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CITAZIONE Attenzione: questo scritto ha contenuti destinati a un pubblico adulto. Leggendo di seguito dichiari sotto tua totale responsabilità di avere più di 18 anni. Se terminologia o situazioni esplicite possono offenderti o andare in contrasto con la tua morale, sei pregato di chiudere questo post.
Come madre e figlio
Era come stare a una festa. La grande tavola della sala era imbandita con panini al formaggio e pizzette. Alte colonne di bibite e bicchieri in plastica erano sistemate ai lati. Un po’ per tutta casa, gl’invitati parlavano a bassa voce, tutti elegantemente vestiti, con gusto. Qualcuno chiacchierava amabilmente con vecchi amici che non rivedeva da chissà quanti anni. Discutevano del lavoro, dei vecchi amori, del posto dove ora abitavano; e alla fine si promettevano sempre di tenersi in contatto, anche se sapevano che non l’avrebbero fatto. In sottofondo, Muddy Waters cantava Mississipi Blues. Sì, era proprio come stare ad una festa. E c’era pure il festeggiato. Oh sì che c’era. Il suo viso rotondetto e sorridente era a fianco di quello del padre. Insieme guardavano da sopra il caminetto verso il centro della sala. Ogni tanto qualcuno andava a portare loro i suoi omaggi, chi scambiando quattro chiacchere, chi con le lacrime agli occhi. C’è sempre qualcuno che si emoziona, alle feste. Seduta sul divano a dondolo della veranda, Eve spingeva avanti e indietro con le gambe. Le catene che tenevano la sdraio appesa al soffitto cigolavano. Cling, clang. Cling, clang. Ci penso io a darti il ritmo, Muddy, pensava Eve. Cling, clang. Cling, clang. «Hai fame?» Davanti a Eve si materializzò la figura di Lilian, sua madre. In mano teneva un piatto con un panino al formaggio e qualche patatina. Eve non rispose alla domanda, continuando ad andare avanti e indietro sul divano a dondolo. Cling, clang. Cling, clang. «Dov’è Ben?», chiese dopo un lungo silenzio, «Dobbiamo avvisarlo. Chissà come sarà preoccupato… Sì, dobbiamo avvisarlo. Dov’è Ben? Dov’è Ben?» La madre andò a sedersi a fianco della figlia, appoggiando il piatto per terra. Con un braccio avvolse le spalle della sua bambina. «Tesoro, Ben non c’è più. Lui… lui è assieme ad Alex ora.» Non trovando altre parole, abbassò lo sguardo, notando solo in quel momento che Eve stringeva qualcosa tra le mani: un ciuffo di capelli biondi, i capelli di Alex. Era stato il suo primo taglio di capelli, e per ricordo Eve li aveva conservati. Ora quel ciuffo rappresentava tutto quello che rimaneva di suo figlio.
~ Il mattino seguente Lilian tornò a far visita alla figlia. Entrò in casa senza far rumore, pensando che Eve fosse ancora a letto dopo le fatiche degli ultimi giorni. Invece la trovò seduta in cucina, a fissare immobile il muro, addosso ancora il completo ormai sgualcito indossato alla cerimonia. «Sei riuscita a riposare un po’?» Eve annuì. «Hai mangiato qualcosa?» Di nuovo Eve fece cenno di sì. Lilian si guardò intorno. La casa era rimasta esattamente come l’aveva lasciata la sera precedente, dopo aver aiutato la figlia a mettere a posto. Dentro il lavandino soltanto una spugna. La donna aprì prima il frigo e poi la credenza. Tutto era ancora al suo posto. «Ti preparo un tè.» Eve rispose con un lieve movimento della testa. Sì, un tè. Per sua madre tutti i problemi del mondo si potevano risolvere con una tazza bollente di tè. La sua prima sbucciatura? Un tè e tutto passa. I soldi del mutuo che non si riuscivano a trovare? Prenditi un tè. Ben che la tradiva con la socia in affari? Un tè, naturalmente! Se Lilian avesse deciso di fare la diplomatica, anziché la moglie di un meccanico con l’hobby dell’alcolismo, avrebbe tentato di risolvere qualsiasi dissidio internazionale con litri e litri di tè. “La Corea del nord ha invaso il Giappone!” “Tè alla vaniglia, allora!” “L’Iran ha costruito l’atomica!” “Altro tè, doppio zucchero però!” Tè tè tè tè tè! Prepariamo il tè. Ubriachiamoci di tè. Affoghiamo nel tè! Affogare… proprio come Alex. Chissà quale era stato l’ultimo sapore assaggiato da Alex mentre i suoi polmoni si riempivano d’acqua? Lilian porse alla figlia una tazza fumante colma fino all’orlo. Razione extra. «Perché?», sussurrò Eve. «Perché nessuno ha fatto niente?» Lilian aprì la bocca, ma non disse nulla. Qualcuno suonò al campanello. Lilian si alzò a vedere chi fosse, lasciando la figlia in compagnia solo del suo tè. Era il ragazzo dei giornali. Perché diamine non aveva lasciato il quotidiano davanti alla porta come sempre? Poi si ricordò che era il primo lunedì del mese, e si sbrigò a pagarlo per poter tornare dalla figlia. Chiusa la porta, Lilian guardò per un attimo il giornale. Forse sarebbe stato meglio buttarlo subito… «Dammelo.» Appoggiata allo stipite della porta della cucina, Eve guardava la madre con occhi rabbiosi. «Tesoro, non credo che…» «Ti ho detto di darmelo!» Lilian contrasse la gola. Per evitare di dire altro, si morse il labbro inferiore e consegnò il quotidiano alla figlia, la quale glielo strappò dalle mani. Eve spiegò il giornale su tavolo della cucina. Sfogliò senza riguardo le pagine, alla ricerca della cronaca locale. Infine lo trovò. In silenzio lesse l’articolo che riportava gli sviluppi sulla morte di suo figlio. Si sono tenuti ieri i funerali di Alexander Matheson, figlio di… La cerimonia si è svolta alla… Per il momento nessuna notizia certa… Gli inquirenti stanno ancora indagando… dai primi accertamenti… affogato… Il responsabile della piscina… negligenza sul posto di lavoro e omicidio colposo… All’intera famiglia… cordoglio.
~ Dopo una settimana Lilian smise di andare a trovare la figlia tutti i giorni. Passava solo la domenica per portarle la spesa e pulire la casa; e soprattutto per prepararle il tè. A chi la incontrava per strada diceva che Eve si stava riprendendo, ma che aveva ancora bisogno di ordinare i pensieri, di abituarsi alla perdita del bambino. Finito il periodo di congedo, Eve lasciò il suo posto di lavoro come cassiera, e per un intero mese non uscì di casa. Passava le giornate a letto, a contemplare la pistola che fu di Ben, oppure in sala, seduta sul divano, immobile a fissare la foto sopra il caminetto raffigurante suo figlio sorridente a fianco del padre. Anche lui era morto. Otto anni prima, quando Alex ne aveva solo due. Ma quel giorno non aveva pianto. Un camion era piombato sulla sua macchina, parcheggiata di notte nel mezzo del parcheggio di un supermercato, mentre lui era impegnato a fottersi la sua amante. Il suo corpo fu ritrovato a più di cinquanta metri di distanza, con ancora i pantaloni calati sulle ginocchia e la faccia ebete di chi si sta per venire. Al funerale tutti fecero finta di non sapere nulla, come se sui giornali la presenza di quell’altra donna mezza nuda non fosse stata nemmeno accennata. A Eve non importava. Tanto già da mesi che era al corrente della relazione extraconiugale del marito. Quello stronzo non si premurava nemmeno di mascherare i suoi appuntamenti galanti sull’agenda o di nascondere le scatole di preservativi. Però c’era Alex, e così lei era sempre stata zitta, ingoiando chili e chili di bugie e ipocrisia. «Fanculo!», urlò lei, tirando via la foto dalla cornice e strappandola all’altezza del collo di Ben. «Fanculo tutti…» Eve si distese sul divano, andando a premere involontariamente il telecomando appoggiato sul cuscino. Il televisore si sintonizzò sul canale regionale. Era tardi. Il telegiornale dell’una di notte stava passando la rassegna stampa. Seguì il meteo. Brutto tempo per il giorno dopo. Infine cominciarono le televendite. Gli occhi di Eve erano fissi sullo schermo, senza tuttavia essere in grado di cogliere il benché minimo senso di quanto stavano vedendo. Lentamente le palpebre cominciarono a chiudersi, quando una sigla dal motivo idiota allontanò Eve dal mondo dei sogni. Sullo schermo comparve uno sfondo cartonato che riproduceva una cucina. Per alcuni secondi non successe nulla, poi apparve una donna vestita con uno di quei vecchi abiti a motivo floreale con la gonna larga che andavano tanto di moda negli anni Sessanta. Anche i lunghi capelli, tanto biondi da sembrare finti, seguivano la moda di quegli anni, con le punte arricciate all’insù. La donna della televisione stava piangendo, o meglio stava malamente recitando una scena di pianto, con le mani chiuse a pugno alzate ad asciugarsi due occhi da cui non scendeva alcuna lacrima. «Cosa ti succede, Helen?», domandò una voce maschile fuori campo. Dalla destra dello schermo entrò un uomo, vestito tutto di bianco, con la sola eccezione di un papillon rosso a pois gialli. Sembrava un gelataio; gli mancava solo il cappello. La donna tirò su con il naso. «Oh, Bob, sono così triste!» «E perché mai, Helen?» «Perché ho appena perso una persona molto cara…» «Oh, mi dispiace così tanto. E chi era? Forse tua suocera?» «Se fosse stata lei, non sarei di certo così triste.» Una risata preregistrata giunse dalle casse del vecchio televisore. «Ah, mia cara Helen, hai proprio ragione.», rise l’uomo vestito da gelataio, mostrando due fila di denti bianchi e perfetti. «Ma allora di chi si tratta?» «Oh, Bob, si tratta del mio bambino. È finito sotto un’auto mentre giocava a pallone con i suoi amici… E ora mi manca così tanto…» Helen riprese il suo patetico tentativo d’interpretare una donna in lacrime. «Ma Helen, non c’è bisogno che piangi per così poco. Non lo sai che oggi esiste la soluzione che fa proprio al caso tuo?» La donna riaprì un occhio. «Mi stai forse prendendo in giro, Bob?» «Certo che no, Helen. La soluzione esiste davvero, e si chiama Resurrex!», l’uomo vestito da gelataio si fermò un attimo e prese dalla tasca interna della giacca un bustina bianca. «Ti basterà riempire una vasca d’acqua fredda, immergerci un pezzetto del tuo caro e versarci sopra il contenuto di questa bustina di Resurrex.» La donna della televisione allontanò i pugni dalle guance, andandoli a piantare sui fianchi per assumere quella che secondo lei doveva essere un’espressione a metà tra il broncio e la rabbia. «Oh, Bob, smettila di raccontare fandonie! Non è divertente!» Già, non è divertente, pensò Eve. Chi poteva essere tanto perverso da mandare uno sketch come quello nel mezzo della notte? Si ripromise di chiamare la sede del canale regionale il giorno dopo. Anzi, meglio, li avrebbe denunciati. Figli di puttana… «Nessuno scherzo, mia cara Helen. Nessuno scherzo. Ti basterà fare come ti ho detto e – puff! – il tuo bambino tornerà tra noi. Dimmi: ti ricordi di Catherine?» «La tua ex moglie? Certo che me la ricordo. Ormai sono passati quasi due anni da quell’incidente in cui è morta.» «Morta lo dici tu!» Una seconda voce femminile giunse da fuori campo, mentre un’altra donna entrava in scena, accompagnata da una risata preregistrata e da una serie di applausi e fischi. «Catherine, sei proprio tu?», disse la donna che aveva perso il figlio. «E chi altri potrei essere, Helen?» «Ma tu… Ma cosa… Ma come…» «Oh, è tutto molto semplice, mia cara Helen.», riprese a parlare l’uomo vestito di bianco. «E la risposta è tutta in questo nome: Resurrex. Come ti dicevo, mi è bastato versare il contenuto di una bustina in una vasca piena di acqua fredda assieme a un suo dito – meglio se non ti spiego come ho fatto a recuperarlo –» Occhiolino dell’uomo ed ennesima risata preregistrata. «e dopo appena una settimana la mia Catherine era di nuovo al mio fianco.» «Più bella che mai.» Aggiunse Catherine, ammiccando verso la telecamera. «Quindi basta davvero così poco?» «Ma ceee-erto. Però mi raccomando: stai attenta alle dosi. Se vuoi far tornare in vita una persona adulta dovrai usare un’intera bustina di Resurrex; ma se invece, come nel tuo caso, si tratta di un bambino, allora ti basterà solo mezza bustina.» «Oh, Bob, sono così contenta ora. Grazie, grazie mille.» Il gelataio si girò a guadare verso la telecamera. «Non ringraziare me, Helen, ma ringrazia Resurrex. Resurrex: e torni più in forma che mai.» Sullo schermo comparve un numero di telefono, poi l’immagine si sfuocò e passarono i titoli di coda, dove in rapida successione scorsero i nomi degli attori e dei tecnici. Sconvolta da quanto appena visto, Eve spense il televisore e scoppiò a piangere. Guardò la foto strappata, abbandonata ai piedi del divano. Il suo bellissimo Alex le sorrideva, abbracciato al busto del padre. Eve prese la foto in mano, accarezzando con le dita l’immagine del volto del figlio. Rimase a fissarla per interi minuti, come aspettandosi che da un momento all’altro quella foto prendesse vita e le parlasse. Il vecchio orologio a cucù del salotto segnò le tre di notte. Eve diede un bacio alla foto e s’indirizzò verso la camera da letto. Ma appoggiati i piedi sui primi gradini delle scale che conducevano al piano superiore, un rumore proveniente dalla sala attirò la sua attenzione. Era una canzone. Eve tornò indietro e vide il televisore di nuovo acceso. Un contatto, pensò. Poi sullo schermo comparvero Helen, Bob e Catherine che ripetevano le stesse battute di prima. E così fu anche per una terza, quarta e quinta volta. Cazzo, non era uno sketch! Le parole dei tre personaggi tormentavano Eve come la cantilena di una filastrocca per bambini. Verso le quattro ci fu l’ultimo passaggio. Sullo schermo ora c’era soltanto il numero da chiamare per ordinare il prodotto. Eve fissò quella serie di numeri come ipnotizzata. Quasi senza accorgersene, si ritrovò con in mano la cornetta del telefono. Per alcuni istanti indugiò sui tasti, poi compose il numero. Dall’altra parte della linea, il telefono squillò tre volte, prima che qualcuno rispondesse. «Prooo-onto! In cosa posso servirla?» Era la voce del gelataio. Eve farfugliò qualcosa, senza trovare le parole adatte. «Scommetto che chiama dopo aver visto la nostra televendita, dico bene?» «S-sì… Credo di sì.» Dall’altro capo del telefono si sentì come un rumore di pagine che vengono sfogliate. «Molto bene, mia cara signora. Molto bene. Innanzitutto la ringrazio a nome di tutta la ditta per la fiducia accordataci. Le posso assicurare che non si pentirà del suo acquisto. Ma passiamo alle questioni importanti. Di quante dosi di Resurrex ha bisogno?» «U-una… Una sola.» «Soltanto una? Se mi permette la vorrei informare della nostra offerta delle settimana. Compri tre, paghi due. Le può interessare?» «No, soltanto una.» «Nessun altro vecchio parente o amico che vorrebbe riavere con sé? La informo che il nostro prodotto funziona anche sugli animali.» «No! Ho detto soltanto una.» «E una sia, allora. Dunque, in totale sono trenta dollari, ma visto che dalla voce mi dà l’impressione di una persona simpatica, le applicherò uno sconto del dieci per cento. E ora ho bisogno solo dei suoi dati per la consegna…»
~ Occorsero appena due giorni perché l’ordinazione di Eve arrivasse a destinazione. Il campanello dell’ingresso suonò la mattina presto, ma quando la donna andò ad aprire la porta non trovò nessuno; soltanto un pacco della grandezza di un libro con la scritta “fragile” ai quattro lati e un etichetta con il suo nome e l’indirizzo dell’abitazione. Le ci volle più di un’ora prima di convincersi ad aprirlo. Dentro trovò soltanto un foglio con le istruzioni e una bustina bianca. Altrettanto tempo le occorse per decidersi a fare il grande passo. Per prima cosa lavò per bene la vasca del bagno (non voleva certo che qualche particella di sporco potesse compromettere il risultato finale); quindi la riempì sin quasi all’orlo e vi disperse dentro lo stesso ciuffo biondo di capelli che aveva stretto tra le mani il giorno del funerale. Quando infine aprì la bustina arrivata per posta, fece molta attenzione a versare le dosi esatte indicate nelle istruzioni aiutandosi con un contenitore graduato. Il famoso Resurrex si rivelò essere null’altro che una polvere bianca e fine, simile allo zucchero, almeno alla vista. A contatto con l’acqua, la sostanza si trasformò però in una schiuma giallastra e gorgogliante, sino a che il liquido non divenne denso e di colore verdognolo. Sette giorni. Tanto era il tempo necessario al miracolo, seconda quanto detto dal gelataio in televisione. Per i primi quattro non accadde nulla, tanto che Eve cominciò a temere di essere stata raggirata. In fondo, com’era possibile che esistesse una sostanza capace di riportare in vita i morti? Se fosse esistita davvero se ne sarebbe certo sentito parlare in giro; e altrettanto certamente non sarebbe stata venduta per soli trenta dollari su di un piccolo canale regionale. Era stata proprio un’ingenua. Fu quasi sul punto di aprire il tubo di scarico e di lasciar defluire via quel liquido ormai divenuto puzzolente. Ma non lo fece, preferendo attendere sino alla fine. In fondo, cosa le costava? Poi, il giorno successivo, da sotto la superficie dell’acqua cominciò ad intravedersi qualcosa, come degli strani filamenti simili alle radici delle piante acquatiche. Si muovevano in maniera lenta e disordinata. La donna si avvicinò per vedere meglio. I filamenti sembrarono reagire alla sua presenza, andando a concentrarsi sul bordo della vasca, quasi a volerla risalire. No, non poteva essere vero. Doveva essere la sua immaginazione. Quella… quella “roba” non poteva essere davvero viva. Eppure… Eve si spostò, girando attorno alla vasca. I filamenti si mossero, la seguirono. Un sorriso, dapprima impercettibile poi sempre più largo, si disegnò sulle labbra di Eve. «Alex…», sussurrò, prima di scoppiare a ridere.
~ Più tardi, quella sera, Eve chiamò sua madre al telefono, dicendole che non c’era bisogno che venisse il giorno dopo a pulire casa, che ci avrebbe pensato lei, che voleva tornare a tenersi occupate le giornate, per distrarsi, per voltare pagina. E in effetti quella non fu proprio una bugia. Per buona parte della giornata successiva Eve s’impegnò a pulire casa da cima a fondo, specialmente la cameretta di Alex. Voleva che al suo arrivo, anzi no… Voleva che al suo ritorno fosse tutto perfetto. Preparò anche una torta di crema e mele, la preferita di suo figlio. Ad ogni occasione, ne approfittava però per andare a dare un’occhiata in bagno. L’acqua diventava più limpida ora dopo ora, tanto che era ora possibile vedere con chiarezza quanto stava accadendo sotto la superficie. I filamenti erano aumentati di numero e anche nelle dimensioni, tanto da assomigliare quasi a delle alghe. Eve si chiedeva come fosse possibile che da quell’intrico verdastro potesse avere origine un corpo umano. Non che la cosa le importasse davvero. Soltanto poche ore, e il suo Alex sarebbe tornato da lei. La sera, prima di andare a dormire, Eve fece un’ultima visita in bagno. I filamenti erano andati a condensarsi in grumi, fra loro collegati da fibre più sottili e fosforescenti. Eve s’inginocchio per poter osservare più da vicino. In mezzo a quell’intrico di nervature s’intravedeva un piccolo ammasso lattescente, da cui sembrava aver origine l’intrico. La donna si sporse ancor più in avanti, tanto da sfiorare la superficie dell’acqua con il naso. Non riusciva a capire cosa mai potesse essere quella specie di sassolino. Le lievi increspature dell’acqua ne rendevano incerti i contorni. All’improvviso l’ammasso lattescente girò su se stesso, mostrando nel suo mezzo un’iride azzurra. Eve cadde all’indietro per lo spavento. Era un occhio! Quella “cosa” era uno degli occhi del suo bambino. Facendosi coraggio, Eve si riaffacciò sulla vasca. Ancora una volta, i filamenti reagirono alla presenza della donna. Lentamente i grumi cambiarono di posizione, andando a modellare l’abbozzo di un corpo. Anche l’occhio si mosse, spostandosi in quello che doveva essere il cranio. Eve non credeva a quanto stava vedendo. Sembrava di guardare il modello dell’apparato circolatorio umano, anche se, più i minuti passavano, più i filamenti si facevano compatti, simili ora alle nervature dei muscoli. Cinque sottili protuberanze si allungarono da uno dei grumi, creando una mano. Le dita si mossero, dapprima in maniera quasi impercettibile, poi sempre più decisa. Il braccio dell’essere si alzò ed uscì di qualche centimetro dall’acqua. Eve allungò la mano verso quella di suo figlio – perché quello era suo figlio! – e la toccò. Subito si ritrasse però, turbata da quel contatto. La donna si alzò in piedi e, camminando all’indietro, uscì dal bagno, mentre l’unico occhio di Alex non smetteva di fissarla.
~ Il mattino seguente Eve non entrò in bagno. L’esperienza del sera prima l’aveva agitata a tal punto da averle reso difficile trovare il sonno. Così, al trillo della sveglia le sembrarono passati pochi istanti da quando si era addormentata. Ciononostante si sentiva piena di energie. Per prima cosa andò a togliere la torta dal frigorifero. Poi si spostò in sala e inserì nel grammofono appartenuto a suo padre il disco con le Quattro stagioni di Vivaldi, spostando la linguetta sul taglio da cui partiva La primavera. La musica riempiva tutta la casa, la colmava, mentre Eve danzava sul tappeto a piedi nudi, ruotando su se stessa. Aveva voglia di gridare, di annunciare al mondo intero il ritorno di suo figlio. Rise. Rise senza un motivo, a voce alta, lanciando piccoli strilli di felicità. Attorno a lei la stanza girava vorticosamente, con i mobili ridotti a un ammasso confuso di forme e colori. Un’ombra si mosse in un angolo. Eve rallentò, fu su punto di perdere l’equilibrio e per poco non stramazzò per terra. Non appena ebbe recuperato piena padronanza del suo corpo, spostò lo sguardo nella direzione in cui le era sembrato d’intravedere quell’ombra. Ai piedi delle scale, un bambino la guardava. Era nudo, il corpo bagnato e i capelli gocciolanti. Eve si portò le mani sulla bocca, soffocando un urlo. Il bambino aprì la bocca, come per voler dire qualcosa, senza però riuscirci. Le labbra si mossero incerte, balbettando suoni senza senso. Poi dalla gola giunsero timbri più decisi, e infine parlò. «Ma… mamma.» Nell’udire quella parola, Eve scoppiò a piangere e ridere allo stesso tempo. Si lanciò verso il suo bambino e lo abbracciò con forza, continuando a ripetere il suo nome e a baciarlo sulle guance e sulla fronte. Gli prese la testa tra le mani e gli ripeté decine di volte quanto gli era mancato. Ma ora era tutto finito. Ora erano di nuovo insieme, di nuovo una famiglia. Eve prese suo figlio per mano e lo accompagnò in cucina. Dopo avergli dato un’asciugata veloce con il copridivano, lo fece accomodare a tavola. Gli tagliò una grossa fetta di torta e si sedette davanti a lui. Mentre Alex era intento a mangiare in silenzio, Eve lo ammirava sorridendo. Non c’erano dubbi: quello davanti a lei era proprio il suo bambino. Finito di fare colazione, si spostarono nella vecchia cameretta di Alex. Eve aprì l’armadio e tirò fuori i vestiti più belli. Si divertì ad agghindare suo figlio, proprio come una bambina con la sua bambola preferita. Rideva, Eve; e scherzava. Faceva facce buffe e commentava ogni gesto di Alex con vocine stupide. Era così contenta… Alex, invece, era sempre serio. Sul suo volto non traspariva alcuna emozione. In fondo era ancora presto, pensava Eve. Doveva ancora abituarsi alla sua nuova vita. Chissà com’era stare dall’altra parte? Non glielo chiese. Ora Alex si girava per la camera con aria sperduta. Pareva non riconoscere nulla di quanto lo circondava. Da una mensola prese in mano il modellino di un cacciabombardiere della Seconda Guerra Mondiale. «Quello era… è il tuo preferito», disse Eve, seduta sul letto. «Te l’ho regalato per il tuo ultimo compleanno. Ti ricordi?» Alex rimise a posto l’aereoplanino.
~ I giorni che seguirono furono per Eve i più belli della sua vita. Li trascorreva sempre a casa, ma adesso c’era anche Alex con lei. La mattina si svegliava di buon’ora per preparargli una colazione abbondante. Poi, dopo aver lavato i piatti, giocavano insieme a Risiko, Monopoli o dama, e alle volte anche a nascondino. Ogni tanto Alex diceva qualcosa, singole parole, il più delle volte semplici monosillabi, capaci però d’infondere nuova gioia nelle vene di sua madre. Stava tutto tornando com’era una volta, continuava a ripetersi Eve. Il resto della giornata lo trascorrevano a fare lavoretti con la pasta di sale – Alex aveva sempre amato impiastricciarsi con la pasta di sale – oppure pitturando piatti di terracotta. La sera, infine, dopo avergli fatto il bagno, Eve si coricava con il suo bambino e gli leggeva un libro, accarezzandogli i fini capelli biondi finché lui non si addormentava. Era così felice, Eve. Però c’era ancora il problema di sua madre. Per evitare che Lilian potesse balzare a casa sua all’improvviso, Eve prese l’abitudine di andarla a trovare un paio di volte alla settimana. Lilian fu felice di vedere la figlia essersi finalmente ripresa dal lutto, tanto che dopo un paio di settimane le propose di ricominciare a lavorare. Le disse di conoscere una persona in cerca di una commessa. Ma come poteva Eve accettare? Non poteva certo dire a sua madre di Alex. Non avrebbe capito. Nessuno poteva capire. Alla fine Lilian fu costretta a rifiutare l’offerta. Rispose che per il momento preferiva stare ancora un po’ da sola, che non se la sentiva di fare un lavoro a contatto con tante persone. Ma non doveva preoccuparsi, sua madre. Lei aveva ancora parecchi soldi in banca, abbastanza da permetterle di vivere senza preoccupazioni per almeno altri tre o quattro mesi. Quel giorno Eve tornò a casa inquieta. Cosa avrebbe fatto quando i soldi sarebbero davvero finiti? L’idea di dover lasciare Alex solo in casa per gran parte della giornata non le piaceva. Già durante quei due pomeriggi alla settimana in cui si recava dalla madre Eve provava un continuo senso di colpa. Si sentiva un’irresponsabile. La paura di tornare a casa e di non ritrovare Alex era così grande da tormentarla senza sosta, anche se faceva il possibile per non darlo a vedere. All’interno dell’appartamento di sua madre recitava la parte della giovane vedova affranta, ma desiderosa di ricominciare da capo. Ma appena uscita da quella casa, si lanciava in macchina, cercando disperatamente le chiavi dell’auto nella borsetta. Guidava per le strade cittadine a gran velocità, le dita delle mani che tamburellavano in maniera isterica sul volante. No, non voleva tornare un’altra volta a casa e non trovarlo più. Senza nemmeno chiudere la portiera dell’auto, Eve corse ad aprire l’ingresso, per poi fiondarsi dentro. L’abitazione era stranamente silenziosa. Eve fece un paio di passi avanti, quando uno scricchiolio ne attirò l’attenzione verso il basso. Sotto i suoi piedi si trovava quel che rimaneva di una cornice. Era quella che per anni aveva conservato la foto di Alex abbracciato a suo padre, quella a cui Eve aveva tagliato il bordo superiore. Solo che ora non era più soltanto la testa di Ben ad essere stata strappata, ma anche quella di Alex. La donna si guardò intorno, notando solo ora che tutte le foto della casa in cui era ritratto suo figlio era state mutilate. Eve corse al piano superiore, gridando il nome di suo figlio. Entrò nella sua stanza. Lo vide. Alex era seduto sul pavimento a gambe incrociate, le mani sanguinanti, mentre in stato catatonico muoveva la testa avanti e indietro, avanti e indietro. Attorno a lui, il parquet era ricoperto di cocci di vetro e cornici in frantumi. Strappate in mille pezzi, tutte le foto che lo ritraevano erano ammucchiate in un angolo. «No, no, no!», ripeteva Eve. La donna raggiunse il figlio, lo abbracciò, lo baciò sulle guance e sulla fronte, senza mai smettere di dirgli che ora con lui c’era la sua mamma, che non doveva più tremare, che si sarebbe occupata lei di lui. Poi lo prese in braccio e lo portò in bagno per poterlo disinfettare. Alex si lasciò medicare senza emettere un solo grido di dolore, guardando, anzi, il sangue che defluiva dalle sue ferite con curiosità quasi morbosa. Quando sua madre ebbe applicato l’ultimo cerotto, parlò. «Chi è lui?», domandò, cogliendo Eve di sorpresa. Era la prima volta che Alex le parlava, che le parlava davvero. «Lui chi, tesoro?» «Il bambino delle foto. Chi è?» Eve sorrise. «Ma amore mio, quel bambino sei tu.» «Non è vero!», urlò Alex. «Tesoro, non urlare.», disse Eve, sempre più turbata da quello strano comportamento. Per tutta risposta lui prese a sbattere i piedi e a lanciare altre grida. «Alex, che cos’hai? Ti senti poco bene? Vuoi… vuoi che ti prepari un bel tè caldo?» Ma Alex non la smetteva di gridare, tanto che Eve fu costretta a tappargli la bocca con le mani per non rischiare di attirare l’attenzione dei vicini. Occorsero alcuni minuti prima che Alex la smettesse di agitarsi. Il bambino si rilassò, stretto tra le braccia di Eve, e alla fine si addormentò.
~ Il mattino seguente tutto sembrava essere tornato alla normalità. Alex scese a fare colazione, silenzioso. Eve lo guardava dall’altro lato della stanza, intenta a sistemare la dispensa. Quando ebbe finito di mangiare, il bambino si alzò da tavola, andò a lavarsi le mani e infine si sedette sul divano della sala, gli occhi fissi sul televisore spento. Eve lo raggiunse poco dopo. In mano teneva il vecchio album delle foto. Alex fece per ritrarsi nel vedere il libro. Con gesti lenti della mano, Eve prese a sfogliare l’album, spiegandogli di chi fossero quelle foto. Le prime immagini si riferivano al giorno del matrimonio tra Eve e Ben; seguivano quelle della loro prima casa (un minuscolo monolocale di un palazzaccio in periferia) e dei primi mesi di gravidanza. Quando Eve girò la pagina che mostrava Alex ancora neonato, lui arricciò le labbra in una smorfia. Ad ogni pagina la sua espressione cresceva di disgusto. Nelle foto ora Alex aveva sei anni, poi sette, otto, nove… Le pagine più recenti si riferivano al suo ultimo compleanno. Ma quel bambino sorridente con un cappellino a punta e le spalle ricoperte da coriandoli non era lui. No, era solo una copia, un’inutile, schifosissima copia! Alex strappò l’album dalle mani di Eve e lo gettò via, gridando e correndo nella sua stanza. Eve lo rincorse, cercò di rassicurarlo, di farlo stare zitto. Ma lui non la smetteva. Gridava, gridava, gridava! E lo stesso fu nei giorni successivi. E poi anche la notte, quando si svegliava e cominciava a urlare parole senza senso, scalciando, graffiando, mordendo. Eve era disperata. Non riusciva a capire quell’assurdo comportamento. Alle volte sembrava quasi che Alex non la riconoscesse nemmeno mentre le lanciava contro frasi che una madre non vorrebbe, non dovrebbe mai sentire. Alla fine Eve fu costretta e prendere Alex per la forza e trascinarlo giù in cantina. Non avrebbe voluto farlo, ma non aveva alternative. Quella mattina la signora Abbott, la sua vicina di casa, si era presentata un’altra volta alla porta di casa, esigendo spiegazioni su cosa fossero quei rumori che si sentivano la notte. Eve l’aveva allontanata senza troppa eleganza, suggerendole di farsi i fatti suoi. Ma non poteva rischiare che quell’impicciona della signora Abbott venisse a conoscenza di Alex. Doveva impedirlo, altrimenti sarebbero venuti a prenderle il suo bambino. E lei non lo voleva, perché Alex era suo, suo soltanto. Per questo motivo fu costretta a rinchiuderlo nella cantina. Tutti i giorni lo andava a trovare per portargli da mangiare, per cercare di giocare con lui. Ma lui non voleva. Continuava a gridare e a colpirla. Un giorno le aveva addirittura tirato addosso un piatto. Ormai Eve non sapeva più come comportarsi. Alex non mangiava più, non permetteva neanche di essere sfiorato. Ogni volta che lei scendeva in cantina, lui la aspettava in un angolo, come un animale randagio, gli abiti lerci e gli occhi rabbiosi. Poi, senza preavviso, scattava contro Eve, per attaccarla. Ma le corde che gli legavano piedi e braccia al muro glielo impedivano. Eve lo aveva legato una settimana prima, quando ormai si era resa conto di non poter fare altrimenti. Aveva usato delle corde di quelle che si usano per assicurare le piccole imbarcazioni agli attracchi, annodate attorno a un paio di anelli fissati nel muro. Sulle braccia portava ancora i segni di quando aveva legato il suo bambino. Ormai erano passate tre settimane da quel giorno. Ogni volta che scendeva in cantina, si sentiva male. Quale madre lega il proprio figlio a un muro? Ma lei era stata costretta, non avrebbe potuto fare nient’altro. Lei voleva bene al suo bambino, lo amava. Ecco perché aveva dovuto farlo. Solo lei era in grado di capire quanto amore ci fosse in quel suo gesto. Solo lei. Eppure ogni giorno diventava più difficile. Da quanto non riusciva più ad abbracciarlo o a dargli un bacio? Ma cos’altro poteva fare? Era pur sempre suo figlio, il suo Alex. Una mattina Eve scese in cantina con un secchio e una spugna. Era il giorno del bagnetto. Non voleva che il suo bambino fosse sporco, altrimenti chissà quante malattie rischiava di prendersi. Ormai non faceva nemmeno più caso agli sputi, alle unghie di Alex che la graffiavano dappertutto. Quello era il suo bambino e lei lo amava. Tutto il resto non era importante. Quella mattina, però, Eve non si rese conto che le corde che legavano Alex al muro erano ormai divenute deboli a causa dei suoi continui morsi. Lei cadde all’indietro, facendo rovesciare il secchio pieno d’acqua. A pochi centimetri di distanza, Alex agitava le mani e digrignava i denti. Soltanto la fune stretta attorno al piede destro aveva resistito. «Chi sei?», gridò Alex. «Chi sei tu?» Eve aprì la bocca, ma dalla gola non arrivò una sola parola. «Chi sei?» «Sono io, amore caro. Sono la tua mamma.» «No! Tu non sei la mia mamma!» Eve guardò il viso di Alex, deformato dalla rabbia. No, quello ormai non era più il suo bambino. Quell’essere non era più il suo Alex, il suo dolce, piccolo Alex. Era… era qualcos’altro. La donna si rimise in piedi, mentre l’essere continuava ad agitarsi e urlare. Corse al piano superiore e poi in camera da letto. Aprì tutti i cassetti, alla sua ricerca. Dove l’aveva messa? Dove? La trovò. Eve uscì in corridoio, la pistola stretta tra le mani. Alex la aspettava lì fuori, ormai completamente libero dalle corde. «Chi sei?», ripeté ancora una volta. Ora il suo volto sembrava essere tornato normale. «Sono la tua mamma, Alex. Non mi riconosci?» «No, tu non sei la mia mamma. La mia mamma è bella e mi vuole bene.» «Smettila, Alex, ti prego…» «Tu non sei lei!» «Smettila…» «Tu non sei la mia mamma.» «Smettila, smettila, smettila!» «Tu non…» Bang!
~ La lancetta dei secondi ultimò il suo giro attorno al quadrante, facendo scattare il congegno che muoveva l’orologio a cucù a forma di baita. Da una porticina uscirono fuori due amorini che si tenevano per mano. Le dieci. Ormai doveva essere pronta. Il bambino si alzò dal divano, salì le scale, scavalcò il corpo di una donna con la bocca aperta dalla quale usciva la canna di una pistola. Si domandò chi mai potesse essere, quella donna. Non riusciva a ricordarlo. In fondo non era importante. A piccoli passi, il bambino entrò nella stanza da bagno e si avvicinò alla vasca. Una settimana. Così vi era scritto sulle istruzioni: bastavano solo sette giorni perché il processo potesse concludersi. Era stata una vera fortuna trovare quella bustina usata solo a metà. Il bambino guardò dentro la vasca. Sotto il pelo dell’acqua, un intrico di filamenti e viticci verdastri fluttuava, organizzandosi in piccoli grumi. Sì, era davvero pronta. Il bambino guardò la sua mamma con una tenerezza infinita. Immerse una mano nell’acqua e la accarezzò. Era così bella. Però era anche incompleta, e questo lui lo sapeva. In fondo c’era scritto anche sulle istruzioni che mezza bustina non sarebbe bastata per un corpo adulto. Ma lui sapeva come fare. Il bambino entrò nella vasca, vi s’immerse. Lasciò che i filamenti si attorcigliassero attorno al suo corpo, che lo ricoprissero sin sopra gli occhi e dentro la bocca. Perché così sarebbe diventato una cosa sola con la sua mamma, l’avrebbe completata. E finalmente sarebbero stati insieme. Per la prima volta. Per l’ultima. Per sempre.
Edited by Okamis - 20/8/2008, 17:18
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