BWV 1047
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BWV 1047

Federica Maccioni, 39.300 cc, sci-fi?

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  1. federica68
     
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    Premessa: questo racconto è un omaggio a Eschilo e Sofocle. Ogni attinenza (e ce ne sono di strettissime, tanto da essere in certi punti la rielaborazione in chiave moderna) con le trame delle loro opere è da ritenersi un tributo in onore del loro lavoro, letteralmente immortale.
    Spero vi piaccia.

    Per ascoltare il concerto, copio incollo qui l'indirizzo segnalato da Diz-Buster, e lo ringrazio per l'idea, che non mi aveva neppure sfiorata... :shifty: Grazie Diz!!!

    https://www.youtube.com/watch?v=EC1E4_imS0A&feature=related

    BWV 1047



    SPOILER (click to view)
    Bibliografia di riferimento e ispirazione

    -J.S. Bach, BWV 1047: Karl Richter e Munchener Bach-Orchester. Deutsche Garammophon, 1970
    -Eschilo, I sette a Tebe. Da: Eschilo-Tutte le tragedie trad. di F. Bellotti, a cura di R. Cantarella e S. Musitelli, ed. Rusconi Libri
    -Sofocle, Antigone. Da: Tragici Greci, trad. di C. Carena, V. Faggi e F.M. Pontani, ed. Einaudi





    Creonte:
    Questa terra, per chi debbo governarla? Per altri e non per me?
    Emone: Non esiste città che sia di un uomo soltanto.
    Creonte: La città non è di chi la governa?
    Emone: Tu, da solo, regneresti bene su una terra disabitata.
    (da “Antigone”, Sofocle)



    Febbraio, 2115

    La cristallina architettura degli archi, tessuta dai gesti leggeri del direttore d'orchestra, disegnava la perfezione.
    Sulla barba di molti dei presenti il respiro era condensato in ghiaccioli bianchi, quando la voce del violoncello tacque e si levò l'ala dei fiati.
    Bach, Secondo Concerto Brandeburghese, BWV 1047: quanto di più simile al canto delle sfere celesti l'uomo avesse mai concepito nei secoli.
    Nel magazzino dismesso l'assembramento di diverse centinaia di persone non bastava a mitigare il gelo, ma nessuno se ne accorgeva, mentre la musica si dipanava aerea.
    L'ultimo accordo si spense.
    Un attimo di silenzio assoluto, poi esplose il boato della folla. Il pubblico cencioso si alzò in piedi.
    “Bravi! Bravi!”
    Applausi, grida.
    “Bis!”
    Molte guance erano rigate di lacrime: solchi candidi sui visi luridi.
    Fu allora che i soldati irruppero. L'entusiasmo e i battimani coprirono sulle prime i tonfi degli stivali chiodati, ma gli orchestrali videro le uniformi piombare come falchi sulle persone disarmate.
    I calci dei fucili e i manganelli cominciarono a colpire.
    “Fuori tutti!” I musicisti intuirono l'esortazione del direttore, più che udirla, nel frastuono e nel panico. “Presto!”
    Raccolsero in fretta gli strumenti e gli spartiti, mentre centinaia di teste sciamavano verso le porte, incalzate dagli uomini in divisa.
    “La Milizia! La Milizia!” strillava la gente, fuggendo, tentando di proteggere il capo con le mani. Ma l'obiettivo non era il pubblico; quello era solo un intralcio.
    Un drappello di uomini si diresse di corsa verso il palco improvvisato, sparando in aria.
    “Fermi!” ordinò invano un militare. Si volse un attimo verso i suoi. “Puntare ad altezza d'uomo!” Le canne calarono dalle spalle. “Fuoco!”
    Un'esplosione di rosso e di urla annullò il resto del mondo.

    Dicembre, 2114
    Davide allentò i crini dell'archetto e lo ripose con cura. Prese a ripulire il violino con gesti assorti.
    “Che hai?” domandò Tiziana.
    “Niente. Perché?”
    La donna sospirò. “È per la faccenda della tipografia, vero?”
    Lui non si volse. Lei vide i suoi gesti divenire più rigidi. “Cazzo! Con questo freddo 'sta roba non viene via!” Nel suo tono c'era troppa rabbia perché il motivo fossero le ditate o l'impalpabile polvere di pece depositata sullo strumento. Si voltò di scatto verso di lei, le labbra tirate sui denti. “Sì, è per quello! E per tutto il resto. Per tutto! Sta andando di male in peggio”.
    Lei si strinse nelle spalle, chiudendo l'ultimo bottone del cappotto. Il suo fiato usciva in nuvole bianche. “Vorresti mollare tutto proprio adesso? Siamo appena all'inizio”.
    “L'inizio? A me sembra l'epilogo di questa storia. Per quanto tempo ancora potremo continuare, prima che ci prendano?” La voce di Davide suonava metallica. “Le notizie corrono veloci, nei bassifondi; la cosa rischia di venire a galla anche qui. Lo sai che rischiamo la pelle ogni sera”.
    Le volse di nuovo la schiena. “No. In realtà non voglio rinunciare ora. Certo che no”. Scosse il capo. “Ma dovremo trovare altre soluzioni. Questi assembramenti sono pericolosi, non passano inosservati”.
    “Facciamo concerti, Davide, è logico che il pubblico si raduni! Ma nelle zone che scegliamo la Milizia non passa spesso”.
    “Speriamo”, sospirò lui.
    Ignazio, il direttore d'orchestra, fece capolino sulla porta, i capelli bianchi accesi di riflessi azzurrognoli, l'immancabile sigaretta appesa al labbro. “Ci siete, ragazzi? Dobbiamo andare”, sollecitò.
    “Arriviamo”. Il violinista tolse le ultime tracce di pece biancastra dal legno ormai lucido e ripose lo strumento.
    Uscirono nella notte ghiacciata; le stelle brillavano gelide e silenziose, una manciata di luce nel respiro sospeso della notte.
    Un barbone, impegnato a rassettare la sua casa di cartoni, li vide e fece un cenno di saluto. Poi alzò la mano con il pollice in su: “Siete stati grandi stasera, ragazzi! Grandi davvero”. La sua bocca si aprì in un sorriso senza denti.
    Sorrisero a loro volta. “Grazie”. Era per frasi del genere che lo facevano, per gente come quel poveraccio. E l'angoscia per gli amici cacciati a sprangate fuori dalla tipografia, impiccati in piazza e lasciati esposti, si mitigò un poco.
    “Ignazio, hai sentito i telegiornali?” domandò Davide, tormentando le cinghie della custodia del violino.
    “Sì, dicevano le solite cose”. Il vecchio portò la sigaretta alle labbra e la punta brillò.
    Scoperta una cellula terroristica, eh?”
    “Mh”, annuì l'uomo. Soffiò fuori il fumo. “Sequestrato materiale decisivo, oltre a un vero arsenale da guerra. Poi il consueto inno all'efficienza della Milizia, e l'elenco delle vittorie del Governo... non devo stare qui a dirvelo, lo sapete anche voi”.
    “Un arsenale da guerra!” sbottò Tiziana. “Stampanti, inchiostro, carta, computer...” Strinse i pugni lividi.
    Ignazio sogghignò, il mozzicone all'angolo della bocca. “Bé, piccola, questa è una guerra, e i libri sono armi”. La guardò. “Anche il tuo clavicembalo è un'arma, e le tue mani”. Aspirò un'altra boccata. “L'importante è crederci”.

    Febbraio, 2115
    L'uomo con le stellette fronteggiava un ragazzo sconvolto. Teneva la bocca del fucile a tungsteno rivolta verso il suolo.
    “Non voglio ammazzarti. Ragiona!” Gesticolava con la mano libera. “Vieni via con me, ti farò avere una grazia. Posso farlo, nella mia posizione”.
    Il giovane ansimava; il viso, le mani e i capelli erano sporchi di sangue. Lo sguardo correva dal volto di fronte a lui ai compagni stesi a terra in viscide pozze rosse, alle schegge degli strumenti sventrati, poi di nuovo su, agli occhi che aveva davanti, e il suo respiro usciva come un singhiozzo raspante dalla gola secca. Stringeva una sbarra d'acciaio nella destra, levata in una difesa istintiva, ma l'altro non sembrava darsene pensiero. “Dirò che sei pentito”, riprese.
    “Non mi interessa”, gorgogliò il ragazzo.
    Un sorrisetto piegò le labbra del militare: “Eroe fino all'ultimo, eh?” La spranga nella mano ferita si alzò un poco. “Cosa vuoi fare con quel pezzo di ferro?” lo schernì l'uomo. “Sei sempre stato un vigliacco, caro il mio Marco. Non riusciresti a colpirmi nemmeno se stessi immobile”, ridacchiò. Posò a terra il calcio del fucile e aprì le braccia in un gesto di sfida, il mento sollevato.
    “Bastardo!” gridò Marco, avventandosi su di lui. “Bastardo, bastardo!” La sbarra cadde a terra, mentre le dita del Miliziano si serravano attorno al polso del giovane.
    “Vedi?” gli sibilò in faccia il soldato. “Non ce la fai neanche stavolta, con me”, ghignò. “E poi, scusa: bastardo, bastardo... non è bello. No. Proprio no”. Con uno scarto improvviso gli torse il braccio dietro la schiena. Marco ingoiò l'urlo di dolore. “Se io sono un bastardo, tu cosa sei? Dimmelo!” strepitò l'altro sulla sua guancia, scuotendolo. “Cosa sei? Cosa?”
    Il ragazzo si voltò: senza abbassare le ciglia, il respiro mozzo nel petto, gli sputò in faccia.
    Il graduato lo gettò a terra, ripulendosi con la manica. “Non dovevi...” Imbracciò l'arma. “Non dovevi, fratellino”.
    Marco vide il foro nero del fucile a pochi centimetri dalla fronte. Allora si drizzò sulle spalle e fissò suo fratello negli occhi.
    L'eco dello sparo rimbombò a lungo fra le volte del capannone.

    Dicembre, 2114

    In tutte le città, quando la crisi aveva sfrattato gli impiegati, gli insegnanti, i dipendenti che non erano più stati in grado di pagare le rate dei mutui delle case, le banche erano subentrate, ma senza poi riuscire a rivendere. Le zone un tempo abitate del ceto medio erano poco appetibili anche per gli arrivisti immobiliari; adesso, dopo dodici anni, quei quartieri erano terra di nessuno.
    I vecchi proprietari, un po' ovunque, erano tornati alla chetichella, compiendo i lavori necessari a riparare i danni del tempo e dell'incuria. Molti dei diseredati che brulicavano per le piazze in cerca di un lavoro a giornata li avevano seguiti. Non c'erano controlli, almeno per adesso: quel che premeva al Ministro era altro.
    La sezione locale del Movimento degli Estinti aveva eletto a rifugio una di quelle palazzine. Per certi versi non era sicuro abitare tutti insieme, e inoltre i musicisti avevano gli strumenti con sé. Almeno quelli che potevano essere trasportati. Se la Milizia avesse fatto irruzione non avrebbe trovato molto di più, però. Niente spartiti, libri, giornali, apparecchi stereo o cd, e neppure quaderni o blocchi per appunti. Non c'era nemmeno un computer, ma gli Estinti sapevano che non servivano quelle prove per le esecuzioni sommarie; avrebbero rischiato di venire uccisi in ogni caso se le forze governative li avessero localizzati. Così avevano deciso di non lasciare incustoditi gli strumenti musicali in qualche magazzino umido, dove si sarebbero rovinati.
    Ma la televisione sì, quella c'era, a casa di Ignazio.
    “Signori, la Voce della Verità”, aveva annunciato il vecchio quando l'aveva portata.
    “Ma a che serve?” aveva obiettato Marco, il fratello minore di Tiziana e tecnico delle luci dell'orchestra. “Lo sai che i notiziari sono tutti pilotati, e gli altri programmi... lasciamo perdere!”
    “Sempre tenersi informati sulle mosse del nemico”, aveva sentenziato sarcastico Ignazio, puntandogli contro un indice dall'unghia gialla di nicotina. “Serve per sapere cosa dicono di noi, pischello. E da copertura. È una delle poche cose consentite che abbiamo, da queste parti”.
    “Dove l'hai presa?” aveva chiesto qualcuno.
    “Mercato nero”. La cenere della sigaretta gli era caduta sulle scarpe mentre lui ridacchiava, soddisfatto come di uno scherzo ben riuscito.
    Marco, proprio in quei giorni, aveva finito di assemblare l'impianto per produrre elettricità. Nelle discariche aveva reperito tutto quello che serviva per costruire i generatori. Sia al mercato nero che a quello ufficiale costavano troppo, ma lui era un ingegnere e l'inventiva non gli mancava. Dalle sue spedizioni non tornava mai a mani vuote. Pannelli solari ancora funzionanti venivano gettati via dalle aziende e dalle ditte, secondo l'imprevedibile ritmo degli incentivi statali per rinnovamenti strutturali fittizi; lui teneva d'occhio i camion che scaricavano i rifiuti, quando le voci che correvano fra i diseredati annunciavano una nuova iniziativa di ristrutturazione industriale, e recuperava i pezzi prima degli sciacalli che li rivendevano al mercato clandestino. Poco per volta gli Estinti avevano avuto quel che serviva, e Marco si stava attrezzando per fornire elettricità a tutto il quartiere. In molti lo cercavano per occuparsi delle luci e degli impianti nelle case e nelle basi segrete. Lui aveva colto l'occasione per diramare bandi fra gli ingegneri disoccupati affinché si mettessero al servizio della causa del Movimento, oltre a convincerli a insegnare quel che sapevano ai ragazzi sbandati che vivacchiavano di piccoli furti ed espedienti vari, benché insegnare fosse illegale. D'altronde non poteva essere ovunque, e ciò che lui e gli altri ingegneri conoscevano era troppo importante per tutti.
    La sera successiva all'attacco alla tipografia, Ignazio, Davide e Tiziana avevano camminato spediti fino al caseggiato dove abitavano, ma Marco, insieme agli altri, era arrivato prima di loro.
    “Ignazio”, li accolse preoccupato, sporgendosi dalla porta dell'appartamento del vecchio appena avvertì il passo di sua sorella e dei due uomini sulla scala. Tutta la compagnia era riunita nel piccolo salotto.“La TV parla di noi”.
    “... sulle tracce di cellule terroristiche in molte città. Pare che tutte avessero stretti contatti con il commando scoperto. La rete criminale sembra bene organizzata e potrebbe avere diramazioni in ogni...”
    L'anziano direttore d'orchestra spense la televisione.
    “Avranno avuto una soffiata?” Veronica, una violoncellista, lanciò uno sguardo torvo all'indirizzo di Davide.
    “Non credo”, tagliò corto Ignazio. La sigaretta appesa al labbro tremava. “Siamo troppo coesi”, scandì.
    “Ma potrebbe anche essere”, obiettò uno dei flautisti.
    “Certo. Tutto può essere, ma ne dubito. Si sa se hanno catturato qualcuno?”
    Marco scosse il capo. “Loro non lo dicono di sicuro, e per saperlo dai nostri dovremo aspettare qualche giorno. Non possono muoversi subito. Penso che la Milizia sorvegli i sospettati e anche la tipografia, nel caso qualcuno si presenti a recuperare del materiale”.
    “Come se fossimo così idioti”, sbuffò un violista, Andrea. “Andare a cadergli in braccio!”
    “Va bene, ma il risultato è che per sapere se ci sono stati degli arresti dovremo attendere. Intanto stiamo all'erta. Mi fido degli Estinti, ma quelli usano la tortura per far parlare la gente”. Ignazio serrò le mascelle. “Maledetti!” concluse.
    Poi si volse ai suoi ragazzi. Erano pallidi, i visi tirati. Prima il massacro dei tipografi, e adesso questo. “Avete mangiato?” chiese, pragmatico.
    “No”. Matteo, il loro miglior contrabbassista, scosse il capo. “Abbiamo ascoltato il telegiornale”.
    “Fanculo il telegiornale! Adesso vi preparo io un bel piatto di pasta”. Cercò di sorridere. “Con il pomodoro. Vi va bene?”
    “Benissimo”, rispose Tiziana, tentando di sorridere a sua volta, ma con scarso successo.

    Febbraio, 2115
    I corpi erano allineati sul marciapiede.
    La gente passava loro accanto e tirava oltre in fretta, fingendosi indaffarata.
    Era uno spettacolo usuale, ormai, da qualche tempo in qua. Un monito per quelli che carezzassero la velleità di unirsi alla ribellione. Non molti, in ogni caso. Pochi idealisti abbarbicati a utopie che ai più apparivano anticaglie, o quanto meno stranezze.
    Negli anni precedenti era stato ingoiato di tutto, fra l'inconsapevolezza e la rassegnazione generale. Le progressive svolte autoritarie erano state accolte con incredulità effimera, e dimenticate mentre ci si stordiva di reality-show. Quei fittizi sogni di gloria vissuti per interposta persona appagavano e consentivano di cancellare per qualche ora la disoccupazione dilagante, le famiglie rimaste senza casa, senza cibo, senza vestiti. Le strade si riempivano di donne, bambini e vecchi in fila davanti alle mense parrocchiali; ma niente scuoteva le coscienze dall'apatia indotta da decenni di assuefazione alle risposte preconfezionate che uscivano dallo schermo.
    Così, anche adesso, i passanti non si soffermavano; e forse non si domandavano nulla. Volevano solo allontanarsi da lì.
    Tiziana era accucciata dietro un muro di cassonetti della spazzatura. Sola.
    Non aveva detto a nessuno che sarebbe andata lì. L'aveva deciso dopo una notte tormentata: le immagini degli amici trucidati, abbandonati alla mercé degli animali e delle intemperie la ossessionavano, e ora che li aveva di fronte era anche peggio. Soprattutto suo fratello. Non gli aveva mai detto quanto si sentisse legata a lui, entrambi non avevano bisogno di molti discorsi; ma adesso contava a una a una tutte le singole parole mai pronunciate, i gesti mai compiuti e dati per scontati. Si sarebbe strappata i capelli a vederlo così, buttato sull'asfalto come un mucchio di stracci sporchi, il capo devastato. Da qualche parte nel suo petto risalivano lacrime, una piena di rabbia e angoscia, dolore e ribellione, ma non poteva permettersi di piangere adesso. Strinse i pugni mentre osservava l'ombra delle case allungarsi, inghiottire le forme della strada. Presto sarebbe stato buio.
    Non vedeva nessuno, intorno, ma i Miliziani erano appostati dietro le imposte chiuse di una casa disabitata. Sbirciavano da lì. Li aveva sentiti sghignazzare e raccontare barzellette poco prima.
    'Non importa', si disse. 'Potrebbe anche andarmi bene. Magari, quelli che verranno fra poco conteranno i morti domattina. Allora sarà troppo tardi'.
    Un cane si avvicinò, annusò il sangue sul petto di uno dei cadaveri. Era Antonello, un suonatore d'oboe. Aveva saputo trarre voci d'angelo dal suo strumento, ma ora non più.
    L'animale leccò la ferita, afferrò con i denti un lembo di pelle e la strappò. Tiziana represse un conato. La furia crebbe in lei. Non poteva lasciarli così! Era venuta per portare via Marco, sottrarlo allo scempio dei randagi, ma ora le pareva di commettere un'ingiustizia verso gli altri, abbandonandoli. Per un attimo pensò, smarrita, confusa, di andare a chiamare Davide, Ignazio, Matteo... qualcuno per portarli via tutti.

    Dicembre, 2114
    Davide si rigirò nel letto per l'ennesima volta. I tipografi impiccati erano sempre davanti a lui. Alla fine si alzò e uscì sul balcone. Si appoggiò alla ringhiera gelida, come se quel contatto potesse riportargli un po' di serenità.
    Udì una porta-finestra aprirsi sul terrazzino contiguo, poi un passo familiare. Sorrise nel buio. Era bello che lei lo avesse sentito e fosse venuta. Benedisse l'idea che qualcuno aveva avuto, anni prima, di abbattere il muretto divisorio: la avvertì avvicinarsi. Le spalle si toccarono; lui non si spostò.
    “Non dormi?” sussurrò Tiziana.
    “No. Non posso”.
    “Vuoi parlare?”
    “Cosa devo dire?”
    “Quello che vuoi. Quello che pensi”.
    “Questa storia non mi piace”.
    “Lo sapevamo che prima o poi saremmo arrivati a questo punto. La posta in gioco è troppo alta per tutti, Davide. Quello che stiamo facendo smantella pezzo per pezzo il lavoro di anni di....” esitò e chinò il capo.
    “Dillo!” sibilò lui rabbioso. “Dillo di chi!” Tacque a lungo, finché il suo respiro tornò regolare. Poi si volse: “Tu ti fidi di me?”
    Tiziana sostenne il suo sguardo azzurro. “Sì”.
    “Non credi che faccia il doppio gioco?”
    “No”.
    “Perché?”
    'Perché dal primo momento che ti ho visto ti sogno ogni notte come una ragazzina', pensò. 'Perché sento in te ferite antiche e profonde che vorrei guarire con le mie mani. Perché vorrei essere la tua donna, e potertelo dire, che ti amo'.
    Invece rispose: “Perché sarebbe stato stupido da parte tua dichiarare a tutti che sei il figlio del Ministro. La TV non ha mai detto che eri fuggito, e la tua faccia non la conosceva nessuno. Se fossi un traditore non ti saresti svelato, non sarebbe stato necessario”.
    “E questo ti basta?”
    “Sì”.
    Le scostò i capelli dal viso, e lei si sentì tremare dentro qualcosa come una speranza. Davide la guardò a lungo. “Grazie, Titti”, mormorò poi, tornando a fissare la strada. Tiziana si scostò dalla sua spalla, mentre il gelo di quella notte le si conficcava nell'anima, e ingoiò ancora una volta il desiderio delle sue labbra. Come sempre.
    Tremava, e non per il freddo.
    Non glielo avrebbe fatto capire mai. Si sentiva patetica, a quasi quarant'anni, dieci più di lui. Rivelarsi sarebbe servito solo a distruggere la loro amicizia, così lieve e delicata. A cancellare i gesti innocenti d'affetto, le notti passate a parlare, la complicità delle risate condivise per un nulla... No, non glielo avrebbe fatto capire mai. La sofferenza di non poter essere sua non la spaventava quanto la prospettiva che lui fuggisse.
    “Hai ragione”, riprese Davide dopo un lungo silenzio, come continuando un discorso lasciato a metà. “Anni di progetti messi in pratica un passo alla volta. Non deve essere stato bello per mio padre scoprire di non essere riuscito a schiacciare tutti quanti”.
    “Sa che sei entrato fra i ribelli?”
    “Lo sospetta, immagino. Sono sparito nel nulla da anni, non è stupido. Ma non sa dove sono; non credo che penserebbe mai di cercarmi qui, così vicino a lui”.
    “Con Ignazio ho parlato spesso dei primi anni. Quando tuo padre tagliò i fondi per la cultura, tutti pensavano che fosse incompetenza. Invece era il suo Piano”.
    “Io l'ho sempre saputo”, disse Davide.
    “Che cosa?”
    “Del Piano. Non si faceva scrupolo di parlarne con me. Sperava che seguissi le sue orme. Teorizzava cose raccapriccianti”.
    “Tipo?”
    “Tipo che il popolo per sua natura deve essere guidato, diceva lui. Ma intendeva dire manipolato. Solo che io ero un bambino, non capivo. Quando lo compresi, cercai persino di farlo riflettere... Pensa un po'. Avrò avuto quindici anni”.
    Non le aveva mai parlato di quel periodo. “Cosa gli dicesti?”
    “Che il potere comporta più doveri che privilegi. Ce lo aveva spiegato il professore di filosofia”. Ristette un momento: “Io a scuola ci andavo, come tutti i figli dei ricchi”. Scosse il capo. “Mi rise in faccia. Mi ricordò che era per discorsi sovversivi come questo che gli insegnanti avrebbero meritato di essere licenziati in tronco”.
    “Alla fine l'ha fatto. I risultati li abbiamo visti tutti”.
    “Un branco di analfabeti! Ecco quel che voleva!”
    “Beh, dal suo punto di vista è giusto: agli ignoranti si può far credere qualunque cosa. Del resto lo sai che in ogni dittatura gli intellettuali, i giornalisti, gli editori liberi, sono sempre stati i primi a cadere. Non è una novità”.
    “Sì, ma ammazzarci come bestie...”
    “Deve aver capito che siamo un pericolo. Noi risvegliamo la coscienza di questi poveracci. Un giorno i reietti potrebbero capire che la loro vita può essere diversa”.
    “Ma siamo disarmati, Titti, non abbiamo mai reagito con la forza”.
    “Dipende cosa si intende per forza, Davide”.
    “Già, è vero. Per lui i forti sono quelli più difficili da piegare alle sue verità”. Sorrise amaro. “Sarebbe più corretto dire versioni”.
    “Sono cose che sappiamo da tempo, ne abbiamo discusso tante volte. Cos'è che ti pesa davvero, in questa storia?”
    “Non lo sai?”
    Gli si avvicinò di nuovo. “Sì, ma credo che tu abbia bisogno di dirlo a voce alta”.
    Lui restò in silenzio a lungo. Quando parlò, le sue labbra erano bianche e tese sui denti, in un'espressione che assumeva sempre quando era furioso: “Essere suo figlio. Non voglio un padre così”.

    Febbraio, 2115
    Il cane immerse il muso nel costato di Antonello e lei lo udì grufolare come un cinghiale. Sentiva le gambe trafitte da mille spilli. Quanto tempo ci sarebbe voluto?
    Risuonò un passo cadenzato. 'Era ora!' sospirò Tiziana dentro di sé. Tre soldati venivano a dare il cambio ai colleghi.
    I sei uomini scambiarono poche battute, poi quelli del turno uscente si allontanarono. I nuovi arrivati si chiusero nella casa abbandonata, e dopo poco lei li sentì ridere e scherzare. Era il momento buono, mentre si distribuivano i compiti e i posti, magari bevendo una birra di straforo. Non dovevano ancora essersi messi di sentinella.
    Uscì strisciando ventre a terra e si avvicinò ai corpi.
    Il cane ringhiò, un brontolio sommesso.
    'Non rompere, tu!' pensò lei. Gli lanciò un sasso, sperando che il rumore non attirasse l'attenzione dei Miliziani.
    La bestia guaì, fuggendo con la coda fra le gambe.
    “Cos'è stato?”
    La donna si appiattì a terra, accanto ai cadaveri, immobile come loro nell'oscurità.
    Il rumore di una imposta scostata.
    “Aspetta”. Il soldato attese un attimo; lei trattenne il respiro. Lo immaginò scrutare fra le ombre. La sagoma della testa era disegnata nel riquadro luminoso della finestra sull'asfalto.“Sono solo cani che si litigano altri cani”. L'uomo rise sprezzante e rientrò.
    “Vai fuori a controllare!” ordinò un altro, deciso.
    “Ma dài!” esclamò il terzo. “Tanto non succede mai niente”. Un rutto. “Non si vede più nessuno ronzare attorno ai morti da almeno due anni. Mi chiedo a cosa serva tutta questa pantomima”.
    Lo scuro si richiuse.
    “E che te ne frega? Tu prendi i soldi del turno di notte e sbattitene”.
    Tiziana riprese a respirare. Sgusciò verso suo fratello. Del viso di lui non restava che una poltiglia informe. Lei gemette dentro, ebbe l'impulso di gettarsi sul ragazzo e cancellare quello scempio con le sue lacrime.
    'No. Non ora'.
    Lo afferrò sotto le ascelle e cominciò a trascinarlo verso i cassonetti. Là dietro, fuori visuale, aveva nascosto una specie di risciò. Ce lo avrebbe caricato sopra e portato via. Nel piccolo cimitero clandestino, gli uomini avrebbero fatto in fretta a scavare una fossa per lui.
    Si fermò un attimo, ansimando per la fatica. Marco era pesante per lei, anche se era magro.
    “Vado a pisciare”, tuonò una delle voci da dentro.
    Tiziana gelò. Si guardò attorno frenetica, in cerca di una via di fuga.
    “Non bevetevi tutta la birra”.
    Era allo scoperto, nel bel mezzo del tragitto fra il marciapiede e l'immondizia. Niente da fare. Un groppo le si annodò in gola. Era finita.
    La porta sbatté e il Miliziano uscì.
    Una strana freddezza scese nel petto di lei, mentre il soldato ammutoliva, vedendola; allora respirò a fondo, si alzò in piedi e fronteggiò l'uomo, ponendosi davanti al corpo di suo fratello come a proteggerlo, a testa alta.

    “Vado a cercarla!”
    “Davide, cerca di calmarti e riflettere!” Ignazio aveva dimenticato la sigaretta. Il mozzicone si consumava appoggiato sul bordo del tavolo. “A quest'ora Titti sarà in qualche cella, se non l'hanno già...” la frase gli morì in gola.
    Il ragazzo lo afferrò per il bavero. “Se non l'hanno già cosa?” Lo scosse. “Ammazzata? Dillo, cazzo! Dillo!” urlò. Lo lasciò andare. Si passò le mani fra i lunghi capelli castani tentando di riprendere il controllo. “Vorrei sapere perché non ha informato nessuno”.
    “Per non farci correre rischi, se la conosco bene”.
    Davide continuò ad aggirarsi per la stanza troppo stretta, ma almeno adesso non smaniava più.
    Ignazio lo osservò, pensoso. “Cosa vorresti fare? Hai qualche idea?” Guardò uno per uno gli Estinti riuniti nel suo salotto, le loro espressioni annichilite. “Qualcuno ha qualche idea?” ripeté.
    Silenzio.
    “Va bene! Mi arrangerò senza di voi”, ringhiò Davide.
    “Cosa intendi...” cominciò il vecchio, ma lui lo spinse contro la porta per farsi largo e uscì.
    A casa, si gettò su una sedia. I pensieri si rincorrevano frenetici senza che riuscisse a fermarli.
    I prigionieri venivano torturati, sempre. Si morse le labbra a sangue. 'No! No! Non lei!' Perché non le aveva mai detto la verità? Se avesse saputo si sarebbe fatta forza. Invece così... Ma non l'avrebbe lasciata sola, ah no! Si maledisse per tutte le volte che aveva frenato l'impulso di baciarla. Perchè l'aveva fatto? Perchè era un imbecille, ecco perchè! Aveva rimandato e adesso era tardi. Troppo tardi per tutto.
    O forse no. Avrebbe rimediato, l'avrebbe trovata e se la sarebbe portata via, via da tutto questo schifo, in un posto dove ci sarebbero stati solo loro due, e chi se ne frega del resto.
    Da qualche ora girava e rigirava un'idea in testa, e gli sembrava sempre meno balzana. Avrebbe anche potuto funzionare. Si calmò all'improvviso. Sì, avrebbe funzionato di sicuro: lui avrebbe fatto in modo che non fallisse.
    Sbatté la porta e scese i gradini a tre a tre.

    La faccia si fece largo fra la nebbia rossastra e le lame che le si conficcavano nel cervello appena apriva gli occhi. Divenne consapevole del proprio corpo per le pugnalate che arrivavano da ogni parte.
    “Ti sei svegliata?” La voce era dura, secca. “Stavo cominciando a stufarmi”.
    Lei si impose di sollevare le palpebre gonfie. “Tu?”
    “Sì”. L'uomo si avvicinò, l'afferrò per il mento. “Io”.
    "Perché, Stefano?"
    "Bisogna saper scegliere il lato della barricata, sorellina".
    Tiziana scosse il capo. "Non puoi parlare sul serio". Si alzò a fatica. “Fammi uscire di qui”.
    “Uscirai se mi darai qualche informazione”. Fece un gesto vago. “Che so, qualche nome, un indirizzo. Qualcosa del genere, insomma”.
    “Non so niente”.
    Lui le artigliò il braccio, e sua sorella urlò: la pelle era ustionata e nera. In alcuni punti si vedeva la carne bruciata, dove le pareva di ricordare che le avessero applicato degli elettrodi. “Cosa mi hanno fatto?” ansimò. Il dolore era assoluto, dilagava con la ripresa progressiva della coscienza.
    “Poco e niente”, minimizzò il fratello. “Nomi! Voglio nomi e indirizzi”, insisté.
    “Non ne ho”, si ostinò lei.
    “Bene”, concluse Stefano. Fece un cenno a uno dei secondini. “Occupatevi della sua manicure”.
    “No!” sobbalzò Tiziana. “Le mani no!”
    L'uomo si voltò. “E perché le manine sante no, caruccia?”
    “Mi... servono”.
    “Le servono!” sghignazzò. “Avete sentito? Le servono. E per cosa, se non sono indiscreto?”
    “Per il clavicembalo”.
    “Ah, ecco”. Assunse un'aria interessata. “Il clavicembalo, eh?” Si picchiettò le labbra con l'indice. “Beh, forse hai ragione. Le ditina belle le riserveremo per ultime... certo che se volessi fare un po' di conversazione sarebbe diverso”.
    “Non so di che parli”.
    “Va bene. Vorrà dire che dovrò farti ammorbidire ancora un po'”. Il terrore afferrò sua sorella alle viscere. “Non ti darò compagne di cella, così non ti distrarrai, e ti lascerò tutta stanotte per riflettere sui tuoi prossimi passi. Sei sempre stata la più testarda fra noi tre, del resto”.
    Lei lo ascoltò solo in parte, finché Stefano non aggiunse: “Con il piccolino è stato più facile”.
    “Marco?” balbettò.
    “Mh”, annuì lui. “Un colpo e via”.
    “Tu! Sei stato tu...” La nausea la sopraffece. Ebbe appena il tempo di sporgersi oltre il bordo della branda e rigettò, con quel poco che ancora aveva nello stomaco, l'orrore di quella rivelazione.

    I due gorilla erano immobili, sull'attenti, ai lati del ragazzo ammanettato.
    “Liberatelo”, ordinò l'uomo, senza alcuna enfasi.
    Davide si massaggiò i polsi, appena poté farlo.
    “L'avete perquisito?”
    Uno dei due energumeni annuì. “Non aveva niente, addosso”.
    “Lasciateci soli”. Si vedeva che era abituato a essere obbedito senza discussioni.
    Chiuse la porta e si volse.
    “Il figliol prodigo...” mormorò, sarcastico. “Si può sapere perché ti sei consegnato?”
    Davide non rispose.
    “Sei un terrorista. Posso farti fucilare qui, nel cortile, tanto non saresti l'unico, anche se sei mio figlio. Cosa vuoi da me?”
    “Non sono un terrorista”.
    “Ah!” Il Ministro Maretti gli girò intorno. “Non sei un terrorista. E cosa saresti, se non chiedo troppo?”
    “Un musicista”.
    “Ah, già”. Il padre annuì. “Stronzate”, chiuse. “A cosa ti servo?”
    “C'è una ragazza...”
    Una risata sferzante lo interruppe. “Pene d'amore! Sei tornato per una pena d'amore”.
    Davide si erse sulle spalle. “L'hanno arrestata. Voglio una grazia firmata di tuo pugno, per lei”.
    Maretti si asciugò le lacrime. “Voglio”. Adesso era del tutto serio. “Non sei nelle condizioni di volere alcunché”. Gli si avvicinò. “E cosa offriresti in cambio?”
    Davide deglutì e distolse lo sguardo. Vide in un lampo Ignazio e la sua sigaretta: e poi il viso di lui trasfigurato, quasi luminoso, di quando dirigeva i suoi ragazzi; e poi, ancora, Matteo, e Veronica, Andrea e gli altri. Strinse i denti. “Nomi”.
    Suo padre, improvvisamente attento, trattenne il respiro.

    La musica saliva lieve. Davide, i capelli castani legati sulla nuca, gli occhi azzurri assorti e fissi sul rigo, suonava. La barba abbozzata sulle guance. Il cuore seguiva le battute, una dopo l'altra; le dita di lei sfioravano i tasti quasi da sole. L'armonia si intrecciava chiara, ma Tiziana udiva solo la voce del primo violino. Il suo.
    BWV 1047. La perfezione.
    Il dolore si fece strada, attenuando l'eco del Concerto. Qualcosa come una spada le si piantava nel petto a ogni respiro, e in bocca sentiva un sapore metallico.
    Bach disparve del tutto. Era stato un sogno. Solo un'illusione.
    L'avevano picchiata di nuovo, ma almeno non avevano usato la corrente. Dovevano averle rotto qualche costola. Ricordava che Stefano le aveva promesso di fare in modo che i danni non fossero troppo gravi, in modo che gli interrogatori potessero durare più a lungo. Ma lei era svenuta dopo i primi colpi. 'Stronzo', pensò.
    Si rifugiò nell'immagine di Davide per trovarvi forza. Dov'era lui, ora? Sapeva del suo arresto? Si dava pensiero per lei?
    Si concentrò. Fantasticò che lui potesse udirla, con la mente. 'Non ce la faccio più', gli disse. 'Non reggerò ancora per molto. Avrei voluto sentire il tuo sapore, almeno una volta. Non te l'ho mai detto. Che stupida, eh? Ormai è tardi. Ma non preoccuparti, non parlerò. Non gli dirò dove trovarti'.
    La musica tornò, dapprima lontana. Le mani di lui sul violino, l'archetto che carezzava le corde; e il canto avvolgente del secondo movimento le parve dare un senso a tutto. Scivolò nell'incoscienza, dimentica del mondo attorno, del dolore devastante e del materasso duro sotto la schiena insanguinata.

    “Vieni anche tu”.
    Maretti guardò incredulo suo figlio. “Ti ho detto che manderò l'ordine per e-mail. Il direttore del carcere lo attuerà”.
    “Non mi fido. Appena me ne sarò andato darai il contrordine”.
    L'altro lo soppesò un attimo. “Devi credermi per forza, non puoi fare altro”.
    Davide scosse il capo. “No. Scrivilo su carta, davanti a me. Firmalo e poi accompagnami da lei”.
    “Ma è assurdo!” protestò il Ministro. “Ti stai comportando come un bambino”.
    Il ragazzo si irrigidì e non rispose.
    “E poi perché dovrei venire anch'io?”
    “Perché se no non mi farebbero entrare, che domande! Mi arresterebbero e tu mi lasceresti là”.
    “Non lo faranno. Lo specificherò nella lettera. Lei uscirà e tu l'aspetterai fuori, che problema c'è?”
    “Io voglio vederla!” Le labbra di Davide si tesero sui denti. “Subito!”
    Suo padre ridacchiò. “Sei innamorato sul serio, vedo... Giulietta e Romeo, una cosa del genere, eh?”
    “Piantala di dire cazzate e scrivi l'ordine. Su carta”.
    “Sei un idiota”.
    “Può darsi, ma tu fallo”.
    “Prima i nomi”.
    “I nomi a tempo debito. Quando avrò visto la grazia firmata”.
    Maretti sospirò. Avere la soffiata era fondamentale. Per un attimo pensò che bluffasse. Ma perché avrebbe dovuto? Sarebbe stato scoperto subito e non avrebbe riavuto la sgualdrina, oltre a venire giustiziato. E infine era suo figlio, che diamine. Lui lo conosceva meglio di chiunque altro, sapeva leggergli in volto fin da bambino. Poteva anche permettersi di fidarsi, se lo riteneva opportuno; e se significava avere gli Estinti in pugno.
    “Va bene”, acconsentì.
    Davide credette di non aver capito, poi vide suo padre sedersi al computer e battere alcune righe. La stampante ronzò. “Ecco qui”.
    “Firmalo!”
    Lui lo fece, ostentando il gesto. “Leggi”. Al ragazzo tremavano le mani, il foglio oscillava fra le sue dita. “È di tuo gradimento?”
    Davide deglutì a vuoto e annuì.
    “I nomi, adesso”, sibilò l'uomo.
    “Quando deciderò io. Adesso saliamo in macchina. Io e te da soli”.
    “Non esagerare. Posso sempre rimangiarmi tutto”.
    Suo figlio socchiuse le palpebre. “Non lo farai. O io mi farò torturare fino alla morte piuttosto che parlare”.
    Non ne valeva la pena, si disse Maretti. Avrebbe avuto quel che voleva senza fatica, assecondandolo. Del resto che gli importava di quei due? Purché subito dopo si togliessero dai piedi, come gli aveva promesso Davide: sarebbero partiti. Che se ne andassero pure. Nessuno li avrebbe rimpianti.
    Uscirono. Il Ministro si mise alla guida di una anonima utilitaria.
    “Spegni i microfoni!” ordinò suo figlio.
    “Non ce ne sono. Non ho fatto fare modifiche su quest'auto”.
    Il ragazzo respirò due o tre volte. Doveva fidarsi, non aveva scelta. Il traffico era scarso, la strada filava via veloce. La casa circondariale femminile non era molto lontana, lo sapeva. Meno male, sarebbe stata una cosa rapida. Non parlarono per tutto il tragitto.
    “Sotto la siepe della fontana del cortile c'è una volta, fra le piante”, esordì Davide, quando riconobbe i paraggi del carcere. “Ci andavo a giocare da piccolo”.
    “Sì, me lo ricordo. Era il tuo rifugio”.
    Maretti parcheggiò: le mura grigie incombevano su di loro.
    “Nello spazio vuoto fra i rami troverai la custodia di un violino”, continuò il giovane. “Dentro c'è un plico”. Fissò il volto teso di suo padre. “Ci sono scritti i nomi che cerchi, con gli indirizzi. Tutti quelli che so, in tutto il Paese”.
    L'uomo non rispose.
    “Scendiamo. Adesso andiamo da lei”, sollecitò il ragazzo.

    Il letto a castello era ancorato al muro con tasselli d'acciaio che sporgevano di pochi centimetri, Tiziana aveva controllato più di una volta. Riuscì ad arrampicarsi fino al terzo livello di materassi. Tutto il suo corpo urlava di dolore, ma non importava, presto sarebbe finita. Non avrebbe permesso a suo fratello di umiliarla ancora: l'ultima parola l'avrebbe avuta lei.
    Assicurò alla testata la robusta striscia del lenzuolo che aveva strappato e verificò l'altezza. Circa due metri, forse un po' di più. Lei era minuta e di piccola statura, sarebbe andato bene.

    “Eccellenza!” sbalordì il poliziotto alla guardiola.
    “Facci entrare. Chiama il direttore”.
    “Subito”.
    “Digli di venire nella cella di Tiziana Germano”, aggiunse il Ministro mentre l'agente componeva un numero telefonico.
    L'odore della prigione aveva colpito Davide al ventre. Un misto di disinfettante e urina, sangue e ferro. 'Ti porto via di qui, Titti', pensò. “Perché il personale è maschile?” chiese a suo padre, tanto per non pensare che lei era costretta da giorni a respirare quel tanfo.
    “Perché ho deciso così”, rispose lui.
    Il figlio non ne avrebbe cavato altro, e tacque.
    Attesero che il guardiano riattaccasse.
    “Accompagnaci alla cella”.
    L'uomo in uniforme chiamò un collega per farsi dare il cambio. “Da questa parte”.

    Tiziana infilò il cappio rudimentale al collo, badando bene che il nodo corrispondesse alla prima e alla seconda vertebra. Da qualche parte aveva letto che gli impiccati muoiono per la rottura di una sporgenza di quelle ossa, il dente dell'epistrofeo, che si conficca nel cervelletto dove c'è il centro del respiro.
    Sperava che così fosse più veloce. Adesso che era il momento non aveva paura, però. Pensava a Davide. Alle sue labbra che non aveva mai baciato. Alle sue mani che non aveva mai sentito sulla pelle. Lui era il suo unico rimpianto. Lui. Nient'altro.
    E non poter morire all'aria aperta, con il profumo del mare nelle narici.

    I passi dei tre uomini risuonavano nel lungo corridoio.
    I guardiani scattavano sull'attenti e portavano la mano alla tesa del berretto, al loro passaggio.
    “Ci siamo quasi”, avvisò l'agente.
    Davide strinse il foglio fra le mani sudate. Non aveva voluto che lo tenesse suo padre, non si sa mai.
    'Sto arrivando, amore', pensava. 'Ti porto via. Via. Con me'.
    “Duecentosette”, lesse il poliziotto. Digitò un codice su un tastierino a muro.
    'Sono qui, Titti. Eccomi'.
    Con un lieve sibilo la porta scorrevole si aprì.
    E l'urlo di Davide lacerò il silenzio attonito degli altri. Si gettò sul corpo di lei che ancora sussultava. “No!” gridava. “No!” La sollevò, il capo appoggiato al suo seno. “Tiratela giù!”
    Il secondino chiamò aiuto, qualcuno accorse, la calarono e l'adagiarono a terra.
    “Fate venire il medico”, ordinò una voce.
    Davide le posò l'orecchio sul cuore, trattenne il respiro. Solo silenzio. Nessun altro suono.
    Allora si alzò, il viso irriconoscibile. Si avventò su suo padre: “L'hai ammazzata tu! Sei stato tu!”
    Maretti alzò una mano a difesa, ma due sorveglianti erano già sul figlio, tentando di immobilizzarlo, mentre un terzo lo teneva sotto tiro. Il ragazzo era una furia. Riuscì a liberarsi. Sferrò un calcio all'uomo davanti a sé e la pistola a tungsteno cadde. Si gettò a terra. Un agente lo placcò, ma lui lo colpì con un pugno alla tempia, spingendolo via. Ghermì l'arma. Nell'attimo in cui prendeva di mira suo padre, un colpo esplose. Davide sentì il fianco umido. Un'altra esplosione. Il dolore eruppe risalendo dall'addome. Ancora uno sparo, e qualcosa gli si spaccò nel petto.
    Seppe che era finita. Niente aveva più senso, tranne una cosa. Lanciò lontano la pistola.
    Strisciò verso la sua donna e si strinse a lei. 'Sono qui, Titti'.
    Maretti, pallido, fermò con un cenno i secondini.
    Un fiotto di sangue sgorgò dalle labbra di Davide, macchiò la guancia di Tiziana. Lui tentò di ripulirla, ma la mano ricadde. 'Eccomi'. Poi restò immobile, avvinto a lei.

    Nel silenzio assoluto, un cellulare trillò nella tasca di Maretti.
    “Pronto”. Il tono era incolore.
    “Eccellenza, abbiamo trovato i fogli dentro la custodia del violino”.
    Il Ministro annuì. Almeno l'intercettazione nell'auto era servita a qualcosa, anche se adesso non gli importava poi troppo.
    “È strano”, continuò esitante la voce all'altro capo.
    “Che cosa?”
    “È uno spartito. Non c'è nient'altro”.
    “Cosa stai dicendo?”
    “C'è solo quello. Una partitura per primo violino, eccellenza, così c'è scritto. Si intitola BWV 1047”.

    Edited by federica68 - 19/2/2009, 16:59
     
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  2. Zaq Mills
     
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    Il mio voto è 4.
    Un racconto che ti fa pensare. Uno stile impeccabile.
    Non saprei cos'altro aggiungere se non i miei complimenti e la mia ammirazione.
    Ciao.
     
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  3. bravecharlie
     
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    racconto dall'ottimo ritmo, scritto senza l'ombra di una sbavatura, buoni anche i flashback iniziali che veicolano la situazione senza troppo infodump. forma senza una piega, dunque, così non mi è parso per la sostanza.

    1) la trama dittatura+ribelli+storia d'amore tormentata+legami di parentela dipanati su fronti opposti è un po' abusata, nulla di nuovo sotto il sole e non hai fatto molto per svecchiarla.

    2) in un racconto del genere secondo me avevi due possibilità: o puntavi tutto sull'azione oppure sui rapporti familiari sui diversi fronti. mi pare che in entrambi i casi non ci sia molto (l'azione è pochina e gli scambi di battute tra Tiziana e suo fratello e soprattutto tra Davide e suo padre non fanno intuire quasi nulla. insomma, sono parenti ma si comportano come se non lo fossero.)

    CITAZIONE
    Strisciò verso la sua donna e si strinse a lei. 'Sono qui, Titti'.
    Maretti si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. “Figlio mio...” gemette.
    Davide lo guardò. “Non sono più... tuo figlio”. Un fiotto di sangue sgorgò dalle sue labbra con le parole, macchiò la guancia di Tiziana. Lui tentò di ripulirla, ma la mano ricadde. 'Eccomi'. Poi restò immobile, avvinto a lei.

    questo passaggio è da drammone strappalacrime; un po' troppo patetico soprattutto "il figlio mio" del ministro, che stona visto che ce lo hai presentato come un bastardone totale.

    in finale, metto 3 quasi unicamente per l'ottimo modo in cui è scritto, perché è uno di quei racconti che me ne ha ricordati decine di altri (e film, anche) senza essere comunque un plagio...
     
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  4. Okamis
     
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    4
    Non potrebbe essere altro voto per quanto mi riguarda. Subito le note e poi, come sempre, il commento vero e proprio.

    CITAZIONE
    “Se io sono un bastardo, tu cosa sei?Dimmelo!”

    Manca lo spazio dopo il punto di domanda.

    CITAZIONE
    Non aveva detto a nessuno che sarebbe venuta qui.

    Il narratore è onniscente, e come tale non si trova in nessun luogo definito. Pertanto credo sia più corretto scrivere "Non aveva detto a nessuno che sarebbe andata lì"

    CITAZIONE
    saremmo arrivati a questi punti

    QuestO puntO?

    CITAZIONE
    “Sono solo cani che si litigano altri cani”

    Eh???

    Dunque, se proprio si vuole andare a trovare un difetto in questo è che, come spesso accade per le tue storie, fa a pugni con i "pochi" caratteri a disposizione. Infatti ho sentito una certa disarmonia tra la prima parte (con i continui, bellissimi cambi temporali) e la seconda, molto più lineare. Però eri al limite dei caratteri a disposizione, quindi chiudo un occhio su questo aspetto. Per il resto c'è poco da dire. Tranne l'ultima frase segnalata nei "quote", stilisticamente il brano è superlativo. La storia poi è stata capace di farmi scendere una lacrima, sebbene, visti gli autori di riferimento, lo avessi previsto sin da subito. Meraviglioso... Forse il tuo miglior brano che abbia mai letto (e che il tuo modo di raccontare mi piaccia credo di averlo già detto un trilione di volte in passato ^_^)

    PS: Certo che questa edizione dell'USAM sembra quasi che abbia per tema l'omaggio verso i grandi del passato ;)
     
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  5. federica68
     
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    Intanto grazie a tutti per la lettura e le segnalazioni, che ho sistemato. E anche per i complimenti, che fa sempre piacere ricevere!! :woot: Provo a rispondere alle osservazioni:

    @brave: in effetti il passaggio del padre ravveduto era quello su cui avevo più dubbi, e infatti l'ho tolto senza rimpianti. Il resto no, lo so che è da drammone, ma mi piace farlo finire così :fischio: . Non era nelle mie intenzioni scrivere una cosa originale (non credo che sarei nemmeno capace), ma solo cimentarmi con "la tragedia", cosa che non avevo mai fatto, e la trama non è solo mia, come dico nella premessa.
    Ti ringrazio comunque per la lettura e per il commento, sempre preciso e onesto, e sempre gradito :)

    @Okamis: ho sistemato le cose che mi hai segnalato.

    per me 40.000 caratteri sono pochi in effetti... mi piace scrivere storie articolate e lunghe, e si vede, mi sa... Nicola dice che non uso lo zoom ma il grandangolo, e ha ragione...
    il passaggio : cani che si litigano altri cani sarebbe più corretto mettere contendono al posto di litigano, ma non l'ho fatto per mantenere il tono non troppo colto dei soldati. Non credo che userebbero il verbo contendere. I primi cani a cui si riferisce sono cani veri, i secondi sono i ribelli... credevo fosse chiaro, ma devo aver toppato qualcosa, credo, se è di difficile comprensione. Adesso penso se e come modificare la frase... vorrei tenere il tono "incolto" e il disprezzo, e l'idea che il tipo ha di aver fatto chissà quale battuta intelligente... non è semplice, almeno per me, devo pensarmi qualcosa e non è detto che ci riesca... Grazie anche a te per la lettura e il commento molto lusinghiero!!! :woot:

    @Zaq: grazie per lettura e complimenti, anche i tuoi sono molto lusinghieri!!
    mi commuovete, ragazzi :nghe:
     
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  6. shivan01
     
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    un racconto magistrale. Hai saputo abbandonare l'antica grecia senza perdere di efficacia.
    Complimenti, forse la tua cosa migliore.

    L'unico appunto riguarda un ottimismo che fatico a condividere. 2115? Forse è una stima troppo positiva.
    In considerazione di due elementi fondamentali:
    1) l'ultima mia frase è ovviamente una cazzata
    2) non ti posso dare di più
    è un 4 sacrosanto
    ciao
     
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  7. federica68
     
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    magistrale non me lo aveva ancora detto nessuno... :nghe:

    CITAZIONE
    Complimenti, forse la tua cosa migliore.

    glom :shock:

    CITAZIONE
    L'unico appunto riguarda un ottimismo che fatico a condividere. 2115? Forse è una stima troppo positiva.

    ... in effetti in origine mancava un 1: era 2015... poi mi pareva troppo catastrofico... :fischio:

    grazie!!!! :woot:

     
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  8. Paola_Milli
     
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    ok, abbiamo capito il messaggio subliminale: tu vuoi che facciamo una colletta per un biglietto aereo per Atene ;)

    A parte le scemenze, io adoro i concerti brandenburghesi, quindi mi sono letta il tuo racconto mettendo quello in questione (BWV 1047) come sottofondo.
    Poi, da buona fan di star trek, ho pure una passione per il 47 (troppo complicata da spiegare). Ergo, mi hai messo proprio a mio agio :)

    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Il ragazzo non abbassò le ciglia

    ehm... non mi piace... si abbassa lo sguardo, le palpebre, ma le ciglia solo di conseguenza.
    lo so, è un sofismo. è che a te errori/sbavature/sviste ne trovo ben poche :P


    Mi associo in pieno al commento di Zaq. Bello, anche se non è una storia originale, anche se c'è il dramma strappalacrime (che per inciso mi sono scese davvero). Personaggi rotondi, ineccepibili. Ben mascherato il finale.
    E che posso dirti di più.

    4, bella mia, quattro e brava-.
     
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  9. shivan01
     
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    chi se ne frega se non è originale!
     
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  10. federica68
     
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    User deleted


    grazie Paola!!! :woot:


    [QUOTE]
    CITAZIONE (Paola_Milli @ 5/2/2009, 21:05)
    ok, abbiamo capito il messaggio subliminale: tu vuoi che facciamo una colletta per un biglietto aereo per Atene ;)

    :unsure: come hai fatto a capirlo?
    :woot:


    CITAZIONE
    A parte le scemenze, io adoro i concerti brandenburghesi, quindi mi sono letta il tuo racconto mettendo quello in questione (BWV 1047) come sottofondo.

    che effetto fa?
    io l'ho ascoltato prima e dopo, ma non durante perchè se no non riuscivo a scrivere per ascoltare (e guardare. Ho un dvd di un'esecuzione di Karl Richter del 1970, un gioiello!!)
    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    CITAZIONE
    Il ragazzo non abbassò le ciglia

    ehm... non mi piace... si abbassa lo sguardo, le palpebre, ma le ciglia solo di conseguenza.

    è vero, ma in quel passo c'era una concentrazione di "occhi" e "sguardi" troppo alta, così ho pensato che l'espressione avesse un che di "eroico" :wacko:


    CITAZIONE
    chi se ne frega se non è originale!

    :lol: :lol:





     
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  11. rolandking
     
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    CITAZIONE (shivan01 @ 5/2/2009, 21:06)
    chi se ne frega se non è originale!

    Innanzitutto concordo con shivan e quoto.

    Poi...che dire stavolta ti sei davvero superata :) , anche secondo me è il racconto, da te scritto, più bello che ho letto.
    Scritto alla perfezione, un ritmo buonissimo...ho trovato l'alternaza tra i due tempi ottima...mi è piaciuto come hai saputo rapportare Davide e suo padre e Davide e Tiziana, il finale è da lacrimuccia e di solito romanzi, racconti e film che riescono a commuovermi li ho sempre giudicati ottimi, perchè secondo me hanno raggiunto il loro scopo: hanno trascinato il lettore coinvolgendolo e facendogli provare delle emozioni forti.
    Mi è piaciuta molto l'idea romantica e idealista di far trovare lo spartito all'interno della custodia alla fine.
    Ti faccio davvero i miei complimenti vorrei darti 5 non 4 :D , peccato che non posso.
    Questo è il primo racconto che ho letto...iniziamo bene, mi sa che sto mese USAM è davvero uno spettacolo di alto livello. :woot:
     
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  12. federica68
     
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    User deleted


    ciao Salvatore
    grazie!!! :woot:
    contenta che ti sia piaciuto!!

    guarda, approfitto dell'occasione per dire una cosa: quello che meno mi convinceva mentre scrivevo questo racconto era proprio il ritmo, che invece state trovando tutti buono. Di solito uso il minimo indispensabile i salti temporali e non amo molto l'interlinea, ma qui sono stata costretta a usare entrambi molto per evitare carriolate e carriolate di infodump. Però ero perplessa perchè mi sembrava dare un ritmo troppo saltellante e a singhiozzo...
    ero convinta di aver sbagliato del tutto il tiro, sul serio, ma sono contenta che la mia impressione fosse sbagliata... :asd:
    :sunglass:
     
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  13. Diz-buster
     
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    Purtroppo più che fantascienza, un futuro possibile, anche prima della collocazione temporale ipotizzata.
    Come al solito mi concentro sui contenuti:
    SPOILER (click to view)
    1) Odio i personaggi manichei. Trattandosi di familiari, sopratutto nel padre, mi sarei aspettato almeno un moto interiore di affetto nei confronti del figlio, nel rispetto delle opposte posizioni.
    2) Che i musicisti possano essere identificati come terroristi (..In quanto diffusori di cultura volevi dire??...) può anche starci ...ma mi sembra veramente forzato, se non giustificato in modo convincente.

    Queste considerazioni restano tuttavie secondarie nel giudizio complessivo.
    Ritmo, sentimento e un un grande finale meritano il punteggio massimo.

    https://www.youtube.com/watch?v=EC1E4_imS0A&feature=related
     
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  14. federica68
     
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    Ciao Diz
    grazie mille per la lettura e il commento positivo!! :woot: :woot:
    grazie per il link al concerto!!!! Non avevo proprio pensato di metterlo!!! Ti ringrazio davvero tantissimo!!! Se non ti dispiace lo copio incollo all'inizio del racconto, così anche chi non ha tempo di leggere tutti i commenti può trovarlo. Grazie ancora, hai avuto un'idea fantastica!!

    approfitto del tuo commento mirato per spiegare qualcosa di come ho partorito questo racconto, perchè magari altri potrebbero avere le stesse perplessità che hai avuto tu, perchè proprio le cose che segnali le ho lasciate sottintese. Metto in spoiler perchè magari non a tutti interessa lo sproloquio che temo ne verrà fuori, abbiate pazienza ragazzi...

    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Trattandosi di familiari, sopratutto nel padre, mi sarei aspettato almeno un moto interiore di affetto nei confronti del figlio, nel rispetto delle opposte posizioni.

    certo, se ci fosse stato del rispetto in lui per qualcosa che non fosse se stesso e il proprio potere
    il mio fine era proprio quello opposto. Avrei potuto far interpretare le stesse parti da estranei, ma di proposito ho seguito lo schema delle parentele che Sofocle usa nell'Antigone, oltre alla trama praticamente invariata (anche se le motivazioni dei miei personaggi sono diverse da quelli di Sofocle). Un po' perchè la cosa mi intrigava e un po' perchè proprio il fatto che fossero familiari mi rendeva più agghiacciante il fatto che si comportino così. Specialmente il padre.
    volevo dare l'idea di quanto i normali rapporti possano deteriorarsi quando c'è di mezzo un potere di quella portata, rispetto al quale tutto passa in secondo piano, anche l'affetto per un figlio che torna. Il padre non ha scrupoli e nemmeno finge di averne. Il figlio neppure, ma la sua scelta è diversa: pur abbandonando il padre e "combattendo" contro di lui, sceglie la non violenza, la sua arma è il violino. Rinnega il padre, è vero, e il suo conflitto interiore è tutto da immaginare, ma è intuibile. Torna perchè gli fa comodo, va bene, ma mette in pericolo solo se stesso
    CITAZIONE
    2) Che i musicisti possano essere identificati come terroristi (..In quanto diffusori di cultura volevi dire??...) può anche starci ...ma mi sembra veramente forzato, se non giustificato in modo convincente.

    Si tratta di una società dove l'unica voce "lecita" è quella della tv, ed è in mano al potere, e questo lo dico più volte nel racconto. La giustificazione sta lì, e secondo me è verosimile. I risultati di questo schema li vediamo già oggi. I media sono riusciti a farci accettare come normale l'idea di guerra preventiva, di "guerra umanitaria"(!!!), di missioni di guerra spacciate per missioni di pace, hanno poco per volta indotto l'equazione musulmano=terrorista, moschea=covo di terroristi (non in tutti per fortuna, ma in molta gente meno pronta a farsi domande, o senza i mezzi per sentire altre campane)

    Sono stati scritti tomi sul potere di persuasione di una propaganda oculata e mirata. Nel giro di poche settimane (meno di 10), l'opinione pubblica inglese che non voleva che l'Inghilterra prendesse parte alla 1° Guerra Mondiale, divenne fortemente interventista, e oltre l'80% degli inglesi fu d'accordo con il governo. Fu una delle prime volte che la propaganda venne sperimentata su vasta scala (l'artefice delle teorie che vennero sfruttate in quel caso fu il nipote di Freud, mi pare), e Hitler in persona, nel Mein Kampf non si fa scrupolo di usare il termine propaganda per indicare ciò di cui ha bisogno il popolo per essere convinto di un'idea, in quel caso la sua.

    In una società dove questo meccanismo è portato alle estreme conseguenze come nel racconto, i tipografi, i musicisti, gli insegnanti, chiunque parli una lingua diversa da quella ufficiale può essere spacciato per terrorista. Non c'è nessuna voce che dica il contrario, e quelli che potrebbero farlo vengono massacrati come bestie.
    La gente che passa via e non si chiede chi sono quei morti sul marciapiede simboleggia proprio questa acriticità, questa indotta incapacità di porsi domande di sorta.

    Non descrivo affatto una cosa impossibile, almeno secondo me, e più di una volta nella storia anche recente abbiamo visto che questa cosa è successa. Con quali conseguenze lo sappiamo.
    Certo che il padre del racconto sa benissimo che suo figlio non è un terrorista, ma non avrebbe difficoltà a spacciarlo come tale e farlo fucilare, e infatti glielo dice. Sa anche che i tipografi sono tipografi e basta, ma fa credere al "popolo" quello che vuole.

    Avrei voluto inserire nella bibliografia una biografia di Pericle che sto leggendo, ma non l'ho fatto, come non ho inserito il Mein Kampf, Arcipelago Gulag, e i vari 1984, La fattoria degli animali, Fahrenheit 451, ecc perchè c'entravano solo nel definire l'idea generale di fondo.
    Perchè Pericle? Perchè c'entra "al contrario", perchè ha fatto proprio l'opposto del dittatore del mio racconto, e dimostra per estensione la tesi opposta. :blink:
    Pericle voleva dare lo status di cittadini a tutti gli abitanti di Atene, e di conseguenza la possibilità di partecipare alla vita politica e di essere eletti e di eleggere. Per rendere gli ateniesi dei ceti poveri consapevoli delle loro scelte politiche, scelse la strada della cultura. Non dell'istruzione soltanto, ma della cultura in senso lato: la partecipazione alle rappresentazioni teatrali divenne fondamentale, al punto da ricevere un risarcimento per la giornata di lavoro persa per andare a teatro. Il discorso non è così semplice ovviamente, e per i greci il teatro non rappresentava solo cultura, ma qui non c'è lo spazio e il tempo per affrontare a fondo l'argomento.

    Era solo per far capire come secondo me potesse avere un senso che andare a un concerto fosse illegale, in una società come quella che racconto, e ancor più suonare, o insegnare, o stampare libri, e come per un potente senza scrupoli che deteneva tutti i mezzi di comunicazione non fosse un problema far credere che quei ragazzi impiccati in piazza non fossero tipografi ma terroristi, come anche quei morti sul marciapiede, e senza bisogno di troppe spiegazioni da parte del narratore...

    Non so se hai visto Quarto Potere. A un certo punto il protagonista dice: "Non preoccuparti di cosa penserà la gente. Sono io che dico alla gente cosa deve pensare".

    La spiegazione di tutto questo meccanismo non la do, e di proposito, nel racconto. Ma il lettore può intuirla dal contesto e fare 2+2, e perciò doveva essere, nelle mie intenzioni, ancora più agghiacciante proprio perchè è estrema. Se fossero stati spacciati per terroristi dei combattenti per la causa che magari avevano degli scontri a fuoco con la Milizia sarebbe stato di più soft come comprensione immediata, ma meno pregnante, almeno secondo me, e non sarebbe stato quello che volevo dire.

    mi spiace non essere riuscita a rendere bene questa cosa, per me era la cosa più importante di tutto il racconto... :shifty:

    scusate lo sproloquio!!


    un saluto e grazie ancora per tutto :woot:

    Edited by federica68 - 8/2/2009, 20:08
     
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  15. Paolo_DP77
     
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    Bello.
    Mi piace l'uso del concerto come sottofondo a tutta la storia, e anche se non ci sono particolari originalità nella trama né nei concetti di fondo all'ambientazione, il racconto rimane molto significativo. Funziona molto bene, ha ritmo e una struttura non lineare decisamente ben congegnata.
    Utilizzare dei personaggi "non-parenti" e dei guerriglieri come sovversivi in luogo dei musicisti sarebbe forse più realistico, ma meno significativo, in effetti, secondo me. A me piace la tua impostazione.

    Le mie uniche osservazioni sono sulle tracce di infodump in alcuni dialoghi (specie nella scena del dialogo tra davide e tiziana, lì si sentono parecchio, ma basterebbe sistemare due-tre battute) e sulla mancanza di un contesto "visibile" in alcune scene; aggiungerei qualche riga di descrizione ogni tanto, anche minima, tanto per per rendere più naturale inquadrare l'ambiente in cui si muovono i personaggi. Così com'è rimane un po' astratto.

    Ci potrebbe stare anche qualche taglio, ad esempio il personaggio di Stefano, fratello-carnefice di cui non si comprendono bene le motivazioni (o forse mi sono perso qualcosa io?); è comunque interessante anche così, ma non ha lo spazio che gli servirebbe e allora... :killer: :)

    SPOILER (click to view)
    CITAZIONE
    Ghermì la rivoltella.

    Ti riferisci alla pistola al tungsteno? Ok non è niente di fantascientifico, ma chiamarla "rivoltella" mi sembra un po' retrò :-)


    Questi piccoli difetti comunque non mi sembrano sufficienti a scendere sotto il quattro, anche perché sarebbero anche piuttosto semplici da sistemare, volendo.

    :compli:
     
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38 replies since 4/2/2009, 21:47   567 views
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