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Eccomi!!! Non mi sarei perso questa competizione per nulla al mondo!!!
Cinquemila Euro di Stefano Valbonesi
— Solo cinquemila euro! Non scherziamo, cazzo! L’odore di disinfettante galleggia nel capannone, mi brucia la gola e aumenta la nausea. Le finestre sono oscurate da lamiere arrugginite e grate di ferro, avvitate sui telai e piene di sporcizia. Un neon scava un quadrato di luce nel locale, rivelando la presenza di qualche armadietto e di due tavoli di metallo. Su di essi giacciono i due cadaveri nudi. Il dottore è in piedi, il suo fisico storto è nascosto da un camice pulito e con le pieghe della stiratura ancora in vista. Pende sui corpi, ne osserva con attenzione ogni centimetro, allunga le braccia e con le mani protette dai guanti tasta la pelle. La risposta alle mie parole arriva dopo un lungo silenzio. — Me li hai portati in condizioni disastrose. La sua voce ricorda un foglio accartocciato, e questa sensazione mi fa stare ancora più male. — Ma cosa dice? Il dottore si prende il tempo di palpeggiare il seno della donna e strizzarle i capezzoli. — Hai spaccato il cranio a entrambi, il loro viso è maciullato. L’uomo ha uno squarcio che gli corre dal petto all’addome, la donna ha fratture alle braccia e alle costole. Ecchimosi e lacerazioni ovunque. — Non volevano collaborare — dico, e provo ad allungare le labbra in un sorriso, ma un tremito le storce in un ghigno. — Io ti pago per portarmi dei cadaveri freschi e sani, non questa immondizia! La volta scorsa hai lavorato meglio. — Ma i reni, il fegato, i polmoni e il cuore potrebbero essere ancora in buone condizioni. Sul mercato nero potrebbe rimediare una bella somma. Il dottore non mi risponde, si limita a guardare i corpi buttati sui tavoli, vedo i suoi occhi dondolare qualche istante fra le gambe dell’uomo, la bocca gli si piega in una smorfia di delusione. Si volta e va a lavarsi le mani in un lavandino. — Cinquemila euro è la mia unica offerta, ti conviene accettarla. Gira lo sguardo verso un angolo buio e fa un cenno. Dall’ombra emergono le guardie del corpo, due tizi enormi che non sono di queste parti. So che accompagnano il dottore durante i suoi incontri privati. Non parlano mai, ma hanno sempre le mani troppo vicine alle fondine delle loro pistole. Trattengo il fiato e conto i secondi che ci metto a inghiottire la saliva. Fisso la mazzetta di soldi poggiata su un angolo del tavolo, le banconote sul ripiano d’acciaio hanno un colore più intenso e invitante, ma forse è solo colpa dei nervi. Il dottore si asciuga le mani e mi osserva con la stessa attenzione con la quale studiava i cadaveri. — Con cinquemila euro ti puoi fare di tremexedrina fino a scoppiare! Considerali una dimostrazione della mia fiducia. Sono sicuro che la prossima volta mi servirai meglio. In un istante afferro i soldi e corro verso l’uscita, inseguito dalle risate del dottore e dei due gorilla. All’aperto mi aspetta l’aria bruciata di luglio e le cicale, che con il loro orribile verso grattano dentro il cervello, come una raspa. La luce del sole è così violenta che quasi mi butta a terra, una bolla di dolore comincia a gonfiarsi dentro la testa. Mi muovo velocemente e taglio per i campi. In pochi minuti arrivo sulla provinciale, poco prima del cartello che segna il nome del paese nel quale trascino la mia esistenza. Poco lontano ci sono le prime case di mattoni nudi e i vecchi piantati sulle panchine, pronti a squartare la vita di chi gli passa davanti. Stringo la mazzetta di soldi nella tasca. Cinquemila euro. Trecento euro al mese d’affitto, sessanta di condominio; di luce e gas non spendo tanto. Potrei stare tranquillo per tre, quattro mesi. Così duemila euro me li sparerei come Cristo comanda. Non entro in paese, ma attraverso la strada e scavalco il guardrail. Scendo a fatica per un sentiero ripido che s’infila nella boscaglia. Il sudore è un acido che mi scende per le braccia e mi scava la pelle. Per un paio di volte rischio di inciampare nelle radici degli alberi, ma in qualche modo riesco a mantenere l’equilibrio. Dopo dieci minuti arrivo al casolare di Sergio, una costruzione bianca circondata da ulivi. Mi butto sulla porta e comincio a suonare e a battere sul legno. Sergio compare con la sua faccia tonda, la pelle tirata e rossa, mi ricorda il palloncino di una fiera. Mi fa accomodare in salotto, una stanza che pare il negozio di un antiquario. Le credenze e le mensole sono piene di soprammobili preziosi, tappeti e quadri di valore coprono ogni centimetro dell’ambiente. Mi butto sul divano, mi asciugo il sudore e cerco di riprendere fiato. Sergio sprofonda in una poltrona di pelle, mi regala uno dei suoi sorrisi troppo larghi da dietro il suo ventre gonfio, poi prende una matita e scribacchia qualcosa su un foglio. — Che cosa stai facendo? — È per la festa del patrono — dice con una voce morbida. — È tra due mesi, ed è bene che cominci a scegliere chi tra i nostri compaesani avrà l’onore di portare le reliquie di S. Funezio durante la processione. Sai bene che il parroco è ben lieto di affidarmi questo compito. — Immagino che avrai già ricevuto degli incentivi da parte dei candidati. — Piccole cose! — dice Sergio, agitando nell’aria una mano, come se scacciasse una mosca. — L’atmosfera si deve ancora scaldare. In ogni modo oggi sono contento: il signor Paolini ha finalmente saldato il debito, restituendomi per intero il prestito. — Con gli interessi… — Si capisce. — Ecco perché ha venduto tutti i mobili e la macchina! La risata di Sergio è soffice come il passo su una moquette; la mia, invece, è un verso orribile. Sento le ossa tese, sul punto di spezzarsi. — Dammi tre dosi — sussurro all’improvviso. — Ne voglio tre. Sergio piega con calma il foglietto, si prende il tempo per far combaciare gli angoli della carta, passa con le dita più volte sui bordi, e alla fine se lo mette in tasca. — Ce li hai i soldi? — mi chiede con un tono elegante, quasi come se mi presentasse a una sfilata di moda. Gli sventolo davanti tutti i colori delle banconote, poi estraggo tre biglietti da cento e li stendo sul tavolo di noce. Gli occhi di Sergio s’illuminano, il sorriso si fa ancora più largo, tra poco la bocca farà un giro completo e la sua testa si aprirà come un uovo di pasqua. La mano passa sul tavolo e raccoglie al volo la moneta, dopodiché si alza e scompare in una stanza. Mentre aspetto, penso che potrei pagare le bollette e la spesa per due mesi, o magari solo per uno. Così avrei quattromila euro per annegare nella tremexedrina e andare sottoterra nel migliore dei modi. Ci uscirebbero quaranta dosi. Una al giorno e sarei in paradiso per un mese e dieci giorni. — Hai rapinato qualcuno? — dice Sergio, mentre ricompare dagli anfratti della casa. A stento riemergo dai miei calcoli, ho gli occhi che si chiudono per il mal di testa. Si siede di nuovo di fronte a me e mette sul tavolo tre fialette color ambra. I miei visceri battono come nacchere impazzite. Agguanto le fiale e un lampo mi brucia gli occhi. Il mio amico continua a sedere come un re obeso sul trono, ma la testa è diventata quella di un rospo gigante. Un liquido grigiastro gli bagna la pelle viscida e grinzosa, delle pulsazioni gli scuotono una vescica enorme al di sotto della bocca. — Tutto bene? — dice la creatura, facendo ballare gli occhi umidi, grossi come palloni da basket. Mi alzo di scatto e senza dire una parola schizzo verso l’uscita. Risalgo il sentiero sassoso e cerco di togliermi dagli occhi quella visione. La paura di essere seguito da Sergio — o da quella cosa — mi costringe a voltarmi indietro più volte, ma non vedo nessuno nella boscaglia. C’è solo una spiegazione: senza tremexedrina il mio cervello è ridotto a una spugna secca ed è sul punto di abbandonarmi. Il sole continua ad accoltellarmi, la campagna mi assale con i suoi rumori, anche le fronde degli alberi si abbassano apposta per sbattermi contro la testa. Dopo aver arrancato come uno zombi, sono di nuovo all’entrata del paese. Stringo le tre fiale in mano e un’eccitazione mi corre dal polso fino al culo. Con tre dosi starei bene tre giorni e non incontrerei più uomini anfibi. E se volessi strafare? Magari me ne faccio una subito e una stanotte. E sicuramente non vedrei l’alba di domani. Passo strisciando contro i muri, ma le persone mi riconoscono e mi lanciano le solite occhiate di paura e condanna. Per fortuna, niente rospi. All’ombra della chiesa c’è la truppa di vecchie, chiuse a cerchio come una squadra di football americano pronta a devastare l’avversario. La vedova Geronzi mi allunga uno sguardo d’odio con i suoi occhi rattrappiti. Molti la considerano una specie di santa, perché si riempie la bocca con le frasi dei vangeli, sparando profezie e cazzate del genere. Del resto ha capeggiato la rivolta contro De Turris, colpevole di aver scoperto che il parroco passava troppo tempo in sacrestia con alcuni bambini. Grazie a lei l’uomo ha perduto il posto di lavoro. La donna mi lancia una maledizione e io trattengo a stento un ‘fanculo fra i denti. Entro nella farmacia della piazza. Immerso in un odore di pulito vagamente aromatico, mi preparo allo scontro con il padrone, ma dietro al bancone c’è Milena, la ragazza assunta da poco. È la figlia di una delle bigotte, è tornata da Roma subito dopo la laurea, e secondo me non ha un gran cervello se il suo sogno è davvero quello di rintanarsi nella farmacia di questo paese di merda. Chiedo siringhe da 2,5 e aghi. Lei non mi guarda neppure in faccia. Si nasconde dietro i lunghi capelli neri e io ne approfitto per lasciar scivolare lo sguardo dalle sue labbra piene giù fino alla profonda scollatura. Si allontana per andare a rovistare in un cassetto. Il camice informe è aperto, una gonna ridotta a una striscia di tessuto mi mostra un paio di cosce sode, strette nei collant neri. Dicono che per cinquanta euro ti lascia fare tutto. Cinquanta euro è mezza dose, due botte sono una dose in meno. Con una dose sto bene un giorno… e con due botte? Saluto Milena puntando gli occhi in mezzo alle tette, e lei non può fare altro che girarsi e scomparire nel retro. Per un secondo vedo un tentacolo che le esce dalla gonna, in mezzo alle gambe. È una specie di cazzo lungo circa un metro, un tubo grinzoso che oscilla nell’aria e termina in una bocca piena di denti. Esco dalla farmacia di corsa. Allucinazioni da tremexedrina, non ci sono dubbi! Prendo un bel respiro e solo adesso mi ricordo della promessa. Merda, il regalo! Solo ora mi viene in mente Luchino. Ha detto che non mi avrebbe mai perdonato se fossi tornato a casa senza un regalo. Ha distrutto il suo orso di peluche e gliene devo trovare assolutamente un altro. Se mi avesse chiesto un gioco per la Playstation sarebbe stato più semplice, ma ne abbiamo già una vagonata e Luchino si è fissato con il pupazzo. Quello vecchio se lo portava sempre dietro. E ci parlava. Mi ficco in un vicolo con il fondo stradale fatto di buche, i muri di vecchi edifici si fronteggiano a due metri di distanza. La vetrina sporca del negozio di giocattoli spunta come un neo maligno. Entro e mi trovo in uno stanzone quasi buio, con la merce buttata sul pavimento impolverato o che pende dagli scaffali nascosti nell’ombra. Dietro il bancone c’è una vecchia signora nera, al posto dei capelli ha una matassa di filo di stagno per le saldature. La faccia è orribile, piena di rughe, e non accenna un sorriso. Mi sembra di essere a un funerale, e lei è la vedova che neppure piange. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato. Una donna così dovrebbe stare in chiesa o in farmacia, non in un negozio di giocattoli. Qui ci vorrebbero più luci, e come commessa ci vedrei bene quella troia di Milena. — Desidera? — mi chiede la strega. Non rispondo ed evito di guardarla, faccio un giro per il negozio, cercando di non inciampare nelle scatole. Osservo gli articoli, ma sono impegnato anche a fuggire al minimo accenno di rospi e tentacoli lunghi più di un metro. Alla fine scopro un orso enorme, un peluche alto un metro e mezzo, con una faccia da ritardato e due occhi che ispirano simpatia anche a me. Guardo il prezzo, questo pupazzo costa più di due dosi e mezzo, almeno cinque scopate con Milena. Di che materiale è fatto per valere così tanto? Però so che Luchino non accetterà niente di meno e la mia prima dose dopo quattro giorni di astinenza me la voglio godere in pace. Oggi è festa per me, altro che la processione di S. Funezio! E voglio che anche mio fratello festeggi. — Questo orso — dico alla commessa. — Devo fare un regalo a mio fratello. — Quell’articolo costa… Prima che posso finire la frase, gli sventolo sotto il naso il contante. Una sensazione di potere mi pervade, mi fa stare con la schiena più dritta. Posso sbattere i soldi in faccia alla gente e comprare quello che voglio, azzittire questa massa di merda che vuole schiacciarmi. Fisso negli occhi la strega, si nasconde dietro le rughe e allunga una mano scheletrica verso i soldi. — Lo porta via lei o glielo consegniamo a casa noi? La sua voce è gelida. — No! — dico. — Lo porto via io, così. E se mio fratello vuole, torno e compro tutto questo locale di merda. Afferro l’orso come se stessi bloccando una vittima per il dottore e guadagno l’uscita. Il sole continua a torturarmi lungo il pomeriggio, bastano due minuti di cammino per distruggere l’entusiasmo di poco prima. L’afa mi brucia anche l’ultimo strato di pelle, sento gli occhi dei passanti che s’infilano come spilli nella nuca, le risate e i commenti si mescolano con l’odioso richiamo delle cicale. A un tratto ho un forte giramento di testa, mi pianto con la schiena su un muro, le forze mi abbandonano e sono convinto che non arriverò a casa. Magari mi potrei buttare qui dietro, in Via Serafini, dove c’è una casa disabitata invasa dall’erba. Potrei trovare rifugio lì e farmi la prima dose. Mi asciugo la fronte sulla zampa pelosa dell’orso e quando rialzo la testa mi sfugge un grido. La strada è affollata, pare che tutto il paese sia uscito per passeggiare su questa via. Molto probabilmente un migliaio di neuroni sono saltati per sempre dentro il mio cranio. Non riesco più a distinguere i corpi, vedo solo facce che volano a cavallo di strani oggetti viola, lombrichi giganti che si muovono nell’aria come fulmini. C’è la santa vedova Geronzi con il suo drappello di baciapile; il dottore, che si affretta a tornare dalla moglie; Milena, con le labbra incollate a quelle del parroco. E tutti si girano verso di me e ridono, mentre i vermi volanti spalancano la bocca, cercando di ingoiarmi. La paura tira fuori le mie ultime energie, esco dal centro quasi di corsa, le ginocchia mi sbattono contro le zampe dell’orso e rischio più volte di cadere in avanti. Finalmente gli edifici si diradano e arrivo di fronte al mio vecchio palazzo. Per la fatica non sento più le braccia e le gambe. Salgo all’ultimo piano e ci metto cinque minuti per aprire la porta di casa. Guardo le scale, convinto che vedrò sbucare da un momento all’altro l’esercito di vermi. Finalmente entro, chiudo a chiave, poggio il pupazzo per terra e mi affloscio su una sedia. Morto. Ci metto un minuto solo per ricominciare a respirare. Mio fratello esce dall’altra stanza, nemmeno mi saluta. Appena vede l’orso grida di gioia, lancia versi acuti che strappano l’aria. Devo essere la maschera della morte, ma Luchino non ci fa caso. — È bellissimo! Bellissimo! È impazzito, si butta sull’orso e insieme rotolano per terra, poi cerca di rimetterlo seduto, ma non ci riesce, l’orso s’inclina e cade di lato, schiacciandolo a terra. Lui ride, prova ad appoggiare la schiena del pupazzo contro la parete, lo riempie di carezze e comincia a parlarci. Credo che questo sia il momento più giusto. — Luchì, mamma e papà non tornano stasera. Sono andati a trovare i nonni. Mio fratello si gira, mi guarda con un’espressione strana, poi abbassa gli occhi, come se cercasse qualcosa sul pavimento. Un po’ di gioia gli è colata via. — Quando tornano? — Fra due giorni, massimo tre. Non ti preoccupare, ci penso io a te. E in questi giorni potrai stare alzato fino a tardi e giocare quanto ti pare con il tuo nuovo amico. Inoltre la mamma mi ha assicurato che quando torna ti porterà un altro gioco. Per un minuto Luchino rimane con gli occhi persi nel vuoto. Se si mette a piangere è finita. Poi guarda l’orso e gli torna il sorriso. Un secondo dopo è di nuovo impegnato e muovere le zampe del pupazzo in posizioni impossibili. A un tratto lo afferra e lo trascina in camera. Mio fratello è sistemato, ora devo pensare a salvarmi dagli incubi. Un brivido mi corre lungo la schiena, come se qualcuno mi osservasse. Mi giro di scatto verso la finestra, ma non vedo nulla di strano. Prendo un altro respiro prima di alzarmi, poi vado in bagno e mi chiudo a chiave. Il cuore batte a mille, mi guardo allo specchio e vedo solo un teschio bianco con un po’ di pelle avvizzita sopra le ossa. Tiro fuori dalla tasca tutto il necessario. Apro la confezione di una siringa, agito una fiala, sego il beccuccio con una lima per le unghie e premo sul punto di rottura. Aspiro il liquido e con la punta dell’ago faccio il giro di tutto il fondo del contenitore, non voglio sprecare neppure una goccia. Butto via l’ago e ne attacco un altro pulito. Cominciano a tremarmi i denti, le dita scattano. A un tratto sento battere alla porta. Non adesso, cazzo. Non ora. Apro. — Che cosa c’è? — urlo. Luchino non mi risponde, ma mi mette sotto il muso un oggetto peloso. Il resto dell’animale è per terra. Mio fratello ha staccato una zampa al pupazzo. L’imbottitura esce dallo squarcio, sangue bianco-giallastro a forma di nuvole, piume e cubetti. Un orso da più di due dosi e mezzo, e basta un moccioso per distruggerlo. Vorrei sgridarlo, ma proprio in quell’istante avverto un rumore alle mie spalle. Butto un’occhiata e vedo fuori della finestra le facce dei paesani che premono contro i vetri. I bastardi mi hanno seguito, e scommetto che sono ancora a cavallo dei loro vermi giganti. Il dottore guarda mio fratello con desiderio, la vedova srotola un metro di lingua, vedo anche il tentacolo di Milena. Mio fratello continua a piangere, ma ora la pelle e i muscoli del viso gli colano come cera. Se la strappa con le mani e in poco tempo spunta il cranio, le ossa sono piene di vermi viola. — Anche tu! — grido. Non ci penso un attimo, mi appoggio agli stipiti della porta del bagno e gli assesto un calcio in faccia. Luchino cade a terra e io gli sono subito addosso. Continuo a colpirlo, sui fianchi e ancora in testa. Poi mi siedo sulla sua pancia, afferro una manciata del sangue dell’orso e gliela ficco in bocca. Lui si agita, ma ora il pianto è soffocato. Ancora un’altra manciata, la spingo forte, giù in gola. Luchino si agita, i suoi movimenti si trasformano in scatti violenti. Io continuo a riempirgli la bocca, gli rompo anche i denti, gli infilo così tanta roba che alla fine la sua testa è tutta coperta dall’imbottitura. Osservo il corpo di mio fratello steso a terra, immobile, a fianco del suo amico orso. Mi chiudo di nuovo in bagno, mi siedo sul bordo della vasca e fisso la siringa sul lavandino. Cerco di respirare con calma. Dio, che cosa ho fatto! No, devo respirare piano. Uno… due… Purtroppo, però, le ombre continuano premere contro il vetro della finestra, e con rinnovata energia. Come se quello che ho appena fatto le avesse eccitate. Non ho voglia di piangere, mi domando solo cosa posso fare ora. Posso portare Luchino dal dottore, come ho fatto con i miei genitori, e rimediare soldi per altra tremexedrina. Magari altri cinquemila euro. E per farci cosa? Questo paese è l’inferno, e una dose al giorno non mi permetterà di uscire dalla gabbia. Cacato qui, senza la possibilità di fuggire. Preparo un’altra siringa e la riempio con le due dosi rimaste. Stringo un laccio emostatico intorno al braccio. Stavolta faccio fatica a trovare la vena, non ne spunta nessuna. Guardo sul dorso della mano, scorgo una scia blu che passa fra le nocche. La buco ripetutamente. Tre dosi. La soluzione preme contro il mio sangue, poi avverto che si mescola con esso e provo una sensazione di piacere che allaga il mio corpo. La mia pelle è fresca, comincia a sciogliersi e mi cade ai piedi, come se fosse un abito vecchio. I compaesani gridano. All’inizio mi paiono imprecazioni di rabbia, poi capisco che ridono. Nel silenzio che le inghiotte si trascinano il mio corpo. Il mio cuore ha un sussulto, una scarica di pulsazioni confuse, poi cessa di battere. Sì, le ombre ridono. Ma io sono libero.
FINE
Ciao ciaooo, Stefano
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