La Solita Storia
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La Solita Storia

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  1. federica68
     
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    Ok, andiamo.

    La solita storia



    Aveva piovuto tutto il giorno e tutta la notte.
    Marina aprì la finestra.
    Nel cielo, un ricordo di pioggia. Fiori bianchi, verdi trasparenze e profumi terrestri.
    Lumache.
    Terra bagnata.
    L'odore secco del mare.
    Profumi che aveva conosciuto bambina, e che a ogni pioggia le riportavano primavere antiche e ricordi senza volto. Solo l'odore. Ma senza nostalgia.
    Qualcosa tremava dentro di lei, come irreparabile e compiuto.
    E unghiate di tenerezza furente nella memoria del corpo, dal grembo al cuore.
    Tornò accanto a lui, gli posò le mani sul petto, i fianchi che aveva sognato per anni, quando non permetteva ai pensieri di superare le soglie della coscienza, imbrigliandoli nella razionalità, nei ragionamenti, con tutte le armi e le barricate che aveva levato davanti alla consapevolezza del desiderio continuo di lui.
    I sogni.
    I sogni erano stati devastanti.
    Temeva di pronunciare il suo nome ogni notte, quando la guardia del controllo incessante cedeva, stremata, al sonno.
    Sandro.
    Il cuore però sì, lo ripeteva; questo sì, perché il cuore non voleva saperne della cantilena continua, le obiezioni logiche e assennate del cervello. Lo ripeteva a ogni respiro. Una lama in mezzo al petto, un dolore fisico.
    Nei sogni le mani ignote di lui, baci, parole, l'affondo saldo e desiderato del suo corpo.
    Si svegliava con il batticuore.
    Che avesse parlato? Che avesse pronunciato quel nome nella passione impalpabile, immateriale del sogno? Tanto reale da sembrare di averlo vicino; ma non era lui.
    Franco respirava tranquillo accanto a lei, distante anni luce, come se niente fosse accaduto. Non quella tempesta assassina, non quell'ansia estenuante, non quelle folli immagini ricacciate, rinnegate e cercate, quegli occhi azzurri di inconsapevole dolcezza, quelle mani che spiava sulla tastiera, con appena un poco di peluria sul dorso, forti, maschili, e in un lampo le sentiva sul seno, sul ventre, sui fianchi.
    Fremeva e distoglieva lo sguardo, allora. Anche quello della mente.
    Ci provava, almeno. Ma lui era sempre là.
    Non poteva pensarlo con l'altra, sua moglie, ma neppure con lei. Senza contare che lui non sapeva nulla di ciò che Marina aveva dentro.
    Due anni.
    Talvolta il tempo restava sospeso a mezz'aria, quando i loro sguardi si incontravano al di sopra delle scrivanie.
    Ma forse era solo lei ad avvertirlo. Non voleva credere che fosse vero. Non poteva permetterselo.
    Non poteva corrergli dietro come una ragazzina alla prima cotta.
    Trentatré anni, aveva.
    Stefania la guardava, allora.
    Stefania sapeva tutto. Con lei si confidava.
    “Ha capito qualcosa?”
    Alla fine, negli ultimi tempi, Ste annuiva, sorrideva a metà.
    Un vuoto improvviso allo stomaco, come a quindici anni. Speranza e terrore.
    “Lo credi davvero?”
    “Ho visto come ti guarda”.
    “Non vuol dire niente”.
    “Vuol dire, invece. È molto controllato, però”.
    “Grazie tante. Non potrebbe far altro”.
    “Potrebbe anche buttarsi, fra un po'”.
    Terrore e speranza.
    Marina rideva, ma era un riso forzato, dolente. Aveva lacrime, dentro, quella risata.
    “Come no, buttarsi. Dalla finestra. Piantala, Ste. Non lo farà mai”.
    Marina sapeva che se lui si fosse “buttato”, come diceva Stefania, lei non avrebbe avuto la forza per resistergli. Così lo evitava con ogni cura. Ma agli occhi no, non poteva impedire di cercarlo. E al cuore di fermarsi, quando lo guardava.
    Due anni così. Due anni! Una vita.
    Non sapeva nemmeno come ci fosse riuscita senza impazzire. Forse solo sbarcando un giorno dopo l'altro, una notte dopo l'altra, ancorata a quelle frasi convenzionali che si scambiavano in ufficio.
    Avevano parlato solo e sempre di lavoro. Non erano mai andati a mensa insieme, neppure le aveva mai offerto un caffè.
    Che situazione assurda!
    Si comportava come se la detestasse. Marina era la sola con cui non avesse mai fatto nessuna di queste cose normali fra colleghi, o non avesse mai raccontato niente di ciò che faceva fuori. Era diventato un pantano. Non avrebbe potuto certo iniziare ora, dopo tutto quel tempo.
    Secondo Ste era la sua difesa. Se l'avesse lasciata entrare, anche appena uno spiraglio, non sarebbe più stato capace di mantenere la corazza delle apparenze.
    Ma anche lei non era stata da meno.
    “Mi fa paura, Ste”, ripeteva alla sua amica. “Mi pare che potrebbe travolgermi e distruggermi”.
    “Ma vuoi che succeda”.
    “Sì e no. È tremendo, Ste. Non mi sono mai sentita così”.
    Negli anni si era chiesta spesso se fosse amore o solo attrazione fisica. Ammesso che le due cose potessero andare disgiunte, per lei. Ma era una domanda oziosa, un'altra difesa. Una domanda inutile, dal momento che non se ne sarebbe fatto nulla.
    Che lo amasse o meno non faceva differenza.
    Entrambi avevano la loro vita, e lei aveva deciso di rispettare la sua, di non interferire in nessun modo.
    Da vaghi accenni carpiti in altre conversazioni, sapeva che con sua moglie non andava troppo bene. Quella stupida! Un uomo come Sandro! Marina avrebbe dato degli anni della vita per trovarsi al suo posto. Poi tornava a fatica sulla terra, si rendeva conto che Franco non aveva parte in quei pensieri, e si sentiva ignobile e sporca.
    Franco era un altro discorso. Non sapeva bene come fosse, non capiva quando era successo.
    Anzi, lo sapeva, ma non voleva dirselo. Era ammettere di aver sbagliato tutto.
    Franco era uno di quegli amori adolescenti, quei fidanzamenti sopravvissuti dai banchi di scuola a quelli dell'università, la classica coppia fissa. Dopo la laurea, con il lavoro sicuro, si erano sposati come un atto logico e dovuto. Avrebbero potuto non farlo?
    Ma c'era stato un momento in cui Marina, sgomenta, lo aveva all'improvviso visto come un estraneo capitato per caso nella sua vita.
    Aveva lottato.
    Lo amava, si era detta. Era solo un momento così, era per la stanchezza, il lavoro a cui non era ancora abituata. Sarebbe passato.
    Non era passato, invece.
    Ne aveva parlato con lui. Credeva che avessero sempre parlato di tutto; invece ebbe il sospetto che non fosse così, quando avvertì il viso di Franco chiudersi.
    “Sono tutte idee tue. Non è cambiato niente”.
    Gelo. Gli occhi castani la guardavano da una distanza abissale. O non capiva davvero, o lo sapeva anche lui senza volerlo ammettere. Aveva sentito morire qualcosa, in sé. Non aveva mai provato una delusione tanto definitiva e totale. Ne aveva vacillato dentro.
    Era un muro di gomma, con lui. Le faceva rimbalzare contro tutto ciò che diceva, tutti gli argomenti che cercava, tutti i tentativi di riaccendere quella specie di stoppino fumigante che era diventata la loro vita insieme.
    Aveva cercato di convincersi. Alla fine lui avrebbe capito che il discorso andava affrontato, ma quando Marina ci provava, la risposta era sempre la stessa.
    “Non è vero. Non è cambiato niente. Sei tu che fai andare tutto a ramengo, con le tue continue domande, con tutti questi dubbi. Sono seghe mentali”.
    Punto.
    La piena montante dello sconforto l'aveva sommersa, in certi momenti sconfinando nella disperazione.
    Non poteva finire così. Non un amore come il loro. Perché si erano amati. E tanto.
    Perché Franco non voleva capire? Perché non voleva parlarne?
    Era la sola vita che avevano, e lui era il solo uomo che avesse mai amato, la forma della sua anima. Non poteva accettare che il loro amore finisse così, senza un sussulto, senza un perché, come se non fosse mai esistito, dimenticato come un ombrello rotto in qualche sala d'aspetto vuota.
    Passava le notti a piangere di frustrazione, finché si addormentava stremata, per poche ore. La sveglia suonava sempre troppo presto, scaraventandola in un presente di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
    Da un po' si vociferava in ufficio di questo Marchelli che doveva prendere il posto di Antonella che era andata in pensione, beata lei. L'attesa era grande. Correva voce che fosse un gran bel ragazzo, e intelligente.
    Sciocchezze. Marina aveva liquidato quei pronostici come discorsi di zitelle sconfitte, prossime a una menopausa acida e vendicativa.
    Quando lo aveva visto lo aveva trovato insopportabile.
    Non che avesse fatto niente di male, era stato gentile con tutti, non si era messo subito in mostra, aveva cercato di imparare da chi aveva più esperienza, mandando in brodo di giuggiole quelle cretine che trillavano attorno alla sua scrivania neanche avessero tredici anni.
    Deficienti. E lui idiota. Un bell'uomo, Marina non diceva di no, ma vuoto, insulso.
    Fine del discorso.
    Poi qualcosa era successo. All'inizio, constatazioni; era bello davvero. Un atleta, un fisico da nuotatore, nonostante i suoi trentanove anni. Gli occhi, una grotta segreta in cui il vero Sandro sembrava attendere qualcosa. O qualcuno.
    Quando si avvicinava per chiedere qualcosa -sempre sull'argomento lavoro, per carità- quegli occhi indugiavano una frazione di secondo di troppo in quelli di lei. Scendevano sulle labbra, socchiudendosi un poco fra le lunghe ciglia nere. Sul seno, le mani. Tornavano su, agli occhi.
    E in fondo, forse, non era poi tanto vuoto.
    Con gli altri parlava di tante cose, dei suoi interessi, delle sue passioni. Marina origliava trattenendo il fiato, fingendo di continuare a scrivere.
    Gli piaceva la musica, gli piaceva leggere, sapeva parlare quasi di tutto. Non con lei, però.
    Senza quasi saperlo aveva preso a desiderare quegli sguardi, a spiarlo quando si alzava, sperando che venisse da lei, il cuore in subbuglio.
    Ste, sono arrossita? chiedeva le prime volte, con gli occhi. Stefania, ormai, non aveva più bisogno d'altro che di un'occhiata interrogativa da parte sua per conoscere la domanda.
    Ste scuoteva il capo. No, tranquilla.
    “Controllatissima”, le aveva detto una volta, alzando il pollice come un imperatore romano.
    Avrebbe dovuto chiedere un qualche trasferimento, andarsene.
    Sapeva che succedeva a causa dell'insoddisfazione con Franco, non credeva a questi amori fulminanti e travolgenti. Non ci aveva mai creduto.
    Ma non l'aveva fatto. Viveva per quegli sguardi sottili, per sentire i suoi occhi azzurri sulle labbra, sul corpo, come una carezza, come il segreto sapore della bocca di lui.
    Stupida, si ripeteva.
    Franco era un contorno alla sua vita, ormai. Ci fosse o non ci fosse, faceva lo stesso. Quando non c'era, meglio. Sembrava lo facesse apposta. Quanto più lei si aggrappava con le unghie e i denti ai buoni propositi, tanto più Franco si impegnava a frantumarli. Indifferenza, risposte nervose o piccate, ironiche o sarcastiche erano la norma.
    Marina aveva consumato tutte le lacrime. La notte restava a lungo con gli occhi spalancati nel buio, ad ascoltare il cuore impazzito, il suo tumulto in gola le mozzava il respiro per ore. A ogni risposta acida di Franco si rifugiava nel pensiero di Sandro, come in un bozzolo di dolcezza. Non voleva farlo, sapeva che era un tranello, ma ormai il meccanismo scattava da solo, non era più in grado di controllarlo.
    Era stato allora che i sogni si erano fatti più vividi e frequenti.
    Poi era successo.
    Si erano incontrati vicino alla macchinetta e le aveva offerto il caffè.
    Le aveva raccontato qualche aneddoto dell'ufficio, che lei non aveva neppure ascoltato, con quel turbine che aveva nelle orecchie e nel petto.
    Stupida. Vedeva solo i suoi occhi, le sue labbra, indovinava la peluria sul petto sotto la camicia in ondate di desideri inconfessabili. Soprattutto a se stessa. Gli avambracci sotto le maniche rimboccate le davano fremiti ignoti.
    Stupida, stupida! Smetti di guardarlo così! Gli farai capire tutto.
    Dal caffè casuale erano passati a quello concordato, poi la mensa, qualche volta il gelato all'uscita, e gli sguardi dei colleghi cominciavano a farsi maliziosi e allusivi.
    Non facciamo niente di male, si ripeteva. Che male c'è? È un collega con cui mi trovo meglio che con altri.
    Ma sapeva che non era così.
    Lo sapevano entrambi.
    Ed era rotolata giù lungo la china, fino a trovarsi fra le sue braccia, un tardo pomeriggio, con la sua bocca che la divorava, folle di una sete durata due anni, senza lasciarle il tempo di respirare, di allontanarsi, di respingerlo. Aveva risposto al suo bacio nello stesso modo.
    Erano finiti ad amarsi dissennatamente, in macchina. In macchina! A più di trent'anni! Cercandosi con le labbra cieche, come assetati nel deserto, gridando, mordendosi. Gli aveva graffiato la schiena, le spalle, le braccia, piantandogli le unghie nella carne. Era sprofondato in lei come radici nella terra, per sempre.
    Ed era restato là, così, dopo, ancora a lungo, baciandola lieve come una brezza.
    Erano tornati alla realtà.
    “Sandro”, mormorò. “E adesso?”
    Aveva sorriso, dolcissimo.
    “Adesso niente”.
    “Come niente?”
    “Non ora. Ne parliamo dopo”. Aveva chiuso gli occhi mentre lui la baciava sulle palpebre, sentendosi un essere disgustoso. Aveva cancellato Franco. Non subito, però. Per un attimo, quando aveva sentito il ginocchio di Sandro spingere contro l'interno della coscia, e poi lui dilagare all'infinito, aveva avvertito come un senso di straniamento: era l'abitudine al corpo di Franco, al suo peso familiare, alle sue proporzioni. Un attimo, poi si era persa con lui in spazi mai conosciuti prima.
    Tornata a casa, se lo sentiva scritto in faccia, nel corpo, sulla fronte come il marchio infamante di Caino. Sentiva l'odore di Sandro sulla pelle; possibile che suo marito non se ne accorgesse? Doveva aver capito di sicuro. Rispondeva alle domande di rito di Franco immaginandovi allusioni.
    “Tutto bene in ufficio?”
    “Sì, tutto normale”.
    Occhi bassi.
    “Hai fatto tardi”.
    Un colpo al cuore. Aveva forse chiamato in ufficio? Improbabile: avrebbe telefonato a lei. Il cellulare era restato acceso per tutto il tempo.
    “C'era una grana da sistemare. Ho fatto più presto che ho potuto”.
    Andata. O non aveva telefonato, o aveva capito tutto e aspettava di coglierla in fallo.
    Brividi. La sensazione del corpo di Sandro non svaniva. Ripensava fremendo alla sua voce, al suo peso, alle sue labbra, all'esplosione del piacere che non aveva mai vissuto. Non così. Pieno e totale, bruciando come una fenice, annullando se stessa, abbandonata fra le braccia di lui come se non dovesse avere mai fine, risorta dalle ceneri dell'amore assoluto per piombare sulla terra reale e senza risposte vere.
    Franco l'aveva cercata quella notte. Non si era ritratta come al solito, le sembrava un modo di riparare all'errore commesso. Ma aveva pianto, dentro, di rimorso e vergogna. Non gli aveva mai mentito con tale profondità. Anzi, non gli aveva mai mentito e basta.

    Era passato un anno.
    Si erano barcamenati fra straordinari inventati, fasulle cene fra colleghi, i viaggi di lavoro di Franco che lasciavano libera la casa, e la casetta al mare di Ste.
    Ma non avevano deciso niente. Sandro le ripeteva di amarla come non aveva mai amato nessun'altra, e lei ci credeva, era felice quando lui le parlava così. Era pazza di lui.
    Sandro, però, accampava scuse, diceva che sua moglie andava preparata poco per volta, che non poteva fulminarla così, girava intorno all'argomento.
    Marina intanto si tormentava.
    Non poteva vivere senza Sandro, e non poteva pensare di lasciare Franco adesso.
    Soffriva della vita sdoppiata, ma più di tutto non tollerava di continuare a mentire a Franco in quel modo. Non lo meritava. Nessuno lo meritava, lui meno ancora. Non le aveva fatto niente; o forse sì, pensava, era colpa sua, della sua indifferenza, del suo non rendersi conto d'altro che di ciò che lo riguardava. Il suo piccolo mondo circoscritto iniziava e finiva con lui, gli altri erano un contorno. Anche Marina. Aveva provato ancora ad affrontare l'argomento ma non aveva ottenuto che le solite risposte freddine e nervose.
    Era invischiata in una palude da cui non sapeva come uscire.
    Stefania l'aveva sempre coperta, ma non poteva andare avanti all'infinito.
    Molte volte aveva passato i week-end chiusa in casa per non correre il rischio di incontrare Franco per strada, dopo che Marina gli aveva raccontato di essere partita con lei per trascorrere due giorni nella sua casa al mare.
    Vi era andata con Sandro, invece. Giorni e notti di passione sfrenata. Ovunque. Sul tavolo, sotto la doccia, sul tappeto, a qualunque ora del giorno e della notte. Chiudevano le imposte per non essere visti, e giravano nudi per casa; mangiavano svestiti per non perdere tempo a spogliarsi, e spesso la bistecca si raffreddava, mentre facevano l'amore per terra, con furia e dolcezza struggente, su un improbabile letto di cuscini strappati in fretta dal divano.
    Marina non si sarebbe mai aspettata da se stessa tutto questo.
    E poi fingere di essere una coppia normale, svegliarsi insieme all'alba e trovare le sue labbra, i suoi occhi, non doversi nascondere, camminare mano nella mano in riva al mare. Uscire la sera per una pizza, per il cinema, senza l'assillo che qualcuno potesse vederli. Baciarsi sotto i lampioni come due quindicenni. Ridere di nulla, di una vela, di un soffio di vento; inseguirsi nel parco e fermarsi abbracciati a guardarsi negli occhi, felici come due bambini l'ultimo giorno di scuola.
    Erano loro due soli, la vita era per loro, e il mondo, il mare, la spiaggia e il tempo davanti, l'eternità intera.
    Ma era tutto per finta. Non le bastava più, la sua vita non era un gioco. Era la sua vita.
    Sentiva venuto il momento di uscire dalla clandestinità, urlare il loro amore al mondo, pensasse quello che voleva.
    Fu allora che, con una punta di angoscia, cominciò a rendersi conto che per Sandro non doveva essere lo stesso.
    Quando Marina gli parlava del futuro che immaginava per loro, diventava evasivo e distratto, si innervosiva persino, talvolta.
    Il suo modo di fare era diventato intollerabile, per lei. Si trascinava da troppo tempo.
    “Ste, è solo una storia di sesso”, concluse una sera Marina con la sua amica. “Non so cosa farmene. Non mi ama davvero, e forse neppure io”. La sua voce era amara, rivelava una sofferenza profonda.
    “Non ci credo”.
    Marina scosse il capo. “Non crederci. Ma è come ti dico io. Ieri ha detto per la centesima volta che è presto per parlare con lei”.
    “Ma neppure tu hai parlato a Franco”.
    “Lo so. Forse è solo vigliaccheria, la mia. Ma non voglio ferire Franco: gli voglio bene davvero. Non lo amo come una volta, ma gli voglio bene come a un fratello, Ste”.
    “Non lo fai per Franco. Lo fai per te”.
    “Sì, lo so, ma non riesco a fare altro, adesso come adesso. Non è così facile. Sto con Franco da quasi vent'anni, Ste. Mi faccio schifo, per come mi sto comportando. Devo risolverla, in qualche modo”.
    La guardò in viso. “Ste, non le dirà niente. Non le parlerà”.
    Così, adesso era accanto a lui, dalla finestra aperta della casa di Stefania guardava i fiori bianchi ondeggiare, nel primo sole dorato.
    “Sandro, hai deciso quando parlerai con Manuela?”
    “C'è tempo. Adesso vieni qui”.
    La baciò sul collo. No. Se glielo avesse lasciato fare, non sarebbe più stata capace di dirgli quello che voleva. Se avessero fatto ancora l'amore, non ci sarebbe riuscita.
    Si irrigidì.
    Sandro la guardò stupito.
    “Che c'è?”
    “Sandro, non possiamo continuare così”.
    Lui si incupì. Ci siamo, pensò lei.
    “Cosa vorresti da me? Non devi soffocarmi, lo sai. Ho i miei tempi”.
    “È un anno che andiamo avanti così. Basta, è ora di prendere una decisione”.
    “Non posso parlarle adesso”.
    “E quando?”
    “Più avanti”.
    “Quanto più avanti?”
    “Marina, ho detto più avanti. Quando sarà il momento”.
    Marina sentì campane a morto nel cuore. Quel momento non sarebbe venuto mai, per lui. Aveva deciso con se stessa che questa sarebbe stata la sua ultima possibilità. Se le avesse risposto di nuovo così, lo avrebbe lasciato.
    Abbassò gli occhi. Si staccò da lui. Come in trance, cominciò a vestirsi. Sapeva che se avesse parlato sarebbe scoppiata a piangere e non sarebbe riuscita a mantenersi salda nella sua decisione.
    Sandro la guardava incredulo.
    “Cosa fai?”
    Non riuscì a rispondere.
    “Marina, cosa fai?” Nella sua voce, angoscia.
    Scosse il capo. Le lacrime la accecavano. Credeva che sarebbe caduta a terra e sarebbe morta. Qualcosa le si stava strappando dentro, da qualche parte nell'anima, nel petto. Si augurò che fosse un'arteria, che scoppiasse e la uccidesse.
    Lo guardò.
    “Marina...”, adesso piangeva anche lui. Aveva capito.
    No, no, non avrebbe dovuto farlo. Non era preparata a questo. Non sarebbe riuscita a non abbracciarlo, a non cercare di cancellare quelle lacrime.
    Invece ci riuscì, facendosi violenza. Artigli di ghiaccio nel cuore. Tutto girava, attorno a lei, sprofondava in una voragine nera.
    “Non lasciarmi. Le parlerò, te lo prometto”.
    Fu tentata di crederci. Ma no. Non era la prima volta che glielo prometteva, poi trovava sempre una qualche scusa adatta per non farlo.
    Voleva morire, dimenticare, sparire.
    “Ti amo, Sandro”. Non seppe dire altro.
    Lo lasciò solo, fuggì giù per le scale, poi per la strada, verso la stazione, il treno, verso casa.
    Non ricordava più come funzionava il telefono, tanto era sconvolta; non sapeva come fare per chiamare Ste. Infine ci riuscì. Ma non poté parlare, solo singhiozzare, allarmando Stefania.
    “Marina, dove sei? Marina! Cos'è successo?”
    Lo sapeva cos'era successo, le aveva detto che lo avrebbe fatto.
    Si calmò, le raccontò tutto. Ste le disse che l'aspettava a casa sua con la cioccolata calda. Cara Ste!
    “Ce la vuoi la panna, eh? Che ne dici?”
    Marina rise tra le lacrime.
    “Dai, vado a comprare la panna e quando arrivi te la preparo, vuoi?”
    Quanto le voleva bene!
    “Dai, Mari, ti aspetto”
    Durante le due ore di viaggio, lottò con se stessa per non chiamare Sandro e dirgli che si era sbagliata, che potevano ricominciare tutto daccapo.
    Guardava fuori dal finestrino, la fronte bollente appoggiata al vetro, respirava a fatica, il peso immane del mondo conficcato nel mezzo del petto. A quell'ora della domenica mattina il treno era quasi vuoto; altrimenti, se qualcuno l'avesse vista, l'avrebbe presa per ubriaca, ne era certa.
    Anche Sandro non la chiamò, però. Non un segno di vita. Neanche per chiedere una spiegazione, un perchè che lei non gli aveva dato.
    Stronzo, pensò. Non aspettavi altro, eh?
    Il lunedì si diede malata e decise di chiedere il trasferimento, quello che avrebbe dovuto chiedere tanto tempo fa. Non poteva pensare di trovarselo accanto ogni giorno. Ormai la loro storia era il segreto di Pulcinella, tutti li guardavano e ridacchiavano sotto i baffi da un bel pezzo.
    Non li avrebbe tollerati, né loro né lui. Non subito, almeno. Poi, dalla settimana successiva avrebbe fatto il possibile fino al trasferimento. Sempre se fosse arrivato, ma ora non voleva pensarci.
    Stefania passò a trovarla, uscendo dall'ufficio, quella sera. Franco non era ancora rientrato. Marina aveva gli occhi gonfi, rossi, era in uno stato da fare pietà.
    Parlarono per un po'.
    “Franco non meritava tutto questo. È tutta la notte che ci penso. Sono stata una stronza. Avevo sempre pensato che non sarei mai stata capace di fare una cosa del genere. Credevo di essere tutta d'un pezzo, coerente, leale, e invece, guarda un po'”.
    “Anche lui, però, non ha fatto niente per impedirlo”.
    “Va bene. Ma io devo guardare quello che ho fatto io. Recriminare non serve”.
    “Allora hai deciso?”
    “Sì. Ce la metterò tutta per recuperare le cose con Franco, Ste. Glielo devo, devo almeno provare”.
    “Lo ami ancora?”
    “Gli voglio bene. È meglio di niente”.
    Stefania tacque per un po'. Quando parlò sembrava imbarazzata.
    “Marina...”. Esitava. “Devo dirti una cosa”.
    “Dimmi”. Qualunque cosa fosse, non poteva farle più male di quanto se ne fosse fatto da sola il giorno prima.
    “Sandro... si è licenziato”.
    Balzò su dal divano.
    “Cosa dici!”
    Ste abbassò lo sguardo.
    “In tronco? Non è vero!”
    “È la verità. Siamo rimasti tutti basiti”.
    “E i tre mesi di preavviso?”
    “Ha rinunciato. Pagherà la penale sulla liquidazione, dicono”.
    “È impossibile!”
    Ste scosse il capo.
    Era vero.
    Dopo un lungo silenzio, Marina chiese: “Dove è andato? Lo hai saputo?”
    “In Francia. Un lavoro meglio pagato. Pare che avesse poco tempo per decidere”.
    Marina spalancò gli occhi. Non riusciva a dare alle parole di Stefania un senso logico.
    “Era prendere o lasciare, Marina”.
    “E lui ha preso, è così?”
    La sua voce era stanca, triste. Si sentiva distrutta. Era finita davvero. Bé, non era quello che voleva? Non lo aveva lasciato per questo?
    “Marina...”
    “Cosa c'è?”
    Stefania le prese la mano e sospirò. La guardò negli occhi.
    “La lettera di dimissioni porta la data di quindici giorni fa”.

    Benissimo.
    Avrebbe dovuto saperlo da subito che il destino di storie di questo genere non può essere altro.
    Marina respirava a scatti, la rabbia la soffocava.
    Certo, che stupida. E lei che credeva di amarlo. Anzi, lo amava proprio. E quel che è peggio, aveva creduto che lui l'amasse! Quel bastardo. Gli interessava solo una cosa, come al solito.
    Ma non si sarebbe più fatta fregare. Oh, no! Certo che no! Gliel'avrebbe fatta pagare a quello stronzo. Aveva pure fatto la sceneggiata, aveva pianto, anche. Non lasciarmi... Con che coraggio! Lui aveva già fatto e disfatto tutto come gli era convenuto di più.
    E lei a soffrire come una deficiente! A sentirsi in colpa verso tutto e tutti.
    Adesso basta! Era ora di finirla.
    Dopo il primo momento di shock, Marina si era sentita crescere dentro quel furore sconosciuto.
    “Ste, sai come rintracciarlo?”
    “No, non so dov'è andato di preciso. Se vuoi mi informo”.
    “No, lascia stare, ho un'idea migliore”.
    “Marina, sei impazzita? Cosa vuoi fare?”
    “Io? Niente”, ghignò.
    Stefania non l'aveva mai vista così.
    “Mari, calmati”.
    “Calmarmi? Sono calmissima!” ansimò. Aveva lacrime negli occhi, ma di rancore e furore.
    “Non mi pare”.
    “Ti dico di sì”. Le sue labbra erano tese sui denti, bianche. Stefania si preoccupò.
    “Ste, ce li hai ancora quegli orecchini e quel collier che mi ha regalato per il mio compleanno?”
    Li teneva in consegna; Marina non poteva portarli a casa propria, Franco avrebbe fatto troppe domande, la conosceva bene: lei non si era mai comprata da sé niente del genere.
    “Sì, ma...”
    “Hai anche i vestiti?”
    “Sì, sì, ho tutto io, ma...”
    “Domani portameli. Voglio tutto quello che mi ha regalato”.
    “Marina...”
    “Ste, so quello che faccio”. Adesso respirava quasi normalmente.

    Marina guidava verso la zona collinare.
    Sandro aveva una casetta là, nel bosco. Una specie di chalet. Ci erano stati solo una volta, però, perché lui temeva che Manuela potesse notare qualcosa.
    “Sai come siete voi donne”, ripeteva. “Vi accorgete sempre di tutto. Se dovesse notare che il letto o qualche altra cosa non è come lo ha lasciato lei...”
    Sul sedile del passeggero portava una grossa scatola, di quelle che si usano per riporre negli armadi i vestiti che nessuno usa mai. Dentro, la sua vita con Sandro. Le sue illusioni, la sua umiliazione, la sua rabbia sorda. Un vestito del cuore che non avrebbe indossato mai più.
    La nebbia leggera che stagnava a mezz'aria sui campi umidi era un degno contorno ai suoi pensieri astiosi.
    A tratti si sentiva un po' ridicola, due o tre volte pensò che forse era meglio lasciar perdere, e fu sul punto di fare inversione e tornare sui propri passi. Ma poi il pensiero della falsità di lui, di come l'avesse usata, riaccendeva il furore.
    Lo chalet nel bosco silenzioso sembrava la casa delle fate.
    Ma Marina non si accorgeva quasi di quell'atmosfera magica e tenue.
    Scese dall'auto, e con il contenuto della scatola formò un mucchietto compatto sotto la veranda. I vestiti, le lettere, i foulard, tutto quello che lui le aveva regalato, tutto quello che ancora la legava a lui.
    Poi prese l'accendino.

    Qualche giorno dopo, un'auto verde scuro parcheggiò nello stesso luogo dove Marina si era fermata con la sua Panda.
    Sandro, prima di scendere si sporse a baciare la ragazza bionda che sedeva accanto a lui.
    “Dai, vieni, andiamo dentro”, sussurrò sulle sue labbra.
    Scesero e si avviarono.
    “Cos'è quella roba?”, chiese lei indicando qualcosa sotto la veranda.
    “Che t'interessa?”, mormorò Sandro al suo orecchio. “Sarà un mucchio di foglie secche. Qui c'è sempre il vento”.
    “Sandro, guarda!”, esclamò lei, indicando la piccola massa nera.
    “Guarda co..”, la voce gli morì in gola.
    Sui resti del piccolo falò, dal quale si era salvato qualche brandello di stoffa che lui conosceva molto bene, era disposto con garbo un fine collier d'oro, con tutte le sue pietre in bella vista. All'interno del quasi perfetto cerchio dorato, appogiati con simmetrica precisione due orecchini con le stesse pietre e la stessa lavorazione.
    Sandro boccheggiava, mentre la ragazza raccoglieva un foglietto, infilato con cura in una bustina trasparente e fissato con una puntina da disegno a un rametto piantato nella cenere.
    Le ragazza lesse ad alta voce.
    “Potrebbero sempre venirti utili”.

    Edited by federica68 - 8/6/2008, 20:30
     
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  2. shivan01
     
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    bello, molto intenso.
    Una storia "comune", purtroppo, come dici pure nel titolo.
    Comunque ben scritto. Lo stile tradisce l'ansia e l'incazzatura che ci stanno in questi casi

    Voto 4 per l'intensità
     
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  3. federica68
     
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    :wub: grazie :wub:
     
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  4. isotta
     
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    Fede, molto bello, emozionante, intenso, scritto benissimo.
    Voto 4 perché sei riuscita a rendere emozionante una storia di per sé banale.
     
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  5. federica68
     
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    :wub: grazie stellina
     
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  6. tar-alima
     
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    Ben descritta questa situazione, e molto facile riconoscere i meccanismi della mente femminile, dalla capacità di autoillusione all'accontentarsi di un rapporto mediocre.
    Lo stile è discreto, però ho trovato il racconto un po' pesante, privo dei piccoli elementi di sorpresa/rottura che rendono speciale una storia di per sé banale. Anche il sesso praticato con tale assiduità mi lascia perplessa: dico, tutto, ma lasciare lì la bistecca poi! Sarò una pappafredda?
    Scherzi a parte, voto 2. Oggi sono "stretta". :xixi:
     
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  7. federica68
     
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    CITAZIONE (tar-alima @ 2/6/2008, 13:04)
    dico, tutto, ma lasciare lì la bistecca poi!

    :lol: :lol: :lol:
    a loro gli veniva così... :lol: :lol:

    grazie comunque :wub:
     
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  8. giobuzi
     
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    Anch'io l'ho trovato intenso e toccante, ma anche un po' scontata la storia. Come ha detto già qualcuno, pur ben scritto, ci sarebbe voluto un qualcosa in più per fare di questo racconto non "La storia storia".
    Un saluto,
    giò

    voto 2
     
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  9. federica68
     
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    grazie lo stesso per averlo letto giò :wub:
     
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  10. giobuzi
     
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    QUOTE (federica68 @ 2/6/2008, 17:47)
    grazie lo stesso per averlo letto giò :wub:

    è stata una piacevole lettura, il mio commento vuole essere solo uno sprone a, forse, rendere ancora più interessante il racconto.
    giò :D
     
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  11. federica68
     
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    CITAZIONE (giobuzi @ 2/6/2008, 19:42)
    è stata una piacevole lettura, il mio commento vuole essere solo uno sprone a, forse, rendere ancora più interessante il racconto.
    giò :D

    ora mi penso qualcosa... non è semplice perchè le cose che volevo dire erano proprio quelle lì: non volevo inventare cose strane. E' una storia che ho sentito raccontare talmente tante volte... che è proprio la solita storia.

    però qualche ideuzza ce l'ho per cambiare qualcosa. ora ci penso un po' bene, vedremo cosa ci esce. se mi invento qualcosa di decente lo aggiungo


    grazie ancora :wub:
     
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  12. rehel
     
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    Ho trovato notevole lo stile. Tuttavia mi sono trovato a un bivio, avvertivo nettamente come, da maschietto, vedessi la storia in un certo modo, quasi annoiato (la solita solfa femminile), e allo stesso tempo consapevole che, da un punto di vista femminile, fosse invece piuttosto interessante.
    Se sai già come inserire alcuni elementi di variazione, allora procedi senza indugi, sono convinto che potrà migliorare parecchio.
    Non dovrebbe essere difficile. Non pretendo che lei alla fine lo cerchi per evirarlo, ma ci sono tante altre possibilità... :killer: :corpa: image image
     
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  13. federica68
     
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    [QUOTE]
    CITAZIONE (rehel @ 3/6/2008, 20:34)
    Ho trovato notevole lo stile. Tuttavia mi sono trovato a un bivio, avvertivo nettamente come, da maschietto, vedessi la storia in un certo modo, quasi annoiato (la solita solfa femminile), e allo stesso tempo consapevole che, da un punto di vista femminile, fosse invece piuttosto interessante.

    grazie per il commento.
    è normale, è scritto da una donna, la protagonista è una donna, il punto di vista è femminile... non avevo molto spazio per far parlare anche lui, e poi sarebbe stato sempre come lei lo avvertiva e non come lui era davvero... anche se credo che si sia capito come era davvero, immagino :asd:

    CITAZIONE
    Se sai già come inserire alcuni elementi di variazione, allora procedi senza indugi, sono convinto che potrà migliorare parecchio.

    gli elementi non ce li ho ancora ben chiari, sono appunto ideuzze, sto ponzando... non vorrei fare un casino
    CITAZIONE
    Non dovrebbe essere difficile. Non pretendo che lei alla fine lo cerchi per evirarlo, ma ci sono tante altre possibilità

    anche perchè una così credo che non sia troppo incline alla vendetta, boh, può anche darsi, ma non ce la vedo.

    pensavo a un finale ancora più cattivo, povera sfigata...
    ora ci penso un po' poi vedo

    grazie 1000


    p.s. scusate ma mi mancano 2 voti, uno è il 2 di giò perchè ho visto comparire solo il 2 dopo il commento di tar alima, l'altro mi sa che è il tuo, rehel, perchè mi risultano 4 voti di cui uno è quello che mi sono data da regolamento...
    ora ricontrollo, può essere che mi sia sbagliata nei conti
     
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  14. rehel
     
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    Gasp... eppure sono sicuro di avertelo dato... :blink:
     
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  15. Paola_Milli
     
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    Fede, brava!
    Possiamo sottotitolarlo "gli uomini, questi bastardi" ma è davvero convincente.
    Voto: 3
    brava brava :D
     
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28 replies since 1/6/2008, 15:03   435 views
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