Arrotolatrice di boa
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in arrivo dall'ultimo skannatoio
Veloce come la Folgore Fa un caldo d’inferno e quest’uniforme non aiuta. Spalo carbone dall’alba e non potrò smettere fino a che non sarà buio, avrei preferito lavorare di notte ma per farlo bisogna ingraziarsi il capo turno e portarmi a letto sua figlia ha azzerato le mie possibilità di farlo. Se, come me, nasci da una famiglia di allevatori di cavalli, non puoi più sceglierti un lavoro decente, non nell’era del vapore almeno. Dannate macchine! Hanno invaso ogni settore nel giro di pochi anni e noi ci siamo trovati pieni di debiti. «Ancora con la testa tra le nuvole, cavallaio? Il palazzo non si scalda da solo!» Un tocco con lo scudiscio sulle mie terga, è leggero ma sottende il divario sociale tra me e lui. Non posso che abbassare lo sguardo e continuare a spalare. Mio padre gli deve troppi soldi per concedermi il lusso di rispondere, lui lo sa, e gode nell’umiliarmi. Anche se non è da lui che bisogna guardarsi le spalle. Bargelli, il suo caporale, quello è davvero pericoloso. È capace di strapparti la pelle a cinghiate se c’è un calo di pressione, e da quando il mio padrone mi ha relegato qui, sono diventato il suo capro espiatorio. Si volta di nuovo verso di me, nemmeno fossi l’unico schiavo alla caldaia della Suburra. Dopo l’ultimo editto, amano chiamarci “lavoratori in vincoli” ma la nostra condizione non è mutata. Frustate, fame e lavoro fino allo sfinimento e nessun diritto, oltre a quello di respirare. Mi poggia lo scudiscio sotto il mento obbligandomi a guardarlo. «Tu sei mio finché non salderai il debito di tuo padre e a conti fatti, lo sarai molto a lungo». Sposto lo sguardo verso la bocca di fuoco e, non appena mi scosta indietro a spintoni, riprendo il lavoro. Gli altri tre del mio turno non hanno alzato la testa dal carrello del carbone. Li capisco, finché sono io quello preso di mira, loro possono tirare il fiato. Qui non c’è spazio per il cameratismo. Sollevo lo sguardo verso quel maledetto elevatore, il capoturno è lì e non accenna ad andarsene. Non gli sono mai piaciuto e da quando suo malgrado vedo sua figlia gli piaccio ancora meno, quindi mi ha sbattuto in questo buco bollente, sperando che io crepi. Probabilmente è solo per l’intercessione di Arianna che sono ancora vivo. I creditori di mio padre sono stati saldati con la vendita della scuderia e delle bestie, tutti tranne lui, che ha dovuto accontentarsi di me. La mano d’opera a basso costo a Roma è l’unica cosa che non manca, quindi immagino che avrebbe preferito del contante al mio lavoro. Altro motivo per detestarmi.
Il fischio del cambio turno arriva come una benedizione. Le braccia mi dolgono come non mai stasera, lascio cadere la pala. Il suono sordo del metallo sul pavimento si perde, sovrastato dal crepitio incessante del fuoco. Non saluto i tre morti di fame che si spengono qui dentro con me. Riprendo la mia bisaccia e aspetto davanti alla porta di metallo una guardia che mi faccia uscire. Ho il privilegio di dormire fuori, ma soltanto perché il capo turno non può vendermi alla caldaia dove lavora e, ovviamente, non mi vuole più nella sua casa. Ignora lo sciocco, dove Arianna passi le sue serate. L’accampamento cui sono stato destinato è vicino alla caldaia, il che è un bene: odio camminare per le vie di Roma. Le auto a vapore intasano il lungotevere, l’olezzo della combustione è insopportabile e i fumi sembrano schiacciarti i polmoni, impedendoti di respirare. Una donna mi passa accanto, riconosce la mia condizione dalle catene che si ossidano sulle mie caviglie, di fatto sono uno schiavo e lo sarò per altri vent’anni. Si solleva la sciarpa fin sopra il respiratore brunito e mi schiva disgustata. «Non dovrebbero girare per le strade con i cittadini!» la sento borbottare da dietro la mascherina. Non mi dispiacerebbe un respiratore, ma non potrò permettermelo in questa vita. Le baracche dormitorio per quelli come me, sorgono lungo gli argini del Tevere. Sembrano solo una serie di punti colorati, spruzzati a caso qua e là, lungo le rive del fiume biondo. Il mio è quello con il tetto più alto, l’ho modificato io. «Sono tornato Folgore.» Lo stallone morello sbuffa, è il suo modo di salutarmi. Gli permetto di uscire a brucare lungo gli argini. Lui è l’ultimo di una bellissima scuderia. La mia scuderia. Era solo un puledro quanto gli esattori ci tolsero tutto, sua madre era morta di parto e un piccolo di pochi giorni gli sembrò un impegno più grande di quanto ne avrebbero ricavato. Lo abbandonarono e da allora vive con me. Prendo il pranzo che non ho consumato dalla bisaccia e lo porgo al vecchio seduto davanti alla mia baracca. «Hai fatto buona guardia Geremia.» Lui mi sorride, prende il fagotto, si rimette il moschetto in spalla e si allontana. Con la fame che c’è qui, non posso permettermi di lasciare Folgore incustodito per tutto il giorno. Anche se questo il più delle volte significa digiunare. Geremia è stato liberato anni fa. Era troppo vecchio per lavorare e ancora giovane per morire. Liberarlo li ha svincolati dal doverlo sfamare. Ce ne sono altri qui come lui, i rifiuti dei reietti. Mentre getto le lenze in acqua la mia lampada a olio si accende dietro la finestra senza vetri. «Quanto devo aspettarti?» la sagoma del corpo perfetto della figlia del mio padrone si affaccia dalla porta malmessa della mia baracca. Mi avvicino abbastanza da poterne ammirare i lineamenti delicati, mi sorride e quel sorriso rovescerebbe un impero. Le cingo i fianchi e la sollevo, lei ridacchia mentre la adagio sulla stuoia… Suo padre prima o poi mi ucciderà, ma non stasera.
«Perché non vendi quel cavallo?» «Non posso avere soldi finché non salderò il debito con tuo padre, quindi non avrebbe senso». Lei mi pizzica la pelle del fianco sorridendo. «Allora dovresti mangiartelo, sei sempre più magro. Ti ho portato della frutta e della carne essiccata, pagaci il vecchio. Non puoi continuare a saltare il pasto, devo andare ora. Mio padre crede che sia all’anfiteatro per la lotta tra Arcangeli, ma a quest’ora lo spettacolo deve essere finito. Accompagnami alla macchina, vuoi?» L’unica cosa positiva di vivere accanto al fiume è la possibilità di evitare i fumi della città. Salendo le scale di marmo, l’aria intorno a noi si fa più densa e inizia a prendere una lieve sfumatura cinerea. Dalla macchina a vapore di Arianna si spalanca il portellone in acciaio cromato, i riccioli in ottone che decorano i tre scalini scintillano alla fioca luce dell’illuminazione pubblica. «Se tu me lo chiedessi, fuggirei con te.» Le sorrido, anche se so che non è vero. Quest’anno terminerà l’università e il suo matrimonio con il figlio di un importante colonnello è sulla bocca di tutti. Scappare con me significherebbe continuare a farlo per tutta la vita, e l’Italia non è abbastanza grande! Si sporge dall’interno per baciarmi sulle labbra, poi infila qualcosa nel taschino della mia divisa, prima che la sua vettura si perda nel fumo grigio che sovrasta il lungotevere. Zollette di zucchero, ne lascia sempre per Folgore.
Rimango affacciato al parapetto ingrigito ancora per qualche minuto. Un paio di ragazze con la divisa della scuola femminile mi scivolano affianco ridacchiando, una regge il braccio dell’altra in modo complice e mi sorride con una malizia che prevarica i suoi anni. «Come ti chiami?» Le sorrido e cercando di ricordare le buone maniere mi prodigo in un inchino «Claudio.» Quella che era rimasta in silenzio dà una gomitata all’amica, «io Lucilla, andiamo alla novena, credi che potresti scortarci alla chiesa, non si sa mai chi si può incontrare.» Mi sposto perché vedano il numero sulla mia divisa e capiscano che forse, sono io uno di quelli che non vorrebbero evitare. Inaspettatamente invece, la più spigliata delle due avvicina la mano alla targhetta e spolvera via la fuliggine, «sei un ergastolano o un debitore?». Ragazza intraprendente, sto per risponderle ma un nitrito forte, disperato, squarcia il silenzio della notte. Mi precipito per la scalinata scivolosa, lasciando le due ragazze a chiedersi cosa sia successo, io lo so già. Raccolgo da terra una pietra e sfilo la fionda dai passanti della cintura, la carico. Tre uomini hanno accalappiato Folgore e lo stanno trascinando. Non posso lanciare, colpirei il mio cavallo, per cui corro verso di loro gridando. Arrivo al più vicino, e riesco ad assestare un paio di buoni colpi atterrandolo, ma è quando mi avvento sul secondo che riconosco lo stemma Ubertino sulla loro uniforme. La vista della divisa reale mi coglie di sorpresa un momento di troppo, sufficiente perché possano colpirmi. Per una manciata di secondi il nitrito di Folgore è l’unica cosa che riesco a sentire poi un colpo, un altro e la vista mi si offusca. Riconosco qualcosa di granuloso mescolato al sangue nella mia bocca e impiego parecchio a capire che è sabbia. Folgore deve essere lontano, arranco verso i suoi nitriti poi anche i suoni si sdoppiano, poco prima di cessare del tutto.
Non credo ci sia qualcosa di peggio della caldaia principale, a parte l’inferno e questa cella. Non ho idea di quanto tempo sia passato, l’unica feritoia dà su un corridoio illuminato artificialmente, non so nemmeno se sia giorno o notte. Chiamo, grido. Finché mi brucia la gola, e l’unica risposta, più simile a un rantolo che a una vera e propria frase, la ricevo da dietro una delle pareti della cella. «Finiscila! Non verrà nessuno.» «Dove siamo?» Il mio interlocutore mi lascia parecchio prima di rispondere. «A Castel Sant’Angelo, nelle prigioni di sua Maestà, e non ne uscirai.» Io non ho fatto niente, non dovrei trovarmi qui. Una chiave gira due volte nella serratura. Non mi fanno domande, non mi danno risposte, anche se continuo a chiederne. Mi spintonano fino a una stanza più grande, in fondo al corridoio ambrato dalle lampade a olio. Cigolii sommessi fanno da sottofondo alle mie vane richieste di spiegazioni. Un secondino mi mette una mano su una spalla, obbligandomi a sedere sullo sgabello che ho davanti. «Dove hai rubato quel cavallo?» È questo dunque. Pensano che lo abbia rubato. «Quel cavallo è mio.» Uno schiaffo col dorso della mano interrompe la mia frase. «Oltre a quelli del re, non ci sono cavalli Murgesi a Roma. Come ha fatto uno straccione come te ad entrare nelle scuderie reali? Chi ti ha aiutato?» Pazzi, sono pazzi! Mi credono una specie di attentatore. «Quel cavallo è con me da cinque anni.» Chiudo gli occhi aspettando un nuovo colpo, che non arriva. Li intravedo parlottare, poi, senza dirmi altro, quello che mi aveva fatto sedere mi arpiona i capelli. Lascia la presa solo dopo avermi spinto di nuovo in cella. Si chiude la porta alle spalle, lasciandomi di nuovo nel buio.
La porta si spalanca per la seconda volta, e mi sorprende accovacciato in un angolo. Ho paura, non avrei mai pensato di averne tanta e mi copro il viso sprofondandolo tra le braccia conserte. La barba mi pizzica le braccia, sono qui da almeno un paio di giorni quindi. Con la stessa prepotenza della volta precedente una delle guardie mi solleva di peso. Scorgo il mio viso dal riflesso nelle piastre della sua divisa, e vedo un fantasma. Di nuovo mi trovo seduto sullo sgabello tarlato, ma stavolta mi hanno legato le mani dietro la schiena. «Verrà il capitano per interrogarti, e tu gli dirai quello che vuole sentire.» Un secchio d’acqua gelata mi toglie il respiro per un istante, scrollo la testa e vedo gli stivali tirati a lucido del capitano scendere pigramente gli scalini di pietra. Si siede davanti a me con aria annoiata, un cenno alla sua destra e una delle guardie mi strattona il capo all’indietro. «Sappiamo che lavori alla caldaia adiacente al palazzo, ma non sappiamo come hai fatto a infilarti nelle scuderie.» Estrae un coltello dal fodero e lo avvicina al mio zigomo destro, «ma tu ora ce lo dirai.» «Signore, io non…» Dolore, nient’altro che dolore e una strana sensazione calda lungo la guancia. «Forse non mi sono spiegato.» La sua voce è calma, blocca il respiro. «Ti ripeterò la domanda.» Non so quale risposta voglia, che bugia vuole che mi inventi, sento il sangue colarmi sul collo, mentre lui sposta la lama sull’altra guancia. Balbetto qualcosa, qualcosa che non era la risposta richiesta e io non ho il tempo per riformulare. Il taglio è netto, rapido. All’inizio avverto solo il freddo della lama, poi il sangue inizia a scaldarmi il collo. Grido, maledicendo lui, me e questa assurdità. Il dolore è talmente acuto da fischiarmi nelle orecchie e per qualche istante vedo solo nero. Quando finalmente il mondo riacquista i suoi contorni, il suo viso impassibile mi si para di nuovo davanti. Il pazzo mi sorride, mentre guarda i ghirigori vermigli sul suo coltello. Mi ripete di nuovo la stessa, inutile domanda. Batto le palpebre mentre lo sento blaterare cose prive di senso, i nomi Acciarito, Bresci e Malatesta mi risuonano più volte nelle orecchie. «Non ho molto tempo e a giudicare da quanto sanguini nemmeno tu. A quale gruppo appartieni?» Il rumore del chiavistello arriva come una benedizione, e benedetta la guardia che compare da dietro la porta. «Signore, so che non vuole essere disturbato ma la sua fidanzata sta mettendo a soqquadro la caserma.» Il capitano non mi degna d’altro sguardo, pianta il coltello sul tavolino e si allontana. Una delle due guardie alle mie spalle mi getta altra acqua sul viso e la pozzanghera sotto i miei piedi prende una lugubre sfumatura rosa. Ho freddo e paura. Scuoto la testa cercando di spostare i capelli che mi si appiccicano al volto, sento ridere alle mie spalle poi non vedo più nulla. Mi hanno calato un cappuccio sulla testa, vorrei gridare ma le parole mi muoiono tra i denti. Una voce alla mia destra ridacchia, «mi sa che avremo un altro martire per il santantonio stasera!». Le risa si moltiplicano, poi il chiavistello stride e cigola e torna il silenzio. Continuo stupidamente a voltare la testa in tutte le direzioni, sperando di captare un suono, un rumore noto. Rimangono alle mie spalle, almeno credo, e rimangono in silenzio per una quantità di tempo che non saprei definire, poi la porta si apre di nuovo. Accadrà qualcosa, qualcosa di orribile. Serro i denti e stringo le spalle, sto aspettando: un colpo, una coltellata, qualunque cosa, purché sia veloce! «Hanno garantito per te, le accuse sono cadute.» Non so dove trovo la forza d’animo di fare quella domanda stentata. «Dov’è il mio cavallo?» Non mi tolgono il sacco dalla testa, mi sollevano per le braccia e sento le ginocchia cedere, poi più nulla.
Quando riapro gli occhi sono sdraiato in una stanza bianca dai muri scrostati. Porto le mani alle guance, ma è come se stessi toccando quelle di un altro. Sento i punti scorrere sotto le mie dita, poi una voce alla mia destra mi fa sobbalzare, «non toccare, li farai saltar via.» L’uomo che ha parlato ha il camice aperto e la barba lunga. «Puoi andartene, riceverai uno sconto di pena per questa piccola disavventura.» Non ha sollevato gli occhi dal giornale, e non lo fa nemmeno ora mentre mi indica con due dita l’uscita.
La luce del giorno mi ferisce gli occhi, mi sento confuso e stanco, guardo un angelo di pietra che sovrasta il ponte e mi sento mancare. Devo appoggiarmi al parapetto per non scivolare in ginocchio. Dalla balaustra riesco a vedere le baracche, anche la mia. C’è un gran movimento lì intorno e sulla strada sopra l’argine, inconfondibile una delle auto della gendarmeria.
Evito gli sguardi pieni di domande degli altri disperati tra le baracche, devo avere un aspetto terribile, perché il vecchio Geremia mi mette in mano un tozzo di pane nero, accennando un sorriso sdentato. Inciampo tra i ciottoli prima di entrare, poi mi lascio cadere sul mucchio di fieno che avevo lasciato per Folgore. È davvero strano entrare in casa e trovarmi da solo, questo scomposto mucchio di assi non mi era mai sembrato una baracca, non fino a ora. «Alzati!» Mi sposto appena da un lato. La guardia è in tenuta antisommossa e ha ragione, le baracche dei condannati non sono il posto più frequentabile di Roma. «Volevi nascondere il cavallo vero, Claudio? Hai proprio deciso di non saldarlo più il tuo debito.» Mi sollevo sui gomiti, non è una posizione molto rispettosa ma è il massimo che potrà ottenere da me. Prendo fiato, ma m’interrompe ancora prima che riesca a parlare. «Oggi puoi rimanere qui, non riusciresti nemmeno a sollevare la pala ma domani riprenderai il tuo lavoro, all’alba mi aspetto di trovarti davanti alla caldaia. Il tuo cavallo è stato venduto dal tuo creditore e il tuo debito è diminuito. Probabilmente vivrai abbastanza da diventare un uomo libero.» Sono stremato, vorrei alzarmi, ma il sonno mi vince prima ancora che lui finisca di ridere.
È pomeriggio inoltrato quando un’inconfondibile fragranza di mirra satura l’aria, il profumo di Arianna. Socchiudo gli occhi e una delle creature più perfette del regno è in ginocchio accanto a me. Una piacevole sensazione di freschezza e sollievo fiorisce sulla pelle del mio viso, sotto il panno bagnato, tra le sue mani gentili. Due lacrime rigano quel volto d’angelo. «Claudio svegliati.» Sorrido. «Devi andartene, ho caricato un aliante con dei viveri e queste sono trecento lire. Per i primi tempi basteranno. Tu qui ci muori.» «Devo riavere il mio cavallo.» Solleva gli occhi al cielo esasperata e sbuffa, poi continua sorvolando sulla mia ultima frase. «L’aliante è semplice da manovrare, devi usare la propulsione solo in fase di decollo, poi saranno le correnti a tenerti su.» Non la ascolto. «Devo riavere il mio cavallo.» La lascio sbraitare alle mie spalle e mi incammino verso le scale di marmo. «Claudo è inutile, lo hanno portato al macello!» mi urla dietro quando non riesce a raggiungermi. Niente avrebbe davvero potuto ferirmi tranne questo. Finalmente mi raggiunge e mi cinge le spalle, mi volto a guardarla; indossa un abito da novizia, senza velo non me ne ero accorto. Un sacco azzurro chiaro cela quel corpo scultoreo, che sacrilegio. Le sfioro il viso, la pelle sotto l’occhio è annerita da un livido. “Mi dispiace” è l’unica cosa che riesco a dirle. «Devo andare, mio padre ha deciso che saranno le Orsoline a prendersi cura di me. Abbiamo creato un gran trambusto vero?». Sorride poi due lacrime, ancora. Quante volte ti ho fatta piangere anima mia? «Hai garantito per me?» «Ho dovuto raccontare al mio promesso come potevo sapere i dettagli della tua vita, e lui ha rifiutato le nozze.» Mi concede un altro sorriso, poi si volta. La trattengo ma solo per un momento, cosa potrei offrirle? La sua auto sferraglia, portandomela via in una nuvola densa. Il sole sta tramontando, la perenne coltre lattiginosa inizia a virare verso il porpora e io decido. Riavrò il mio cavallo. La strada è resa scivolosa dal grasso delle auto a vapore, lunghe strisciate nere si inseguono e si intrecciano nella carreggiata. Testaccio è qui vicino, non possono averlo già ucciso. Non devono. Inizio a correre seguendo le tracce e in pochi minuti sono davanti alla grande statua taurina che segna l’ingresso del mattatoio. Salto da una delle finestre sul retro e corro tra le sale tirate a lucido dopo la fine della mattanza fino alle stalle. Fischio e il nitrito di Folgore si alza dalla cacofonia di muggiti. Due operai mi corrono incontro. Scivolo tra le inferriate che separano il bestiame e apro i cancelli. Le bestie iniziano a uscire rallentando i miei inseguitori. Folgore è legato alla longhina, sciolgo il nodo e lo tiro da un lato per aprire l’ultimo dei recinti. Lo stallone è carico e non appena gli salto in groppa inizia a galoppare. Scivola sul pavimento bagnato, ma si riprende subito. Riesco a mantenere la mia posizione in groppa e lo sprono. I due uomini sono costretti a lanciarsi da un lato per non venire investiti dalla nostra furia. Superiamo la prima stanza con tutta la mandria che ha iniziato a seguirci, in pochi attimi siamo nel cortile. Gli operai ci hanno quasi raggiunto e hanno chiamato rinforzi. La cancellata d’ingresso ci blocca la strada. Sento i nostri inseguitori bestemmiare alle mie spalle, sgancio la catena e spalanco il cancello. Grido e lancio lo stallone. Le bestie iniziano la loro corsa pazza decisi a seguirci, gli operai li intravedo appena ormai, nel mare di teste bianche e corna. Uno grida mentre tutta la mandria si precipita fuori seguendo il mio cavallo. Appena fuori, tra le auto parcheggiate riconosco quella del capo turno. Non credo sia qui per me, forse deve solo incassare il compenso per Folgore. Gli è andata male. Trattengo il morello per la criniera, i suoi zoccoli slittano sul selciato, ci sono almeno dieci persone davanti a noi e altre ne stanno arrivando, allarmate dai muggiti. Il cavallo ha un sussulto, una delle maremmane deve averlo colpito; si impenna, poi smontona e io mi ritrovo a terra. Per qualche lungo istante vedo solo zoccoli color crema e enormi occhi scuri. Musi dai nasi bagnati e nel delirio, le zampe nere di Folgore. Afferro la sua coda ed emergo da quel marasma. Quando raggiungo di nuovo il suo garrese le mucche hanno invaso il cortile, il rumore delle lamiere, contorte dalle lunghe corna sovrasta le imprecazioni dei miei inseguitori. Uno sparo, poi un altro. Alcuni dei guardiani hanno iniziato a sparare a caso nella mandria, abbattendo i capi indistintamente. Pazzi! Alcune bestie hanno cambiato direzione, cozzando con le altre. Il rumore degli zoccoli fa vibrare il terreno e rimbomba nel mio torace; mi volto ancora sperando di vedere in salvo gli sventurati finiti al centro della fiumana. Dopo aver guadagnato l’uscita, faccio voltare il cavallo che continua a zampettare sul posto. Le vacche sono spaventate e i loro muggiti paiono grida. Di molte persone riesco a scorgere solo le mani, trasportate dalla mandria come un fiume in piena. Qualcuno è riuscito a salire sopra le automobili, trovando scampo sopra i tettucci. Un uomo si è arrampicato sulla statua di bronzo. Il rumore è divenuto assordante, i muggiti delle bestie spaventate aumentano di volume, sempre di più. Vedo accorrere una decina di persone dall’interno della costruzione, e queste ultime riescono a far rientrare la mandria. Come il fiume di bovini si ritira emerge un corpo, poi un altro. Non rimarrò per conoscerne le sorti, il capo turno è salito in macchina, intenzionato a correrci dietro. Mi urla contro qualche maledizione, grida che marcirò in galera e probabilmente è vero. Folgore riprende a galoppare pancia a terra. Veloce come il vento: nessuna macchina a vapore, nessun aliante, né ali meccaniche degli Arcangeli che volteggiano al Colosseo, potrebbe superare questa sensazione. I suoi muscoli si gonfiano e si allungano sotto le mie gambe, non ci sono più rumori, solo lo scalpitio perfettamente ritmato dei suoi zoccoli.
Ho fatto rallentare il passo alla mia creatura appena arrivati nei pressi di una via consolare, il suo sudore mi bagna le cosce. Gli concedo una lunga carezza sul collo e lui scrolla la criniera a dimostrazione di averla apprezzata. La notte è finalmente buia, non ricordavo che potesse essere così quieta. Alle mie spalle le luci tremolano, riflettendosi sui fumi rosati della neocapitale, i rumori sono cambiati, riesco a sentire gli uccelli notturni e non accadeva da anni. Smonto quando la linea dolce delle colline sabine si apre davanti a noi, qui sembra ancora tutto come quando ero bambino. Solo campagna sconfinata: fluttuanti prati incolti, abbracciati dalle rive sinuose del Tevere. Una nuvola di polvere si alza alle mie spalle, con clangore di metallo e sbuffi di vapore, due auto si fermano alla fine della strada sterrata a poche decine di metri da noi. Non mi volto ancora, sento i portelloni che si aprono, do una pacca sul posteriore di Folgore. Non è una pacca data con forza, ma lui capisce e a prende a trottare verso il prato aperto. Le auto a vapore sono molto pesanti, e le loro ruote sottili non sono adatte a marciare tra le zolle scomposte di questo campo. Gli zoccoli del mio cavallo sono perfetti, invece.
Un colpo alla spalla mi costringe in ginocchio. Quando alzo lo sguardo incrocio quello furioso del capo turno, il mio padrone. Mi ha colpito con il calcio del moschetto. Sposto lo sguardo alle vetture. Alcuni uomini ne sono scesi e si stanno avvicinando, attraverso gli orpelli dorati che decorano i vetri del portellone anteriore intravedo il vestito di Arianna. «Questa è davvero l’ultima che mi combini ragazzo. Avrei potuto vivere da signore col matrimonio che hai mandato in fumo! Invece dovrò rimanere in quella merda di caldaia tutta la vita!» Gira il moschetto e me lo punta alla testa. Altri due uomini si avvicinano, i fucili puntati contro di me, nel buio riesco a distinguere il sorriso beffardo del caporale Bargelli. Io chiudo gli occhi, è strano ma non ho paura, voglio solo concentrami sul rumore sommesso degli zoccoli di Folgore che si allontana. Sento il rumore della carica del moschetto, il grido disperato di Arianna, appena attutito dai vetri della macchina a vapore e un insensato sorriso mi solleva gli angoli della bocca. Prendo un respiro profondo poi concedo la mia attenzione al silenzio della notte. Lo scalpitio di Folgore è quasi impercettibile ormai. «Non puoi più fermarmi adesso, adesso sono libero.»
Edited by Polissena C. - 1/10/2011, 17:59
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