti a lui mentre ammirava la fiammella agitarsi allegramente all’interno dell’ampolla di vetro della lampada che reggeva in mano. «Ma quello… era il lume che le mie zie mettevano fuori dal portico la sera» balbettò Marco sbigottito «come ha fatto a…». «Basta domande, non ne abbiamo il tempo» lo interruppe l’altro, quasi ringhiando. «Ma… ma…». «I ‘ma’ e i ‘se’ tienili per dopo» tagliò corto «dov’è la torcia elettrica? Prendila» e così dicendo superò Marco ad ampie falcate, mentre tutte le ombre della stanza si muovevano all’unisono in una macabra danza di chiaroscuri sfuggenti.
Si avviarono nel retro del casale, Piero davanti a fare l’andatura, Marco dietro arrancando. L’alone luminoso della lampada a olio accarezzava appena le pareti e le volte arcuate dei locali in cui mano mano transitavano. «Piero, non possiamo rallentare?» domandò Marco mentre con la torcia illuminava i dettagli intorno: le bottiglie di chianti, le pertiche per la stagionatura dei salumi, i capitelli in sasso delle colonne realizzati dagli scalpellini del luogo. «Non hai fretta di ripararla la tua benedetta ruota?» rispose Piero spalancando l’ennesima porta senza manifestare il minimo tentennamento. «Certo che ho fretta» rispose Marco abbassando la testa per passare sotto lo stipite «ma sono tre giorni e due ore che l’aspettiamo, dieci minuti in più le assicuro che non fanno tanta differenza». «Invece la fanno» sentenziò Piero ansimando «soprattutto in questi luoghi la cui memoria si perde nella notte dei tempi». «Esagerato!» contestò Marco «per quanto mi riguarda i primi ricordi risalgono alla mia infanzia, quando durante le vacanze estive passavo qui intere giornate coi miei attuali due soci a giocare a elfi contro umani. E poi le merende a base di ricotta e cacao, senza dimenticare le ineguagliabili torte d’erbe che le mie zie cuocevano nei testi laggiù in fondo… » e indicò una casupola solitaria che dalla piccola finestra con le sbarre in ferro, si intravvedeva nel mezzo delle violente folate di pioggia, «bei tempi, quelli… be’, ora che abbiamo deciso di aprirci un agriturismo, forse potremo rinverdire quelle atmosfere genuine e farle vivere anche ad altre persone, che ne dici?» «Sì, avete avuto una bella idea» commentò Piero un po’ sbrigativo «meglio per voi». Superarono intanto di buon passo le cantine, dove costeggiarono alcune enormi botti vuote che conservavano ancora al loro interno un forte profumo di vino mescolato all’aroma del legno stagionato, poi risalirono una stretta scala in pietra due gradini per volta. «E i tuoi due soci, dove sono adesso?» chiese inaspettatamente Piero una volta in cima «spero non in giro per boschi». «Sono in città» sbuffò Marco senza fiato «stanno sbrigando… gli ultimi dettagli burocratici e… e firmando alcune scartoffie dal notaio. Saranno di ritorno domani». «Domani…» ripeté Piero con tono perplesso. La luce della torcia sorprese un topolino infilarsi lesto in una crepa. «Sì, domani» confermò Marco cercando di recuperare il fiato «perché, si aspettava più concorrenti per questa visita competitiva al Vecchio Mulino di Ollara?» «No, forse alla fine è meglio così» commentò l’altro assorto, mentre osservava i resti di un affresco restaurato sopra le loro teste. Davanti c’era una piccola porta verde in legno, dall’aspetto molto antico. «Siamo arrivati» disse quasi a sé stesso Piero e afferrò la maniglia. «Sì e col record regionale in tasca, credo» ribatté Marco sopraggiungendo trafelato alle sue spalle «a proposito, ci aveva parlato di un pezzo particolare necessario per la riparazione, è riuscito a procurarselo?» «Certo » disse Piero senza voltarsi «è il motivo per cui sono arrivato in ritardo. Purtroppo averlo è stato meno semplice del previsto…». Mentre lo diceva parve incupirsi e infine tacque, quasi fosse stato rapito da qualche ricordo poco piacevole. Il rumore della pioggia e del vento si tuffò immediatamente dentro quel vuoto di parole e passi concitati, saturandolo. «Bé, l’importante è che alla fine… lei l’abbia trovato, no?» cercò di riprendere la conversazione Marco, un po’ imbarazzato da quell’improvviso empasse. Piero ebbe un sussulto «sì, diciamo pure così» rispose poi in modo evasivo «diciamo che l’ho ‘trovato’». «Posso vederlo?» «Dopo» rispose Piero con la perentorietà di chi non ammette repliche. Aprì dunque la piccola porta rivelando un angusto stanzino all’altro capo del quale si trovava un secondo uscio, questa volta in ferro. Il cigolio a quel punto si era fatto più forte e se possibile, ancora più acuto; sembrava quasi che la ruota stesse gridando di dolore e che da un momento all’altro si sarebbe liberata da quei vincoli troppo stretti, per rotolare via e andare in frantumi. Le ginocchia di Marco cedettero all’improvviso, facendolo finire bocconi sul pavimento di ciottoli. «Siediti e aspettami qui » lo aiutò Piero ad adagiarsi «quando avrò finito, tutto s’aggiusterà». Marcò lo fissò un po’ scettico mentre con passo deciso si dirigeva verso l’entrata del locale tecnico del mulino. Una volta aperta la porta, in mezzo allo scricchiolare degli ingranaggi lignei e al cigolio della ruota che rimbalzarono tra le pietre del corridoio come proiettili, a Marco parve di udire qualcosa circa il richiudere poi il curare, ma la testa gli girava e alla fine si disse che se l’era probabilmente immaginato. Tutto s’acquietò nuovamente quando Piero sparì chiudendosi l’uscio alle spalle. A quel punto spense la torcia elettrica cercando sollievo nel buio. Seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete, si coprì il volto con le mani appoggiando i gomiti alle ginocchia «Cosa mi sta succedendo…» si chiese a voce alta, sfregandosi gli occhi. Inquietanti, i rumori della tempesta che imperversava all’esterno, penetravano ovattati dentro il casale. Ululati, fischi, colpi, scrosci, clangori di corpi metallici alla mercé del vento e ogni sorta di altro lamento proveniente dallo strazio cui era sottoposto il mondo là fuori, giungeva alle sue orecchie quel tanto che bastava a instillargli il freddo nelle ossa. Mancava qualcosa. Il cigolio. Era sparito. Dopo una decina di minuti, la porta si riaprì e lo scricchiolio degli ingranaggi, preceduto da una lama di luce soffusa, tornò ad animare lo spazio angusto del corridoio. Piero entrò tenendo in mano la lampada e richiuse il portone dietro di sé. Era pallido e all’apparenza spaventato. «Allora?» chiese chinandosi accanto a Marco «ti sei ripreso?». «Sì, direi che va meglio, ma… non mi dica che ha già fatto? Com’è possibile?». «Sì, ma non sono stato abbastanza svelto». Marco si alzò interdetto «cosa vorrebbe dire, che la ruota a pale è danneggiata?» Piero esitò «no… no, certo che no» rispose l’uomo scuotendo la testa con espressione smarrita «la ruota è a posto». «Be’, allora voglio vedere come l’ha riparata». «Tu non capisci…» sgranò gli occhi Piero. «Appunto» rispose il ragazzo «andiamo dentro insieme, così me lo spiega direttamente lei come ha fatto a…» «No!» esclamò Piero con una veemenza che lasciò Marco basito. Un tuono s’intromise nel confronto tra i due. «Piero… non la seguo…» osservò stranito il ragazzo. «Okay, non volevo essere così brusco… scusami» farfugliò Piero, ricomponendosi «se torniamo alla sala ti spiegherò tutto. Per vedere la ruota ci sarà tempo più tardi, mica scappa» accennò un sorriso «spero». Marco rispose a sua volta con un sorriso altrettanto tiepido e acconsentì, seppure con evidente riluttanza. Uscirono e si avviarono di nuovo verso la sala da pranzo. Piero si era messo nuovamente davanti e procedeva a passo se possibile ancor più spedito che all’andata. Le luci inquietanti dei lampi e il ruggire della tempesta li accompagnarono sul tragitto
Varcata la soglia della sala, Piero abbandonò la lampada sul tavolo e andò ad appoggiare nuovamente lo zaino vicino al caminetto. Marco si accomodò su una sedia. Un fulmine crepitò a due passi dal torrente, illuminando a giorno il bosco. Il tuono che ne seguì parve squartare letteralmente i muri. Piero, sfiorato appena dall’alone luminoso, stava alla finestra, scrutando ossessivamente l’esterno. «Allora?» ruppe il silenzio, Marco «me lo spiega adesso come ha fatto a riparare la ruota, oppure è troppo geloso dei suoi segreti professionali?». «Devi avere ancora un po’di pazienza» disse l’uomo prendendo anch’egli posto al tavolo, la sua ombra che giganteggiava sulla parete alle sue spalle «per capire come ho aggiustato la ruota, prima dobbiamo parlare di alcune cose che non ti risulteranno facili da comprendere e il tempo è poco…». «Ancora con ‘sta storia del tempo!?» protestò Marco «Si può sapere dove pensa di poter andare con la tempesta che c’è là fuori?». Piero restò per un attimo in silenzio con gli occhi arroventati dal riflesso della lampada. «Il fatto è che... sono inseguito!» disse. «Scusi?». «Sono inseguito» proseguì con rassegnazione, Piero «come ti ho detto, dovevo prendere una certa cosa e dopo che l’ho rubata…». «No, no, aspetti un attimo!» lo bloccò Marco, con un mezzo sorriso d’incredulità «Prima aveva detto che l’aveva ‘trovata’!». «In realtà sei stato tu a dirlo e in un certo senso…». Un altro fulmine s’abbatté sulla macchia a ridosso del mulino, interrompendo momentaneamente la loro discussione. Rimasero senza parlare, l’uno di fronte all’altro, tesi come duellanti in una via polverosa. Le ombre proiettate lontano sui muri, esasperavano ogni piccolo movimento, rendendo l’atmosfera inquietante. Piero sollevò una mano come per invocare una tregua «così non andremo da nessuna parte». «Ma si rende conto di cosa mi ha appena detto?» proruppe Marco, abbandonandosi contro lo schienale «cioè, lei è un ladro!». «Non la vedrei propriamente in questa maniera» abbozzò una pseudo difesa, Piero. «Ho capito, mi sta per dire che è un sorta di Robin Hood della valle» commentò sarcasticamente, Marco. «Eh…» fu quasi sul punto di confermare, l’uomo. «No senta, questa non me la bevo! Restiamo ai fatti: è un ladro ed è in casa mia, per di più braccato dai proprietari della refurtiva, veda un po’ lei…» si lamentò Marco, sbuffando. Piero sospirò e rivolse lo sguardo alla finestra inondata di pioggia. «A proposito, come vanno le vertigini?» chiese. «Le sembra il momento di...» protestò Marco, ma subito si bloccò, diventando pensieroso «mi pare… sì, mi pare che siano passate… anche se credo che tra breve mi verrà un ictus!». Piero si alzò dalla sedia con espressione preoccupata e tornò a guardare all’esterno «Questo vuol dire che ha smesso sondare questo piano della realtà. Ci ha trovati». La luce nella lampada barbellò e le ombre nella stanza ebbero un fremito sofferente. «Che vuole dire con ‘ci’ ha trovati?» chiese Marco «e cosa c’entrano le mie vertigini coi suoi deliri?». Da sopra la spalla, Piero lanciò un’occhiata al ragazzo «Questo posto non è sempre stato un mulino, lo sapevi questo?» cominciò, appoggiando un gomito sul montante della finestra e passandosi stancamente la mano sulla corta capigliatura «Un tempo era uno dei trecento bastioni delle mura che da qui, si estendevano a Ovest e a Nord-Est» «Parla delle mura i cui resti si incontrano al di là della Gola del Gatto?» lo interruppe Marco, nuovamente interessato «partivano addirittura da qui?». «E arrivavano anche più lontano» proseguì Piero senza voltarsi «Alla Gola del Gatto, non sei che a un decimo della loro originale lunghezza. Servivano per tenerci separati da loro». «Loro, chi?» «Quelli da cui ho preso quel che ci serviva». «Ancora con quel ‘ci’? E poi non mi hai ancora detto di che si tratta …». «Arriveremo anche a quello» glissò Piero, sempre volgendo lo sguardo alla tempesta «vedi, il cigolio che sentivi era in realtà la traccia per trovare un passaggio» disse infine, mentre l’alone luminoso emanato dalla lampada lambiva il suo volto di striscio, tracciandovi più ombre che luci «voi l’avete attivata azionando la ruota del mulino e io seguendola sono potuto entrare nel loro regno. Ho fatto tutto il più velocemente possibile e sono corso qui per richiudere l’ingresso, in modo da evitare che qualcuno di loro potesse varcarne la soglia, ma il guardiano è stato molto rapido e non ho potuto evitare che mi seguisse nel nostro mondo…». «Piero, ma dobbiamo continuare ancora per molto con queste vaccate?» sbottò Marco, esasperato «senta, ho io il rimedio: apra quel cavolo di zaino e mi mostri quello che ha fregato senza tante tiritere, poi telefoniamo a ‘sti tizi e cerchiamo di chiarire le cose». «Lo zaino?» ripeté confuso Piero, guardando l’oggetto appoggiato sulla sedia. «Perché, ci sta in tasca?» chiese allora Marco, con espressione incerta. Piero scoppiò a ridere. «Non ci vedo nulla di divertente» sbuffò Marco, stizzito. «Hai ragione, chiedo venia» replicò Piero, «è che mi rendo conto solo ora di quanto distante siano i tuoi pensieri dalla verità» Si avvicinò al tavolo «Tieni, è questo ciò che ho rubato» e così dicendo, afferrò la lampada con due mani e gliela pose innanzi. Dapprima Marco rimase immobile di fronte all’allegro danzare della fiammella, poi si stropicciò la faccia con entrambe le mani «Non so più che dire, tutto questo è surreale» commentò laconico «Se non stesse imperversando l’apocalisse, l’avrei già buttata fuori da…» prima che potesse finire la frase, Piero aveva letteralmente afferrato la fiamma della lampada, tenendola sospesa sul palmo della mano di fronte a lui. «Oh porc…» balbettò Marco «ma come caspita è…». «Allora, lo vuoi sapere cos’ho ‘rubato’?» disse Piero fissandolo negli occhi, i loro volti illuminati da quel fiammeggiante prodigio. Marco era attonito, con lo sguardo che saettava dalla fiammella al volto di Piero e poi di nuovo alla fiammella. «Magia» rivelò infine l’uomo. «Ma… ma… ma’che’?». «Magia» ripeté Piero «bé, oddio, a dir la verità mica tutta la magia che c’era. Questa è solo una scintilla, ma è già molto prossima al massimo che noi possiamo permetterci…» Uno scoppio come di tronchi d’albero che si spacchino in due, scosse le strutture del casale. «O… o… ok, non c’è che dire, bel trucco» balbettò Marco sporgendosi in avanti per esaminare più da vicino il fenomeno «davvero, i miei complimenti» sussurrò. «Ancora non mi credi!» lo rimproverò Piero, togliendo la mano. La lingua di fuoco rimase sospesa danzando allegra nell’aria di fronte a loro e proiettando bagliori sempre più intensi per tutta la stanza. «Cosa sta succedendo?» chiese Marco indietreggiando preoccupato. «’Ci’ ha riconosciuto» rispose Piero sottolineando quel ‘ci’ con un sorriso. «Cioè?». Piero si alzò «ora ti spiego, ma prima fammi controllare cosa accade fuori». «Ehi, un momento! Non mi lasci qua con ‘sta cosa?» protestò il ragazzo, alzandosi a sua volta. «Non è di quella fiamma che dovresti preoccuparti» lo rassicurò Piero, andando verso la finestra «il pericolo è lì in mezzo alla tempesta e tra poco ci sarà addosso» disse appoggiando una mano sul vetro inondato di pioggia, per togliere il riflesso di luce e vedere all’esterno. «A meno che non si tratti di un pesce o di un carro armato, lì fuori non può resistere nulla tanto a lungo da aspettarci». Una raffica di vento più forte delle altre, sibilò urlando nelle fessure degli infissi. Un coro di scricchiolii pervase la sala e un lampo d’intensità prodigiosa la illuminò a giorno, superando la luce emessa dalla fiammella che tremò quando il boato del tuono spazzò via ogni altro rumore. Piero attese che l’eco del fragore scemasse, poi si allontanò dalla finestra e pallido in volto, tornò al tavolo, mettendosi di fianco a Marco, che con un dito stava stuzzicando la goccia scintillante. «L’ho visto, dobbiamo affrettare i tempi» gli disse l'uomo. La sfumatura dorata di cui la fiamma magica gli accendeva il volto, non riusciva a celare la tensione e il terrore che vi campeggiavano. Marco accennò una replica, ma desistette quasi subito. «Ascoltami» cominciò quindi, Piero «non c’è più il tempo per le spiegazioni, dovrai fidarti di me» e così dicendo gli afferrò l’avambraccio «ora ti dirò chi sei tu». «C… come?» balbettò Marco, un po’ allarmato. «Tu sei il reggente di questo avamposto, così come lo furono i tuoi avi e i tuoi antenati, prima che una serie di nascite femminili, interrompesse la catena!» enunciò con voce calma «ed eri destinato a tornare qui al bastione che fu il baluardo della nostra resistenza, l'ultimo tra i presidi a cedere sotto i loro colpi, quando per la prima volta prendemmo ciò che era nostro di diritto» «Non capisco» confidò confuso, Marco «questo cosa vorrebbe dire?». «Vuol dire che solo tu puoi consegnarmi la magia». «Ma... scusi... non ha detto che è questa qua?» obbiettò il ragazzo indicando la lingua di fuoco che riluceva davanti a loro «la magia, o quello che è, ce l’ha già…» Piero scosse la testa «Questa che vedi è solo luce. Essa diventa fattiva, quando viene abbinata a un’anima che la possa utilizzare» spiegò Piero lasciando la presa sul braccio del ragazzo «la devi prendere e metterla nel mio petto, proclamandomi Mago dell'Impero». «Proclamandola cosa?» ripeté con espressione sconcertata Marco «no, guardi, per me questo gioco è andato avanti anche troppo...». «Marco!» esclamò Piero sfigurato dalla paura e portandosi le mani alla testa «Tu non comprendi quanto sia vicina la nostra fine. Ormai lui è qui!» ringhiò scandendo le ultime quattro parole. «Lui... lui chi?» chiese il ragazzo «basta coi misteri, di cosa dovresti avere tanta paura?» «Del Guardiano degli elfi» svelò infine Piero, pronunciando quei termini a denti stretti, quasi fossero una bestemmia. «Ma... ma... gli elfi non esistono!» obbiettò il ragazzo. «Di quanto ti sbagli tra poco te ne accorgerai da solo» tagliò corto Piero, con un mezzo sorriso di rassegnazione «quegli esseri maledetti non hanno mai voluto che anche noi usassimo la magia per essere felici quanto lo erano loro» continuò alzandosi in piedi e tornando a scuoterlo per un braccio «Ma non capisci? Non capisci quanta sofferenza potremmo alleviare con questo briciolo di potere, quanta gente potremmo salvare? La fame, la povertà, le malattie, i figli che muoiono tra le nostre braccia impotenti, tutto questo non sarebbe che un incubo da cui ci risveglieremmo! E tu, tu vorresti negare al mondo il paradiso, solo per una tua esitazione?». Un altro fulmine parve colpire in pieno la casa. Il fragore e lo scuotimento delle mura fu tale, che pezzi d'intonaco si staccarono dal soffitto. Quando il boato passò, un rumore sordo che pareva un mormorio di giganti, s'insinuò nella sala penetrando ogni oggetto e facendolo vibrare. «Che succede?» chiese preoccupato Marco, rivolgendosi a Piero. «Ha cominciato» pronunciò quegli in tono piatto, lasciando la presa sull'avambraccio del ragazzo e risedendosi esausto «E' finita». Marco appoggiò entrambe le mani al tavolo ansimando. In quel momento i muri iniziarono a tremare, le travi di legno a cigolare, i bicchieri nella credenza a tintinnare, schegge esplosero dalle pietre dei muri e le mattonelle del pavimento, si sollevarono una ad una dalla loro sede. Il casale sembrava contorcerglisi addosso tra mille lamenti delle strutture, sottoposte a deformazioni e sforzi tali, che presto ne avrebbero causato il collasso. Gli sguardi s'incrociarono, quello implorante e spaventato di Piero e quello incerto e terrorizzato di Marco. Tra loro si parava l'unica cosa che restava immobile e stabile in mezzo all’immane trambusto: la fiammella che brillava sempre più rigogliosa e vivida di magia. Il ragazzo l’afferrò. Con la luce stretta nel pugno, per un attimo parve impietrirsi, gli occhi si svuotarono di ogni coscienza e il volto smarrì ogni espressività. Di fronte a quella scena, Piero scattò in piedi, gli prese lesto la mano e con un gesto imperioso, si cacciò la fiamma nel petto gridando «Etalel abeden!».
* * * Lo scudo, arroventato dai colpi degli assedianti, gli aveva ustionato parte dell’avambraccio. Menava fendenti con la spada nello stretto spazio tra i due merli attraverso il quale già da ore non si intravvedeva un raggio di luce, tanto era affollato di nemici. Salivano su per i tronchi che avevano fatto crescere a ridosso delle mura come tanti ragni luccicanti, armati di sciabola e scudo, vestiti di quelle loro armature leggerissime che sembravano fatte di rugiada, ma contro le quali le frecce rimbalzavano e i colpi portati senza precisione e forza, scivolavano via. Lian faceva risuonare a gran voce il proprio grido di battaglia per sostenere i soldati, gli urlava di resistere, di non cedere sotto la pressione del nemico, ma la situazione appariva disperata. Ogni attacco alle mura era preceduto e accompagnato da folate di sortilegi che staccavano centinaia di schegge di sasso proiettandole come dardi sulle scolte, incendiavano la brezza della sera mutandola nel letale soffio di un drago, sprigionavano saette e raggi di luce ustionanti e pesanti come getti d’acqua che investivano improvvisamente la merlatura. Alla sua destra e alla sua sinistra vedeva gli altri guerrieri arrancare tra i riflessi dell’acciaio e le macchie di sangue. Per ogni feritoia ce n’erano due che raccoglievano i corpi dei caduti, di qualsiasi parte fossero, e li scagliavano sui nemici sottostanti, mentre un altro ne contrastava la salita a colpi di spada e ascia. «Udaìl!» chiamò Lian a gran voce, parando al contempo il fendente dall’ennesimo nemico che era riuscito a mettere un piede al di qua delle mura. Un secondo intanto gli era scappato di lato precipitandosi verso le scale alle sue spalle, ma un provvidenziale arciere lo colse con un dardo uccidendolo. «Udaìl!» urlò di nuovo. Il suo scudo prese a vibrare sotto l’azione di una forza invisibile, mentre l’acciaio delle due spade che strisciavano l’una contro l’altra, gemeva alla ricerca di un brandello di carne avversario. «Udaìl!» Una rotazione della sciabola fece perdere il contatto alle lame e l’arma dell’elfo saettò verso il suo occhio. Lian chinò la testa e parò il colpo con l’elmo. Con eguale rapidità la punta della sua spada si tuffò nel collo dell’avversario. «Udaìl…» sussurrò mentre altri due elfi scavalcavano il muro di pietra, per rimanervi però immobili a cavalcioni con gli occhi sgranati. Un’onda di fuoco azzurro montò alle spalle di Lian e sfilandolo s’infranse sulla merlatura per tutta la sua lunghezza bruciando, ribaltando e sospingendo di sotto gli elfi. In risposta, un fronte d’energia bianca investì la fortezza con la violenza di un uragano fino a contrastare il divampare dell’incendio. Tutti i guerrieri si voltarono e videro Udaìl e i suoi seguaci alimentare le fiamme dalla sommità della torre sulle rive del Fiume Tohen, finalmente padroni della magia che avevano trafugato e dalla quale erano ora pervasi. Con spirito rinvigorito da quella visione, gli uomini ripresero a combattere sul confine delineato dall’azzurro delle fiamme e dal candore luminoso. Ad ogni colpo lembi di fuoco afferravano ora quello, ora l’altro guerriero nemico penetrando la magia elfica come lame, apparentemente più forti di quest’ultima. Lian era in preda al furore della battaglia, i suoi fendenti si abbattevano sugli avversari come fulmini dal cielo, il suo grido di battaglia era udibile per tutto il fronte. Poi una fiamma gli lambì una spalla, ferendola. Lian si ritrasse per il dolore e la sorpresa. Notò allora le sottili venature nere che pulsavano e solcavano il blu trasparente delle fiamme, diventando sempre più numerose e spesse. Erano queste che aprivano la strada nel muro di luce bianca ed era al contatto esse che quest’ultimo si sottraeva con riluttanza, quasi con paura. Lian si voltò verso la torre, ma una serie di lancinanti grida di terrore troppo vicine attirarono immediatamente la sua attenzione altrove. Il fuoco magico, ora ampiamente striato di nero, avvampava i suoi compagni, dilaniava i loro corpi tanto quanto quelli degli elfi, li spezzava e li trapassava per poi consumarli come tizzoni. Anch’egli sentì la prima vampata di dolore mentre la vista veniva offuscata dalle spire color cobalto e con lo sguardo cercò Udaìl, il Maestro, il Consigliere del loro popolo, ma sulla torre vide solo dei demoni da cui si dipartivano tentacoli di tenebra. La magia li aveva trasfigurati e quando parve comprenderlo, il dolore per l’idiozia delle loro ambizioni superò quello che squarciava le sue membra che ne venivano consumate. «Ethalel!» udì un sussurro al suo orecchio «ethalel ubeden. Tieni stretta la tua spada» e subito dopo Lian si trovò proiettato verso la sommità della torre avvolto da una lingua di luce bianchissima. Lembi di armatura, vesti e pelle si staccavano da lui nonostante la protezione fornita dalla magia elfica, ma i suoi occhi rimanevano inchiodati sul bersaglio: Udaìl. Un turbine di nastri neri lo investì torcendo il suo corpo e strappandogli, ora sì, un gemito di vero dolore. Le braccia rimanevano però sempre tese in avanti con la spada ben salda nelle mani. Attraversò letteralmente il corpo dell’adepto alla sinistra di Udaìl e sullo slancio andò a sbattere contro il muro di pietra. Si rialzò immediatamente in un concerto di schiocchi e scricchiolii delle proprie ossa, mentre la carne, a malapena difesa da un rimasuglio di iridescenza lattiginosa e sofferente, avvampava come brace blu. La spada era incandescente, ma sempre ben stretta nel suo pugno. Udaìl posò lo sguardo su di lui e un rigurgito di potere scaturì dalla sua bocca, pronto a travolgere il guerriero, ma questi rotolò oltre il Maestro e subito dopo l’altro discepolo cadeva diviso in due parti. Lian rimase rantolante sul pavimento di pietra. Un fiotto di plasma nero partì allora dalla bocca innaturalmente spalancata di Udaìl e si riversò sopra di lui, ma la luce che ancora ammantava il corpo di Lian ebbe un sussulto di brillantezza e la melma oscura si suddivise in rivoli al contatto con essa, strisciando sopra la superficie luminosa con uno stridore assordante. Poi la protezione abbandonò definitivamente il guerriero. Un ghigno orribile deformò il volto di Udaìl quando sollevò le mani nodose nell’atto di sferrare il colpo di grazia, una risata che risuonava come un gorgoglio intrecciato a un ruggito rimbalzava nel suo petto. Poi gli occhi gli si spalancarono in un misto di dolore e sorpresa.
* * *
In mezzo alla radura, Piero rimaneva immobile, in piedi. «Com’è possibile?» balbettò trattenendo con le mani l’elsa della spada conficcata nel suo petto. Trasalì. Marco era seduto nell’erba ai suoi piedi, l’espressione forse ancora più attonita di quella della sua. «Tu?» ringhiò tremante sotto l’impeto del temporale «perché?» gridò. Il ragazzo rimase in silenzio, col vento che lo investiva da ogni parte. Piero emise un lamento, mentre cadeva seduto a terra con la lama che uscendo dalla schiena si appoggiava al terreno. La tempesta improvvisamente si placò. Piero singhiozzava, le lacrime copiose gli bagnavano il volto. Con un gemito si sfilò l’arma dal corpo ammirandone poi la lama come se il sangue che ne lordava l’acciaio, non fosse il suo. Sollevò lo sguardo sull’ombra che se ne restava immobile ai margini della foresta. L’essere allora si avvicinò, prendendo via via una forma consistente. I lunghi capelli candidi, la perfezione di ogni forma del corpo, di ogni tratto del viso travolsero Piero. Un rigagnolo di sangue sgorgò dall’angolo della sua bocca mentre balbettava in un involontario sorriso «siete ancora meravigliosi… proprio come allora» Quegli prese l’arma dalle mani dell’uomo. Piero cadde all’indietro in posizione supina e lì rimase, singhiozzando. Marco allora gli strisciò accanto nell’erba bagnata, ponendosi all’altezza della ferita mortale. L’altro essere lo guardò senza che alcuna emozione trasparisse dal suo volto. Da occidente balenarono alcuni raggi di luce che si adagiarono sul corpo esangue di Piero. Il sole era quasi del tutto tramontato sotto la coltre di nubi. «Eravamo così vicini alla vittoria» disse con fatica l’uomo supino «perché mi hai fermato?» «Il potere degli Elfi non è stato pensato per noi» rispose Marco appoggiandogli delicatamente una mano sulla fronte «siamo stati creati volutamente incompleti e siamo alla costante ricerca di ciò che possa riempire quel vuoto. Noi non siamo gli Elfi, noi uomini abbiamo il compito di trovare le risposte…» «La magia… la magia ce le avrebbe fatte trovare…» rantolò Piero. «La magia non ci avrebbe dato le risposte» replicò Marco «la magia amplifica, distorce le nostre domande, le riduce a brama di potere». Piero emise un gemito e spirò. Marco si voltò verso il Guardiano, ma al suo posto era rimasta solo la spada conficcata nel terreno. «Riposa in pace Piero. Non hai colpe per la tua paura né per il tuo desiderio di decidere come tutti dovessero essere felici».
Erano quasi le dieci di una soleggiata mattina di fine Settembre, quando Davide e Giorgio, oltrepassando il ponte sul fiume che immetteva nello spiazzo davanti al mulino, videro Marco seduto sotto il portico. Gli fecero un cenno di saluto da dentro l’auto, senza però ottenere alcuna risposta. «Heilà oste, siamo tornati e abbiamo sete» urlò Giorgio scendendo dalla vettura «qua dobbiamo festeggiare!». Vedendo che l’amico non accennava a muoversi, corsero preoccupati verso di lui. «Cacchio, ma ‘sto qua dorme!» disse Giorgio scuotendolo «e pure della grossa! Spero solo che col putiferio di stanotte, non si sia addormentato qua fuori già da ieri!». «Dai, prendilo per di là che lo portiamo nel suo letto…» disse Davide «a proposito, senti?». «No, cosa…?» rispose perplesso Giorgio, mentre afferrava Marco per le ascelle. «Appunto!» replicò festante Davide «Non cigola più!». «Bé dai, allora quest’orso caduto in letargo anticipato, qualcosa si è degnato di fare, mentre non c’eravamo…». Il rumore di un grosso oggetto metallico che cadeva sulle assi di legno, li fece voltare. «E quella?» si chiese Davide. «Boh, magari l’avrà trovata giù in cantina… andiamo adesso, che pesa!».
Una piccola aiuola ornava ora il prato vicino al castagneto, ed era fiorita di rose, di rose rosse in Autunno.
Edited by Olorin - 21/9/2011, 16:14
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