MAC, E BASTA
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MAC, E BASTA

di Grazia Gironella

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  1. tar-alima
     
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    MAC, E BASTA


    «Signora Marani, può onorarci di un suo parere professionale, o chiedo troppo?»
    Elena trasalì, colta in fallo, non per la prima volta nel corso della riunione. Di cosa si stava discutendo al momento? Forse ancora della recita di fine anno. Forse. Elena incrociò le dita.
    «Certo, mi sembra una buona idea affidare parte dell’organizzazione al gruppo studentesco che ne ha fatto richiesta; partecipare a ciò che avviene dietro le quinte dell’evento li farà sentire più coinvolti e più responsabili.»
    L’ombra di ironia nel sorriso del preside la lasciò per un attimo con il fiato sospeso, poi le espressioni neutre o concordi dei colleghi le confermarono che aveva almeno azzeccato l’argomento. Salva in extremis.
    Con uno sforzo di concentrazione che aveva del sovrumano, Elena riuscì ad approdare al missa est senza altri rischi. Distribuendo sorrisi preconfezionati sgusciò tra gli insegnanti che si soffermavano a chiacchierare e sfrecciò nel corridoio verso l’uscita.
    Libera! Alzò il bavero del cappotto contro il freddo pungente e si avviò verso casa nella luce grigia del crepuscolo invernale. Libera? Da un impegno lavorativo che la strappava ai suoi interessi, certo, ma non dal pensiero che le frullava in mente, martellante, ossessivo. Mac, sempre Mac. Come odiava quella sensazione, e come la conosceva bene. Pensare che aveva fatto di tutto per evitarla, stavolta.
    Il ricordo di come fosse nato il “caso Mac” la faceva sempre sorridere.
    Elena aveva sentito parlare di lui per la prima volta qualche giorno dopo il trasferimento in quella scuola, l’autunno precedente, in uno di quei crocchi da macchinetta del caffè. Tre o quattro insegnanti parlavano di questo ragazzino della prima D, un tipo strano, che non riuscivano a inquadrare, chissà la famiglia, e da dove veniva, eccetera. Nel tempo di una bevanda al volo, la parola “strano” era comparsa quattro o cinque volte, senza che Elena riuscisse a cogliere i motivi di tanta stranezza. Si era ben guardata dall’intrufolarsi nel discorso. Era l’ultima arrivata, innanzi tutto, e lo staff insegnante le aveva già fatto capire che la strada per farsi accettare sarebbe stata lunga e irta di ostacoli; e poi preferiva non immischiarsi, tanto più che questo Mac non era nemmeno suo alunno. Che quelle galline ci si strozzassero pure, con i loro pettegolezzi mascherati da interesse per i ragazzi.
    In pochi giorni, però, Mac aveva iniziato a spuntare fuori ovunque. Nei discorsi in classe, quelli che si interrompevano non appena entrava la nuova prof; nelle battute scambiate all’uscita da scuola, tra saluti e scherzi. Battute cattive, di cui Elena non conosceva - e non voleva conoscere - né il motivo né l’oggetto. Nemmeno in bagno era al sicuro; dalla cabina, Elena aveva dovuto sorbirsi per un quarto d’ora buono le considerazioni di due colleghe sul personaggio del momento, con il sottofondo dello scroscio d’acqua nel lavabo. Ce ne voleva di tempo a lavarsi le mani, certe volte.
    Persino con Anna, l’unica insegnante con cui si era creata una certa sintonia, Elena aveva dovuto mettere un fermo.
    «Ti assicuro, Elena, che Mac è davvero un enigma. Pensa che...»
    «Non penso nulla, e cambierei volentieri discorso. Ci sei in palestra, stasera?»
    Anna aveva sospirato, e si era lasciata condurre verso il nuovo argomento senza ribattere. A differenza degli altri, conosceva i motivi del comportamento di Elena.
    Anni di insegnamento nelle scuole dei quartieri più poveri e malfamati della città lasciavano il segno. Elena aveva visto cose che non avrebbe mai voluto vedere: ragazzi che portavano a scuola lividi e bruciature, già rassegnati al loro ruolo di vittime, e altri pronti a restituire al mondo gli stessi lividi e le stesse bruciature. Ragazzi trascurati, strafottenti, orgogliosi della propria arroganza, perfette immagini della realtà di ignoranza in cui vivevano. Nel tempo tutti loro, prima o poi, avevano mostrato una crepa nel loro guscio-prigione, anche solo per un istante, e in quella crepa Elena aveva cercato d’infilarsi per aiutarli. In alcuni casi - pochi, sempre troppo pochi - ci era riuscita, anche se era impossibile prevedere gli esiti a lungo termine; ma a quale prezzo? Contrasti con i colleghi, con i ragazzi e le loro famiglie, persino minacce fisiche, e soprattutto un carico di sofferenza che alla fine l’aveva indotta ad alzare bandiera bianca. Non poteva prendersi a cuore ogni caso umano come se fosse figlio suo. Semplicemente, non ce la faceva più. Troppe volte aveva accolto gattini abbandonati e uccellini caduti dal nido; ora era venuto il momento di proteggere quel poco di equilibrio mentale che le era rimasto.
    Una telefonata all’amico di suo padre che lavorava al ministero, e finalmente le era stato assegnato un incarico in quella scuola di provincia, una scuola tranquilla, in un contesto sociale ben lontano dal degrado da cui era fuggita.
    Il cambiamento sul principio le aveva lasciato l’amaro in bocca, ma alla lunga il sollievo aveva avuto il sopravvento. Elena si era ripromessa di non farsi coinvolgere a quel modo, mai più. Sapeva che a scuola tutti, colleghi e alunni, la consideravano un tipo insapore e poco comunicativo, ma le andava bene così; emozioni e sentimenti erano molto più al sicuro se restavano nell’ambito della vita privata.
    Era stato Mac ad attirarla di nuovo nel tranello. Perché, dopo un anno trascorso a schivare la sua ingombrante presenza-assenza, Mac si era alla fine materializzato nella sua classe, la seconda B, in virtù di un’imprevista ristrutturazione delle sezioni.
    Elena non se n’era accorta subito. Il primo giorno aveva fatto l’appello senza l’ombra di un sospetto, perché Mac, naturalmente, non si chiamava davvero Mac, ma aveva un nome e un cognome come tutti gli altri. Erano stati gli alunni, il secondo giorno, ad attirare la sua attenzione su quel ragazzo magro e silenzioso che, seduto in seconda fila, lo sguardo fisso davanti a sé, non rispondeva alle loro provocazioni. Elena li aveva richiamati, poi aveva scorso il registro per riportare alla mente il nome del nuovo arrivato. Matteo...?
    «Lui è Mac e basta, prof. Non ce l’ha un nome vero.» aveva esordito ad alta voce Lorenzo, lo sbruffone della classe, suscitando un boato di risate cui Mac aveva risposto con un’occhiata indifferente.
    Mac? Accidenti. Era il momento di ricorrere al sistema collaudato di Anna, autocontrollo con un tocco di umorismo.
    «Mac è un diminutivo, immagino. Da cosa origina? Qualcosa a che vedere con la Scozia?»
    Mac l’aveva fissata senza proferire parola mentre le risate scoppiettavano qua e là nell’aula. Lorenzo non si era lasciata sfuggire l’occasione.
    «Ma quale Scozia, Mac sta per maccherone. Questo qui è scemo come un maccherone, e muto per di più.»
    Elena aveva raddrizzato la schiena.
    «Vedi di piantarla, Tarozzi, se non vuoi finire dritto dal preside. E sia ben chiaro che questo vale per tutti: non intendo tollerare comportamenti del genere.»
    Ed eccolo lì, Mac. Nemmeno grato del suo intervento, all’apparenza, tranquillo come se niente fosse successo, con il suo bel nomignolo già stampato a inchiostro indelebile sulla fronte.
    Eppure, scemo come un maccherone - per citare Tarozzi - Mac non lo era affatto, e nemmeno muto, come Elena ebbe modo di constatare nei mesi successivi. Mac non parlava mai di sua volontà, con nessuno, ma se interrogato rispondeva, seppure a monosillabi, sempre con una curiosa espressione neutra dipinta sul volto. Non aveva difficoltà di apprendimento e si presentava quasi sempre preparato, non solo in italiano - la materia di Elena - ma anche nelle altre materie, inclusa la matematica, in cui eccelleva. Laconico com’era, riusciva ugualmente a ottenere voti discreti nell’orale: aveva buone capacità di elaborazione e un solido filo logico nell’esposizione, per cui bastavano poche frasi ben piazzate e il gioco era fatto, anche se era impossibile dire in che misura Mac a quel gioco fosse interessato.
    In palestra, Mac rivelava forza e agilità non comuni. Nessuno poteva batterlo sulla pertica o sul quadro svedese, e quando tornava a terra c’era sempre qualcuno che lo fissava a bocca aperta, ma né l’ammirazione dei compagni né l’approvazione degli insegnanti sembravano essere per lui motivo di orgoglio. Diverso era il discorso per i giochi di squadra, come il basket e la pallavolo. Una volta accettato il fatto che avesse un senso darsi tanto da fare intorno a una palla, Mac si era appropriato velocemente delle regole dei due sport. Inserirlo in partita, però, era fatica sprecata: i compagni non lo coinvolgevano mai nei passaggi, e anzi parevano in costante soggezione alla sua semplice vicinanza fisica.
    Ora che non poteva più sottrarsi alla ingombrante presenza di Mac, Elena si trovò a raccogliere informazioni su di lui, con l’aiuto di Anna che le riferiva ogni voce, ogni elemento in suo possesso sul nuovo alunno.
    Quel ragazzo sembrava nato per stuzzicare la curiosità della gente. I genitori a scuola non si erano mai visti, e si vedevano poco o nulla anche al di fuori. Lavoravano di notte, si diceva in giro; ordinavano tutto per telefono e si facevano lasciare la spesa a casa, davanti al portone. Il fornaio e una guardia privata credevano di averli visti salire in macchina una sera e partire verso la città, ma non ne erano certi, e comunque nessuno dei due avrebbe saputo riconoscerli se li avesse incontrati per strada. La famiglia di Mac si era trasferita lì da un paio d’anni, proveniente dal Nord, Lombardia o Piemonte, o qualcosa del genere, e aveva preso in affitto la villetta prefabbricata nel terreno sopra la chiesa.
    Vista da fuori, la casa sembrava ancora disabitata: non c’era un panno steso, o un fiore alle finestre, o un paio di stivali sul balcone, niente di niente. Elena era passata di lì un giorno, per caso - o così le era piaciuto pensare - e aveva rallentato per soffermare lo sguardo sull’abitazione, sul prato inselvatichito che la circondava, sulla collina aspra alle sue spalle, come se qualcosa di ciò che vedeva potesse darle un indizio sul punto interrogativo che era Mac. Ma non c’erano indizi, o piuttosto ogni indizio contribuiva a fare scomparire nella nebbia quel ragazzo insieme alla sua famiglia.
    Nonostante il mistero che circondava la sua persona, Mac non dava l’impressione di vivere una situazione familiare disastrata. Maglietta e jeans d’estate, felpa e jeans d’inverno, non era in questo diverso dai suoi coetanei, né più trascurato, ed Elena non gli aveva mai visto sul corpo segni di maltrattamento. Quello che di lui colpiva fin dal primo incontro era il distacco con cui compiva ogni gesto, un atteggiamento che non denotava malinconia, né rancore verso il mondo o stupidità, ma una sovrana indifferenza che solo di rado si incrinava.
    Elena osservava Mac fino allo sfinimento, giorno dopo giorno, intrigata suo malgrado da quella personalità enigmatica. Tra le ciocche scompigliate che gli coprivano la fronte, lo sguardo degli occhi scuri di Mac era quello di un animale fuori del suo ambiente naturale, vigile eppure sicuro di sé, uno sguardo che Elena spesso tentava di catturare, con scarso successo.
    Mac arrivava in aula, si sedeva al banco, faceva ciò che doveva nelle ore di lezione, si lasciava scorrere addosso le frequenti angherie dei compagni più velenosi senza mai reagire, e al suono della campanella se ne andava. Tutto qui. Solo quando lo vedeva uscire con lo zaino in spalla, il portachiavi a forma di topo penzolante dalla cinghia, Elena si rendeva conto di avere avuto per tutta la lezione lo stomaco contratto. Perché naturalmente ci era ricascata, nonostante tutti i buoni propositi, e Mac era diventato la sua ossessione.
    Con l’avanzare dell’anno scolastico, la situazione in classe non diede segni di miglioramento. L’indifferenza mostrata da Mac in ogni occasione faceva sì che anche gli elementi migliori della classe non solidarizzassero con lui. All’inizio qualcuno aveva provato a difenderlo, e persino a farselo amico, ma come ti comporti con uno che ti guarda come se fossi un marziano? Tutti avevano finito con il rinunciare, ed Elena li poteva capire.
    In particolare ricordava un episodio accaduto poco dopo le vacanze natalizie, su cui spesso era tornata con la mente, senza riuscire a trarne alcuna conclusione. Rachele - una ragazza intelligente e sensibile che tentava di nascondere le proprie doti sotto un dito di trucco - stava portando alla cattedra il piccolo acquario che la classe aveva allestito su richiesta dell’insegnante di scienze. Un passo falso, ed era incespicata in uno zaino che sporgeva più del solito dalla fila di banchi. Sarebbe di certo caduta - e con chissà quali conseguenze - se Mac, rapido come il pensiero, non fosse balzato fuori dal banco e non l’avesse sostenuta con un braccio, afferrando al contempo la boccia di vetro con l’altro. Tutto si era risolto con poche gocce d’acqua sul pavimento, sotto gli occhi attoniti dell’intera classe. Lorenzo, visibilmente scosso da quella prodigiosa dimostrazione di riflessi, aveva provato a intonare un motivetto del tipo “guardate Superman”, ma nessuno lo aveva seguito. Rachele, pallida sotto il fondotinta, si era passata una mano sulla fronte con un sospiro di sollievo.
    «Uau. Grazie. Sei stato grande.»
    Aveva teso un braccio verso Mac in un gesto che voleva essere amichevole - una pacca sulla spalla? un cinque? - ma subito il suo polso era stato intercettato in aria dalla presa d’acciaio di lui. Immobili, per un istante i due si erano guardati negli occhi, la ragazza sconcertata, Mac con l’ombra di un sorriso sul volto; poi Rachele si era ritratta ed era tornata al banco, rossa per l’imbarazzo, mentre lui faceva approdare l’acquario sulla cattedra e riprendeva il suo posto, senza una parola, come se niente fosse successo.
    Mac era un tipo così.
    Quello che Elena non riusciva a spiegarsi era come mai l’accanimento dei ragazzi più arroganti su di lui non trovasse requie. In teoria l’atteggiamento di Mac era proprio quello giusto per smorzare ogni cattiveria; nessuno gli aveva mai visto versare una lacrima, o dimostrare rabbia, o anche soltanto fastidio per gli scherzi di cui era oggetto, quindi che gusto c’era a prenderlo in giro? Questo si domandava Elena, senza peraltro stupirsi. Dall’animo umano ci si poteva aspettare questo e altro.
    La risposta al suo quesito, Elena credette di trovarla il giorno in cui seguì Mac all’uscita da scuola.
    Non fu un atto premeditato. Quel giorno aveva deciso di andare in palestra subito dopo le lezioni, in modo da tenersi il pomeriggio libero per andare a prendere sua sorella alla stazione. Silvia, che diversamente da lei aveva una vita familiare intensa con tre figli e un marito non proprio collaborativo, si riservava una giornata all’anno da trascorrere con la sorellina zitella - e un po’ acida, a suo dire - ed Elena non poteva sottrarsi a quel rito, anche se qualche volta le sarebbe piaciuto farlo.
    Uscì dalla scuola con la sacca della palestra in spalla e le scarpe sportive ai piedi. Il grosso degli studenti era già sciamato verso la piazza, ma un gruppetto indugiava ancora davanti alla scalinata, e il motivo le fu presto chiaro: Mac, chino sulla bicicletta visibilmente mutilata, considerava pensieroso i danni sotto gli sguardi soddisfatti dei compagni.
    Bastardi. Elena dovette trattenersi dall’insultarli ad alta voce. Bestie, ecco cosa erano; ma non li aveva colti sul fatto, e ogni rimprovero sarebbe servito solo a farli godere di più per la bravata. Meglio fare finta di non aver visto e correre in palestra, anche se la rabbia le stringeva la gola.
    Appena prima che Elena gli passasse accanto, Mac decise di rinunciare a riparare la bicicletta. Senza degnare di uno sguardo i quattro che ridevano e fischiavano al suo indirizzo, afferrò lo zaino e si avviò nella stessa direzione di Elena, che si trovò involontariamente a seguirlo.
    I tormentatori esitarono. Il copione esigeva di perseguitare Mac ancora per un po’, magari sputargli addosso, oppure prenderlo in mezzo per assestargli almeno qualche gomitata, a quello scemo che sembrava non sentire neanche i colpi; ma la presenza della prof Marani, anche fuori da scuola, rendeva il tutto troppo rischioso. Masticando vaghi insulti, i quattro idioti si allontanarono a passi strascicati.
    Elena continuò a camminare, lo sguardo fisso sulla figura di Mac che, testa alta e passo deciso, imboccava una strada diversa da quella che lo avrebbe condotto a casa; sul suo zaino, il topo di pelo dondolava con impeto a ogni passo. Dove stava andando? Incuriosita, si stava giusto chiedendo se fosse il caso di seguirlo per scoprire qualcosa su di lui, quando un sasso sbucato da chissà dove colpì il ragazzo alla tempia destra.
    Mac si arrestò e volse lo sguardo verso i cespugli che fiancheggiavano la strada. Non si era nemmeno portato la mano alla tempia, là dove ora si allungava un rivoletto di sangue. Elena, non vista, tratteneva il respiro. Il bambino - un aguzzino nuovo, niente a che vedere con il quartetto della scuola - emerse dal cespuglio ghignando, la fionda ancora in mano. Il suo sguardo e quello di Mac si incontrarono.
    Fu allora che Mac sorrise.
    Era un sorriso impossibile, un sorriso che perseguitò Elena per giorni e giorni con la sua insensatezza e la sua forza. Un sorriso che non aveva niente di dolce, niente di allegro; feroce, a modo suo, ma senza cattiveria, senza rancore. Un sorriso che diceva al mondo: fate quello che dovete fare, tanto io avrò la meglio, alla fine.
    Il bambino rimase interdetto davanti a quella espressione che non sapeva decodificare; lentamente sul suo volto si dipinse una smorfia di ostinazione.
    «Ridi pure, scemo.» sputò infine, con rabbia. «La prossima volta saremo in tre.»
    Solo in quel momento si accorse della presenza di Elena e rapido si dileguò, mentre Mac riprendeva il cammino, ignaro di essere osservato.
    Ecco cosa manteneva la miccia dell’odio sempre accesa, scatenando quella persecuzione costante. Elena si rese conto di avere intravisto quel sorriso cento, mille volte in classe, senza mai registrarlo davvero perché sfuggiva ai suoi schemi mentali.
    Agli occhi del mondo, Mac era un perdente con un sorriso da vincitore. Un fatto impossibile da accettare per chi gode a tormentare i deboli, e difficile da comprendere per chi desidera aiutarli. Come si era creato un cocktail così assurdo nella sua personalità?
    Di colpo Elena si sentì esausta. Voleva soltanto andare a casa, nient’altro. Al diavolo la palestra, e pure sua sorella; che Silvia si pigliasse un taxi, l'indirizzo lo sapeva. Meglio allontanarsi prima che Mac la vedesse, o la situazione si sarebbe fatta parecchio imbarazzante.
    Fu Mac invece ad allontanarsi, tagliando per i prati verso il parco, ed Elena, come legata a lui da un filo invisibile, lo seguì tenendosi a distanza.
    Il parco era un ampio spazio verde non recintato sul fianco della collina, in passato tenuta di caccia di una famiglia di nobili del luogo, la cui dimora in rovina si stagliava ora nitida contro l’azzurro cielo primaverile. Tra cespugli monumentali e nuove aiuole, numerosi alberi secolari si ergevano nelle zone prative, silenziosi testimoni di chissà quante vicende umane. A spiccare era in particolare un’enorme quercia nuda, colpita anni prima da un fulmine che l'aveva scavata in profondità; annerita eppure maestosa, attirava per prima l'attenzione anche per la sua posizione sopraelevata sul pendio. Elena si era avvicinata una volta all’albero, incuriosita, ma il suo aspetto spettrale le aveva dato un brivido d'inquietudine, lo stesso brivido che provò in quel momento alla vista di Mac che giungeva ai piedi della quercia nera e lasciava cadere a terra lo zaino, poi sedeva a gambe incrociate con la schiena contro il tronco.
    Dandosi dell'idiota, Elena scivolò dietro l'albero più vicino per non essere vista. Cosa ci faceva lì, alla sua età, a spiare un alunno nel suo tempo libero? Roba da psicanalisi, se non pedofilia vera e propria.
    Questo pensiero non le impedì di rimanere a osservare Mac mentre le ore scorrevano, una dopo l’altra, e il cielo si tingeva dell’arancione del tramonto imminente. Mac che svuotava lo zaino e pranzava con un panino e una bibita, Mac che spargeva libri e quaderni sul prato per fare i compiti, Mac che si sdraiava sull'erba e rimaneva a contemplare i rami anneriti che si allungavano sopra di lui, Mac che leggeva un libro scostando con la mano le ciocche di capelli che gli ricadevano sugli occhi.
    «Strano, non è vero?»
    La voce dell'uomo, così vicina, fece sussultare Elena come se fosse stata colta in flagranza di qualche reato. Certo, il fatto che lì Mac non potesse scorgerla non implicava che lei fosse invisibile al resto del mondo. Il vecchio si appoggiava al bastone e camminava con concentrata lentezza, ma lo stesso Elena non lo aveva visto avvicinarsi.
    «Così giovane, cosa ci farà sempre da solo sotto quell'albero, mi dico. Ci passa gran parte della giornata, sa?» L'uomo si interruppe per osservarla, il capo reclinato di lato.
    «Davvero... davvero viene sempre qui? Lei lo vede spesso?» domandò con voce ancora tremula per lo spavento.
    Il vecchio sorrise. «Ogni giorno che Dio manda in terra, signora. Anche quando piove, e sì che quel posto è ben lugubre anche sotto il sole. Quel ragazzo torna a casa solo per dormire, secondo me. Mah. Ora vado, mio figlio mi aspetta per cena, e se faccio tardi si figuri mia nuora...» Una risatina e una sventolata di bastone, poi l'uomo si allontanò con il suo passo diseguale.
    Si era fatto davvero tardi. Elena si sentiva come se la voce del vecchio l'avesse strappata a un sogno. Silvia doveva essere già a casa ormai, infuriata per la sua assenza, pronta a rinfacciarle ogni suo difetto presente e passato non appena avesse varcato la soglia. Era ora di andare.
    Quando si voltò, Mac era sparito.


    Dopo una primavera fiacca, l'anno scolastico si trascinò verso i primi giorni d'estate. Tempo di esami, di bilanci, e finalmente di vacanze.
    Non c'erano esami per la seconda classe, solo un lento scivolare verso gli ultimi giorni di lezione; atmosfere torpide, aria calda a folate dalle finestre sempre aperte, ronzii di insetti invisibili a ricordare a tutti, studenti e insegnanti, la libertà ormai prossima.
    Un giorno Mac non si presentò a lezione. Era la sua prima assenza in tutto l'anno scolastico.
    Elena, subito allarmata, trascorse la mattinata a convincersi che non era successo nulla, che l'indomani lo avrebbe ritrovato lì, seduto al suo banco, a fare da bersaglio per ogni aeroplanino, pallina di carta o articolo di cancelleria che i bulli di classe si fossero trovato sotto mano.
    Venne il giorno dopo, e Mac non si fece vedere.
    Nel pomeriggio Elena andò a cercarlo a casa, e trovò lo stesso vuoto che le era apparso alla sua prima visita. Una casa disabitata; peggio, mai abitata prima. Era difficile credere che lì fosse vissuta di recente una famiglia. Elena si domandò se non fosse stato solo un sogno, l'ultimo anno scolastico, Mac, il parco. Dovette respingere con la forza la sensazione che di tutto questo, ormai, si potesse parlare al passato.
    Domani, domani, domani. Aspetta domani prima di pensare al peggio. Ma cos’era, poi, il peggio?
    Il domani, quando arrivò, era di un colore livido che minacciava tempesta.
    Nella pausa alla macchinetta del caffé, Mac - stavolta l'assenza di Mac - era di nuovo al centro dei discorsi. Elena non partecipò alla conversazione; finì di bere il caffè da sola, davanti alla finestra del corridoio, lo sguardo perso tra le bordure di gerani. Non aveva voglia di dire quello che ormai sapeva con assoluta certezza: che Mac se ne era andato, svanito nel nulla, e nessuno di loro l'avrebbe più rivisto. Perché la sera prima, frugando nella borsa alla ricerca di un appunto perduto, Elena aveva sfiorato con le dita qualcosa che per la sua consistenza l'aveva fatta ritrarre con disgusto istintivo. Lentamente aveva estratto dalla borsa l'oggetto estraneo: un topo, il topo di pelo che Mac portava sempre appeso allo zaino. Un segno che a Mac non erano sfuggite le sue attenzioni, forse un ringraziamento. Di certo un addio.


    Il bar era affollato a quell'ora della mattina. Elena si infilò a fatica fra i clienti che stazionavano al banco, ordinando con un gesto al barista “il solito”, cappuccino e brioche.
    «Mi scusi.» L'uomo che l'aveva urtata le rivolse un sorriso distratto e tornò a voltarsi verso i due che lo accompagnavano; tutti indossavano tute da lavoro blu elettrico con la striscia catarifrangente sul torace e portavano appesi alle cinture robusti guanti di pelle. «Ti dico che è assurdo. Sono anni che la gente chiede di tagliare quel vecchio albero morto; finalmente ci affidano il lavoro, e cosa ti trovo? Che quella maledetta quercia ha deciso di mettere le foglie, proprio adesso.»
    Il compagno più giovane scosse il capo.
    «Si vede che non era morto. Sai com'è con gli alberi, certe volte non è facile...»
    L'altro lo interruppe quasi con rabbia.
    «Senti un po', faccio questo lavoro da trent’anni e so distinguere un albero morto da uno vivo. Tu non sei di queste parti, non puoi sapere. Quella quercia era nera come un tizzone e secca come una tavola. Io l'ho vista quando fu colpita dal fulmine, nel novantotto. Bruciata fino alle radici, ti dico, e mai un segno di vita in questi dieci anni. Poi, proprio adesso... Figurati, con gli ecologisti...»
    I tre operai uscirono dal bar, portando con sé la frustrazione per il lavoro mancato.
    Elena lasciò a mezzo la brioche e uscì in strada. Quasi di corsa si infilò nel viale che portava al parco. Non le importava di arrivare tardi alla riunione, non le importava se il preside avrebbe goduto nel farla sentire inadeguata, come sempre.
    La vecchia quercia era ancora là, scura, imponente. Come sempre, la cima sfiorava il cielo, mentre i rami più bassi quasi lambivano il terreno. L'unica differenza era che adesso, là in alto, spiccava una pennellata di verde vivo, brillante sulla corteccia carbonizzata.
    Elena rimase a lungo a fissare l’albero, immobile. Si accorse che stava ridendo solo quando incrociò lo sguardo perplesso di un passante.
    Con il cuore leggero volse le spalle al parco e si diresse di buon passo verso la scuola. La giornata non si prospettava poi così male. Magari il preside avrebbe ricevuto la risposta che si meritava, per una volta.











     
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  2. shivan01
     
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    il ritmo è quello giusto, la storia mi ha preso in fretta.

    E' costruito molto bene, ma il finale mi ha lasciato un pò di amaro in bocca ad essere sinceri.

    Comunque un bell'esempio di come si crea aspettativa nel lettore

    VALIDO
     
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  3. Paola_Milli
     
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    oh! Bello, scritto bene, buon ritmo... Si, decisamente valido! ;)
     
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  4. giudappeso
     
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    Mi ha catturato dall'inizio alla fine, il finale è sorprendente e pur non dando risposte ma, semmai, creando nuove domande, mi è piaciuto. Pollice alto.
     
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  5. ArkDark1
     
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    Questo mese la lotta é dura davvero... :)
    Il tuo racconto mi é piaciuto molto (sorvolo su un paio di avverbi evitabili... :) )
    Il punto di forza, oltre a quelli già menzionati, é la tua capacità di utilizzare le regressioni senza perdere il ritmo e il "suono" interiore, passando con grande abilità da un momento a quello precedente e a quello successivo con semplicità, come se camminassi.
    Il pollice é alto, anche se non é il mio genere lo meriti in pieno.
    Ora, per mantenere la mia fama, però, ti sollevo un piccolo appunto...
    Mi aspettavo un finale con il botto; peccato che non ci sia, perché le armi le hai caricate tutte a dovere... ;)
     
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  6. Pecorella75
     
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    Validissimo!
    L'ho letto con molta curiosità, e il finale in sospeso a me è piaciuto! Io amo i finali in sospeso!
    Ma in questo caso credo che il finale nasconda molto di più di quello che c'è scritto...
    La fogliolina verde sull'albero morto... mi ha molto colpito!
     
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  7. tar-alima
     
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    Pecorella, sono contenta che ti sia arrivato così, perché è proprio come l'ho vissuto io.
    Grazie a tutti dei pareri benevoli, grazie davvero :rolleyes: .
     
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  8. altair1
     
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    Veramente ben fatto, piaciuto il finale che lascia un po' di mistero. L'albero morto su cui rispuntano le foglie, trovata eccezionale!
    Da lustrarsi gli occhi! :compli:
     
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  9. Jakken
     
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    Tar, il tuo racconto mi è piaciuto, ma con qualche piccolissima riserva.
    La scrittura scorrevole e oculata rende la lettura davvero molto piacevole.
    Il dubbio l'ho nel momento in cui il ragazzo tira il sasso a Mac. Più precisamente quando affermi che Mac non sa di essere osservato:
    SPOILER (click to view)
    Il bambino rimase interdetto davanti a quella espressione che non sapeva decodificare; lentamente sul suo volto si dipinse una smorfia di ostinazione.
    «Ridi pure, scemo.» sputò infine, con rabbia. «La prossima volta saremo in tre.»
    Solo in quel momento si accorse della presenza di Elena e rapido si dileguò, mentre Mac riprendeva il cammino, ignaro di essere osservato.


    Il ragazzo, quindi, scappa perché si accorge di Elena. È lecito pensare che Mac, a cui non sembra sfuggire nulla nonostante la sua apparente "immobilità" si possa accorgere anche lui che qualcuno osserva, o che comunque non sono soli.
    Es: se io ti osservo negli occhi mentre parliamo e il tuo sguardo, improvvisamente, si sposta, è quasi sicuro che lo seguo in quella direzione. Più lecito pensarlo piuttosto che no, perché è una reazione naturale: vuoi per l'espressione di sorpresa/dubbio/curiosità che ci posso trovare, vuoi perché ti distrai da quello che ti dico, o semplicemente dalla mia presenza.
    Detto ciò, mi convince di più se lasci che il ragazzo vada per la sua strada, convinto che il divertimento è finito dato che Mac non gli dà corda.
    In questo modo Mac può prendere la sua strada senza davvero sapere di essere osservato.


    Riguardo il finale aperto, non poteva essere altrimenti dato che tutto il racconto lo è.
    Io mi sono fatto una mia idea che spiega il perché Mac fa/non fa, e finisce come finisce...
    Sei stata coerente perché mostrare qualcosa di più concreto alla fine, quando per tutta la storia hai centellinato, sarebbe stato un errore.
    Molto rischioso comunque...
    Io non ho problemi a lavorare con l'immaginazione. Altri però potrebbero non essere troppo contenti del "non detto" che aleggia intorno a Mac.
    Anche io avrei voluto sapere qualcosa di più sulle sue origini, ecc...
    Comunque sia: pollice alto (con riserva). Una roba tipo 7-
    Ciao ^_^
     
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  10. strumm
     
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    User deleted


    Scritto benissimo, coinvolgente e ben ritmato.

    Racconto più che valido. Ammetto che il finale sospeso mi ha lasciato un po' d'amaro in bocca, ma ci può stare.
     
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9 replies since 2/4/2008, 06:17   327 views
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