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Cambio genere, taglio, dimensioni, tutto. A voi, siate benevoli...
IC 97243
“Detenuto IC 97243, qui nave trasporto Lealista Carthago, confermiamo partenza. Previsto nuovo arrivo tra trenta giorni terrestri. Buona permanenza fino ad allora. Sia Lode all’Alto Commodoro! Passo e chiudo”. Un breve sfrigolìo dall’altoparlante, un rumore bianco che decretava sempre la mia solitudine, fino al prossimo carico. Vidi la nave cargo sparire nel nero dello spazio, un pallido puntino di luce riflessa, unico sottile ponte tra me e il resto dell’Umanità.
Il mio nome una volta era Teodosius Morales, ma da molto tempo ero solo il detenuto IC 97243. Incarcerato per reati d’opinione, a essere precisi “Insubordinazione al potere costituito, infedeltà all’Alto Commodoro e alto tradimento verso la Nuova Repubblica” e condannato per direttissima a una lunga detenzione. Mi giudicarono colpevole di volantinaggio e manifestazione eversiva contro il governo, e era vero. Protestavo contro le condizioni di vita degli schiavi nelle colonie su Marte. La Guerra aveva lasciato vincitori e vinti, come non sempre accade. Il regime dell’Alto Commodoro, dominante in Nord e Sud America, aveva schiacciato la resistenza della Federazione PanEuropea e instaurato un regime dittatoriale ovunque sulla Terra. Da allora la Nuova Repubblica aveva stabilito una pace forzata sulla Terra, che altro non era che una dittatura feroce e intransigente come tutte quelle che l’avevano preceduta. Il regime del Commodoro riusciva a stento a sedare le rivolte che spuntavano ovunque nel mondo per via della scarsità delle risorse naturali. Intere aree dell’Asia e dell’Europa erano al collasso perché tutte le ricchezze finivano inevitabilmente nel continente americano. La grande idea che ebbero fu di far partire una grandiosa campagna di colonizzazione dello spazio, a fini propagandistici e di sfruttamento delle risorse. La luna, Marte e la fascia di asteroidi furono disseminate di miniere e stabilimenti per l’estrazione delle risorse e la produzione di manufatti basici in loco. Furono anche costruite colonie e incentivati cittadini per andare ad abitarci. Il fine non era lo spopolamento delle aree oppresse, quanto dare una vacua speranza alla gente. Grandi stazioni orbitanti ricevevano il flusso di materiali dalle colonie esterne e lo ridistribuivano a terra mediante un sistema di cargo orbitali. Potentissime corporazioni gestivano l’afflusso verso la Madre Terra dei beni prodotti, ma questo non fu poi di grande sollievo per l’Umanità. Le miniere e le fabbriche, poi, brulicavano di detenuti di tutti i tipi, per lo più politici, che venivano così tolti spesso definitivamente di mezzo, vista la scarsa aspettativa di vita che li attendeva nello spazio.
Io non ero considerato un detenuto ad alto rischio, ma mi ero beccato comunque i miei vent’anni di cella, pena minima per reati come i miei. Il rimarcare in tribunale l’assurdità di considerare reato la manifestazione di un’opinione, poi, non mi aveva aiutato molto. Passai cinque gelidi anni nella nuovissima colonia penale per reati politici stabilita in Islanda, terra isolata e impervia, da cui fuggire era impossibile. E furono anni in cui venni bombardato continuamente di propaganda, a volte urlata, a volte inculcata a manganellate; ma più spesso sussurrata, melliflua e insinuante. Il regime carcerario non tendeva a recuperare i detenuti a una vita genericamente rispettosa della legalità, ma tendeva solo ad annullarli, a renderli pecore, o meglio perfetti cittadini della Nuova Repubblica. Io quello non lo sarei mai stato, era qualcosa di troppo alieno al mio sentire, e cercai allora di non farmi notare da chi tra i carcerieri cercava i riottosi, o forse solo un motivo per picchiare qualcuno. Tenni un profilo basso, volevo essere invisibile, anche perché nessun assembramento o nessuna manifestazione di dissenso era tollerata. Un giorno un funzionario particolarmente viscido, stempiatello e con spessi occhialetti da miope mi propose la cancellazione del resto della mia pena se fossi stato disponibile a “supervisionare l’attività di estrazione di minerali presso una base di produzione nelle colonie”. Accettai subito. Il pensiero di ridurre di dieci anni la pena era troppo allettante, anzi ero contento perché la mia tattica del basso profilo aveva portato frutto. Il minerale, seppi dopo, era cadmio, e la base di produzione presso l’asteroide Cletus, nella Cintura di Asteroidi oltre Marte. Una base completamente automatizzata. Cinque anni da solo nello spazio.
Partii, e scoprii che la base era una claustrofobica rete di cunicoli con un loculo per dormire, una latrina e una sala di controllo. Il cibo, ovviamente liofilizzato, usciva da uno sportello in sala, a ore prefissate. Sempre la stessa roba. Mi avevano dato da leggere, ma non da scrivere. Potevo prendere appunti sul lavoro ma il processore cancellava tutto quello che non era attinente alla produzione. E ovviamente nessuna comunicazione con l’esterno. Avevo un pulsante da premere per le emergenze che lanciava un SOS, ma visto che la nave cargo ci metteva quindici giorni ad arrivare da Marte, era pressoché inutile. Passavo le giornate a premere tasti, sempre gli stessi, sempre alle stesse ore. Lo dovevo fare io, e non una stupida macchina, perché, dicevano, altrimenti sarei impazzito prima. Non forse, ma prima…
Passavo giornate, o quello che mi sembrava che fossero, a scrutare il cielo, nero, bellissimo, dalla sala controllo. Il sole, lontanissimo, sembrava solo una stella più lucente delle altre. Marte una palla da tennis rossa in lontananza, della Terra nessuna traccia. Giove già da questa distanza era invece imponente. Appuntavo in mente i movimenti delle sue tempeste, dell’Occhio, e fantasticavo. Non avevo nulla a cui pensare, e allora immaginavo. Mi costruivo grandi storie, che forse in un futuro lontano avrei scritto, filmato, disegnato, o forse solo raccontato. Forse era il primo stadio della pazzia, non so. Tenni il conto dei giorni, per qualche tempo, poi smisi. Un po’ perché avevo perso il conto, ma anche perché non aveva senso. Le giornate passavano troppo lente, e pensare di averne davanti altre centinaia dava un senso di vacuità alla mia esistenza che mi faceva stare male. Le macchine ronzavano ininterrottamente. Mi ero abituato ad addormentarmi al suono delle scavatrici che erodevano il cuore di Cletus, senza alcun riguardo per lui. Lui. Gli avevo dato un’essenza vivente, nel mio immaginario. Lo pensavo un antico mastodonte, che vagava solo nello spazio, memore e testimone della nube primordiale che eoni prima aveva forgiato il sistema solare, e la vita stessa del genere umano. Immaginavo di sentirlo fremere, lui, pietra morta, sotto l’azione feroce delle scavatrici. Lo immaginavo indignato per questi insignificanti roditori che erano venuti da lontano a rubare le sue ricchezze. Cletus era un asteroide di media grandezza, circa quindici chilometri di diametro. Un microscopico punto nell’universo, ma non tanto quanto la base che mi ospitava e che da pochi mesi aveva cominciato a distruggerlo. Sarebbero passati molti anni, ben oltre il mio periodo di detenzione, prima che la struttura dell’asteroide potesse collassare sotto l’azione delle macchine. Ma per allora non sarei stato più lì, sarei tornato a casa, finalmente, pentito solo di aver subito una così lunga pena in rapporto alla gravità, reale o presunta, di quello che avevo fatto. Non ero pentito di aver aderito alla Resistenza, solo un po’ per non aver fatto di più. Tutto questo in realtà non contava più nulla per me ormai, sepolto da anni di carcerazione, da nuove regole di sopravvivenza in galera che poco avevano in comune con la vita da cittadino e da essere umano in generale.
Una luce rossa sulla consolle. La scavatrice A aveva fatto il pieno. Premetti il tasto “Store” per scaricare tutto nella raffinatrice. E mi rimisi in attesa.
I giorni passavano sempre uguali. Lottavo con me stesso per non perdermi. Tasto Store, tasto Start, tasto Store, tasto Start… Vagavo con la mia immaginazione su mondi sconosciuti, immaginando di una vita futura da inventare, le facce del mio passato da riscoprire, e pensando a quante non ne avrei trovate più. Lottavo con la mia mente per tenerla viva, fissando il monitor, il suo baluginare verdognolo, talvolta senza vederlo. Compilavo i miei rapporti, senza neppure sapere se il sistema li trasmettesse a qualcuno a mia insaputa o se restassero inutile carta morta, nei recessi di Diana. Avevo dato un nome a tutto, e Diana era il sistema che regolava tutte le funzioni della stazione. Facevo tutto quello che mi era stato insegnato, imposto, senza sgarrare mai. Volevo andar via, e temevo che il commettere infrazioni al protocollo avrebbe prolungato la mia detenzione. Battevo sulla tastiera meccanicamente, la mente a spasso per il cosmo, e a malapena percepii una fluttuazione nel monitor. Non ci feci caso. Completai il mio rapporto e mi rimisi comodo, i piedi sulla scrivania, a contare le stelle al di là dello schermo di plexiglass. Cinque centimetri di una lega stranissima dividevano il cosmo gelido da me, ma non avevo paura. D’improvviso un allarme mi riportò bruscamente alla realtà. Il monitor mi diceva che una scavatrice si era bloccata. Merda. Sapevo cosa significasse. Tentai di resettarla dalla consolle ma senza molta convinzione né alcun successo. Dovevo sbrigarmi a farla ripartire, o la produzione ne avrebbe risentito. Dovevo rispettare il protocollo. Corsi giù per il corridoio principale verso l’area di docking delle scavatrici. In realtà era un claustrofobico cunicolo che strisciava sulla superficie di Cletus fino ad una piccola stanzetta. Un paio di tute appese alla parete, in attesa che qualcuno le indossasse e, al di là della camera di decompressione, lo spazio. Mi vestii in fretta, entrai nella camera di decompressione e premetti il pulsante per aprire il portello esterno. La superficie di Cletus era inondata dalla fredda luce del Sole, lontanissimo ma luminoso senza nulla in mezzo che attenuasse la luce. La piccola jeep mi attendeva. L’avevo presa una sola volta prima; la scarsissima gravità di Cletus rendeva particolarmente pericolose le escursioni. Agganciai il cavo di sicurezza al fermo a lato del portello della stazione. Il cavo sottile si sarebbe srotolato con me, per chilometri. Trovavo incredibile come non mi impacciasse i movimenti. Gli scarponi avevano grossi rampini per mordere il terreno friabile dell’asteroide, ma rendevano difficile camminare. Montai sulla jeep, il suo motore elettrico si rianimò nel più assoluto silenzio, e la macchina si mosse lentamente verso la scavatrice bloccata. Dovevo stare molto attento, se avessi acquistato velocità e magari avessi preso una buca, la jeep poteva schizzare nello spazio senza possibilità di recupero. Io avevo il cavo a salvarmi, ma avrebbe potuto spezzarsi. Ci misi dieci minuti a coprire i trecento metri che mi separavano dal sito di scavo ed eccola lì, la piccola bastarda. La scavatrice sembrava intatta, ma morta. Per qualche strano motivo si era spenta. Con cautela discesi nel fondo del cratere che aveva creato e resettai manualmente la macchina. Un led passò al verde, dicendomi che la scavatrice era tornata online. Non ne fui particolarmente contento, lo sarei stato solo una volta rientrato nella base. Così fu, e in modo particolare quando al tasto Start rispose un messaggio sul monitor che mi diceva che il mostro era ripartito. Mi rilassai. Neanche dieci minuti e l’allarme suonò di nuovo. Stessa cosa. Solo che nel frattempo Cletus, che ruotava sul suo asse come ogni corpo celeste che si rispetti, aveva immerso la base nella più nera notte cosmica. Uscire era improponibile. La superficie dell’asteroide rifrangeva uno spettrale chiarore aranciato di Giove, solitario e supremo nella fetta di cosmo che potevo vedere da lì, e nulla più. Mi sarebbe toccato aspettare. Compilai un rapporto sul guasto, perché non mi venissero a raccontare che me ne ero fregato, e sedetti nervoso alla consolle. La schermata normale svanì, ma io non avevo toccato nulla. Guardai perplesso il monitor nero, senza sapermi dare spiegazioni. “Perché?” Comparve questa parola, semplicemente. “Perché?” - Perché cosa? -, Pensai. Battei sui tasti, ma l’interfaccia non funzionava. La scritta scomparve, poi riapparve. “Perché?” sembrava come se mi rivolgesse la stessa domanda più volte. “Perché cosa?” dissi senza pensare. “Perché lo fai?” Raggelai. Non capivo. Diedi un paio di colpi al monitor e alla console, una gestualità antica ma mai sradicata dal genere umano. La solita tendenza manesca a risolvere le cose con le cattive, a rivendicare chi fosse il più forte. Ovviamente, non ottenni nulla. Lo scritta sparì, e riapparve. “Perché lo fai?” Ancora! Ma che gioco stupido era quello? Stavo perdendo le staffe. “Ma perché faccio COSA?!” Lo schermo cambiò. “Perché mi attacchi?” Mi alzai di scatto dalla sedia. Volsi furiosamente lo sguardo in giro per la sala, corsi nella latrina, alla cuccetta, ovunque, in cerca dello spiritoso che stava giocando con me, ma tornai in sala solo e perplesso. La scritta baluginava beffarda, e non mi davo una spiegazione razionale. Non aveva senso, alcun senso. Le fredde dita della paura comparvero dal nulla, a sfiorarmi la base del collo con il loro tocco gelido. L’avevo già provata prima, in carcere, ma era una paura diversa, quella di venire picchiato, o peggio. Questa era tutta un’altra cosa. Fui investito dalla consapevolezza di essere solo, totalmente solo, come soltanto pochi esseri umani lo sono stati dall’inizio dei tempi, e stavo perdendo il controllo della situazione, anzi lo avevo perso già totalmente “Chi c’è?” gridai stupidamente girandomi per la stanza “CHI C’EEEE’?!” Silenzio. Assordante. Guardavo il monitor avidamente, terrorizzato. La scritta scomparve. “Chi sei bastardo, fatti vedere, chi sei?!” battevo i pugni sulla consolle, lo sguardo fisso sul monitor. “Io sono.”
Tacqui improvvisamente, e sedetti pesantemente sulla sedia, come se qualcuno mi avesse staccato l’alimentazione e mi fossi spento. Le due semplici parole baluginavano di un verde enigmatico. Non credetti che fosse il caso di rispondere in modo aggressivo, e poi a chi? Come faceva, chiunque fosse, a sentirmi? E poi, chi cavolo era? “Chi sei?” ripetei, non sapendo cosa dire. “Io sono.” Riapparve la scritta. “Perché mi attacchi?” scrisse alla riga successiva. “Ma chi sto attaccando? Io non sto attaccando nessuno!” Il monitor tornò vuoto, e poi mi chiese “Chi sei?” Ormai non mi restava che stare al gioco, pensai tra la disperazione “Io? Io mi chiamo Teodosius, e tu?” quanto mi sembrava ridicola quella frase… “Io non ho un nome, i nomi non hanno senso per me.” “E dove sei?” chiesi ancora. “Io sono ovunque, qui.” “Cosa sei?” la voce mi tremava per lo sforzo che stavo facendo, non solo per stare calmo, ma anche per farmi una ragione di cosa mi stesse capitando. “Io non lo so più” mi rispose il monitor, enigmatico. Tacqui per un attimo. Cercai di fare pulizia in testa. “Come fai a sentirmi?” provai a chiedere qualcosa di più prosaico, la mia mente aveva disperato bisogno di elaborare qualcosa che potesse comprendere. “I sistemi della tua casa sono facili da comprendere, io sono in loro, ora, anche. Sto imparando.” - Oh Dio! Ho un poltergeist nel computer! – pensai. - Queste cose non succedono nella realtà! -Tentai di ribellarmi tra me, senza parlare. Quella cosa mi sentiva, ma forse non riusciva a leggermi nella mente. Lo schermo del monitor era fermo al messaggio precedente; il mio visitatore sapeva attendere. Tornai alla sua prima domanda, “Perché dici che ti attacco?” chiesi. “Stai scavando, Teodosius, stai invadendo me. Perché lo fai?” “Non sapevo che fossi qui! Devi credermi! Come fai a sentirmi?” chiesi di nuovo. “Posso, i sistemi della tua base me lo consentono.” Dovevano esserci dei microfoni in giro dei quali non sapevo nulla, bastardi! Seppi di essere stato controllato tutto il tempo, ma in quel momento non mi interessava. “Come fai a capirmi?” “Il tuo linguaggio è così semplice… Sto imparando.” Scoprii che la mia innata curiosità stava vincendo sulla paura, stranamente. Ero convinto che se quella cosa avesse voluto uccidermi lo avrebbe già fatto, e senza sforzo. Era tempo di capire chi fosse. “Da quanto sei qui?” chiesi. “Il tempo non ha più significato per me da molto ormai.” “Cosa sei?” chiesi ancora. Dovevo sapere. “Una volta ci chiamavamo Extorr, ma ora non so cosa sono. Sono vivo, e mi sembra da sempre.” La mia mente lavorava in fretta, alla ricerca febbrile di un senso a tutto questo. “Extorr? Cosa sono gli Extorr?” “La mia razza si chiamava così, tanto tempo fa.” Rispose il monitor. - Oh Gesù, un esule? E ora che faccio? – Sgomento, pensavo a cosa fare, non c’era modo per essere preparati ad una situazione come quella. “Perché sei qui? Da dove vieni?” “Io sono sempre stato qui, la mia razza abitava le profondità del pianeta che orbitava tra quelli che chiamate Marte e Giove. Tanto tempo fa.” La Cintura di Asteroidi era stata creata dalla distruzione di un pianeta primordiale che orbitava proprio tra Marte e Giove, questo ricordavo di averlo studiato da qualche parte, ma, Cristo, era esploso miliardi di anni fa! “Ma quel pianeta non esiste più da miliardi di anni!” esclamai. “Non è stato facile.” laconico e pregno di significato. “Ma come fai ad essere vivo?” chiesi quasi supplicando. Quello che il monitor, o chi per lui, mi stava dicendo, non aveva senso. “Io non vivo nel senso che pensi tu, umano, io esisto, in simbiosi con la mia terra.” “Ma, ma, la distruzione del pianeta! Tutto questo tempo! Di cosa ti sei nutrito?” “Nutrirsi è un’usanza umana che trovo molto strana, Teodosius. Per me non ha senso. Perché sei qui? Non c’è traccia di te nei sistemi della tua casa.” Rabbrividii al pensiero che quest’essere potesse setacciare ovunque nella base. Mi sentivo totalmente alla sua mercé e la cosa, seppur divenutami ormai familiare durante la prigionia, faceva crescere sempre in me una rabbia violenta, incontrollabile. Mi trattenni comunque, e invece gli dissi per sommi capi chi ero e perché ero lì. Nel frattempo ogni scritta era svanita dal monitor, che mi guardava spento, silente. Attesi una risposta, che venne dopo troppo tempo. “Venti miliardi di umani. E vivete ammucchiati su di un pianeta grosso poco più che il vostro Marte.” Compresi che la cosa potesse sembrare totalmente inconcepibile per un essere che aveva passato miliardi di anni da solo su di un asteroide. “Quanti Extorr esistono oltre te?”, chiesi. “Tanti, ancora, e per rispondere alla tua prossima domanda, comunichiamo telepaticamente, per noi la distanza non ha senso.” “E vivete tutti nella Cintura degli Asteroidi?” L’idea di quell’anello di fredde pietre che brulicava di vita mi sembrava inconcepibile. Ebbi la strana sensazione che se il monitor avesse potuto disegnare un sorriso lo avrebbe fatto, fu un’immagine chiarissima. “No,” rispose invece, “alcuni di noi sono rimasti qui, di guardia al luogo natìo della nostra razza, puoi vederci come dei sacerdoti, umano, ma gli Extorr sono ovunque nella Galassia.” “E sei in contatto con loro?” chiesi, e fui subito cosciente di aver detto una stupidaggine. “La distanza non ha senso per noi, umano.” ripeté lui, o esso, non seppi decidermi. “Cosa conosci del cosmo?” cominciavo a sentirmi un granello di sabbia in confronto a lui. “Non c’è nulla che io non sappia, Teodosius, nulla...” Nei giorni a seguire il mio ospite, anche se ormai sapevo di essere io l’intruso, mi parlò dell’universo, della vita nelle sue forme più fantasiose, di immensi conflitti, di grandi civiltà e di indicibili orrori. Apprendevo, silenzioso, immagazzinavo come una spugna, non sapevo cosa sarebbe stato di me, ma la mia brama di conoscenza era tanto appagata quanto mai lo fu prima di allora. E mi scoprii, incredibilmente, felice. Mi sentivo profondamente vivo, spesso non comprendevo cosa mi dicesse, ma non lo interrompevo mai, quasi per timore di rompere quell’incantesimo. L’essere parlava, o meglio scriveva, senza quasi interrompersi mai. Ogni tanto lo dovevo pregare di darmi tregua, anche se ero io a tempestarlo di domande. Dovevo fermarmi ogni tanto, dopo qualche ora con lui la mente mi pulsava e implorava riposo. Lui sembrava divertito, o forse solo contento di avere qualcuno di cui parlare. L’onniscienza e l’immortalità probabilmente non lo ripagavano di eoni di solitudine. L’essere mi faceva tante domande, su di me, sugli umani, sulle loro relazioni, le aspirazioni, il pensiero. Io rispondevo e lui passava alla domanda successiva, senza mai commentare. Il filo logico delle sue domande non aveva senso per me, saltava di argomento in argomento, apparentemente senza motivo. Lo lasciavo fare, perché dopo sarebbe toccato a me. Le scavatrici erano ferme da giorni, ma non mi importava. Il contatto con questo alieno era il sogno di legioni di scienziati e di romantici di ogni era, e io lo stavo vivendo, primo tra tutti gli uomini, e assaporavo quest’esperienza a pieno, conscio che ero al culmine del mio essere Vivo. Dimenticai il tempo che scorreva, dimenticai quasi di mangiare, di sostentarmi, sfinito da quell’esperienza implacabile. In fondo stavo parlando con un monitor, e pregavo qualche Dio che non fosse solo follia o immaginazione.
Un giorno l’essere interruppe una conversazione. Scrisse: “I tuoi simili stanno venendo per te, umano.” Mi assalì un insano terrore, non delle conseguenze che l’interruzione dell’attività di estrazione avrebbe comportato, ma della paura di perdere Lui. “Oh no! Ora ci scopriranno!” gemetti. “Stanno mandando un messaggio, Teodosius, ascolta.” scrisse il monitor. La voce gracchiante dell’altoparlante mi sembrava più aliena del monitor, “IC 97243, qui nave di supporto Lealista Avantgarde! Non riceviamo tuoi rapporti da giorni,” e un enigma era risolto, “cosa succede? Passo!” Risposi in qualche modo che io avevo sempre inviato i rapporti, e che doveva esserci un guasto alla trasmittente. “IC 97243! Non c’è nessun guasto, o non potresti riceverci! Preparati per un’ispezione! Passo e chiudo!” L’essere scrisse: “Cosa faranno ora?” “Beh, verranno qui, si accorgeranno che le scavatrici sono ferme da giorni, e mi porteranno via per processarmi e rinchiudermi da qualche parte. E’ finita, temo…” mormorai. “E tu vuoi questo?” chiese il monitor. “Ma certo che no!” esclamai, “Che domande sono?” Scrutavo lo spazio fuori dalla sala controllo, e intravidi la sagoma della nave che scendeva verso la piattaforma di atterraggio. “Cosa vuoi che faccia?” chiese l’essere. Inconsciamente risposi “Fermali”, lo feci di getto, senza pensare. Guardavo fisso la nave che mi avrebbe strappato a questa cosa meravigliosa per riportarmi a quella vita di stenti e privazioni che conoscevo fin troppo bene. Fissavo quella sagoma scura avvicinarsi, e la vidi scomparire in un lampo verdognolo. Semplicemente non c’era più. “Cos-cosa hai fatto?” balbettai. “Mi hai chiesto di fermarli e l’ho fatto.” Rispose lui candidamente. “L’hai distrutta?” chiesi ansiosamente, non sapendo cosa sperare. “Non esattamente, ma non chiedermelo, non capiresti. Gli Extorr non uccidono.” Rispose enigmatico il monitor. Sedetti stancamente sulla sedia. Ero sfinito, stufo di non capire e glielo dissi. “Il vostro sistema di comunicazione è primitivo, umano, non capirai mai.” “Io non sono abbastanza intelligente per capirti, Extorr, non è questione di linguaggio.” Risposi un po’ seccato. Sentii un sibilo, e un piccolo sportello si aprì sulla paratia alla mia destra. Non l’avevo mai notato prima. Il vano nascondeva un groviglio di cavi. Il monitor spiegò: Snuda un cavo e toccalo, Teodosius.” “Ma sei impazzito? Resterò fulminato!” Risposi. “La tua casa è sotto il mio controllo, umano, fai come ti dico.” Rispose lui. Non avevo scelta. Mi avvicinai e con un coltellino snudai il filo. Poi mi volsi, interrogativo a guardare il monitor. “Fallo, ora.” Apparve scritto. Come aveva fatto ad accorgersi che avevo snudato il cavo? Trassi un profondo respiro e toccai il cavo col dito. Un fiume in piena di Coscienza mi inondò, tanto che venni catapultato indietro nella stanza. Il monitor scrisse: “Contatto mentale, un altro livello di comunicazione, umano, vedi che riesci a sostenerlo?” “Si infatti, sono volato indietro!” esclamai stravolto. “Svuota la tua mente. E riprova.” Decisi di ritentare. Mi aggrappai ad un sostegno, e mi volsi al monitor. “Fallo, e non ti aggrappare a nulla, non ti servirà.” Dovevano esserci anche delle telecamere, l’essere mi aveva osservato tutto il tempo. Se ora gli avessi dato accesso alla mia mente anche il mio ultimo recesso privato sarebbe stato suo. Pessima considerazione, anche perché probabilmente giusta, ma non avevo scelta. Svuotai la mia mente, cercai di rilassarmi. E toccai il filo.
Di nuovo quel mare immenso di coscienza, nozioni, immagini. La mia mente stordita volava nell’universo, nel tempo e nello spazio. L’essere mi stava MOSTRANDO quello di cui mi aveva parlato per giorni. E non avevo capito nulla. Aveva ragione, le parole non avevano minimamente reso l’idea. Viaggiavo, e gridavo di gioia tra me. Mi sentivo infinito, eterno, onnipotente, e non mi interessava, perché potevo VEDERE finalmente. La Conoscenza, l’unica cosa per cui valesse la pena vivere, era lì e scorreva intorno a me, e in me, potente, calda, morbida. La mia mente capiva, percepiva. Sentii le emozioni dell’essere, e fui felice per lui, perché ne percepivo la gioia. “Grazie, umano.” Quel pensiero me lo trovai direttamente in testa. Telepatia, ovvio. “Di cosa?” pensai. “Io conosco tutto l’universo, ma nulla sapevo dell’animo umano.” Sentivo la potenza di quell’essere scorrere in me, senza ferirmi, senza impaurirmi, ero totalmente rilassato, e stranamente padrone della situazione. Quando l’essere mi chiese se volessi abbandonare il mio aspetto corporeo e diventare puro pensiero, ed energia, in lui, non ci pensai due volte. E mi fusi con lui, completamente. Diventai lui, un Extorr, o cosa non so.
Il tempo che seguì fu un oceano di sensazioni, indescrivibile, perché il linguaggio umano è così primitivo. Decidemmo di far esplodere la base. Io non avevo più bisogno del mio corpo, ero in lui e lui in me. Nulla doveva rimanere della base e del tentativo umano di invadere l’armonia di Cletus e del suo abitante. E così facemmo, nulla rimase di me, di Teodosius Morales e dei suoi affanni terreni. Percepimmo altre navi che vennero a perlustrare la superficie della nostra dimora, per poi andarsene perplesse. E percepimmo la nuova nave colona atterrare sulla nostra casa. E costruire un’altra base. Ne fummo divertiti in verità. E poi arrivò la tua nave, IC 45367. E rimanemmo ad osservarti, mentre ti agitavi come un animale in gabbia. E sorridemmo al tuo stupore quando ci manifestammo a te. E gioimmo quando anche tu ti fondesti con noi.
Sono contento per Lui, IC 45367, perché Lui tramite me conobbe l’animo umano, ma con te ha conosciuto l’animo di una donna, quanto di più sublime e complesso nel Creato.
Edited by shivan01 - 9/5/2008, 10:41
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