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Cambio di nuovo genere, taglio e tutto. Spero vi piaccia
CONO DI LUCE
Emerse dalle nebbie dell’oblìo, poco alla volta. Buio, anzi no, nero. Un cappuccio in testa, o qualcosa del genere. La tela pesante come uno strano sudario a negargli il contatto col mondo. Il suo respiro lo gonfiava, per poi lasciarlo tornare indolente ad aderire al suo volto. Aveva qualcosa sulla bocca, un bavaglio, forse. Preso dal panico, provò a urlare lo stesso, ma più che qualche penoso mugolìo non riuscì a emettere. Nessuno gli rispose, doveva essere solo. Si sentiva legato a qualcosa, una sedia, forse. Si dimenò un po’, ma col solo risultato di rischiare di capovolgersi, e finire a terra. ‘Ragiona! Ragiona!’ Impose a se stesso. Raccolse un minimo di lucidità e tese l’orecchio, in ascolto. Non sentiva nulla, a parte l’enfisema ansimante di qualche malmesso impianto di condizionamento. Odori non ne percepiva, tranne quello della sua stessa paura. Si afflosciò sulla sedia, in attesa, non gli restava altro da fare. La sua mente spaurita lavorava febbrile, nel tentativo di venire a capo di quella situazione assurda. Com’era finito lì? Non lo sapeva, ricordava solo di essere uscito dall’ufficio a un’ora impossibile, come al solito, e di essersi fatto trascinare fino a casa dalla sua utilitaria. Ricordava di aver parcheggiato nel vicolo, consuetudine di sempre, e poi più nulla. Quanto tempo era passato? Non sapeva dirlo. Ore? Giorni? Pensava a Manuela, sempre apprensiva, che ormai doveva essere fuori di sé per la preoccupazione. Beh, anche lui lo era! E neanche poco! Chi mai poteva volere qualcosa da uno squattrinato scribacchino del quotidiano locale? Pochi soldi in banca, una macchina scassata e un mutuo che avrebbe finito di pagare quel figlio che nemmeno avevano messo in cantiere, lui e Manuela. Lasciarsi andare alla disperazione sarebbe stato facile, e umano. Ma lui più che altro era molto incazzato, in verità. Restò immobile, e attese.
Dopo un tempo che gli parve infinito, sentì dei tonfi arrivargli attutiti da fuori della stanza, o quello che era. E poi, chiaro, il rumore di una chiave e di una serratura che facevano il loro mestiere. Sentì qualcuno sbuffare, stava trascinando qualcosa di pesante; mugolò di nuovo, volgendo la testa in direzione del trambusto, ma non ebbe risposta. Poi un ultimo ansito, più violento, e il rumore di un’altra sedia che protestava, strisciando un po’ sul pavimento, all’accasciarsi di qualcosa di pesante su di essa. Silenzio. Mosse ancora la testa, come fanno i ciechi alla ricerca di una luce a loro negata. Il nuovo arrivato sbuffò un po’, lui lo sentì armeggiare intorno all’altra sedia. La situazione si andava facendo forse più chiara, purtroppo... Il cappuccio poi sfilò via, risucchiato verso l’alto da una mano sgraziata, insieme a qualche capello. Lui vide, allora, un’ombra stagliarsi in controluce, avvolta nell’aura sterile che il cono di luce di una lampadina che pendeva dal soffitto disegnava intorno alle sue forme. Al di là di lui, un ambiente spoglio, senza vita. Lo percepì appena, la sua attenzione era sull’uomo. Alto, non esile e non muscoloso. Una corporatura come tante, jeans e una felpa di Yale, di quelle che un adolescente di qualche anno prima avrebbe ucciso per poter indossare, ma quello non era un ragazzino, eh no…. Le mani coperte da guanti da chirurgo, e un passamontagna a rendere tutto più impersonale. Le fessure sugli occhi dell’uomo lasciavano intuire uno sguardo di ghiaccio, anche in controluce. “Benvenuto, dottor Petrelli.” Fece lo sconosciuto, parodiando un inchino con movenze antice.
Alberto Petrelli guardò il suo carceriere sgranando un po’ gli occhi. Gli sembrava di ricordare tante situazioni come quella nei film che riempivano le sue serate, ipnotizzato davanti alla scatola delle meraviglie. Nottate a macinare storie nere, e a coltivare quel bagaglio di inettitudini che tanto gli erano utili nel suo lavoro di giornalista. Vere o simulate che fossero, non faceva differenza. Troppo spesso le verità che si trovava a raccontare superavano le immaginazioni più perverse dei registi. C’era qualcosa di morboso nel continuare a immergersi in quelle storie, Alberto lo sapeva, ma al volgere dei suoi quarant’anni gli era sembrato ormai chiaro il corso che la sua esistenza aveva preso. Da uomo complesso qual era, non era mai riuscito a tenersi una donna per più di un anno, e mai gli erano mancate le sue ex. Manuela sembrava durare, ma Alberto conosceva se stesso, e sapeva che non sarebbe dipeso da lei. Il suo lavoro era tutto per lui: era un modo per parlare alla gente, raccontare le sue storie, e metterci sempre qualcosa di sé in quello che scriveva. Il gioco era far sì che nessuno se ne accorgesse. Uno strano modo di comunicare, di questo era convinto. I colleghi lo chiamavano Mannaia, perché si occupava di cronaca nera, ma nera davvero! I suoi pezzi avevano sempre un gran riscontro nei lettori; evidentemente ne appagava le loro morbosità recondite. Sentirsi inorriditi talvolta è eccitante. Lui lo sapeva bene.
L’uomo tirò via il bavaglio dalla bocca di Alberto, facendone uno sciatto foulard intorno al collo del prigioniero. Il giornalista tossì, la gola ferita dall’aria secca della stanza. Poi disse “Chi sei?” a quell’ombra che ormai temeva di aver riconosciuto. “Non hai capito? Me lo hai dato tu un nome, Alberto. Sono il Torero, per servirti.” Concluse l’altro ripetendo quell’assurdo inchino. Il Torero. Alberto aveva affibbiato quel fantasioso nomignolo all’autore di una scia di delitti che insanguinava la città da ormai più di un anno. Lo aveva chiamato così perché il Torero uccideva le sue vittime nei modi più vari, salvo poi infilzare il cadavere con attizzatoi o altri stravaganti oggetti appuntiti, proprio come fanno i protagonisti di certi spettacoli medievali in Spagna. Il giornalista aveva seguito la storia di questi delitti sin dall’inizio, perché era cosa rara poter scrivere di fatti di cronaca nero notte accaduti nella piccola città dove viveva. La maggior parte delle volte, Alberto le storie doveva andarsele a cercare altrove, nei bassifondi delle grandi città, dove imputridisce il peggio delle anime umane. Ma col Torero era stato diverso. Alberto aveva potuto giocare in casa, infierendo sui lettori con testimonianze di gente che tutti conoscevano, o narrando le vite e le morti di persone altrettanto popolari. Era stata una pacchia per lui come giornalista. Il Torero colpiva apparentemente a caso, senza un filo conduttore, e quindi titoli come “Nessuno è al sicuro in città!” erano facili da inventare e da difendere, se mai ce ne fosse stata necessità.
“A proposito, qui non ti sentirà nessuno, quindi non sprecarti a gridare, mi farai solo venire il mal di testa, e quando ce l’ho divento cattivo, capito?” “Cosa vuoi da me?” chiese invece Alberto con un filo di voce. Il fatto che nessuno fosse al sicuro, compreso lui, in città, gli appariva in una luce tutta diversa in quel momento. Il Torero passeggiava per la stanza, avanti e indietro. Alberto lo seguì con lo sguardo e solo in quel momento vide cosa l’altro aveva portato nella stanza. Era una donna, incappucciata com’era stato lui, riversa sulla sedia; sembrava incosciente. Come aveva fatto a non notarla prima? Istinto di conservazione, forse, lo stesso che lo spinse a distogliere l’attenzione dall’altra prigioniera e a riportarla sul carceriere. Il Torero si fermò davanti a lui, una mano poggiata sul mento come in un atteggiamento pensoso. “Non lo immagini? Davvero?” Alberto fece cenno di no. “Ti ho portato qui perché non mi piace quello che scrivi di me, caro il mio scribacchino!” Il Torero aveva parlato con un tono un po’ troppo alto, come se stesse perdendo le staffe. Ma non accadde. “Evidentemente non hai capito, dottor Petrelli, e ti ho portato qui perché tu possa capire, vedere, e poi scrivere la verità. Ti piace come idea?” Lo scoop del secolo, il titolone, balenarono nella mente di Alberto per un attimo, ma poi lui rispose di “Sì!” quasi solo perché aveva intravisto la possibilità di uscire vivo di lì. “E’ chiaro adesso, signor giornalista, o anche opinionista tv dovrei dire?” disse il Torero prendendo una sedia e sedendo al contrario, il busto appoggiato allo schienale.
Negli ultimi tempi avevano invitato Alberto in qualche strana trasmissione tv di terza serata a fare l’opinionista su fattacci di cronaca a vari gradi di bassezza. Lui, che si era svogliatamente laureato in Lettere Antiche, che faceva l’opinionista a fianco di altri presunti esperti! Alberto era ben conscio dell’infimo appiattimento del livello culturale generale, ma non faceva troppa fatica ad adagiarcisi sopra, arrotondando il suo conto in banca con massicce dosi di sangue, cibo prelibato per le voglie intime del volgo che lo leggeva. Non si era mai sentito in colpa per questo, nemmeno un po’.
Il giornalista non rispose, e il Torero parve sorridere sotto il passamontagna. Il giornalista pregò che l’altro non se lo levasse mai. Se avesse mostrato il volto, probabilmente avrebbe significato che non ci sarebbe stato Pulitzer per lui, e non perché avrebbe scritto un pezzo scadente. “Allora,” continuò l’assassino, “ho tutto in mente, caro Petrelli. Tu mi hai dipinto come un pazzo che colpisce solo per soddisfare le sue turbe interiori. Come uno che non si sa controllare, schiavo di un istinto bestiale che deve avere le sue radici in un’infanzia di soprusi, più che in malattie strane. Hai scritto persino che sono gay. E invece sono sposato.” Alberto annotò a mente questo primo indizio. Sposato. Sempre che fosse vero. Quell’uomo pareva giocare con lui. “E non sono nemmeno pazzo!” Il Torero gesticolava, frenetico, mentre parlava. Alberto fissava il suo sguardo, quegli occhi acquosi, ma gelidi. Non trasudava emozione da essi, in quel momento, semmai solo una fredda consapevolezza del suo potere. Il giornalista guardava l’unica cosa che potesse trasmettergli di più di quell’inutile parlato farneticante, ma immaginava anche sotto quel tessuto scuro un viso teso, ma tronfio del ruolo di protagonista che quella psiche malata aveva costruito intorno a sé. Il timbro della voce, piuttosto giovanile, lasciava pensare che il Torero fosse un uomo sulla trentina e non di più, forse persino meno, magari coltivato a indifferenza e film violenti in casa, e spedito in strada a subire le conseguenze delle proprie inadeguatezze tra i coetanei. I ragazzini sanno essere feroci molto peggio degli adulti, perché non hanno freni né regole imposte in proprio, se non con una famiglia decente a inculcargliele, con le buone o le cattive. Alberto stesso aveva passato un’adolescenza fatta di solitudini e ‘amici’ che lo prendevano in giro, ma che lui continuava a frequentare, correndo loro dietro all’infinito, come un criceto in quelle piccole ruote in gabbia, alla ricerca di un’inutile, inarrivabile approvazione.
La donna mugolò da sotto il cappuccio, attirando l’attenzione dei due. “Chi è lei?” chiese il giornalista accennando alla prigioniera. Farlo parlare di sé, quella era la chiave, coccolare il suo ego distorto. Così forse ne sarebbe uscito, sì! D’altra parte era stato portato lì per quello, o no? Il Torero rivolse uno sguardo distratto alla donna che si dibatteva debolmente, forse ancora non del tutto emersa dall’incoscienza. “Lei? Nessuno di importante; forse non lo è mai stata, ma oggi finalmente farà qualcosa di grande, per una volta in vita sua…” Lo disse con tono d’improvviso assorto, riportando lo sguardo su di lui. La mano gelida della paura, quella genuina, senza nome, senza forma, carezzò la nuca di Alberto. “Intendi ucciderla?” chiese con un filo di voce, sforzandosi di non balbettare. Non voleva mostrare paura, non più di quella che temeva già gli si leggesse in viso. “Ucciderla! Ma come sei gretto, banale! Non hai mai capito niente allora! Ecco perché scrivi tutte quelle assurdità su di me!” la voce, di nuovo agitata, non tradiva però collera, forse non ancora. “Ucciderla!”, ripeté quasi tra sé, “Imbecille!” disse alzandosi dalla sedia. L’aguzzino si pose di lato alla donna, così che Alberto potesse vederli entrambi, poi strappò il cappuccio dalla testa della prigioniera, “Guarda!” Alberto vide solo uno sguardo comune, di una come tante, confuso e spaurito. Il resto del volto della donna, ormai del tutto sveglia, era nascosto dal bavaglio che anche lei aveva sulla bocca. E avvertì una fragranza, assurda. Un profumo, lieve, fruttato, leggermente nauseante, che emanava da lei, così stonato in quella luce indifferente, e frammisto all’odore della paura, sua e della ragazza. Sudore, di quelli che vengono per stati di alterazione, e non per caldo. Acre, ma concreto. Una miscela sgradevole, ma familiare, magari conosciuta durante qualche accaldata riunione estiva. Era una cosa nota, e Alberto si scoprì ad aggrapparcisi disperatamente. “Guardala! E dimmi cosa vedi!” La mente del giornalista frugava all’impazzata nell’archivio delle frasi fatte che aveva memorizzato dai mille film che aveva visto, come se qualche anonimo sceneggiatore, nella sua casa americana, forse fuori città, in campagna, potesse suggerirgli la cosa giusta. Il Torero prese la donna per i capelli, sulla nuca, e torse la testa di lei verso il giornalista. “Allora? Parla!” La donna ora si dibatteva di più, il volto rigato di lacrime che colavano da occhi pazzi di terrore. “N-nessuno, non vedo nessuno…” non seppe perché lo disse, Alberto, ma il Torero replicò, “Esatto! Non è nessuno! Capisci ora?” Alberto incassò l’approvazione di quel pazzo, per effimera che fosse, e non replicò. Non si azzardò neppure a sorridere. Rimase in attesa. Il Torero parve non accorgersi del suo silenzio, lasciò i capelli della donna e si pose davanti a lei, chinato per offrirle il suo sguardo gelido attraverso il passamontagna. Per un istante i due volti furono molto vicini, lei gridava, supplicava, sotto il bavaglio, gli occhi sgranati a supplicare pietà. “Chi sei tu, eh?” le chiese il Torero, prendendole il mento con una mano e scrollandole un po’ la testa, “Chi sei? Sei mai stata qualcuno, o qualcosa per qualcuno? Dimmi…” Alberto vide che la ragazza probabilmente non superava i trent’anni. Era pazza di terrore, e bofonchiava preghiere incomprensibili. “Chi sei?” ripeté l’aguzzino, “Dimmelo! Sentiamo…” Le tolse il bavaglio, e un torrente di parole smozzicate, spese nel patetico tentativo d’implorare pietà, irruppe nell’aria ferma della stanza. “Zitta ora,” disse il Torero, ma la donna non la finiva di frignare. “Zitta ho detto!” ripeté, assestando un forte schiaffo alla donna. Fu come aver girato un interruttore. La testa di lei girata su un lato, e i capelli a volarle attorno, e fu silenzio. “Te lo dico io chi sei! Non sei niente! Io ti conosco, Valentina, so chi sei…” Alberto registrò un altro particolare, questo pazzo seguiva le sue vittime, forse persino le conosceva. Archiviò un altro tassello del puzzle che si andava componendo nella sua mente. “Fai una vita inutile, casa, ufficio, un lavoro schifoso, niente uomo… Non sei niente, povera piccola.” continuò lui. E poi fece una cosa incredibile, le prese di nuovo il mento, la girò versò di sé e la baciò attraverso il passamontagna. Lei si dibatté, ma il contatto durò solo un attimo. Alberto si trovò a considerarlo quasi un gesto di tenerezza, per quanto fosse assurdo pensarlo in una situazione come quella. Il Torero poi si alzò e si girò verso Alberto, “Hai visto? Che essere è questo? Che vita è condannata a fare? Hai capito il mio ruolo?” gli disse indicando la donna. Lei aveva lo sguardo basso, i capelli a far da triste corona al viso. Alberto annuì incerto, sempre dell’idea di assecondarlo. “Io le libero, queste anime. Nessun altro lo fa, perché nessun altro PUO’ farlo!” soggiunse alzando il tono a rimarcare quel concetto, che doveva essere fondamentale per lui. La donna ora guardava il suo carceriere, confusa. Lui disse, “Allora, Giornalista, come preferisci che la liberi? Posso farlo in mille modi, lascio a te la scelta.” Lui trasalì, un po’ perché stava per succedere davvero, un po’ anche perché la donna aveva ricominciato a urlare. “Zitta!” strillò il Torero, ma lei non la smetteva, allora lui le rimise il bavaglio, senza preoccuparsi di farle male. “Allora? Che scegli?” continuò lui, “la sventro?” gli chiese tracciandole la pancia con un dito. “Le taglio la gola?” e di nuovo quel gesto mimato col dito intorno alla gola della vittima. La donna si dibatteva disperatamente, e non la smise nemmeno dopo un altro potente schiaffo. Alberto era agghiacciato dalla situazione. Niente di quello che aveva visto, letto o immaginato lo aveva preparato a una cosa del genere. Nulla. ‘Non c’è modo di essere preparati a questo’, il pensiero passò di gran carriera nella sua mente e scomparve in un attimo. “La strozzo? Ti decidi?” stava dicendo quel pazzo prendendo la gola di lei con le mani. Alberto aprì la bocca, forse per dire qualcosa, ma non sapeva cosa, in realtà non stava nemmeno respirando. Il Torero lasciò la donna e venne da lui. Fu il turno del giornalista di prendere uno schiaffo. “Senti, se non scegli lo faccio io, e poi lo faccio anche a te, chiaro?” Alberto allora bofonchiò: “Strozzala…” Almeno si sarebbe risparmiato il sangue. Si fece subito schifo per averlo fatto, e ancor di più per aver pensato di non aver avuto scelta, cercando di convincersi che fosse una situazione di quelle ‘o lei o io’. Provò orrore per aver cercato vigliaccamente di giustificarsi con se stesso. Il Torero parve soddisfatto: “Benissimo!” si alzò e tirò fuori da una tasca una calza, un collant da donna. La prigioniera gridava e scalciava cercando di liberarsi, ma riuscì solo a ribaltare la sedia. Cadde a terra su un fianco, rumorosamente. Il Torero la tirò su sbuffando, “Idiota!” le disse. Alberto rivolse lo sguardo a terra, ma l’assassino gli disse: “Devi guardare, o lo farò anche a te!” Il giornalista era in una specie di trance, la mente scollegata da quella realtà, troppo orrenda per esser solo immaginata, figurarsi vissuta in prima persona. Il Torero si pose dietro la donna che si dibatteva e le passò la calza intorno alla gola, incrociandola sulla nuca. Poi si rivolse al prigioniero, “Pronto?” Il silenzio di lui doveva essergli sembrato un “ok”, perché aggiunse “Bene, allora fai attenzione ora!” Cominciò a tirare gli estremi della calza, che si strinsero intorno alla gola della donna, sempre di più. Il bastardo lo faceva lentamente. Lei, non appena sentì la calza scorrere, si dibatté ancora di più, pazza di terrore, ma era legata bene, e lui teneva ferma la sedia con le gambe. Le urla di lei ben presto assunsero una sonorità strozzata, sempre più debole, fino a scomparire. Alberto vide il suo viso diventare paonazzo, le vene del collo gonfiarsi, gli occhi strabuzzati. Vide una vita finire in un modo assurdo e inutile, e gli sembrò di impazzire. “Ancora un po’, un attimo di pazienza…” il Torero parlava come se stesse facendo una messa in piega, e non uccidendo una persona. Forse si stava pure divertendo. Quel particolare fece orrore ad Alberto più di qualsiasi altro. D’improvviso vide le pupille di lei rivolgersi verso l’alto, quasi a sparire nelle orbite, e il suo corpo rallentare gli spasimi, fino a fermarsi. Era tutto finito. Inevitabilmente, lui pianse, sommesso, ma disperato. “Eeeecco qua, visto?” disse l’assassino sfilando la calza dal collo della donna. Quando lo vide piangere però volò da lui. “Che cazzo fai, piangi?” urlò. La mente analitica di Alberto registrò, non seppe come, che quella era la prima parolaccia che lo sentiva pronunciare. Particolare interessante, ma in quel momento aveva altro da pensare. “Ma non capisci che l’ho liberata dalla sua inutile esistenza? Lei avrebbe vissuto nell’ombra per altri quarant’anni almeno! Ora è libera!” “S-sì ho capito.” Mormorò l’altro. “E no che non hai capito, perché ora bisogna liberare per bene l’anima di Valentina, ora ti faccio vedere.” Alberto guardò l’altro frugare nell’ombra in quella che doveva essere una sacca, di quelle oblunghe, che ci vanno dentro le mazze da golf. Lo vide estrarre degli attizzatoi, o qualcosa del genere, e comprese che l’orrore era lungi dall’essere storia. Il Torero posò a terra gli attizzatoi davanti al suo prigioniero, e si accinse a slegare la donna morta. Lo fece con delicatezza, quasi con un amore distorto, di quelli che portano la gente a tampinare i propri ex, a fare telefonate mute, lettere anonime. Un amore malato, posticcio. Il rumore attutito, morto, del corpo esanime che si afflosciava a terra fu raccapricciante. Il Torero rivolse di nuovo l’attenzione al giornalista. “Allora, Dottor Petrelli, ora liberiamo l’anima di questa donna, ok?” Sembrava stesse parlando di tinteggiare una stanza. Alberto rabbrividì. “Queste sono antenne,” disse il Torero, “servono a incanalare la sua anima fuori da questo corpo inutile, ora ti faccio vedere come si fa.” Prese un attizzatoio da terra. Lo afferrò forte con entrambe le mani e lo calò con forza sullo sterno della morta, che cedette scricchiolando. Rimase infitto e in perfetta verticale. Alberto cacciò involontariamente un urlo, l’altro si girò verso di lui, il passamontagna a celare una prevedibile espressione soddisfatta, e ripeté ancora quell’inchino agghiacciante, una movenza che lui stesso aveva suggerito a quell’uomo, chiamandolo Torero. “Visto? Facile! Ora prova tu!” disse mentre si avvicinava per slegarlo. “No ti prego, basta!” implorò Alberto. “Taci! O capisci o non mi servi, chiaro?” disse l’altro mentre lo liberava. Il giornalista sentì la morsa delle corde allentarsi intorno ai polsi, e accarezzò l’idea di cercare di fuggire. Avrebbe volentieri ammazzato quel pazzo, ma sapeva di essere troppo vigliacco per provarci. L’altro doveva saperlo, in qualche modo, e disse: “So che farai il bravo Alberto, ma sappi che, se dovessero venirti strane idee, io sono armato.” Vero o no che fosse, ad Alberto non venne minimamente la fantasia di provare a scoprirlo. Si alzò, spinto per un braccio dal Torero, e vide che era poco più alto di lui, non che ci volesse molto in verità, e che a scanso di equivoci era in effetti armato. Una di quelle pistole molto piccole da borsetta, chissà dove l’aveva presa. “Prendi l’attizzatoio.” Alberto non si mosse. “Prendilo, non farmi incazzare.” Alberto si chinò a raccogliere l’oggetto. Era così teso che la sua schiena scricchiolò, quasi non volesse compiere quel movimento. Raccolse comunque il ferro, e rimase a guardare l’assassino, che gli indicava la donna con la canna corta di quella ridicola pistola. “Ora piantaglielo nell’addome.” disse semplicemente. Alberto sentì se stesso rispondere un assurdo: “Ma non resterà in piedi però…” Si scoprì d’improvviso a farsi schifo da solo un’altra volta, come poteva pensare a quei dettagli? Come aveva fatto a pensare con lucidità alle viscere della donna che sarebbero state divelte dalla punta che una volta infitta, si sarebbe ribaltata mentre l’attizzatoio cadeva a terra? All’altro però la domanda parve pertinente, “Lo so, ma funzionerà lo stesso. Fallo.” Il pensiero di opporsi era ormai accantonato, Alberto quindi si girò verso il cadavere, afferrò con entrambe le mani l’oggetto e se lo alzò sopra la testa. Fermo in quella assurda posizione, attese, incapace di compiere l’ultimo movimento. Il Torero ridacchiò, “Guarda che non devi traforare un muro, vedrai che è facile. Fallo.” L’ultima parola pronunciata con un tono secco, diverso. Alberto esitò ancora, come congelato. Riusciva a vedere se stesso da fuori, in quell’assurda posizione, in procinto di compiere un’azione che in genere gli faceva voltare lo sguardo quando la trovava in un film dei suoi, quelli “educativi”. “FALLO!” Cacciò allora un grido terribile e calò l’attizzatoio sul ventre della donna, che cedette con oscena facilità e con un sordo, raccapricciante rumore. L’attizzatoio parve resistere per un paio di secondi, poi si adagiò a terra con assurda lentezza. Alberto sentì un orrendo suono attutito di tessuti divelti nel corpo della donna, immaginava lo sconquasso che stava provocando nelle viscere del cadavere. Ancora chino su di lei, fu investito da una zaffata nauseante fuoruscita dalla ferita all’addome e non riuscì a trattenersi. Si accasciò a terra, rimettendo quel poco che gli era rimasto nello stomaco. Furono attimi. Si sentì tirare indietro e sbattere sulla sedia con violenza. Mancò poco che si rovesciasse a terra, ma non accadde. Il Torero lo legò di nuovo, con movimenti secchi e precisi, e lui non oppose resistenza. Era sfinito. L’assassino poi sedette ancora di fronte a lui. Tacque a lungo, al centro di quel cono di luce asettica, fredda, quasi a sembrare una rockstar che suona una ballata con una chitarra acustica. Alberto lo fissava incerto. Dio solo sa cosa passa nella testa di quegli individui. Non avrebbe voluto, ma si scoprì a tentare disperatamente di capirlo. Dopo qualche minuto, in cui il Torero l’aveva fissato immobile, forse senza neppure battere le palpebre, l’assassino disse: “Che peccato…” “C-cosa?” balbettò lui. “Non hai capito niente, Dottor Petrelli…” “M-ma come no? Certo che sì invece! Scegli le tue vittime tra chi fa una vita grigia, le uccidi, e liberi le loro anime…” “Non hai capito niente…no…”, il Torero scrollò la testa. Alberto fu preso dal panico, e tentò ancora di ripetere tutto quello che il Torero si era speso a raccontargli fino a quel momento, fino a che “TACI!” gli intimò l’altro. Lui tacque. L’altro si alzò, e gli si fece incontro. “Scegli.” “C-cosa?” chiese il giornalista, sapendo benissimo cosa intendesse l’altro. “Scegli, o lo faccio io per te.” “No, senti, dai, scriverò un pezzo tutto diverso, me lo detterai tu, ti prego…” “Scegli.” Alberto allora non fu capace di far altro che piangere. Nulla più. “Alberto, guarda che non ti conviene lasciar scegliere a me...” Glielo disse in tono suadente, quasi comprensivo. Passarono attimi, la mente di Alberto un tornado di pensieri senza senso, una cacofonia di nulla a rimbombargli in testa. Poi si scoprì a coccolare l’assurdo pensiero che forse, alla fine, era giusto così. La sua vita, tutta intera, e anche le sue azioni durante quella atroce nottata, stavano a dimostrare quale piccolo uomo fosse. Sì, era giusto così, sarebbe stato solo un trafiletto di cronaca nera scritto da qualcun altro, e un parassita in meno a infestare la Terra. Sì… Il giornalista sentì la sua voce pronunciare: “Strozzami…”, e gli parve di vedere di nuovo quel pensiero: ‘almeno mi risparmio il sangue’, tornare ad aggirarsi furtivo nella sua testa confusa. Era come vivere un pezzo della vita di qualcun altro, un film da guardare annoiati dietro qualche vetro a specchio. La sua mente ottenebrata aveva disconnesso sé stessa dalla realtà del momento. Gli aveva appena detto di strozzarlo, e stava contemplando con distacco questo fatto, come se non gliene fregasse molto. Quello strano stato di catalessi non finì neppure quando Alberto sentì qualcosa di delicato scorrere sul suo collo, e capì che presto avrebbe fatto la stessa fine di quella Valentina Qualcosa. Avvertì la pressione aumentare, ma non si oppose. Era giunto a quella fase di passività assoluta, impermeabile a qualsiasi sollecitazione, anche la più estrema. Percepì la sua giugulare faticare incaponendosi a pompare sangue al cervello, e la sua trachea indignarsi per quell’oppressione indebita. Sentì i suoi polmoni reclamare un ossigeno che non avrebbero assaporato più. Avvertì la sua lingua uscire dalla bocca, quasi per far più posto all’aria che non poteva più entrare. I suoi occhi uscire dalle orbite, la testa scoppiare. E con l’ultimo barlume di coscienza, udì la voce del suo boia sussurragli all’orecchio: “Non hai capito niente, Giornalista, gli attizzatoi sono una cazzata, io faccio questo solo perché mi diverto…” Gli parve di vedere la sua mente offuscata annuire, perché comprendeva che era vero. L’ultima beffa, a chiudere la sua vita insignificante. Un velo di oscurità pian piano scese su di lui, a oscurare quella lampadina spoglia che faceva luce a quella scena senza senso; quel cono di luce indifferente, che moriva nei suoi occhi.
Edited by shivan01 - 2/7/2008, 10:53
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