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La Finestra.
Ero in piedi, dietro il vetro della finestra della mia stanza, e guardavo fuori. Il parco. Era notte. Dentro, avevo lasciato la luce spenta. - Bene. Sarebbe ora di prendere una decisione, non credi? Questa era la domanda. Una domanda che non chiedeva risposta. Non verbale. - Non ci siamo. Non hai le palle per farlo. Confessa, te la stai facendo sotto. Era vero. Ma tra poco sarebbe passata e io la stavo aspettando. Avevo preso la macchina fotografica, avevo messo il rullino a duemila asa per le foto in notturna e l'avevo sistemata sul cavalletto. Non avrei usato il flash, non sarebbe servito. Sapevo che, in ogni caso, sarebbe venuta nitida. Lei é ferma anche quando si muove velocemente. - Apri la finestra. - No. Posso fotografarla anche da dietro il vetro. - Apri la finestra, coniglio. - No. Che senso avrebbe? - Ti vedrà lo stesso. Saprà che sei qui, nel buio, a spiarla. Peggio, a fotografarla. - Non se ne accorgerà nemmeno. - Sì che se ne accorgerà. Apri la finestra, sii uomo. - No. - Questa sera non passerà per te, lo sai. - Non so niente. Nessuno sa niente. Nemmeno tu. - Allora chiudi gli scuri e vai a letto. Mettiti sotto le coperte e copriti anche gli occhi. Come un bambino. - No. La aspetto e la fotografo. Così mi crederanno. - Non ti crederà nessuno lo stesso. Nella foto lei non ci sarà. Ci sarà il parco, con i suoi cazzo di alberi e le sue maledette foglie per terra, e niente altro. - Ci sarà. Se io la vedo, posso anche fotografarla. - É la tua ultima occasione. O apri la finestra o vai a letto. - Non voglio… Né l'uno né l'altro.
La vedo. Arriva. Dal fondo del parco solleva le foglie venendo. Non corre. Non cammina. É tutto molto più semplice. Lei passa. Mi preparo allo scatto mentre si avvicina. Mi metto all'obiettivo, la osservo nel buco rotondo, poso il dito sul grilletto del mio fucile di immagini. Ora. No. Quasi. Ancora un attimo. Ecco. É davanti a me. Si ferma di fronte alla finestra. Si gira. Mi ha visto.
Sento le ginocchia vicine a spezzarsi quando alza la mano destra per salutarmi e mi sorride. Mi reggo d'istinto all'apparecchio e la foto scatta da sola. Il diaframma si apre. Lei resta immobile per i trenta secondi più lunghi della mia vita. Il diaframma si chiude. Lei abbassa la mano, si volta e riprende a passare. Mi siedo sul letto, sudato. Guardo la macchina fotografica. Ci sono riuscito. Mi alzo, vado all'apparecchio, lo prendo e lo porto nella piccola camera oscura, che ho allestito per l'occasione in bagno. Alla luce rossa lo apro, estraggo il rullino e procedo allo sviluppo. Pinze, acidi, liquidi di posa, carta da stampa. Appendo lo sviluppo ancora chiaro e aspetto. Ecco. Prende forma.
Un albero, una panchina, un altro albero, la siepe, le foglie per terra. Di lei non c'é traccia.
Poi quel suono. Quello basso, prolungato, intermittente. Una chiamata da un'altra stanza per l'infermiera di turno. Esco dal bagno, mi affaccio nel corridoio. Vedo il medico arrivare.
- Libera! Lontano. E' solo il ritorno dispettoso di un' eco da ospedale di notte. - Libera! Nulla. Non sto pensando a nulla. Altri degenti si affacciano dalle loro stanze. - Libera! É l'ultima. Lo sappiamo tutti. Ci guardiamo in colpevole silenzio.
E solo quello resta, dopo che una barella coperta da un lenzuolo bianco si é portata via il numero quarantotto. Il silenzio.
Rientro nella mia stanza, chiudo la porta, vado alla finestra e guardo fuori. Eccola. Sta tornando indietro. Si avvicina, mi arriva davanti, si ferma di nuovo. Si gira verso di me e alza la mano destra, ma questa volta non per salutarmi. Chiude il pugno, tira fuori solo l'indice e lo fa ruotare nell'aria in senso antiorario. Il senso é chiaro. Domani tocca a me.
Fine.
Edited by ArkDark1 - 1/4/2008, 16:07
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