La poesia sepolta
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La poesia sepolta

di Alfredo Mogavero , fantastico (?), 31118 caratteri

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  1. bravecharlie
     
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    ciao ragazzi, questo è l'ultimo racconto che ho scritto, spero piaccia :)


    La poesia sepolta



    Roma, 2008

    Il professor Caivani e la sua giovane assistente arrivarono trafelati al luogo da cui era partita la telefonata. Si trattava del cimitero Verano, dove in quei giorni una squadra di operai stava eseguendo dei lavori di ristrutturazione in seguito ad alcune piogge torrenziali che avevano minato la stabilità del suolo. Il cielo ora concedeva una tregua, e i manovali erano indaffarati tra le tombe con le schiene piegate. Solo il loro capo, un uomo alto con un paio di occhiali a montatura spessa e la barba di due giorni, se ne stava senza far nulla grattandosi di quando in quando il mento peloso.
    – È lei che ha chiamato l'università? – disse Caivani avvicinandoglisi.
    – Sì – rispose l'altro, stringendogli la mano. – Mi chiamo Ezio Silona, e sono il responsabile dei lavori. Dopo che abbiamo rinvenuto lo scrigno ho fatto un giro veloce di telefonate, scoprendo che lei è uno dei massimi studiosi di letteratura italiana di fine ottocento.
    – Così dicono, in effetti – Caivani cercò per quanto poteva di dissimluare il compiacimento, ma il suo ego da accademico lo portò comunque a rizzarsi più su dei suoi scarsi centossessanta centimetri. – Vuole spiegarmi che è successo?
    – Stavamo scavando intorno ad alcune tombe danneggiate da uno smottamento fangoso, – iniziò Silona – quando ci siamo accorti che una vecchia bara si era aperta. Dentro, assieme al cadavere, c'era un piccolo scrigno di legno...
    – Aperto anche quello? – chiese Caivani.
    – No, ehm... quello l'abbiamo aperto noi.
    Il professore scoccò uno sguardo eloquente alla sua tirapiedi, come a dire che non faticava a crederci. Molte delle facce degli operai non gli piacevano, e immaginava che quella gente non si facesse scrupoli a frugare tra le ossa dei morti in cerca di qualcosa di valore. Erano uomini rozzi e senza rigore morale, e se avevano deciso di chiamarlo era solo perché quello che avevano trovato non era sembrato loro facilmente rivendibile.
    – Eccolo qui – Silona aveva intanto preso lo scrigno aperto, che conteneva un foglietto spiegazzato, e lo stava mostrando a Caivani. – Senta, professore, io non capisco una ceppa di poesia, ma mi sembra che sia una cosa importante. Lei questa l'ha mai sentita?
    Caivani non sentiva più nemmeno le sue parole; apena gli occhi gli si erano posati sul foglio era entrato in uno stato semi-allucinatorio, e adesso le pupille gli andavano su e giù tra le righe sbiadite dal tempo in un movimento convulso. Quella che leggeva e rileggeva sul pezzo di carta che gli tremava in mano era proprio una poesia, e faceva così:

    Stanotte a' pelle tua me pare foco
    e l'occhi due carboni ne la faccia
    tu se la gemma de sta' baraccaccia
    co' te ero ricco, pure se avevo poco.

    Nun te n'annà, resta n'altro giorno
    nun avé fretta, strigneme la mano
    te sento respirare piano piano
    e me sparisce tutto il resto attorno.

    Mai io nun ebbi un modo che fu giusto
    per ditte quanto bene t'ho voluto
    e ora che te ne fuggi troppo presto
    me piagne il core pe'l tempo sprecato.

    Va', nun te tengo, so che non lo vuoi
    la vita tua non è più a questo monno
    scusa se tu me guardi e nun risponno
    ma me so' perso dentro l'occhi tuoi.

    Gabriele D'Annunzio

    – Un ine... un ine... un ine... – Caivani non riusciva a parlare per l'emozione, e pareva un disco rotto. Ci volle una potente pacca di Paola, la sua assistente, per riportarlo sul solco giusto. La ragazza lo colpì proprio in mezzo alle spalle, come se volesse fargli sputare un boccone indigesto, poi chiese:
    – Va meglio, professore?
    – Un inedito di D'Annunzio! – sussurrò con un filo di voce l'accademico. – Scritto di suo pugno... seppellito in una bara... mio Dio...
    – Si calmi, professore – supplicò Paola. – Le verrà una sincope!
    – D'Annunzio... inedito... bara... – continuava Caivani senza badarle. – ...unzio... dito... ara...
    – Ma coma fa a essere sicuro che sia originale? – azzardò Silona. – Non potrebbe essere un falso?
    – Scherza, per caso? – ferito nell'amor proprio, il professore tornò lucidissimo in un istante. – Ho visionato personalmente tutti i manoscritti esistenti di D'Annunzio, caro signore, uno per uno. Crede forse che non sappia riconoscere la sua scrittura a prima vista?
    – Ehm, no. Io...
    – È un originale di certo, anche se scritto in dialetto. Senta, lei sa chi c'era sepolto in quella bara?
    Silona scosse la testa. – Macché! – esclamò. – Dai brandelli di vestiti sembrerebbe una donna, ma la lapide era illeggibile. Provi a chiedere al custode.

    In un attimo fu mandato a chiamare il custode, che arrivò senza dissimulare la seccatura.
    – See? – mugugnò dietro la sua MS. – Che volete?
    – Potrebbe dirci chi era la persona seppellita in quella bara? – chiese Caivani. – Sarebbe molto importante.
    – E che ne so? – L'uomo allargò le braccia. – Questa è 'na zona dove venivano interrati i poveracci. Gente del borgo, che spesso nun c'aveva manco li sordi pe' 'na pietra tombale. Bisognerebbe guardare i registri, ma secondo me è inutile. Molti so' andati distrutti, e sarebbe 'na perdita de tempo.
    – Accidenti! – sbottò il professore. – Il mistero si infittisce.

    – Dubito che fosse una dama dell'alta società – stava riflettendo Caivani mentre tornavano all'università col prezioso manoscritto. – Sono più incline a pensare che si tratti di una popolana.
    – D'Annunzio che spreca versi per una popolana? – disse Paola, al volante. – Sarebbe strano.
    – Forse se n'era innamorato, o magari ci aveva passato una notte di passione così intensa da indurlo a dedicarle una poesia. Certo, questo getta una luce completamente nuova sugli anni trascorsi a Roma dal Vate. Finora avevamo creduto che avesse frequentato soltanto i salotti dell'alta nobiltà e gli ambienti dell'intellighenzia letteraria. Bisognerà fare ricerche, consultare annali, rivedere le cronache.
    – Ehm, io dovrei sposarmi, professore... – buttò là Paola.
    – Nessun problema, cara. – ribatté l'accademico. – Germano sarà più che felice di aiutarmi. Adesso che ci penso, forse lui è più adatto di te per sostituirmi alla cattedra, dopo che sarò andato in pensione.
    – Germano? – Paola sobbalzò. – Ma se si è appena laureato. Io le porto le borse da sette anni, prof!
    – Be', ma ora devi sposarti...
    – Non c'è problema – la giovane donna tirò fuori il cellulare, compose un numero e attese che il suo fidanzato rispondesse. – Giulio? – disse tutto d'un fiato. – Dovremmo posticipare la data del matrimonio.
    - Cosa? - gridò la voce all'altro capo del telefono. - Sei ammattita?
    - Te lo spiego dopo. Adesso sono di fretta. Rimanda tutto, per favore. E' importante.
    - Va bene, va bene - si arrese il ragazzo. - Ci vediamo dopo.
    Paola chiuse la chiamata, infilò il cellulare in borsa e si girò a guardare Caivani.
    - Visto? - sorrise. - Adesso possiamo metterci a lavorare.

    Roma, 1882

    1

    Nel cielo sopra la capitale giorno e notte combattevano la consueta battaglia delle sette e mezza di sera. Il sole fingeva di non voler cedere, graffiando le nuvole con gli ultimi artigli rossi e colorando di sangue le campagne lontane; la luna lo contemplava placida e discreta, confinata in un angolo di quel firmamento di cui a breve si sarebbe appropriata. I tetti, i campanili e le guglie assistevano muti a quella recita sempre uguale, pubblico di pietra assiepato in un teatro enorme.
    La giornata di lavoro di Aldo era quasi finita, e lui stava caricando le ceste di rose, violette e oleandri sul carrettino attaccato all'asino. Il mestiere del fioraio non era il massimo, a quarantun anni, ma era l'unico che si fosse trovato e si consolava pensando che almeno si guadagnava il pane onestamente. Quella riflessione lo aveva tirato su molte volte e sarebbe bastata anche quel giorno, se purtroppo non ci fosse stata la preoccupazione per Giuseppina: da qualche giorno sua moglie aveva la febbre alta, e quel mattino l'aveva lasciata a letto sudata e tremante sotto un cumulo di coperte. L'aveva salutata dicendole che si sarebbero rivisti alla sera, e adesso non vedeva l'ora di tornare a casa.

    La sua povera abitazione era al piano terra di un vecchio palazzo nel Testaccio, dove la gente vestiva di stracci e tirava a campare come meglio poteva. Molti avevano stoffe arrotolate attorno ai piedi invece delle scarpe, i bambini giocavano nel fango, le ragazze stavano sugli usci avvolte in scialli logori e sospiravano sognando ricchi signori che prima o poi sarebbero arrivati a portarle via. Incrociò molti sguardi conosciuti, Aldo, senza leggere in essi una pietà a stento dissimulata; credeva fosse la solita maschera che i suoi vicini indossavano alla fine di un'altra triste giornata, e invece era un saluto di compassione diretto a nessun altro che a lui. Sì, perché poche ore prima in casa sua era arrivato il dottore, e tutti avevano capito che per Giuseppina le cose non andavano bene.

    Nella stanza da letto, al capezzale di sua moglie, trovò un grigio vecchietto che scuoteva la testa attorniato da un crocchio di amici e parenti. Giuseppina, gialla e madida nel sarcofago di coperte, aveva gli occhi vitrei e le mani abbandonate lungo i fianchi. Le labbra si muovevano e sembrava volesse parlare, ma null'altro che un roco ringhiare fuoriusciva dalla sua gola.
    – Dottore! – gridò Aldo quasi inginocchiandosi davanti al vecchio. – Che è successo? È peggiorata?
    Il medico, coadiuvato dal resto degli astanti, riassunse brevemente le ultime ore: poco dopo mezzogiorno Giuseppina aveva perduto conoscenza, e un'ora dopo aveva iniziato a scottare così forte che sua sorella Milena aveva chiamato il dottore. Questi, giunto sul posto, non aveva potuto che diagnosticare una tisi all'ultimo stadio. Si sarebbe dovuti intervenire prima, quando ancora la malattia era debole, ora non si poteva più fare nulla. Esistevano delle cure, ma erano troppo costose e comunque non avrebbero prolungato che di qualche giorno l'agonia dell'ammalata. Le restavano poche ore, ed era una fortuna per lei che le passasse in quello stato di semi-incoscienza.
    Aldo cadde davvero in ginocchio, questa volta, e iniziò a strapparsi i capelli. Piangeva proprio come un bambino, invano consolato dalla dolorosa solidarietà dei poveracci riuniti in quella piccola stanza. Nessuno di loro possedeva un rimedio medico contro quel malanno che mieteva vittime ogni giorno, e avevano tentato di sostituirlo con le preghiere. Giuseppina era molto devota, ma soleva pregare sottovoce ed evidentemente i santi non l'avevano udita.
    – Che faccio, mo'? Che faccio senza di lei? – continuava a singhiozzare Aldo, tanto che il suo amico Tito, che abitava di fronte a lui e che era stato tra i primi a giungere, a un tratto lo issò dal pavimento e di peso lo condusse fuori.
    – Così la disturbi – gli sussurrò. – Deve riposa', e chissà Dio che nun avvenga un miracolo. Damme retta: annamose a fa' du bicchieri all'osteria, così te calmi.
    Aldo rispose che ai miracoli non aveva mai creduto, ma non rifiutò la proposta . Si ficcò una mano in tasca, trovandovi i pochi soldi guadagnati quel giorno, e guardò l'amico da oltre un ruscello di lacrime.
    – Vabbe', annamo. – sentenziò. – E grazie. Se nun me resti vicino stanotte va' a finì che me butto nel fiume.

    2

    Nella stanza da letto della sua casa in via Sistina Gabriele D'Annunzio aveva finito di vestirsi e si rimirava dentro uno specchio. Impeccabile, nel suo abito grigio dal cui taschino sbucava una pallida camelia, sembrava incapace di sottrarsi al fascino di se stesso che emanava dal vetro riflettente. Tarchiato, pingue, con la fronte spianata da una precoce calvizie, si vedeva tuttavia bello come un dio greco e ne assumeva l'atteggiamento. Nessuno sarebbe riuscito a scalfire la sua autostima d'acciaio: le donne che gli sbavavano dietro, in fondo, erano una prova più che sufficiente del suo fascino di vivieur incallito.
    Preso il bastone da passeggio scese in strada, dove lo attendeva una vettura a cavalli. Comandò al servo di condurlo a Palazzo Colonna, dove era atteso per una festa, e si rilassò adagiando la schiena contro il sedile.
    – Che sublime noia mi attende – sorrise tra sé, dopodiché si accese una sigaretta e si godette il breve tragitto.

    3

    Tito e Aldo uscirono dall'osteria alle nove della sera. Avevano entrambi le pance gonfie e le teste pesanti per il troppo vino bevuto, ma se il primo era poco più che brillo il secondo a stento riusciva a reggersi in piedi. Sbatacchiava contro i muri dei palazzi come un fuscello nel vento, accompagnando il suo incedere con bestemmie e prosopopee sconclusionate sulla sua malasorte.
    – L'amavo! – biascicava guardandosi i piedi. – Era tutto per me, Tito. E la devo perde così. La devo vedé spegnersi come na' candela dentro quel letto!
    – Fatte forza – gli diceva Tito, dispiaciuto. – Forse un miracolo...
    – Falla finita! – lo scoppio di Aldo fu feroce e gli distorse la faccia in un'espressione bestiale. – Nun esistono i miracoli! Nun pe la gente come noi! I miracoli sono pe' chi se li po' compra'. Noi nun c'avemo niente!
    – Cercavo solo d'aiutatte...
    Camminarono per un pezzo, allontanandosi dai quartieri popolari lungo le strade silenziose e buie della città. I grandi palazzi romani svettavano magnifici contro il cielo tranquillo, bianchi giganti addormentati le cui finestre parevano orbite vuote. Il magnifico scorcio di Trinità dei Monti, la fontana di Trevi, la Villa Borghese erano ammantate da una bruma lattea che conferiva loro le sembianze di luoghi di sogno. Un poeta avrebbe tratto magnifiche ispirazioni da quei paesaggi, ma i due ubriachi che vi transitavano accanto non fecero loro alcun caso. Avevano il loro dramma da vivere, ed esso li rendeva indifferenti a ogni altra cosa.

    4

    Nell'immensa sala da ballo di Palazzo Colonna era appena terminata una ricchissima asta di beneficenza. D'Annunzio aveva cercato di attirare su di sé tutte le attenzioni lottando per aggiudicarsi una tuba appartenuta a Lord Byron, ma aveva dovuto alla fine capitolare. Il prezioso copricapo era andato a un giovanotto alto e biondiccio, il quale assieme all'oggetto gli aveva sottratto anche la scena. Se ne stava ora al centro della stanza, attorniato da molte dame, e cianciava di come la sua testa paresse fatta per accogliere quel nobile orpello.
    – Chi è quel cicisbeo insopportabilmente ciarliero? – domandò il poeta a Ilona Fiorini, una delle sue ultime amanti.
    – È il visconte Di Roche Bobois – rispose questa, facendosi aria con il ventaglio. – È giunto da Parigi da poco, ma pare abbia già guadagnato una certa fama nei salotti buoni. Si dice sappia poetare d'amore, e anche i suoi quadri non sono da tralasciare. Nulla a che vedere con voi, a ogni modo, mio Gabriele.
    – Non son più vostro da parecchie settimane – precisò il Vate, malizioso. – Mi pare che ora voi siate amante del dignitario di Frascalunga.
    – Siete ben informato. Rimpiango tuttavia le notti che trascorsi con voi nella vostra camera da letto.
    In quel momento sopraggiunse il marito della Fiorini, un segaligno cinquantenne munito di monocolo e baffoni all'insù. La conversazione deviò subito verso altri argomenti, com'era buon costume.
    – Marchese Merloni – lo salutò D'Annunzio. – Stavo intrattenendo la vostra signora con alcune chiacchiere squisitamente inutili.
    – Buonasera, buonasera caro Gabriele – rispose il nobiluomo. – Meglio le vostre, di chiacchiere, che quelle del Roche Bobois.
    – Antipatico, nevvero?
    – Sommamente. Parla molto, ma son sicuro che con la spada non è altrettanto bravo. Mi piacerebbe sfidarlo a duello, un giorno o l'altro.
    E qui il Merloni si lanciò in una logorroica esaltazione delle sue arti di schermidore, cui i due dovettero fingere di prestare ascolto. D'Annunzio aveva la testa altrove, impegnato in una scaramuccia di sguardi con una giovane aristocratica che aveva puntato da tempo. La ragazza, inguainata in un abito bianco da cui pendevano molti merletti, gli sorrideva, promettendo di abbandonarsi a lui alla prima occasione.
    – Voglio far ridere un po' – sentenziò ad alta voce il marchese. – A me una spada!
    Tutti si voltarono verso di lui, divertiti. La padrona di casa fece un cenno a un suo servo africano, che subito andò a staccare una sciabola dalla rastrelliera appesa al muro e la portò al Merloni.
    – Resta qui davanti a me, selvaggio – ordinò il nobile al nero. – Non ti muovere, è meglio per te. Signori, solo per voi questa sera eseguirò il mio miglior colpo di scherma! Piroetta in prima, finta in seconda e coup droit diagonale saltato al bersaglio grosso. Et-voi-laaà!
    Così dicendo si produsse in un breve balletto sulle punte, al termine del quale menò un fendente di sbieco che squarciò la livrea del servo dal collo all'inguine, lasciandolo in mutandoni. L'intera sala rise di gusto e applaudì, mentre il povero africano impallidiva per la vergogna e si ritirava raccogliendo i suoi stracci.
    – Hai dimenticato la spada, scimmione! – gli gridò dietro D'Annunzio, desideroso di prender parte alla sceneggiata. Altre risate echeggiarono nel salone mentre il servo ritornava indietro a prendere l'arma che lo aveva umiliato. Alla fine scomparve oltre una porticina, e nessuno pensò più a lui. Un'orchestra iniziò un valzer romantico, e i cavalieri si recarono presso le dame per invitarle a ballare.

    5

    Aldo e Tito si erano fermati su una panchina antistante Palazzo Colonna, al limitare-nord del parco che lo circondava. Le grandi finestre erano illuminate, e attraverso i vetri giungeva una musica ora allegra ora dolce, suonata da mani che evidentemente sapevano come toccare gli strumenti. La scalinata alla fine del sinuoso viale di ghiaia era illuminata da due file di torce, il portone spalancato sorvegliato da statue altezzose e pallide le cui ombre danzavano al riverbero dei piccoli fuochi.
    – Che è 'sta musica? – chiese Aldo, passandosi una mano sul volto sfatto.
    – Come? Nun lo sai? – gli fece Tito. – C'è un gran festone, stasera, co' la crema de la nobiltà cittadina.
    – Se li porti er fiume, stì maledetti – la collera acida di Aldo trovò immediatamente un bersaglio su cui dirigersi. – C'hanno tanti di queli sordi che gl'escono dar buco der culo, mentre io nun ho manco potuto comprà le medicine a Giuseppina. Te pare giusto che ne la stessa città, a pochi metri di distanza, ce devono sta' quelli che magnano sei volte ar giorno e quelli che se morono de fame? Che, era questa l'idea de li padri nostri quand'hanno fatto 'sta bravata de l'unità d'Italia? Io te dico che nun me piace, perché dovremmo da esse tutti uguali, e farei na' pazzia pe' daglie er fatto loro, a tutti quanti.
    – Dicono che sia invitato pure quel letterato de belle speranze – mormorò Tito, soprapensiero. – Da Nunzio.
    – Da Nunzio? E chi sarebbe?
    – Un gran capoccione, uno che scrive bene e fa n'sacco di danni co' le donne de l'altri. Giuseppina m'ha fatto legge na' raccolta de sue poesie...
    – Giuseppina? – saltò su Aldo. – Che c'ha da spartì Giuseppina co' uno de quelli?
    – Ehm, – Tito aveva capito di aver chiacchierato a sproposito, ma ormai le parole gli erano fuggite di bocca e non poteva riacchiapparle – Giuseppina s'è comprata un libro de Da Nunzio. Dice che è er meglio poeta che ce sta', e secondo me c'ha ragione. Sai come so' le donne: vogliono sogna' 'sti amori appassionati, cascamorti eleganti, roba così...
    – Ah! E lo leggeva de nascosto!
    – Sapeva che nun eri d'accordo...
    Fu la goccia che fece traboccare il vaso dell'ira di Aldo. S'alzò di scatto, tirandosi dietro l'amico, e s'avviò verso Palazzo Colonna. Aveva la faccia di un pazzo, e forse lo era diventato davvero.
    – Che voi fa'? – piagnucolò spaventato Tito. – Dove voi anna'?
    – Mo' te faccio vede. Da Nunzio, eh? Mo' lo annamo a guarda' da vicino, 'sto gran signore.

    Girarono attorno al palazzo e sbucarono sul retro, dove c'era una porticina lasciata socchiusa. Là entrarono senza incontrare anima viva, percorsero alcuni metri e sbucarono nelle cucine, tra cuochi indaffarati e camerieri sbuffanti. Nessuno badò a loro, un po' perché a quella povera gente non importava più nulla di nulla e un po' perché dovettero scambiarli per i servi di qualche invitato arrivati per mangiare qualche avanzo, ed essi poterono muoversi indisturbati nell'ampio ambiente. La musica dell'orchestra non arrivava fin lì, e il sibilo metallico che il grosso coltello da bistecca emise quando Aldo lo sfilò dal portalame sembrò lo sferragliare di un treno in corsa.
    – Te sei impazzito davero! – sussurrò Tito. – Voi fa' un macello?
    – Sì – rispose l'altro. – Ma nun lo capisci, testa de legno, che così nun se po' più campa'? Loro fanno i loro ricevimenti ne le case dorate e ce trattano come scarafoni, nun ce degnano d'uno sguardo pe' la strada. Nun fanno un cazzo tutto er giorno, perché semo noi quelli che lavorano pe' quattro soldi, che sgobbano, che morono come cani nelle baracche. Se ponno vive così, tra lussi, poesie e merletti, è perché ce semo noi che sgobbamo pe' manna' avanti er paese. Cantano e ballano sul nostro sudore e sul nostro sangue, nun lo vedi? So' loro i parassiti, Tito. Loro!
    – E c'hai ragione, porcaccia la miseria! – convenne Tito, infervorandosi all'improvviso anche lui. – Nun è giusto! Nun è giusto pe' niente!
    E, preso anche lui un coltello, seguì l'amico attraverso il corridoio che portava alla sala da ballo.

    6

    Il valzer suonava e le coppie ondeggiavano al suo ritmo dolce, strette in tiepidi abbracci che molte sconcezze sottintendevano.
    – Venite da me, dopo? – chiese D'Annunzio alla sua giovane preda.
    – Non so – rispose ella, un po' arrossendo. – Mi ha invitato anche il Roche Bobois...
    – Lui non merita di mangiare i meravigliosi frutti del vostro giardino. Io, che sono un animo sensibile, saprei valorizzarli e farne la più squisita delle macedonie.
    – Oh, Gabriele...
    La musica andò avanti ancora per un pezzo, e così le scempiaggini romantiche di D'Annunzio. Quando gli archi, il piano e i fiati si tacquero, un tramestio concitato si sentì provenire da uno dei corridoi, accompagnato da un urlo stridulo che saliva d'intensità come l'incedere di un tuono nella tempesta.
    Afiglidenamignottaaaaaaa!!!
    Tra l'ultima sillaba del barbaro grido e il colpo che atterrò la porta del corridoio trascorse forse meno di un secondo, dopodiché due pezzenti armati di coltello irruppero nella sala e cominciarono a scatenarvi il panico. Colpivano a casaccio, ferendo e mutilando, senza badare né all'età, né al sesso né tantomeno al rango delle vittime. Schizzavano da una parte all'altra della stanza come proiettili, e a ogni affondo delle loro armi le pareti e il pavimento si tingevano di ragnatele rosse e le urla salivano alte. Il Roche Bobois fu tra i primi a cadere: Tito gli piantò la lama nel ventre e la rigirò a lungo, estraendola solo dopo che il nobiluomo ebbe vomitato un bel fiotto di sangue. Poco distante Aldo disegnava un intrico di sfregi sul bel viso di una contessina, muovendo il coltello alla stregua di un pennello sopra una tela.
    – In guardia, bruto! – il marchese Merloni aveva ripreso la sciabola e gli si era parato davanti in perfetta guardia da gentiluomo. – Ti spedirò all'inferno!
    – Aspetteme che vengo – mormorò Aldo senza scomporsi. – Intanto te mando n'amico.
    E gli lanciò il coltello, beccandolo in pieno petto e mandandolo lungo sul pavimento.
    – A-aiuto... – gracchiò il Merloni all'indirizzo del servo africano che poco prima aveva umiliato. – Prendi un'arma... difendimi!
    Ma il nero non si mosse, limitandosi a sorridere mentre Aldo recuperava l'arma e con quella sgozzava il marchese. Dopo, il fioraio salì sul cadavere, guardò i presenti e sputò su di loro il proprio disprezzo.
    – A fraciconi! – urlò. – A schifosi! C'avete paura, eh?
    Nessuno rispose.
    – Scusate, scusate se avemo fatto 'sta piazzata – continuò Aldò, più calmo, sventolando il coltello. – Semo gente impulsiva, e pure un po' 'mbriachi. Ce piglia ogni tanto un poco de rabbia, perché magnamo pane e veleno e da' fastidio sape' che voi fate la bella vita mentre noialtri se tirà a campa' in una maniera che manco i topi dentro a le cantine... ma che ne sapete voi. Che ne potete sape' de la miseria?
    – Prendete tutto quello che volete – balbettò la padrona di casa, tremando. – Abbiamo soldi e gioielli. Ve li diamo tutti, ma non fateci del male...
    – Soldi... gioelli... – ripeté instupidito Aldo. – Me sarebbero serviti prima, mo' nun ce faccio niente. Mo' è troppo tardi. No, io so' venuto pe' n'artra faccenda. So' venuto pe' er grande poeta Da Nunzio, lo voglio proprio conosce. Dov'è che sta, 'sto gran letterato? Ditemelo, e ve lascio in pace.
    Due o tre invitati indicarono di sbieco D'Annunzio, il quale se ne accorse e sobbalzò per la paura. Aldo gli si avvicinò, gli puntò il coltello alla gola e lo passò piano sopra la pelle, aprendogli un graffietto all'altezza del pomo d'Adamo.
    – Pietà... – supplicò il Vate bianco come un lenzuolo, e non riuscì ad aggiungere altro.
    – Nun te preoccupa' – ghignò Aldo. – Nun t'ammazzo. Te porto a fa' un giro. Dai, vieni con noi.
    E lo portarono via davvero, uscendo senza che nessuno provasse a fermarli. Scomparvero lungo il vialetto di ghiaia e poi nella notte della città, che li inghiottì nel suo stomaco di strade buie e lampioni biancastri.

    7

    Nella povera stanza del Testaccio Giuseppina stava esalando gli ultimi respiri, attorniata da molte vicine. Tito e Aldo entrarono tirandosi dietro D'Annunzio, lo piazzarono davanti al letto e gli dissero di non muoversi.
    – A Giuseppì – bisbigliò Aldo chinandosi sulla moglie. – Guarda chi t'ho portato. Lo riconosci?
    Un barlume di coscienza, l'ultimo, attraversò il miserabile volto devastato dall'agonia, ed ella fissò attonita la figura elegante che le si stagliava di fronte.
    – Da Nunzio – sospirò sorpresa. – Siete proprio voi?
    – Ehm, sì – mormorò a disagio il poeta. – Io... be'... sono venuto di mia volontà a... salutarvi.
    – Te voglio fa' un regalo, Giuseppì – riprese Aldo, cercando di dominare l'emozione. – Nun t'ho mai dato niente, e con me hai fatto 'na vitaccia. Me dispiace, forse dovevi sceglie meglio...
    – Nun fa niente – la mano tremante di lei si posò su quella insanguinata di lui. – T'ho voluto bene, e so che anche tu me n'hai voluto, a modo tuo.
    – Te regalo 'na poesia de Da Nunzio, stanotte, Giuseppì. Solo per te. So che te piace, è er meglio poeta de Roma, eh?
    – Sì – sorrise lei. – Me piace tanto.
    Spostarono un tavolaccio vicino al letto, presero una seggiola e ci sistemarono sopra il Vate.
    – Scrivi – gli ringhiò Aldo in un orecchio, pungendolo dietro la schiena con il coltello. – Scrivi 'na poesia pe' la donna mia che more, e fallo in fretta.
    – Ci provo – pigolò D'Annunzio, e avuta carta e penna si mise al lavoro.

    Dapprima scrisse alcuni versi, ma dopo che Aldo li ebbe letti si arrabbiò.
    – Che sarebbe 'sta roba? – disse. – Nun se capisce niente.
    – E' un madrigale – si schermì D'Annunzio. – Un componimento di antiche origini, molto in voga nelle corti agli inizi del trecento...
    – Qua nun ce stanno corti, e i vostri paroloni noiartri nun li comprendiamo. La devi da scrive in romanesco, hai capito? Movete!
    E così il grande poeta D'Annunzio, che mai si sarebbe neppure sognato di abbassarsi ad adoperare il dialetto del volgo, scrisse una poesia proprio in quella lingua. Dopo, sempre minacciato da Aldo, si alzò e la lesse a Giuseppina, che ascoltò rapita e felice come non mai.
    – È bellissima! – dichiarò la poverina tra i colpi di tosse che se la portavano via. – Grazie! Grazie davero!
    Volle che gliela rileggesse anche Aldo, ed egli lo fece come meglio poteva, giacché era quasi analfabeta. Giunto alla fine le mise il foglio sul petto, la baciò sulla fronte bollente e disse:
    – Hai visto? Me so' imparato a legge.
    Nessuna risposta provenne dalle labbra nere e già fredde del piccolo viso affondato tra le coperte, e tutti chinarono il capo e recitarono una mesta preghiera.

    8

    Le donne erano andate via. Nella stanza restavano solo Aldo, Tito, D'Annunzio e la salma di Giuseppina.
    – E adesso? – chiese dopo un po' Tito ad Aldo. – Che ne facciamo de 'sto poeta?
    Non ci fu il tempo di rispondere: fuori dalla porta s'udì lo scalpiccio di molte suole, e subito dopo un grido perentorio.
    Carabinieri! Venite fuori!
    – Oddio! – ansimò Tito – Quarcuno ha fatto la spia. C'arestano!
    – Scappa da la finestra. – gli disse Aldo, spingendolo verso il retro della casa. – Tu nun c'hai colpa, Tito, e devi salvatte. Va', va' via da Roma. Stanotte! Subito! Nun te ferma' finché nun sei abbastanza lontano.
    – E tu? Tu che farai?
    – Io nun c'ho più niente da perde, e so' tranquillo. Piglia 'sti sordi, so' l'ultimi che me restano: prima de andattene lasciali a la sora Maria e dille che faccia un bel funerale a Giuseppina. Ciao Tito, sei stato n'amico.
    Si abbracciarono, dopodiché Tito saltò giù dalla finestra sul retro e sfrecciò via nella notte, senza sapere dove sarebbe andato. Aldo guardò D'Annunzio, rintanato in un angolino, gli si avvicinò e gli disse sul muso:
    – Tra tante frescacce false e senza core che hai scritto e che scriverai, questa de stanotte è stata la più autentica. Addio, grande poeta, e scusame per er graffio.
    Carabinbieri! – si sentì ancora fuori dalla porta. – Uscite o veniamo dentro noi!
    La porta si spalancò, e Aldo l'attraversò correndo con i due coltelli in pugno, lanciato verso i carabinieri mentre urlava il nome della sua donna. Una raffica di schioppettate lo investì in pieno, facendogli schizzar via la pelle, un occhio e qualche dito, lui continuò ad avanzare fino a che crollò contro il petto di un brigadiere e gli morì tra le braccia.
    – D'Annunzio! Siete lì? – gridò un ufficiale, avanzando verso la porta. La piccola testa calva e vigliacca si sporse un poco oltre lo stipite, guardò in strada e annuì a disagio.
    – Portatemi un paio di pantaloni – ordinò con voce malferma il Vate. – Ho... bagnato quelli che indossavo.

    Roma, 2008

    – Sono ormai due mesi che facciamo ricerche, – stava dicendo il professor Caivani sprofondato nella poltrona del suo ufficio – e non abbiamo cavato un ragno dal buco riguardo la donna cui è stata dedicata questa poesia. Sai cosa ti dico, Paola? Secondo me è uno scherzo.
    – Dice, professore?
    – Credo di sì. Il D'Annunzio dev'essersi divertito un bel po' a scrivere versi in romanesco e a metterli, chissà come, nella tomba di una delle sue serve. Non posso credere a nessuna altra ipotesi. Dev'essere andata così.
    – Allora non la divulgheremo?
    – Meglio di no. Ci farei una brutta figura, non essendo riuscito a dipanare il mistero. Sai quanto io odi fare le cose a metà.
    – Be', allora abbiamo perso tempo...
    – Eh, già, e tu mi hai un po' deluso...
    – Io?! – l'assistente sgranò tanto d'occhi, offesa.
    – Sì, tu – fece noncurante il professore, pulendosi gli occhiali. – Pensavo che saresti stata in grado di venire a capo di qualche cosa, invece hai fallito. Credo che spingerò Germano, per la candidatura alla cattedra. Mi sembra più adatto.
    Livida di rabbia Paola si alzò, andò alla scrivania e si sporse verso Caivani.
    – Posso tenerla, la poesia? – chiese con calma.
    – Come vuoi. Consideralo un mio regalo d'addio.
    La giovane prese il foglio, lo mise in borsa e fece per andarsene, poi si fermò e si girò verso l'uomo per seguire il quale aveva perso sette anni, un sacco di occasioni lavorative e rimandato il proprio matrimonio.
    – Posso dirle un'ultima cosa? – chiese pacata.
    – Dimmi pure – sorrise Caivani.
    – Lei è proprio un gran figlio de 'na mignotta!
    E uscì, sbattendo la porta, per non tornare mai più all'università. Giunta al Verano vi entrò, attraversò le tombe e arrivò dove gli operai, in ritardo mostruoso sulla tabella di marcia dei lavori, stavano ancora scavando e sistemando il suolo.
    – L'avete già seppellita la bara della donna senza nome? – chiese a Silona, riconoscendolo.
    – Non ancora – rispose questi. – Sarà questione di giorni, comunque.
    – Posso vederla?
    Il capocantiere le indicò una cappella dove erano state sistemate le casse in attesa di interramento, e Paola vi entrò e cercò quella dalla quale avevano estratto lo scrigno.
    – Era per te, ed è giusto che la tenga tu – mormorò al mucchietto d'ossa e stracci che si scorgeva dal coperchio male assestato, dopodiché tirò fuori il foglio ingiallito e glielo sistemò in ciò che restava della mano sinistra. Uscì subito all'aria aperta, leggera come da tempo non si sentiva, chiamò il suo fidanzato e sorrise nel sentirne la voce all'altro capo del telefono. Non era più tempo di aspettare, la vita era adesso e lei non l'avrebbe più sprecata rimestando tra le scartoffie di quel parruccone di Caivani.
    – Domani? – si sorprese il ragazzo, al cellulare. – Vuoi che ci sposiamo domani?
    – Sì, Giulio, però devi promettermi una cosa.
    – Cosa, amore?
    – Un giorno, anche se non ne sei capace, e anche se so che non puoi soffrire certe cose, tu dovrai scrivermi una poesia.
    E riattaccò, avviandosi quasi a passo di danza verso le ceste profumate di un fioraio ambulante.

    Edited by bravecharlie - 16/1/2009, 11:47
     
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  2. federica68
     
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    bello bello bello!!!

    lo so che devo motivare il voto.
    Allora, non dico niente sullo stile, che è da dio come al solito.
    La storia l'ho bevuta tutta d'un fiato, e poi io ho sempre detestato cordialmente Da Nunzio, come lo chiama il tuo eroe. Ti darei 4 solo per
    la figuraccia che gli fai fare.

    ti segnalo solo una cosa, attento ai nomi.
    il fidanzato dell'assistente un po' si chiama Marco e un po' Giulio; l'amico di Aldo, un po' si chiama Tito e un po' Tonio...


    4, lo devo dire?
     
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  3. beatrix_w
     
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    Stupendo!!! Mi ha coinvolto molto, la storia è geniale e commovente e lo stile mi piace moltissimo: 4
    Ciao,
    Ste
     
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  4. Paolo_DP77
     
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    Notevole, davvero.
    Anche molto divertente da leggere, una bella storia.

    SPOILER (click to view)
    Difetti è difficile trovarne. Contenuti, personaggi (mitico Da Nunzio) e il ritmo della narrazione mi sembrano ottimi. Stesso per i dialoghi.

    La cosa che ho apprezzato di più nello stile è il contrasto di registri tra quando ci sono in scena i poveracci e quando invece c'è il poeta. Contrasto che raggiunge il culmine in questo passaggio:
    CITAZIONE
    Quando gli archi, il piano e i fiati si tacquero, un tramestio concitato si sentì provenire da uno dei corridoi, accompagnato da un urlo stridulo che saliva d'intensità come l'incedere di un tuono nella tempesta.
    Afiglidenamignottaaaaaaa!!!

    Geniale. :clap:

    Segnalo qualche cosa forse da sistemare.
    All'inizio della parte nel 1882, dopo la descrizione, espressioni come "non era il massimo", "lo aveva tirato su" o "non vedeva l'ora"; ok il registro colloquiale per il contrasto suddetto, però queste mi sembrano un po' troppo frasi parlate dei giorni nostri, mi lasciano in dubbio.

    refuso: "inginocchio" sempre nella prima scena, credo vada staccato (mentre il verbo è ok attaccato).

    Nella descrizione alla fine della terza scena occhio alle ripetizioni di "magnifico".

    Nella scena 5: ripetizione di "sbucarono"


    Sul 4 non ho dubbi.
    Complimenti.
     
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  5. Daniele_QM
     
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    Ha ragione Federica sui nomi, facci attenzione!
    Comunque non ti posso dare meno di 4... è davvero bello, nel concepimento e nello stile. Allegro e triste al tempo stesso. Davvero bravo!!! :D
     
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  6. bravecharlie
     
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    ho beccato un "Tonio", l'ho rispedito con Renzo nel paesino vicino Milano :sisi:

    chiarito alche il nome del fidanzato di Paola, che altrimenti la relazione rischiava di risultare equivoca :blink:

    "inginocchio" era un maledetto refuso, grazie Paolo... e anche per aver notato la differenza di registri, era qualcosa su cui ho cercato di impegnarmi e speravo risultasse.

    ciao a tutti e thanks per averlo letto :B):
     
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  7. shivan01
     
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    ciao
    sto giro è 4 dottò! E perdoname il romanesco che ce sta bbene qua.

    Ci sono 3 refusi ma sono cazzatelle.
    Bravo. Bel lavoro (anche se col romanesco se magari avessi chiesto una consulenza... ;) )
     
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  8. Alessanto
     
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    Veramente bello!
    Voto 4.
    Segnalo quella che mi sembra una piccola incertezza nella poesia: 3a strofa... mi pare non facciano rima, secondo lo schema delle altre (A-B-B-A, no?).
     
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  9. bravecharlie
     
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    esatto, Alessanto :)

    un po' me ne sono accorto dopo averla postata, un po' mi sembrava potesse comunque starci perché D'Annunzio era assolutamente anarchico per quanto riguardava sia gli schemi metrici che quelli rimici, e spaziava da rime incatenate ad assonanze a versi che non rimavano affatto e... insomma, faceva un po' come gli pareva. grazie e ciao :D
     
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  10. esimon
     
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    Ciao :) ,
    Mi è piaciuto.
    Delicata e bella la storia, molto bella la poesia. Commovente rileggerla dopo il racconto.
    il mio voto è 3, il racconto è perfetto ma forse un po' troppi "buoni sentimenti".
    A rileggerti presto
    Simone
     
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  11. Alessanto
     
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    CITAZIONE (bravecharlie @ 4/1/2009, 13:17)
    esatto, Alessanto :)

    un po' me ne sono accorto dopo averla postata, un po' mi sembrava potesse comunque starci perché D'Annunzio era assolutamente anarchico per quanto riguardava sia gli schemi metrici che quelli rimici, e spaziava da rime incatenate ad assonanze a versi che non rimavano affatto e... insomma, faceva un po' come gli pareva. grazie e ciao :D

    a rischio di sembrare pedante... :woot:
    Se la poesia fosse scritta tutta non guardando la metrica e la rima ok, ma qui è solo una strofa.
    Sa di errore, almeno questa è la mia opinione. ^_^

    Ciao!
     
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  12. bravecharlie
     
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    e c'hai ragione :sisi:

    comunque l'errore non è mio, ma di Da Nunzio :asd: Chissà quante maledizioni mi sta lanciando, ovunque egli sia...
     
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  13. x_LUIS_x
     
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    Ciao!
    A parte il romanesco un po' "alla austriaca", come si diceva una volta (ma in teoria potrebbe anche essere giustificato dal fatto che D'Annunzio era abruzzese) sei riuscito a giostrarti egregiamente nel racconto evitando di cadere in trappole astoriche.
    Non era facile, complimenti!
    Qualche dubbio potrebbe venire su alcuni aspetti, per esempio, sull'effettiva diffusione degli scritti di D'Annunzio in quegli anni (era comunque già famoso) e sul fatto che gli stessi scritti fossero conosciuti dal popolino ( elemento questo un po' più difficile ma, di per se, non impossibile).

    Al di là di questi aspetti marginali, si gode un bel racconto dissacrante, perfetto nella trama e nella forma.
    Un bel quattrone quindi.
    PS: più che a D'Annunzio, che antipatico o simpatico, è stato un Grande, odio a go-go verso il barone universitario!
    Io gli avrei fatto dare un pestone in bocca dalla tipa, altro che solo un vaffa!
    Forse per questo un meno te lo meriteresti! :D
    Un saluto!
    L!!!!
     
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  14. silente2.0
     
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    Mi è piaciuto.
    Si legge d’un fiato, e la storia è allo stesso tempo divertente, commovente e rabbiosa. Simpatici i siparietti ironici, anche se credo che dovresti dar loro più spazio (il matrimonio rimandato e il licenziamento di Paola mi sono parsi un po’ troppo repentini e veloci). Bene il corpo centrale, e ottima la scelta del romanesco, teneramente divertente.

    Poi, non so, ma se il dottore ha detto che alla povera Giuseppina restano poche ore di vita, credo che suo marito le sarebbe stato vicino, e il tempo per l’ubriacatura sarebbe venuto dopo la morte. Insomma, sono poche ore, non pochi giorni. È diverso. Capisco che sia distrutto e arrabbiato, ma mi ha lasciato un po’ perplesso il suo comportamento.
    Poi tutto okay quando si imbufalisce contro i ricchi, e da lì in poi va tutto bene.

    Alla fine dico 3. :P
     
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  15. Diaphane
     
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    Bello, bello, bello questo racconto! Complimenti!
    Drammatico, dissacrante, divertente (grandioso il modo in cui Aldo e il suo amico entrano in scena durante la festa per il massacro!!)
    Solo due appunti... Mi è sembrata un po' troppo veloce la decisione dell'assistente a rimandare il matrimonio, ok, capisco che dopo anni che ci si dedica a qualcosa di importante, non ci si può lasciar scappare l'occasione, ma lei non ha il minimo dubbio...
    Secondo, anche io sono rimasta perplessa sul fatto che Aldo non trascorra le ultime ore della moglie insieme a lei...
    Questo, comunque, non pregiudica il valore del racconto... :)
    Per me 4 pieno... Bravo! :)
     
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43 replies since 1/1/2009, 20:05   705 views
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