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salve a tutti, l'ho rivisto pesantemente, soprattutto il finale e riducendo il pistolotto iniziale, spero vada meglio
LA SENTINELLA
La fresca brezza di quella notte di piena estate carezzava le alture vicino Dover; l’erba alta frusciava piano, come il canto di qualche antica ninfa dei campi. La notte tersa, stellata, una luna prepotente a rubare la scena alle stelle. E una donna, sola.
Jenny si accoccolò a terra, avvolta nella coperta che portava con sé ogni volta, anche d’estate. Era sempre stata freddolosa e la veglia sarebbe stata ancora lunga quella notte, come per quelle passate e le prossime a venire. Era nata a Folkestone, ai confini col Kent, una tranquilla regione agricola che, in quei terribili giorni del 1940, brulicava di attività come mai nella sua storia. Il Reich aveva sferrato il suo attacco all’Impero, fatalmente. Il crollo della Francia e la rovina di Dunkerque avevano resa evidente quale sarebbe stata la prossima mossa dei tedeschi. Ma l’Inghilterra non era pronta per la Guerra. Al di là dei proclami di Chamberlain prima e di Churchill dopo, poco era stato fatto per prepararsi all’Inevitabile. La gente aveva vissuto abbastanza tranquilla fino a pochi mesi prima, forse a volersi negare cosa stesse per accadere, e magari anche un po’ per la solita presunzione di considerare gli eventi al di là di quello stretto braccio di mare che chiamavano Manica come cose di poco conto. La vita, così, andò avanti quasi immutata nelle valli del Kent come nella capitale e nel resto dell’Inghilterra fino a che, un giorno, la gente alzò lo sguardo, mentre cresceva potente un rombo da est. Il cielo di Londra si era colorato del grigio del fumo degli incendi, e riempito del frastuono delle esplosioni, e delle urla dei morenti. Da quel giorno non ce n’era stato più uno di pace. Le nere aquile naziste si materializzavano nel cielo, e vomitavano il loro carico di morte sulla città, tutti i giorni, e talvolta più spesso. La RAF, sempre a corto di uomini e mezzi, faceva miracoli per rallentare l’ondata assassina che giungeva dalle basi naziste in Francia e Olanda. Le perdite erano in rapporto di quattro a uno a favore dei difensori, ma i tedeschi continuavano ad arrivare, ancora, e ancora. Era stata istituita la Guardia Nazionale, un'invenzione di certo tardiva di Winston dell'ultimo anno, che permetteva alla RAF di essere sempre pronta e in azione dove realmente ce ne fosse stato bisogno. Erano in così pochi, i piloti, che disperdere le forze avrebbe significato morire inutilmente. Migliaia di uomini e donne scrutavano l'orizzonte a est, dalle scogliere intorno a Dover nel Sud dell'Isola, fintanto che la luce lo consentiva e anche di notte. Stavano di vedetta in cerca delle sagome minacciose dei bombardieri in avvicinamento, visibili in distanza di giorno, o annunciate dal cupo rombo dei motori di notte. Erano loro gli occhi dell'Inghilterra e del mondo ancora libero, che vigilavano scrutando l'orizzonte come soldati dalle torri di guardia di qualche antico castello. Jenny aveva deciso subito di farne parte; amava la sua terra, poco aveva visto del mondo nei suoi diciannove anni di vita, ma lei era felice lì, con le sue piccole cose quotidiane, e voleva battersi per salvarle. Il campo di volo della RAF, costruito in tutta fretta non lontano da casa sua, aveva portato per le strade di Folkestone migliaia di uomini. Gente comune, per lo più giovanissimi, con addosso divise spesso troppo grandi per le loro spalle immature. Avevano paura, si vedeva, ma non per questo si ritiravano dalla lotta, e perseveravano nel loro addestramento di volo prima e nelle missioni poi, anche se non passava giorno che qualcuno di loro non perdesse un amico, un conoscente. Jenny ammirava quella gente che aveva lasciato tutto per difendere la propria terra, e volle dare il suo contributo alla Causa, per quanto il suo essere giovane donna, e non istruita, poteva permetterle. Le avevano dato un monte di carte da firmare, un binocolo, una radio e una pacca sulla spalla. E da allora lei passava quasi tutte le notti su quell’altura, persa nei suoi pensieri. Non aveva paura, forse non si rendeva nemmeno troppo conto di quello che stesse accadendo a lei e al mondo. Non conosceva chi fossero questi “nazisti” che volevano invaderli, non ci aveva capito molto dai giornali e dalla radio, ma sembravano davvero gente cattiva.
Un rumore la distolse dai suoi pensieri. Tacque, immobile, in attesa. Stringeva nervosa la radio nella piccola mano, pronta a fare il suo dovere. Forse era stato un animale, o un tuono, non seppe dirlo. Il vento le portava dall’oscurità suoni lontani, sconosciuti. Aveva scoperto che la notte si vestiva di sensazioni, odori, suoni tutti suoi, trasformando in qualcosa di ignoto quella terra che aveva così ben conosciuto nelle giornate assolate passate da piccola con la sua famiglia, nei campi intorno a casa. Stette ancora in silenzio. Il vento da sud le portava l’odore del grano, ma non più altri suoni. Jenny si rilassò un poco. Ma il vento cessò per un attimo. E poi girò. Una folata da est, leggera, e ancora quel suono, ora inequivocabile. Motori. Motori in avvicinamento, anche quella sera. L’adrenalina alle stelle, Jenny costrinse sé stessa a restare immobile ancora qualche secondo. Doveva essere sicura. Le avevano raccomandato mille volte di essere certa prima di dare l’allarme, o la RAF sarebbe volata lontano, e la via verso Londra sarebbe stata libera per il Nemico. Un’altra folata, e non ebbe più dubbi. Erano anche tanti, ormai sapeva stimare il numero degli aerei solo dal rumore. Accese la radio in fretta e urlò concitata: “Qui Vedetta 147! Qui Vedetta 147! Arrivano! Mi sentite? Qui Vedetta 147! Arrivano! E sono tanti! Pronto mi sentite? Passo!” Rilasciò il pulsante di comunicazione, e attese per due lunghissimi secondi. Il rombo dei bombardieri ormai era udibile in modo piuttosto chiaro. Stava per ripetere il messaggio quando la radio gracchiò, restituendole una voce stanca, ma vigile: “Ripeti Vedetta 147! Hai sentito dei motori? Passo.” Lei rispose quasi mangiandosi la radio per farsi sentire: “Sono sicura! Ripeto sono sicura! Saranno almeno due squadriglie!” Rilasciò il pulsante e attese trepida, poi capì perché non riceveva risposta: “Passo!”, aggiunse. Avevano spiegato a lei come alle altre vedette concitate di definire “Squadriglia” ogni formazione a V che vedevano, e che equivaleva a sette bombardieri in genere. Era una stima grossolana, ma a quella gente comune non si poteva chiedere molto di più. “Due squadriglie hai detto? Passo!”, la voce dall’altro capo della comunicazione radio era ormai completamente sveglia. “Almeno! Almeno due! Passo!”, Jenny strabuzzava gli occhi verso il cielo sopra il mare nella vana speranza di poter vedere gli aerei, per poterli contare. “Ok Vedetta 147! Avviso il Comando! Resta in osservazione! Bel lavoro! Passo.” Jenny era contenta, aveva fatto il suo dovere, e sapeva che, forse, non le sarebbero toccate altre avventure per quella notte. Il suo turno finiva comunque alle sei, e sarebbe tornata a casa non prima di allora, alla luce di una nuova alba a illuminare le alte scogliere e il mare. Una scena meravigliosa che lei non si stancava mai di ammirare. Avrebbe indugiato lì ancora per quei magici dieci, quindici minuti, e poi sarebbe tornata a casa, dove l’aspettavano una meritatissima tazza di tè caldo e un lungo sonno ristoratore. Ora il rombo era molto forte e le parve di intravedere delle ombre, nere più della notte rischiarata dalla luna, arrivare da est. E le parve fossero proprio due squadriglie, circondate dai caccia, più piccoli e guizzanti, che volavano in formazione. Si stese sul prato, il naso all’insù, a guardare quella scena, con un misto di paura e stupore per quelle grandi macchine volanti che arrivavano da lontano. Jenny era una creatura semplice e tante cose ancora le suscitavano emozione e meraviglia. Quella notte udì però anche un altro rombo provenire da ovest. La RAF! Si volse in fretta in cerca degli aerei inglesi e le parve di intravederli sfrecciare verso i nazisti. I fari della base di Folkestone erano stati accesi, e dardeggiavano in cielo nervosi, alla ricerca dei velivoli tedeschi in avvicinamento. In assenza di qualsiasi altra luce, non c’era altro modo per guidare la caccia dei piloti inglesi. Jenny osservò rapita quel gioco di luci in cielo, che rubava la scena alla luna maestosa ma ancora bassa nel cielo a oriente. E tutto a un tratto, frecce di luce scaturirono tra i caccia inglesi e tedeschi, e una palla di fuoco rosso comparve dove prima c’era un nazista. Scie di fiamme cadevano come lacrime infuocate sulla campagna inglese, mentre i caccia intrecciavano le loro rotte in una selvaggia danza di morte tutt’intorno ai bombardieri che proseguivano la loro rotta verso la Capitale. Aveva saputo anche lei che i tedeschi subivano molte più perdite degli inglesi. Questo in realtà era dovuto alla maggiore manovrabilità degli Spitfire rispetto ai Messeschmitt, più lenti. Sapeva anche questo perché glielo avevano spiegato, ma lei preferiva pensare che i piloti inglesi fossero più bravi di quelli tedeschi, oltre che così carini. Una grande esplosione, e un bombardiere venne giù in una nuvola di fiamme, spezzato in due dalle deflagrazioni degli ordigni dei quali il suo ventre era carico. Gli altri proseguivano imperterriti. La RAF stava probabilmente facendo il massimo, pensava Jenny, ma sembrava non bastare. All’improvviso vide i caccia tedeschi virare e fuggire a est, e quelli inglesi inseguirli. La battaglia aerea si era spostata un po’ verso l’interno, all’inseguimento dei bombardieri che avanzavano, e ora tornava indietro verso di lei. Jenny osservava rapita, forse con una punta di morbosità, quel gioco di morte presentarsi a lei nel cielo, una danza che non sembrava avere fine, i caccia tedeschi in ritirata e quelli inglesi a non dare loro tregua. Provava una punta di apprensione per quei piloti in fuga, lontanissimi da casa. Ma solo una punta. Un aereo tedesco venne colpito, ma non esplose. Virò a destra, una scia di fumo scuro che si allungava nel cielo notturno, traslucida alla luce della luna, e un inglese che lottava col suo destriero alato per stargli dietro. Un’altra raffica di mitragliere, e Jenny vide del fuoco a illuminare un’ala. Il caccia rivolse il muso verso terra, nella sua ultima virata. L’inglese lo lasciò al suo destino e tornò in formazione con i compagni. Jenny seguì la scia di fiamme picchiare verso terra, finché il suo sguardo fu rapito da un particolare, una macchia bianca nel cielo, sospesa. Il caccia morente colpì il suolo non lontano da lei; un fragore potente e una leggera vibrazione del terreno la convinse che l’impatto non doveva essere avvenuto a più di due, trecento yarde. Ma lei non ci fece caso, guardava quella macchia bianca, silenziosa, planare verso terra, e le parve di vedere la sagoma del pilota tedesco appeso alle briglie del paracadute. Jenny osservò la traiettoria di caduta, e lo vide scendere verso una fattoria. Lei sapeva che là non c’era nessuno. Il vecchio John se ne era andato da un po’, da quando la casa gli era stata semidistrutta durante un’incursione ai primi di giugno. Non ci stette a pensare. Liberatasi dalla coperta, si alzò e corse verso la casa in rovina, non sapendo bene il perché, mentre vedeva il paracadute sparire dietro le fronde degli alberi intorno alla costruzione. Aveva corso attraverso un campo aperto, e non sapeva se il pilota tedesco l’avesse vista. Non che le importasse in quel momento, Jenny era mossa da una puerile, irrefrenabile curiosità. I rischi a cui andava incontro non le interessavano. Al limitare del bosco la ragazza si fermò, in ascolto. La battaglia su, in cielo, doveva essere finita perché non le arrivavano più rumori, ma lei non alzò lo sguardo per accertarsene. Era concentrata su quella macchia bianca, su quel paracadute e su ciò che le aveva portato. La casa, dietro gli alberi, era immersa nel silenzio della notte, tornato padrone dopo la battaglia. Lei non sentiva nulla, e decise di avvicinarsi. Si mosse silenziosa, quatta quatta nella vegetazione del sottobosco, e giunse al limitare della radura che ospitava la fattoria diroccata. “Povero John, che disastro!” fugace pensiero che le passò nella mente, come un albero che fugge via visto dal finestrino di un treno in corsa. Jenny sentiva dei rumori provenire dall’interno, e delle imprecazioni sommesse, più di nervosismo che di dolore, le parve di intuire. Il tedesco era vivo. Percorse in silenzio la radura fino ad acquattarsi sotto una finestra. Dall’interno, il rumore di un’anima in pena. Fruscii, mugolii, schiocchi, qualche sommessa esclamazione in una lingua che non comprendeva. Non seppe perché, ma si alzò e si affacciò alla finestra. L’interno, rischiarato dalla luna che entrava dal tetto crollato, era devastato, non c’erano più scale né piano superiore, ma solo un vasto ambiente nel più totale caos. La macchia bianca, il grande paracadute, pendeva dai monconi del soffitto, impigliato da qualche parte. Attaccato a esso, quasi a terra, ma penzolante e forse un pò ridicolo, un uomo in tuta da aviatore, con una folta chioma bionda, che si contorceva per liberarsi. Il tedesco la vide attraverso la finestra, rotta, senza vetri, e trasalì. Lei cacciò un urlo e si acquattò di nuovo, in ascolto. Silenzio dalla casa, solo il cigolìo delle corde del paracadute a tradire la presenza dell’estraneo. “Oh mio Dio! E cosa faccio ora?” Pensò Jenny tra sé. Quell’uomo era il primo tedesco che vedeva in vita sua, apparteneva a quel popolo che sterminava il suo da mesi, ma non le sembrava così diverso da quei bei ragazzi che vedeva girare per Folkestone. Anzi, sembrava uguale a loro. Girò intorno alla casa in cerca della porta d’ingresso. Era spalancata. Si affacciò e si ritrasse in un rapido movimento. Il tedesco era immobile, appeso lì come un insaccato a stagionare. Non sembrava tanto minaccioso. Fece di nuovo capolino, e vide che stava armeggiando nell’equipaggiamento con la mano libera, fin dove poteva arrivare, l’altra era intrappolata dai legacci. E la guardava fisso senza più parlare. Lei si ritrasse di nuovo, e poi decise di entrare. Si fermò nell’apertura della porta e trasalì. Il tedesco aveva una pistola in mano e gliela puntava addosso. Ecco cosa stava cercando! Jenny era paralizzata dal terrore, capace solo di alzare le mani a protezione. Un gesto inutile, ovvio, ma naturale. Passarono secondi interminabili. Lei lo guardava negli occhi azzurri, acquosi, impauriti come i suoi. La mano di lui tremava, ma non sembrava ferito. “Ha paura anche lui” pensò Jenny. Jenny fece un passo avanti e si fermò. Lui non reagì. Cosa fare non sapeva, lei, e forse nemmeno lui. Si guardarono fissi, immobili, per qualche teso momento. Il tedesco doveva essere molto giovane, non più di venticinque anni, poco più grande di Jenny, che, paralizzata dalla paura, stava lì, ferma nel riquadro della porta, la luce della luna a trasparire attraverso le vesti leggere di fine estate. Il tedesco le fece cenno con la pistola di avanzare, ringhiando a denti stretti una frase che sapeva che lei non avrebbe potuto comprendere. Avanzò ancora, piano, ormai erano vicini, lui la fissava ancora, immobile, la pistola ancora puntata su di lei. Jenny non aveva più paura, però, non credeva che le avrebbe sparato. Quando furono abbastanza vicini, lui fece uno strano gesto verso l’alto con la pistola. Lei dapprima non capì, poi vide che indicava il paracadute. Lui ripeté il gesto, e abbassò la pistola. Lei prese una sedia, ci salì su, ma i legacci erano aggrovigliati, e le sue piccole mani non potevano averne ragione. Si guardò intorno, e notò che il tedesco aveva un coltello legato alla cintura, dove la mano libera di lui non poteva arrivare. Senza pensarci, sfilò il coltello dalla custodia. Lui trasalì e si agitò. Le puntò di nuovo la pistola contro. Lei fece segno verso i legacci col coltello e lui, incerto annuì. Le mani di Jenny erano piccole, ma la vita di campagna le aveva donato una certa abilità e, con pochi colpi di coltello, il tedesco fu libero. Cadde pesantemente a terra e la pistola gli sfuggì di mano.
Lui rotolò da una parte, ma si rialzò prontamente e si girò verso di lei. Jenny era paralizzata, ancora in piedi sulla sedia; quel ragazzo vestito da guerriero le faceva paura, adesso. Il tedesco cercò con lo sguardo la pistola, per un attimo, e poi scattò su di lei. Jenny saltò giù dalla sedia e cercò di fuggire verso la porta, ma il tedesco l’afferrò per un braccio e la ragazza, sbilanciata, cadde a terra in torsione. Il tedesco fu su di lei in un attimo; supina, Jenny vide lo sguardo di lui, tra ciocche di capelli biondi che coprivano parte della fronte dell’uomo. Lui le afferrò il collo, tentando di strozzarla. La ragazza lottò picchiando con i piccoli pugni sulle braccia e sul viso contorto dall’odio di quell’uomo. Lei era atterrita, più dallo sguardo di lui che trasudava un odio che non capiva, che dal dolore al collo preso nella morsa delle mani del suo nemico. Jenny si agitava e si contorceva, tempestando di pugni il tedesco e cercando appigli a terra per trascinarsi via in qualche modo. Lui stringeva, senza parlare, e sembrava sbranarla con lo sguardo. La mano della ragazza non trovò appigli, ma si chiuse intorno a quello che doveva essere un pezzo di legno, forse la gamba di una sedia che magari tante volte aveva alleviato la fatica nei campi del vecchio John. Non ci stette a pensare; afferrò il bastone, o quello che era, e vibrò un colpo con tutta la forza che aveva. Colpì il tedesco alla tempia, e lui rotolò a terra, lasciando immediatamente la presa. Jenny non perse tempo a giudicare il suo stato, vide solo fugacemente che sembrava stordito e che si rotolava a terra tenendosi la testa. Poi la ragazza si rialzò e fuggì fuori, all’aperto.
Correva nella boscaglia con passi veloci e leggeri, la veste leggera a sventolare nella notte. Passò pochissimo, però, e sentì uno scalpiccìo nervoso guadagnare terreno su di lei. Si volse a guardare, e lo vide non lontano; correva con la pistola in mano, forse ci era rotolato sopra cadendo, un attimo prima. Gemendo tra sé, Jenny correva, correva per la sua vita, ormai aveva capito che quel mostro non si sarebbe fermato e l’avrebbe uccisa. Non si chiese perché, non aveva importanza. Sapeva solo di dover scappare. Ma non aveva idea di dove rifugiarsi. La campagna intorno a sé, Jenny la conosceva bene, e non c’era nulla a parte la casa del vecchio John; solo quella boscaglia e i campi coltivati che non le avrebbero dato alcun riparo. E allora continuò a correre alla cieca; le gambe ferite da rami e asperità del terreno, l’aria della notte indifferente a sferzarle il viso. Corse disperata, volgendosi a guardare indietro il suo inseguitore, aveva ancora un qualche vantaggio, e se fosse riuscita a nascondersi, magari… Magari lui sarebbe passato oltre, senza vederla. Chissà? Si ricordò di un fiumiciattolo che scorreva non lontano, il vecchio John attingeva alla sua linfa per i suoi campi, e gli tornarono in mente alcuni anfratti dove avrebbe potuto nascondersi. Corse verso il rigagnolo, allora. Il tedesco non doveva essere a più di venti metri da lei ormai. Ah sì! Avrebbe potuto nascondersi lì vicino, c’era una specie di rientranza della roccia, una specie di piccola grotta. Uno di quei posti segreti dei bambini, che se non si è cresciuti in un posto, non si possono conoscere. La scintilla della speranza a guidarla nell’oscurità della notte, Jenny seppe di essere forse quasi in salvo. Si volse a guardare correndo dove fosse il suo inseguitore, ma sentì quasi subito un dolore lancinante al piede. Doveva aver colpito un masso, qualcosa. La ragazza rovinò a terra, rotolando per un paio di metri. Il piede le lanciava fitte di dolore su per la gamba. Jenny tentò di rimettersi in piedi, ma fu di nuovo abbattuta a terra dal peso dell’uomo, che si era lanciato su di lei. Schiacciata sotto il suo peso, lo sentiva ringhiare frasi di odio che non comprendeva, poi si sentì tirare in piedi con violenza. Il tedesco la girò verso di lui con uno strattone, e lei approfittò del movimento per vibrargli uno schiaffo. Ridicolo, ma forte. Lei non era una guerriera, ma fece lo stesso voltare l’uomo per il colpo, i capelli biondi scossi per il movimento. Lei restò per un secondo lì, a guardarlo furente, ma poi l’altro si voltò verso di lei e le vibrò un pugno, forte, che la colpì subito sotto l’occhio sinistro. La ragazza crollò a terra, intontita. Si volse verso a guardarlo. Il tedesco torreggiava su di lei. La luce della luna che filtrava tra le fronde della boscaglia disegnava le sue forme minacciose. I capelli ancora più biondi a quella luce pallida. Jenny vide i suoi occhi, che sembravano tizzoni ardenti di odio, guardarla fissi. E vide l’altro occhio, quello nero di morte della canna della pistola, puntato su di lei. Era la fine, lo capì, finalmente. Stava per morire, e senza sapere perché. Lei, in fondo, della guerra, dei nazisti, sapeva ben poco, era solo una ragazzina che si affacciava alla vita con le speranze, puerili e preziose, di un’adolescente. Era tutto finito, Jenny lo comprese. Le sovvennero le cose che si aspettava per il suo futuro, e perfino il gusto di quella torta che sua madre stava preparando la sera prima, quando lei era uscita per andare di vedetta. Cose che non avrebbe visto, vissuto. Dolci che non avrebbe mai mangiato. Le passò tutto davanti agli occhi della mente in una frazione di secondo. E lei pianse di questo. “Non uccidermi ti prego…”, mugolò lei, “non uccidermi.” Non lo guardava nemmeno più, mormorava quella nenia con lo sguardo a terra, alle sue gambe ferite, al vestito lacero e sporco. Il tedesco non si muoveva. Dopo un attimo lei prese coraggio e alzò lo sguardo su di lui. Vide la canna della pistola tremare, come anche il suo sguardo. Le parve di leggere i suoi pensieri. L’addestramento gli diceva di sparare, ma doveva sembrargli una cosa inutile, assurda. Si guardarono a lungo, immobili. “Mi chiamo Jenny…” disse poi lei con voce tremolante, una mano sul petto a indicare se stessa. Il tedesco esitò, poi disse: “Hans…”, poi si portò un dito sulla bocca, “Sshhhh….” Ripose la pistola nella fondina, le rivolse un breve cenno di saluto, e fuggì nella notte.
Edited by shivan01 - 7/6/2008, 15:01
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