Vodka senza ghiaccio
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Vodka senza ghiaccio

thriller - Nicola Roserba - 16500 battute circa

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  1. shivan01
     
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    Ciao, mi ripresento con una cosa un po' diversa dalle mie solite. Spero che lo sforzo abbia prodotto qualcosa di leggibile.
    A voi!


    VODKA SENZA GHIACCIO





    La luce scroscia giù dai lampioni, inondando l'asfalto in pozze di luce pallida.
    La mia figura emerge a tratti dall'ombra, sotto lo sguardo distratto di altri zombi come me che passano per la via.
    Cammino lento, scalciando rifiuti a terra con rabbia, quasi fossero pezzi della mia vita.
    Lo sguardo a terra, procedo, vagamente conscio della mia postura ingobbita, quasi che la mia inadeguatezza mi pesasse come uno zaino pieno di occasioni perse.
    Vado a buttare nel cesso una serata, e un pezzo di me, annegando nell'alcool scadente di quello schifoso bar di periferia le sfighe della mia esistenza insignificante.
    La stronza se ne è andata da mesi, ormai, lasciandomi negli occhi quel sorriso di circostanza che spariva dietro la porta.
    Un'espressione che voleva trasmettere tristezza, e malinconia per un'occasione sprecata. Ma non c'era solo quello, ne sono sicuro.
    E' sparita da tempo dal mio radar, ma non riesco a riprendermi. Mi maciullo la coscienza per convincere me stesso che è una bastarda, che ci ho guadagnato, ma non funziona, almeno non ancora.
    Mi aveva fatto grandi discorsi, Daniela, per spiegarmi perché fosse finita. Tante belle parole, ma alla fine non mi è rimasto che un mare di fotografie e tanto silenzio dentro.
    Non riesco a uscirne fuori, da allora. Mi sveglio la notte annaspando tra le lenzuola in cerca di lei, ma Daniela non c’è più da tempo. Il vuoto della stanza, in quelle ore scure, sembra mangiarmi.
    Gli amici dicono di rifarmi una vita, corredando questo concetto profondo con una bella sfilza di luoghi comuni. “Non ti merita”, “E’ una puttana”. Cose che fa piacere sentire a uno che ama ancora.
    A risuscitare non riesco, e non ho nemmeno voglia. Preferisco coltivare il mio dolore da solo, e darmi dello stronzo anche per questo.

    Spingo la porta del bar. Non c'è buttafuori, non serve. Piuttosto qualcuno per trascinare la gente dentro, quello sì che sarebbe utile.
    L'aria pesante e l'odore di alcool, fumo e umanità depressa, mi investono. Sono a casa.
    Qui non c'è divieto di fumare, sarebbe inutile. Chi viene in questo posto non lo fa per divertirsi, ma per annegare nell'incoscienza una vita che non sopporta più.
    Le luci sono basse, la musica non troppo alta, per non disturbare.

    Siedo al bancone, come tutte le sere.
    Mario lo sa, non mi chiede niente e mi allunga una vodka, la prima di una lunga serie. Liscia, senza ghiaccio, salatini, olivette, o altre stronzate che servono a festeggiare, non a ubriacarsi.
    Il liquido traslucido mi restituisce l’immagine da perdente che mi sto cucendo addosso, giorno dopo giorno, nell’anima prima che nel corpo. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso, comunque.
    Prendo il bicchiere e butto giù una prima sorsata.

    Mi guardo in giro.
    C'è il solito campionario di sconfitti. Lo si vede dalle facce, da come si vestono, dalle loro età tristemente giovani.
    Gente di quarant'anni scarsi che ha già preso tre gol dalla vita, e in panchina non ha più nessuno da buttar dentro.
    Uomini, ma anche tante donne. Ci sono quelle che si sono lasciate travolgere e hanno buttato in un armadio polveroso ogni rimasuglio di femminilità, e quelle che ancora ci provano, che sono forse ancor più patetiche, agghindate con gonne al pelo e capelli cotonati di un biondo impossibile.

    Sto facendo il mio appello mentale, per vedere chi c'è anche stasera, quando mi accorgo che una di quelle in tiro mi guarda.
    Non fisso, ma di sottecchi. Mi osserva da dietro una cascata di capelli ricci e quello che mi sembra un whisky con ghiaccio. Un'eresia, ma fatta da una donna è sopportabile.
    Mi volgo di nuovo al bancone, mentre Mario mi passa un'altra vodka. La prima è già storia.
    Lo pago con un cenno di ringraziamento, e mi perdo nei miei pensieri.

    Dopo un tempo indefinibile, ma breve, visto che la vodka è ancora viva, mi rivolgo ancora verso la riccia, e lei è lì che mi fissa. Le sorrido, dosando l'espressione per darmi un tono.
    Mi fa un cenno, lieve.
    Mi giro di nuovo, non ho voglia di conoscerla, non mi va di parlare con nessuno, ma sento, dopo pochi secondi, una nuvola di profumo avvolgermi e, con un fruscio, la donna si siede accanto a me, "Ciao! Posso?"
    "Veramente ti sei già seduta...", le rispondo, abbinandoci un sorriso per non sembrare sgarbato.
    Lei mi ringrazia e si aggiusta sullo sgabello. Io approfitto per farmene un'idea. Belloccia, ma senza essere eccessiva. Molto è dovuto al trucco e al parrucchiere, penso, ma non è importante.
    Una camicia bianca, leggera abbastanza da farmi capire che il reggiseno sta facendo una fatica dannata a tenere tutto a posto, e una gonna, corta ma non troppo, che fascia un paio di gambe niente male.
    Mi scopro interessato a lei, e allora cerco nei cassetti della memoria, quelli con su l’etichetta ‘frasi a effetto’, qualcosa che faccia al caso mio. Ma non sono mai stato un granché a rimorchiare, e quindi opto per un banale “Come ti chiami?”
    “Diana!”, mi fa lei garrula, “E tu?”
    “Marco.” le dico, studiando una posa maschia, mentre sorseggio la vodka. Mi sento un po’ ridicolo, una sorta di Humphrey Bogart di periferia. La donna però non dà cenno di pensarla così.
    Parla. E parla. Di sé, del suo matrimonio finito, e di come si è risollevata. Storie già sentite, niente di nuovo o di originale. A me non importa, sono in ascolto di me stesso, della mia coscienza vagamente sorpresa di provare interesse per quella femmina. No, per quella persona. Non è questione di sesso, perlomeno non ancora.
    Lei sorride, e gesticola nel parlare, i grandi occhi di un azzurro cenere galleggiano su di un viso appena segnato dall’età. Le do una quarantina d’anni, non di più, e nemmeno portati malaccio. Lineamenti gentili, un’espressione speranzosa, come pregavo non fosse la mia. Patetica? Ma no, perché?
    Le parlo di me, allora, per vedere come va a finire la storia. Mario, compagno e confessore di tante serate, gira al largo, discreto.
    Il tempo fila via veloce, e questa è la cosa migliore, penso. Finalmente quella notte sarei andato a letto senza la convinzione di aver buttato nel cesso un altro giorno, e il farlo da solo o in compagnia non fa alcuna differenza.
    Lei però si avvicina, piano, come solo le donne sanno fare.
    Quelle movenze che ti lasciano il dubbio che siano state casuali o misurate. Studiate per provocare una risposta, e lasciarsi libera di ritrarsi se la reazione non è appropriata. Un gioco vecchio come il tempo. Sorrido tra me. Quelle mosse non sono mai casuali, l’ho imparato, ormai. Non reagisco, e non per ritrosia o pudore, ma perché non voglio rompere quell’incantesimo, preferisco godermi quel rituale antico.
    Non faccio niente, allora, salvo virare la conversazione su piani più intimi, intriganti. Non è questione di argomenti, ma di aggettivi, silenzi, punteggiatura. Diana mi segue in questo gioco leggero. E, dopo un po’, è lei a rompere gli indugi. Con la scusa di volermi confidare un segreto, si avvicina, e mi infila una lingua nell’orecchio. E’ un tocco leggero, ma inequivocabile, se ancora ce ne fosse stato bisogno.
    Mi giro e la bacio. Una cosa veloce, delicata, e poi mi giro come se niente fosse stato. Che uomo, mi sento! Rido dentro di me, della mia vacua soddisfazione, di come avevo condotto le danze, e di tutto quanto.
    Lei mi è addosso, ora. Ci baciamo più decisamente. Da sopra la sua spalla scorgo uno sguardo di approvazione di Mario.
    “Andiamo via…” mi dice.
    Accetto subito, non vedo un motivo al mondo per non farlo, nemmeno Daniela. “Andiamo da me.”
    I suoi grandi occhi annuiscono, getto un cenno d’intesa a Mario, tutto sul conto, e la porto via.
    Usciamo da quel locale, io una volta tanto con le gambe che non tremano, lei abbarbicata a me.
    Ci avviamo nella notte. Non perdo tempo a guardarmi i piedi mentre cammino, e la strada di casa mi sembra non finire mai. Diana non parla più, ma mi bacia ogni volta che dobbiamo fermarci per attraversare. Ogni scusa è buona.

    La chiave scivola nella serratura con un fare sinuoso, quasi lascivo.
    Entriamo e lei mi sbatte al muro baciandomi con passione. Sento il calore del suo corpo che si muove contro il mio. La tocco, e la sento muoversi sotto le mie mani, languida, femmina.
    Poi Diana si stacca da me e si fa un giro per la casa. Salone, cucinino, camera da letto. Sembra misurare i locali con i passi. La guardo divertito, ancora appoggiato a quel muro.
    “Non mi offri qualcosa?”, chiede scoccandomi uno sguardo di sesso da far paura.
    “Ma certo!”, e mi avvio in cucina.
    In fretta, tiro fuori i bicchieri da whisky e un vassoio decente. Sento qualche rumore in salotto, e penso a quella sconosciuta che si sta spogliando o chissà cosa. L’eccitazione, quasi puerile, monta inarrestabile, rimettendo in modo parti di me che sono rimaste in letargo da troppo tempo.
    Rientro in salotto col vassoio in mano, e lei è in piedi, vestita, e con una strana espressione sul volto. Freno. Ho capito che la serata sta virando su altri finali.
    E infatti compare da dietro lo stipite un tizio.
    Un cappuccio in testa e un coltello. Mi pianto, conscio della mia postura ridicola, col vassoio in mano e una prepotente erezione a gonfiare dai pantaloni come uno stupido fantasmino libidinoso.
    “Dove sono i soldi, stronzo?”, sbraita quello. Diana mi guarda con un’espressione indecifrabile, seminascosta dalla mole dell’altro, come volesse nascondermi la sua colpa.
    “Allora?”, urla ancora l’incappucciato. Io mi scuoto, e provo con un “Non ci sono soldi in casa…”
    Lui neanche mi fa finire e avanza piantandomi la lama del coltello sotto la gola, con tutta l’intenzione di spingerla in su il giusto, se necessario.
    Il passamontagna non mi evita una zaffata di alito pregno di problemi digestivi, quando quello, a un centimetro dalla mia faccia, mi sibila, “So che c’è una cassaforte qua, stronzo. Tutte le case della zona ce l’hanno, quindi poche cazzate.”
    E’ vero, purtroppo. Quei due dovevano aver bazzicato il circondario da un po’.
    Esito, un po’ troppo, perché il mio aggressore, con un rapido movimento, mi taglia la gola. Una cosa sottile, superficiale, quel tanto per ribadire chi comanda.
    Mi prendo la gola con le mani, mentre il sangue disegna un bel dolcevita rosso sul collo.
    L’altro arretra, forse per non sporcarsi, non so.
    “Allora, idiota, stavolta è un taglietto, la prossima volta ti ammazzo. La cassaforte!”
    Il mio sguardo cade un attimo su Diana, che mi guarda spaurita, le mani sulla bocca a nascondere un’espressione che una rapinatrice non dovrebbe avere.
    Mi volto e stacco un quadro dalla parete. La cassaforte è lì. Mi volto a guardare il ladro. E’ a un metro da me, e mi grida: “Aprila!”
    La mano destra mi scatta sulla manopola della combinazione, faccio tutto lentamente. E’ difettosa, lo so, tende a incastrarsi, ma vaglielo a spiegare, poi, a quello!
    Metto la sinistra sullo sportello e spingo, per non far blaccare la serratura, ma anche per un’idea che mi sono messo in testa. Sarà una cazzata, lo so, ma non ho voglia di pensarci.
    La serratura scatta, senza far rumore, sento solo una piccola vibrazione sotto la mano. Il collo mi fa un male dannato. So che è un piccolo taglio, ma di quelli stronzi, che si fanno sentire, come quei cagnetti bastardi da taschino che abbaiano manco fossero rottweiler.
    “Allora?”, strilla ancora quello, stupidamente a distanza da me.
    “Sì, sì, ecco”, balbetto, mentre socchiudo impercettibilmente lo sportello. L’altro non sembra essersi accorto di niente. Chiudo gli occhi per un attimo.
    ‘Perché lo faccio?’, mi chiedo. La risposta è semplice: perché non ne posso più. Il tempo, e il mio cuore, si fermano per un attimo.
    Poi, in un solo rapido movimento, apro la cassaforte con la sinistra e afferro la pistola con la destra. Mi giro, ma il ladro è già partito. Lo vedo avventarsi su di me con il coltello in mano, e non faccio in tempo a puntare la Beretta. Il grido di Diana mi arriva da mille chilometri di distanza, mentre balzo di lato evitando la lama per pochi centimetri.
    Il coltello va a vuoto, ma non il ladro. Il suo peso mi sbilancia e cado a terra sotto di lui, sbattendo la testa al muro. La vista mi si ottenebra per un attimo, e intravedo a malapena l’uomo che cerca la sua arma, finita sotto il divano. La pistola, invece, è già volata lontano, inutile.
    Mi riprendo e cerco di liberarmi, ma lui riesce a bloccarmi con un braccio mentre fruga sotto il mobile. Un grugnito d’esultanza mi dice che è di nuovo armato.
    Si volta verso di me, cercando di sferrarmi un fendente, ma gli blocco la mano. La sua irruenza ci fa rotolare di lato. Gli sbatto il polso a terra una, due, tre volte. Lui molla il coltello e sono lesto a raccoglierlo. A questo punto fa una cazzata, e grossa. Cerca di prendermi alla gola.
    Io d’istinto cerco di liberarmi, ma poi faccio quello che devo, e gli pianto il coltello nel collo.
    L’uomo crolla a terra rotolandosi. Il sangue zampilla dalla ferita e gorgoglia fuori dalla bocca.
    Mi addosso al muro, e lo guardo morire.
    Da lontanissimo, sento arrivarmi le urla di Diana. Alzo gli occhi, e lei è lì, il viso come un Urlo di Munch coi riccioli biondi, impalata in mezzo al mio soggiorno che somiglia sempre di più a una cella di una macelleria.
    Il mondo si appanna per un secondo, poi d’improvviso ho come un click in testa, e la vista mi ritorna. Sono seduto in un lago di sangue, e con un sottofondo di grida che prende corpo nella mia anima.
    Se solo quello la finisse di agitarsi!
    Sono stranamente lucido. Non so perché, non dovrei, credo. Ho appena accoltellato un uomo nel mio soggiorno e tutto quello a cui so pensare è la tappezzeria del divano. Ora cosa devo fare? Ah sì! Mi alzo.
    Diana mi guarda, esterrefatta. La sua espressione muta dalla disperazione all’incertezza, e poi alla paura, nel vedermi in piedi, coperto di sangue, mio e del suo complice.
    La guardo per un attimo, immobile, poi lei scatta verso la porta. Eh, no! Non stavolta!
    Con un balzo sono su di lei, la prendo per la vita e cadiamo a terra.
    Mi rialzo e la trascino di nuovo verso il centro del soggiorno. La donna geme, ora, a terra, inginocchiata, e io torreggio su di lei.
    Taccio, finché non alza gli occhi e mi guarda. Allora le chiedo, “Perché lo fai?”
    “C-cosa?” Ora è il turno suo di balbettare.
    “Perché?”, le ripeto. La voce mi esce calma. Interessante.
    “Perché cosa? Ti prego lasciami andare!”
    “Andare? Perché te ne vuoi andare? Non stavi bene con me?”
    Lei mi guarda allibita, poi inizia a piangere. Da dietro di me non vengono più rumori, il tizio dev’essere morto. Così avrà finito di fare casino in salotto.
    “Chi era quello? Il tuo amante?”
    Lei non risponde, piagnucola, e mi irrita. Non deve piangere, cazzo, deve confessare. Le tiro uno schiaffo, forte.
    Lei crolla a terra. La tiro su per i capelli, e le ripeto la domanda, il mio viso a un centimetro dal suo: “Allora? Chi è quello, tesoro?”
    “Lui, lui…” inizia, ma non ce la fa a continuare, la stronza. Un altro schiaffo, e la tiro di nuovo su, strappandole un gemito e una consistente ciocca biondastra. Registro distrattamente che sarebbe ora di rinfrescare la tinta dei capelli.
    “Chi è, Daniela? Te lo scopi? Per questo mi lasci, eh?”
    “Chi-chi è Daniela?”, balbetta lei.
    Non deve prendermi per il culo, eh, no! Questo no! Stavolta le tiro un pugno, forte, e le rompo qualcosa. Il naso, credo.
    Lei attacca a urlare, come se il colpo le avesse sturato qualcosa. E io non ci vedo più.
    Picchio, e urlo, e picchio.
    Mi fermo solo quando non reagisce più alle botte, ma rimane raggomitolata a terra, tremante.
    Mi giro, e frugo per la stanza. Dov’è quella cazzo di pistola? Dove?
    La trovo ficcata sotto una credenza.
    Torno da lei, e mi accuccio davanti a quel corpo tremante. Attraverso la camicia strappata il seno prosperoso di Daniela fa capolino.
    Mi infilo la pistola nella cinta dei calzoni, e la tiro su, delicatamente, mettendola a sedere per terra.
    Lei non alza lo sguardo. Perde sangue dal naso e dalla bocca, ha un occhio tumefatto, l’altro incollato al pavimento.
    “Daniela…”, le dico dolcemente.
    “Chi è Daniela? Ti prego, lasciami andare.”, mi dice tra le lacrime.
    “Amore non lasciarmi, ti prego.”, le sussurro, carezzandole il viso ferito.
    Lei alza allora lo sguardo su di me, paura e odio nel suo occhio sano, “Perché mi fai questo, eh? Che ti ho fatto io? Bastardo fuori di testa!”
    Sfodero la pistola, senza fretta. Lei guarda il mio gesto sgranando l’occhio. Segue la pistola sollevarsi, e geme nel vedermi puntarla su di lei.
    Poggio la canna della pistola sulla sua fronte, lei non si ritrae ma si limita a trasalire al contatto col metallo freddo.
    “Sai che qualcuno dice che qui,” le dico premendo appena con la Beretta, “c’è il terzo occhio. Tu l’hai mai visto?”
    Lei non risponde, fa solo un flebile cenno di diniego con la testa.
    “Nemmeno io, forse sono le solite cose da guru del cazzo, per spillare soldi a deficienti che magari se lo meritano pure.”
    La guardo fisso, ora.
    “Dimmi la verità, Daniela, quello era il tuo uomo?”
    Fa cenno di sì, mormorando, “Non sono Daniela, mi chiamo Diana…”
    “E allora tutte quelle storie sulla tua libertà, che ti sentivi soffocare, dei tuoi spazi? Erano cazzate?”
    Non mi piace quello sguardo interrogativo. Ormai ho capito, perché nega?
    “Non farmi incazzare, Daniela, dimmi la verità.” Il tono della mia voce si alza un po’ .
    Lei, disperata, mi sussurra di sì. Mi viene da sorridere, e lo faccio. “Lo sapevo.”, le sussurro.
    E sparo.
    La testa di lei vola all’indietro, e batte a terra con un rumore sordo.
    "Lo sapevo che eri una puttana. Lo sapevo."


    Edited by shivan01 - 18/10/2008, 14:43
     
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  2. federica68
     
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    va bè Nicola, è un 4 per me.
    Il tuo "nuovo stile" non è niente male... me piase
     
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  3. Paola_Milli
     
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    Brrrrrr. E' una cosa completamente diversa da quello che hai scritto fino ad adesso.
    Per me potevi andarci giù ancora più pesante, soprattutto nelle descrizioni delle violenze. Il tuo personaggio è talmente marcio dentro che non se ne farebbe un problema ;)

    Voto: 3 - potevi osare ancora di più ;)
     
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  4. Arilya
     
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    Le storie "depressionarie tendenti al suicidio" non fanno per me ma un 4 non te lo leva nessuno. :D
    Sei riuscito a creare delle immagini bellissime nonostante l'argomento e tutto sembra così vero che non penso si potesse fare di meglio. L'evoluzione del protagonista nelle varie fasi della vicenda mi è piaciuta davvero molto e la storia del terzo occhio è veramente una genialata! :lol:
    Bravo Nic...

     
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  5. giobuzi
     
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    Belle atmosfere, buona scrittura, ma il tutto mi fa pensare a cose riviste e risentite. Telefilm, romanzetti e via dicendo. Con la tua bella scrittura, senso delle immagini e dei dialoghi mi piacerebbe leggere di te una storia più originale.
    Voto 2
     
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  6. kiwi65a
     
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    Nicola, non mi sono piaciuti i luoghi comuni (il bar, il barista, la biondona arrapata, l'uomo disperato che ci casca, ecc.). E poi, un rapinatore che è abbastanza freddo e determinato da fare un taglietto calibrato alla gola, solo per fare uscire un po' di sangue poi si fa infinocchiare in quel modo... insomma, non regge, secondo me.
    Comunque, non voglio farla tanto lunga. Sai che sono un buono e questa alla fine è una storia che si legge bene, ottimo stile, ritmo, immagini.
    Tra due e tre scelgo 3.
    Ciao
    Piero
     
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  7. shivan01
     
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    grazie a tutti i commentatores!
     
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  8. strumm
     
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    Eh, non lo so. Non mi convince come la storia vira nella parte finale, diventa un po' scontato, un po' trito. Boh, forse è una sensazione mia.
    Mi piace come è scritto, qualche immagine molto azzeccata e una scorrevolezza costante. Puoi pulire ancora qualcosa qua e là, ma funziona.

    Da correggere: "gran ché": se lo scrivi staccato l'accento si mette solo se lo scrivi attaccato.
    C'è una doppia virgola da qualche parte, probabile frutto di una correzione.

    Non voto per il momento, perché non ho un'idea chiara.

     
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  9. MisterEcho
     
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    Non male.
    Niente di esaltante, sia chiaro. Il racconto è piuttosto telecomandato, inizi a leggerlo e - più o meno - sai già dove andrà a parare. Ma questo non è necessariamente un male. Chi ha detto che bisogna stupire per forza?
    La struttura regge. E regge bene.
    Molto piacevole lo stile, crudo quanto basta e impreziosito da alcuni passaggi più raffinati e vagamente poetici.
    Non stanca, invoglia alla lettura. Prende.
    Decisamente riuscita l'evoluzione ( o involuzione) del protagonista, con le sue turbe psichiche che lo portano all'inevitabile conclusione. Mi è piaciuta un pò meno la storia del "terzo occhio": mi sembra un pò fine a se stessa. Avresti potuto benissimo approfondirla di più. Oppure eliminarla del tutto. Messa così, lascia un pò di amaro in bocca, ecco.
    Occhio, invece, alle ripetizioni. Se provi a rileggerlo con attenzione noterai che ce ne sono tante. Troppe.
    A partire dalla prima riga: quel luce/luce, ti confesso, mi aveva fatto storcere il naso fin da subito (poi, per fortuna, sono stato smentito dal proseguo della storia, ma se toppi all'inizio, il più delle volte sei fottuto ;) )
    Altre ripetizioni a caso:

    - finita/fine
    - vagamente/vagamente (a distanza di una frase)
    - sguardo/sguardo
    - sussurra/sussurro

    sono fastidiose, se devo essere sincero. Però è un difetto da niente, tranquillo.


    E poi, un'altra cosa che mi ha convinto poco è l'utilizzo di alcuni tempi verbali. Per un racconto costruito al presente, stonano un pò passaggi come questo:

    Lo sguardo a terra, procedo, vagamente conscio della mia postura ingobbita, quasi che la mia inadeguatezza mi pesasse come uno zaino pieno di occasioni perse.

    o questo:

    Il liquido traslucido mi restituisce l’immagine da perdente che mi sto cucendo addosso, giorno dopo giorno, nell’anima prima che nel corpo. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso, comunque.

    Non so, mi suonano male.
    O cambi tutto al passato oppure... boh. Forse sono un pirla :D

    Per il resto, ripeto, il racconto non mi è dispiaciuto, anzi. Ha fatto la sua porca figura.

    voto 3
     
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  10. strumm
     
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    CITAZIONE (MisterEcho @ 2/10/2008, 14:10)
    E poi, un'altra cosa che mi ha convinto poco è l'utilizzo di alcuni tempi verbali. Per un racconto costruito al presente, stonano un pò passaggi come questo:

    Lo sguardo a terra, procedo, vagamente conscio della mia postura ingobbita, quasi che la mia inadeguatezza mi pesasse come uno zaino pieno di occasioni perse.

    o questo:

    Il liquido traslucido mi restituisce l’immagine da perdente che mi sto cucendo addosso, giorno dopo giorno, nell’anima prima che nel corpo. Non che mi aspettassi qualcosa di diverso, comunque.

    Non so, mi suonano male.
    O cambi tutto al passato oppure... boh. Forse sono un pirla :D

    Ha ragione MisterEcho, sono da correggere al presente, o, come suggeriva lui, tutto il racconto va scritto al passato. :B):
     
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  11. shivan01
     
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    ok, è che ho provato a scrivere al presente per rendere più pressante l'azione. A questo punto correggo i verbi
     
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  12. MisterEcho
     
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    be' ma ci sta che scrivi tutto al presente. Solo, occhio poi al congiuntivo.

    se le frasi le riformuli così:

    Lo sguardo a terra, procedo, vagamente conscio della mia postura ingobbita, quasi che la mia inadeguatezza mi pesi come uno zaino pieno di occasioni perse.

    Il liquido traslucido mi restituisce l’immagine da perdente che mi sto cucendo addosso, giorno dopo giorno, nell’anima prima che nel corpo. Non che mi aspetti qualcosa di diverso, comunque.

    dovrebbero reggere. Credo.
    :D
     
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  13. strumm
     
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    Reggono, reggono.
     
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  14. paola6150
     
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    Buona capacità descrittiva. Sono riuscita a 'vedere' tutte le scene. I toni sono un po' deliranti e a tratti addirittura divertenti! Chiaramente non è il mio genere. Voto 3. Continua a scrivere. Sei bravo. Un saluto, Paola C.
     
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  15. Diz-buster
     
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    Un deciso salto di qualità.

    SPOILER (click to view)
    Prima parte godibilissima, con la sindrome da fallimento del protagonista, e la efficacissima descrizione delle tattiche da rimorchio!
    Il finale l'avrei preferito più filosofico, ma non è mio compito sostituirmi a chi scrive....


    Inoltre trovo notevole (più che riuscito) il tentativo di scrivere racconti svariando su più generi.
    Credo che il tuo stile "Cemento a presa rapida" ti favorisca in questo.

    Voto: :sisi: :sisi: :sisi: :sisi:

     
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59 replies since 1/10/2008, 13:44   786 views
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