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e così faccio anch'io il mio esordio su USAM! titolo un po' pretenzioso forse, ma dovrebbe attirare abbastanza l'attenzione.
ho cercato di ripristinare tutti i corsivi ma potrebbe essermi sfuggi qualcosa. dovrebbe comunque essere abbastanza chiaro. ringrazio anticipatamente chi avrà la pazienza di arrivare fino in fondo.
IL SENSO DELLA VITA
Hal Baley morì un due di luglio. Aveva cinquantasette anni. Naturalmente non sapeva che sarebbe morto, e non aveva mai pensato che potesse capitargli così presto. Fu solo uno sfortunato incidente, anche piuttosto imbarazzante da raccontare: era scivolato nella vasca. Aveva appena finito di farsi il bagno, si era alzato in piedi per uscire ed era scivolato sul fondale viscido. Aveva battuto la nuca sul bordo di ceramica, e aveva perso i sensi. In realtà, il colpo non era stato così terribile da ucciderlo, ma dopo essere svenuto era risprofondato sott’acqua, ed era annegato. I suoi familiari si accorsero dell’incidente più di un’ora dopo, quando cominciarono a chiedersi perché ci mettesse tanto, per lavarsi. Ma questo Hal non lo seppe mai. In effetti, non sapeva nemmeno di essere trapassato. Il colpo era stato troppo rapido perché avesse potuto registrare quello che era successo, e la morte era sopraggiunta mentre era incosciente. Perciò si meravigliò alquanto quando, nell’istante in cui il suo cervello si rassegnava all’assenza di ossigeno, tutta la sua persona si ritrovò in un salone ovoidale, dal soffitto a volta intarsiato di mosaici multicolori. «Che ca...» fu la sua prima reazione. Quell’imprecazione attirò l’attenzione di alcuni dei presenti. E ora che ci faceva caso, erano molti, i presenti: l’intera sala, che poteva misurare approssimativamente venti metri in larghezza e più di trenta in lunghezza, era gremita di persone. Individui di tutte le età, etnie, forme. Tutti però erano vestiti allo stesso modo: una sorta di vestaglia di un azzurro carta da zucchero molto tenue, senza maniche, che arrivava poco sotto le ginocchia, nonostante altezza e stazza variassero molto da un individuo all’altro. Hal si accorse che anche lui indossava quel pigiama solo quando si osservò: aveva creduto fino a quel momento di essere ancora nudo, com’era nella vasca, e quel tessuto era talmente leggero e impalpabile che non ne aveva percepito il peso o la sensazione sulla pelle. Stabilì in quel momento che la situazione era piuttosto insolita. «Mi scusi» disse rivolto a un uomo che poteva essere suo coetaneo, battendogli delicatamente un dito sulla spalla e stando attento a non alzare troppo la voce, perché nonostante la grande calca il silenzio era pressoché assoluto. «Saprebbe dirmi... dove siamo?» L’interpellato lo fissò per alcuni secondi con aria sospettosa, come se stesse cercando di capire se quella domanda fosse uno scherzo. Poi scosse la testa, con un sorriso beffardo. «Eccone un altro che non se n’è accorto.» A quelle parole, come poco prima, altri si voltarono a fissarlo. Hal girò lo sguardo intorno, cercando di capire qualcosa dall’atteggiamento dei suoi compagni di chissà-cosa, ma nessuno sembrava volerlo aiutare. Avevano tutti la stessa espressione tristemente divertita dell’uomo a cui aveva fatto la domanda. Passò almeno mezzo minuto prima che un’anziana donna, dopo aver emesso un grugnito, gli rispose: «Sei morto, bello. Come tutti noi.» «Io... cosa?» non riuscì a trattenersi. «No, è impossibile, io...» «Sei morto, proprio così» confermò il suo coetaneo. «Defunto, deceduto, estinto, passato a miglior vita. Fattene una ragione. Ogni tanto ne arriva qualcuno che non ha fatto in tempo a capire che la sua vita è finita, ma posso garantirti che è così. Io, per esempio, ho avuto tutto il tempo di gustarmi i miei ultimi attimi, mentre il trattore del camion che mi è venuto addosso mi sfondava lentamente il torace.» Hal deglutì. Il tizio pareva comunque essersi ripreso bene, dopo l’incidente, ma decise che era meglio non farglielo notare: sembrava che la faccenda lo amareggiasse ancora un po’. «Ma come... io ero in casa, stavo...» cercò di capire come poteva essere successo, ma non riusciva a immaginare come si potesse morire facendosi il bagno. «Non so come, ma è così. Mettiti l’animo in pace. E abituati anche al fatto che la “miglior vita” a cui sei passato è questa.» Detto questo l’uomo gli voltò le spalle. A quanto pareva, non aveva altro da dire, o comunque non voleva farlo. Hal cercò di digerire quanto aveva appreso. Gli ultimi due minuti della sua vita (e/o non vita) erano i più intensi che gli fossero capitati: era morto in circostanze ignote, aveva scoperto di essere morto e ora si trovava... dove? Era il paradiso, quello? In ogni caso, era un “aldilà”. Anche se aveva più l’aspetto di un museo di arte moderna. Il pavimento, cui non aveva prestato attenzione fino a quel momento, era costituito da un incastro di mattonelle ovali, dal colore lattiginoso. Il soffitto decorato scendeva giù, e anche se la vista gli era preclusa dalla folla che lo circondava in ogni direzione, ipotizzava che la sala non avesse vere pareti, ma solo quel mosaico che partiva dal pavimento e si sviluppava come una cupola. Oltre le vetrate colorate non si riusciva a scorgere niente, e la luce non sembrava provenire dall’esterno, infatti non si vedevano ombre multicolori sul pavimento. Non c’erano ombre affatto, a dirla tutta. Va bene, si disse. Sono morto. Posso accettarlo, sono adulto. D’altra parte tutto questo non può essere un fenomeno naturale, si tratta di qualcosa di troppo assurdo. A meno che non siamo stati rapiti in massa dagli alieni, o cose del genere. Ma se questo qui ricorda di essere stato spiaccicato da dieci tonnellate di camion, e adesso è qui davanti a me, non può essere altrimenti. E anche gli altri sembravano piuttosto sicuri. Andò avanti per alcuni minuti riflettendo a quel modo, cercando ipotesi alternative e cercando le prove a favore e contro di esse. Giunse presto alla conclusione che non esisteva una spiegazione migliore di quella che gli era stata fornita. Ma qualcosa ancora gli sfuggiva. C’era un elemento, un dettaglio che rendeva tutta la storia dell’aldilà poco convincente. Lo aveva colto a livello subconscio, come gli capitava spesso in altre occasioni. Non che avesse un talento particolare, quello che avvertiva non era diverso dalle intuizioni che capitano a tutti, ogni tanto, ma nei suoi cinquantasette anni di convivenza con se stesso aveva imparato a conoscersi, e riusciva a identificare subito quei momenti: la sensazione netta di una risposta valida e precisa, nascosta da qualche parte nella sua testa. In quei casi, era ormai assodato, per riuscire a rintracciare l’idea centrale doveva agire metodicamente, partendo da ciò che sapeva e seguendo una catena di collegamenti fino ad arrivare a quello che aveva innescato il prurito. Fu proprio così che fece. Partì considerando buona l’ipotesi di partenza, e cioè che lui, e tutti gli altri, fossero morti. Se questo era vero, allora si trovavano in un qualche genere di oltretomba. Passò in rassegna tutte le leggende e religioni che conosceva, per confrontare le idee di aldilà che esse proponevano con il posto in cui si trovava: nessuna corrispondenza. Ma questo non dimostrava niente: poteva benissimo essere che nessuna religione avesse mai adorato il dio giusto. Tuttavia, anche considerando di essere in un regno dei morti presieduto da un dio sconosciuto, qualcosa era fuori posto. Si guardò intorno. E un primo pezzo del puzzle si incastrò nella sua mente: il fatto che potesse guardarsi intorno era strano. Come poteva il paradiso/inferno/quel-che-era consistere in un’unica, per quanto grande, stanza? Ecco cosa non andava: erano troppo pochi, lì dentro. Ma non solo. Si mise a osservare la gente che lo circondava, in ogni direzione, alla ricerca di un particolare, qualcosa che li accomunasse: possibile che loro fossero solo una specifica “categoria” di morti? Si fece spazio, un po’ chiedendo permesso e un po’ sgomitando, in mezzo alla folla, per riuscire a osservare anche i punti più lontani. Gli ci volle poco per notare che, in tutta la sala, non c’era un solo bambino. Cosa voleva dire? Forse quello era l’inferno, e i bambini, innocenti per definizione, non passavano di lì? O forse, a prescindere dal momento della morte, una volta ritrovatosi lì, un individuo mostrava una certa età? No, questo no: l’età apparente delle persone lì riunite spaziava dai quattordici agli ottant’anni. Per cui, in effetti mancavano solo i più piccoli. Aveva quindi trovato qualcosa che loro non erano, ma niente che li accomunasse. Anche eliminando dal mucchio di anime tornate al creatore tutti i bambini, i presenti erano di gran lunga troppo pochi, per cui doveva esserci qualcos’altro. Non si poteva nemmeno affermare che ci fosse una particolare distinzione di razza, sesso o religione: c’erano maschi e femmine di ogni colore, e mentre vagava per la sala aveva visto diversi individui pregare in diversi modi: alla maniera cristiana, islamica, ebraica, indù, buddhista. E lui, per esempio, non seguiva nessun credo particolare: quindi, non erano le loro caratteristiche personali a distinguerli. Doveva esser qualcosa di esterno, che era stato loro assegnato a posteriori. Non era il loro “approccio” con la morte, perché lui non se ne era accorto, mentre altri lo ricordavano perfettamente. Ma che fosse, ad esempio, il tipo di morte? Lui, presumibilmente, era stato vittima di una morte violenta. Lo stesso l’uomo che gli aveva raccontato la sua esperienza, e che ormai aveva perso tra la folla. Ma degli altri non sapeva niente. Si mise a chiedere a tutti coloro che gli capitavano a tiro. Notò solo allora che, indipendentemente dalle lingue che ognuno di loro doveva parlare o credere di parlare, riuscivano a capirsi comunque: un punto a favore del fatto che quel posto non fosse del tutto “normale”, ma avesse qualcosa in più. Un rapido campione gli permise di capire che non era nemmeno la morte violenta ad accomunarli: c’era chi era morto in un letto d’ospedale, chi si era suicidato, chi era stato consumato da una malattia, e chi come lui non ne aveva idea. Decise comunque di continuare a chiedere, perché le informazioni che acquisiva potevano tornargli utili. La maggior parte della gente si mostrava ben disposta. D’altra parte, che senso aveva la riservatezza, adesso? Si avvicinò a una ragazza piuttosto giovane e domandò anche a lei, che lo aveva sentito intervistare un altro lì accanto: «E tu invece? Come sei... come è successo?» Lei scrollò le spalle. «Overdose, o qualcosa del genere. Devo aver mischiato un po’ troppo, l’altra sera.» Una strategia di morte che ancora non aveva rilevato altrove. «Capisco» affermò, in tono piatto. Stava per rivolgersi ad altri, quando lei continuò. «Certo, che cosa triste morire il giorno del proprio compleanno. Durante la propria festa...» scosse la testa. «Beh...» non sapeva bene cosa dire. Insomma, erano tutti morti, lì, e che fosse successo il quindici marzo o il trenta dicembre non... Aspetta, gli disse qualcosa, dentro. Riconosceva quella voce: era quella parte di lui che aveva avuto l’intuizione, che gli stava segnalando la sua vicinanza all’obiettivo. Tornò a guardare la ragazza: «Quando è il tuo compleanno?» «Intendi la mia data di nascita e di morte? Due luglio. Almeno non posso sbagliare a fare il conto: venti anni spaccati...» continuava a lagnarsi, ma Hal non l’ascoltava più. Due luglio. Possibile che fosse quello? Possibile che quelli fossero i morti (esclusi i bambini, per qualche motivo) di quel giorno? Riprese a chiedere in giro, stavolta interessandosi del quando, e non del come. Presto raggiunse il suo risultato: due luglio. Eccoci qua, i defunti di oggi, ridacchiò tra sé. E subito dopo quel pensiero, ne giunse un altro: se loro erano i morti di un preciso intervallo, allora quello poteva essere una specie di limbo. Lì erano riuniti coloro che dovevano essere in qualche modo giudicati, prima di poter passare a quello che doveva essere il vero aldilà. Poi, come se l’entità che gestiva il tutto avesse aspettato che qualcuno arrivasse a quella conclusione, una sezione della parete, quella che corrispondeva alla punta più stretta dell’ovale, si dischiuse con un suono viscido, come di una gelatina che viene versata. Una fessura nera si apriva adesso in quel lato, grande appena per consentire a una persona di passare. E anche se nessuno lo aveva ordinato, tutti si fecero più vicini e cominciarono a entrare, uno per volta.
Forse non aveva senso, in quella situazione, tenere conto del tempo. Ma Hal stimò di aver passato almeno due ore stritolato in mezzo alla calca che si affollava intorno all’apertura, come un gruppo di ragazzini a un concerto che cercano di avvicinarsi al palco. Nel suo vagare per l’enorme sala, all’apertura della parete si era trovato a circa cinque metri da quella misteriosa porta. Anche se avesse voluto starne distante (che comunque non era il caso) era stato trascinato dalla folla, che si era mossa all’unisono in quella direzione. A ritmo serrato, le persone sparivano dietro la fessura nera. Hal aveva pensato di chiedere spiegazioni agli altri, nel caso si fosse perso una lezione riguardo cosa ci si aspettava da loro, ma si rese ben presto conto che nessuno ne sapeva più di lui, e anzi erano in molti a fargli domande. Da oltre l’apertura non proveniva alcun suono, ma questo se lo era aspettato. E, anche se non sapeva se considerarlo un fatto positivo o negativo, nessuno era tornato indietro, dopo aver varcato la soglia. Non rimaneva che aspettare, e scoprire personalmente cosa lo aspettava dall’altra parte. Dopo quelle che ritenne fossero due ore, Hal si ritrovo a distanza di un braccio dalla fessura. Ma anche se era curioso e affascinato oltre ogni limite, non osava allungare la mano e toccarla. In ogni caso, sarebbe passato presto. Gli altri scomparivano con un sibilo oltre la superficie nera, inesorabilmente, tanti ignari lemming che procedevano spediti verso la loro fine. E se non dovessimo passare? si chiese. Chi dice che siamo tenuti a entrare là dentro? E se questa fosse già una prova? Una strana sensazione crebbe in lui. Gli ci volle un po’ per capire che si trattava di paura. Non voleva attraversare. Ma proprio mentre si accorgeva di questo, si ritrovò di fronte alla fessura, sospinto dalla ressa dietro di lui. «No, aspettate, non...» non fece in tempo a finire. La forza delle migliaia di persone che premevano in quella direzione l’aveva praticamente scagliato di peso dentro l’apertura. Per un attimo non vide niente. Si sentì disorientato, rivoltato, come se il centro di gravità ruotasse vorticosamente intorno a lui, trascinando le sue membra in ogni direzione contemporaneamente, poi anche quella sensazione cessò. Ancora non vedeva niente. Si accorse di avere gli occhi chiusi. La prima cosa che scorse, quando li ebbe aperti, gli fece pensare di essere semplicemente nello stesso posto di prima: la parete di fronte a lui era costituita dello stesso mosaico colorato senza riflessi. Ma seguendola verso l’alto, notò che questa volta si trovava in una stanza sferica, molto più piccola della precedente, forse appena un metro di raggio. Seguendo quel pensiero, si rese conto che, trovandosi a mezzo metro dal bordo della sfera, non era appoggiato da nessuna parte. Stava fluttuando. «Dietro di te» disse una voce indefinibile. Non era giovane, vecchia, maschile o femminile. Perfettamente neutra. Proveniva precisamente dal punto indicato dalle parole. Cercò di girarsi come avrebbe fatto in qualsiasi situazione, ma non potendo fare forza sui piedi, che erano sospesi in aria, non ci riuscì. Si sporse allora in avanti, fino a toccare la parete curva, e con le mani si diede una spinta laterale, ruotando su se stesso per reazione di quasi mezzo giro. Torse il busto un paio di volte, di scatto, e si ritrovò finalmente a osservare l’altro occupante della stanza. Era il proprietario perfetto di quella voce. Completamente anonimo: non aveva nessun segno particolare, i lineamenti erano sobri e indistinguibili, un volto che avrebbe dimenticato se solo avesse chiuso gli occhi. Indossava la stessa casacca azzurrina di tutti loro, e (assurdamente) era seduto a una scrivania. Abbozzò un cenno di saluto col capo e poi parò di nuovo, lentamente, misurando ogni sillaba. «Benvenuto, signor...» terminò in tono interrogativo, come se cercasse di ricordare il suo nome. «Baley. Hal Baley.» «Bene. Benvenuto signor Baley. Ora, lei sa perché si trova qui, vero?» «Perché sono morto?» «Esatto. Lei è morto e adesso è qui da me. Questo è il momento in cui si scoprirà se la sua vita è servita a qualcosa o meno.» Hal deglutì. «Le porrò una domanda, una sola. Potrà prendersela con calma, riflettere tutto il tempo che vuole. A dir la verità, non ha tutta l’eternità a sua disposizione per rispondere, ma io mi accorgerò se il tempo che sta prendendo è utile o meno.» «E se non lo fosse?» L’altro ignorò la domanda. «È pronto?» La prova definitiva, pensò Hal. Qui è dove si decide tutto. Questo è il momento che segnerà la mia esistenza o non esistenza futura. Il test d’ingresso. Si chiese per un attimo cosa ne fosse di quelli che erano entrati prima di lui. E di tutti quelli che erano morti il primo luglio, e il trenta giugno, e l’anno prima, e il millennio precedente. Erano passati tutti di lì? E se sì, come se l’erano cavata? In quanti avevano saputo rispondere all’Ultima Domanda? E quale poteva essere, alla fine, la domanda che avrebbe stabilito le sorti di lui e... «È pronto?» incalzò l’essere standardizzato. Annuì. Poi, volendosi dimostrare più convinto di quello che era, lo ribadì a voce alta: «Sì, sono pronto.» «Bene.» La pausa che seguì durò forse due secondi, ma quel tempo si dilatò per Hal al punto che all’ansia si sostituì la noia dell’attesa. «Allora mi dica, signor Baley. Qual è il significato dell’esistenza?»
Merda, pensò Hal, e se ne pentì subito, perché gli venne in mente che quella avrebbe potuto essere interpretata come la sua risposta. Era possibile che l’altro si sentisse offeso, apprendendo che il signor Baley riteneva che gli escrementi fossero la ragione suprema di tutto. Ma quando non successe niente, si tranquillizzò. D’altra parte gli era stato garantito tutto il tempo per pensare. Purché pensasse. Il significato dell’esistenza. In effetti, non ci si poteva aspettare domanda più legittima. Se quello che sedeva davanti a lui era Dio (cosa di cui era sempre più convinto), sembrava logico che richiedesse a chi aspirava di entrare in paradiso di aver compreso il senso di tutto quello che aveva realizzato. Era giusto che solo chi riuscisse ad apprezzare la sua opera ricevesse la vita eterna, no? Pensa, si ordinò. Pensapensapensa. Non poteva essere una risposta banale come “l’amore”. Anche perché lui non credeva una cosa del genere, e sospettava che l’altro avrebbe facilmente smascherato la sua menzogna. Non si può rispondere a una domanda del genere con una frase fatta. Si concentrò allora su quanto era stato chiesto. Le parole-chiave erano due: significato ed esistenza. La prima non era difficile da capire: significato, contenuto, senso profondo che permea ogni cosa. Ma cosa si intendeva per “esistenza”? Esistenza. Assaporò la parola, rievocandola più e più volte nella mente. L’entità/dio non aveva detto “vita”, quindi non intendeva qualcosa che si riferisse solo alla scala umana, o terrestre. L’esistenza è qualcosa che si estende al di là di tutto, la caratteristica fondamentale di ciò che è, che ha un posto e una storia nel creato. Tutto: dalle stelle del Cane Maggiore ai cuscini di piume, dal cioccolato agli anelli di Saturno, dalle maree alle unghie dei piedi, dalle montagne al sale grosso. Gli era stato chiesto nientemeno di dare la spiegazione di tutto, fornire un’interpretazione dell’intero universo, trovare il collegamento che legava tra loro tutti quegli elementi così disomogenei. Stava pensando che non ce l’avrebbe mai fatta, che nessuno tranne Dio stesso poteva farcela, quando lo sentì di nuovo: l’intuito. Dentro di sé, sepolta nelle volute del suo cervello, una molla si era compressa, ed aspettava che lui si avvicinasse per scattare e fornirgli la risposta. Non poteva crederci. Per quanto si fidasse di se stesso, e si ritenesse una persona intelligente e razionale, non riusciva a pensare di poter detenere la Risposta Definitiva. Che diamine, se era alla sua portata, perché non l’aveva tirata fuori prima? Seduto alla scrivania, il suo giudice lo fissava impassibile. Non appariva spazientito, né eccitato. Se poteva leggergli nel pensiero, non lo dava a vedere. Hal, che poco prima era stato sul punto di arrendersi, decise di tentare. In ogni caso, non rischiava niente. E poi, se avesse continuato a pensare, l’altro l’avrebbe lasciato fare. Non sapeva invece cosa sarebbe successo in caso contrario. Tu lo sai, cercò di convincersi. Sai di saperlo. Pensa. Scava. Combatti. Chiuse gli occhi. Non voleva essere distratto da nulla. Quella era la prova più importante della sua vita. E della sua oltre-vita.
Ci dev’essere qualcosa. So che c’è. Un filo conduttore, qualcosa che sta dietro e dentro ogni aspetto di questa “esistenza”. Ma come ricavarlo? Un passo per volta. Devo trovare il significato di tutto, per cui tanto vale partire da un punto qualsiasi. Oggi è il due di luglio. Due è un numero, unità più unità. Luglio è un altro numero: sette. Ed è un numero primo. Due per tre più uno, cioè due per due più l’unità, più l’unità. No, aspetta. Questa è apofenia. Un vicolo cieco. Luglio non è un numero. È un mese. Un mese è una frazione di anno. Un anno equivale a una rivoluzione della Terra intorno al Sole. La Terra gira su se stessa, e gira intorno al sole, come tutti gli altri pianeti. La Luna gira intorno alla Terra, come tutti gli altri satelliti. Quindi: i satellitti ruotano intorno ai pianeti, i pianeti ruotano intorno alle stelle, le stelle... anche le stelle girano, gli interi sistemi solari si muovono intorno ai centri di gravità delle galassie che ruotano su se stesse, no? E le galassie, insieme, ruotano a loro volta, in qualche modo. Tutto l’universo è in movimento. È questo il senso? No, ancora non ci siamo. Da un capo all’altro: dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. Le molecole, gli atomi. Anche i componenti degli atomi ruotano. Il nucleo è come un sole, e gli elettroni i pianeti. Che non “girano” in senso stretto, ma insomma sostanzialmente si muovono intorno al centro. E mi pare che in proporzione le distanze siano le stesse di quelle di un sistema solare, più o meno. Questo non può essere casuale: il fatto che lo smisurato sia così simile all’immisurabile. Deve avere un senso, questo fatto. Questa... Autosimilarità. Così si chiama. Ogni elemento è una riproduzione del tutto di cui fa parte. Un atomo è simile a un sistema solare, che è simile a una galassia, che è simile all’universo intero: un atomo è una rappresentazione dell’universo. Autosimilarità. Forse è una proprietà intrinseca dell’esistenza, il fatto che tutti i più piccoli frammenti siano uguali al totale. Come il rametto di un albero, che si usa in un paesaggio in scala, perché ha lo stesso aspetto dell’albero intero. Come i sassi di una montagna, che si dice abbiano la stessa forma di quella montagna. Si tratta di... Frattali. Ogni parte è simile al resto, a qualsiasi livello di ingrandimento. Tutto è se stesso. È già qualcosa. Potrebbe quasi essere una risposta. Ma non è questo che stavo cercando, non ancora. E comunque, non è una spiegazione. “Il significato dell’esistenza è che tutto è se stesso” sa troppo di zen fatto in casa. Ma i frattali c’entrano. L’universo ha natura frattale. I continenti seguono una geometria frattale. La vita evolve strutture frattali. Perché i frattali sono efficienti: superficie limitata, ma perimetro infinito. Come quando prendi un triangolo e aggiungi altri triangoli su ogni lato, all’infinito... com’è che si chiama quella figura? Viene fuori una specie di fiocco di neve, e a ogni passaggio il perimetro aumenta, mentre l’area tende a un certo valore costante. Quando c’è bisogno di una grande esposizione concentrata in poco spazio, la vita sviluppa i frattali. Come gli alveoli nei polmoni, o i villi nell’intestino. O il corpo delle spugne, che ripete lo stesso principio nelle tre dimensioni, bucherellato in modo da offrire un’ampia superficie limitata in poco volume. O come i polpastrelli dei gechi, quelli che li fanno stare appiccicati ai muri. O come il piede delle lumache. E anche il guscio delle lumache. No. Il guscio non è frattale. Cioè, non in quel senso. È autosimilare, perché ogni sezione della spirale è uguale alla spirale completa. Ma non è un frattale in senso matematico. Lo è nel senso in cui lo è l’universo, la parte che è il tutto. La spirale che si avvolge su se stessa, e segue un preciso andamento, che non può non essere che una caratteristica intrinseca della natura, visto che nessuno “costruisce” il guscio di una lumaca, ma esso si sviluppa da sé. E il guscio di una lumaca cresce in un certo, preciso modo. Come i rami di una ragnatela. Come i petali di un fiore. Come le scaglie di un frutto. Come i capelli di una testa. Come i bracci di una galassia. C’è un rapporto preciso, una grandezza costante che la vita, la natura, l’esistenza, rispetta in ogni sua istanza, ogni manifestazione su qualsiasi scala avvenga, una specie di jolly che si gioca a ogni occasione possibile, per dare a tutto una posizione, un ordine, un... Significato. Aprì gli occhi.
Il presunto dio era ancora lì. Lo fissava con la stessa espressione indecifrabile di prima. Si accorse di aver davvero dimenticato il suo viso, mentre era rimasto concentrato nei suoi pensieri. Hal non poté evitare di sorridere. Forse era un pensiero meschino, ma sentiva di aver battuto il creatore. «Ho la risposta» disse lentamente, imitando il tono dell’altro. «Bene» assentì questi. «Mi dica, signor... signor Baley. Qual è il significato dell’esistenza?» Sempre sorridendo, Hal attese. Non sapeva se Dio era sensibile alla suspence, ma quello poteva essere il suo ultimo minuto, e voleva goderselo. Poi, con immensa soddisfazione, rispose: «Phi.» Per la prima volta, apparve un’espressione sul volto dell’uomo alla scrivania. Era confuso. «Phi?» Hal annuì. «È un numero. Noi lo chiamiamo in quel modo. Phi.» «E perché questo numero dovrebbe spiegare l’esistenza?» adesso era dubbioso, più che confuso. «Perché phi è dovunque. In ogni angolo dell’universo, in tutte le cose che hanno un inizio e una crescita, phi appare. Se c’è un elemento che congiunge tutto, che accomuna ogni cosa a ogni altra, in questo enorme universo autosimilare dove tutto rappresenta tutto, quello è phi.» «Un numero» ripeté l’altro. «Sì. Un numero che esprime la proporzione tra le parti del corpo di qualunque essere; che guida la collocazione degli elementi che si sviluppano a partire dal centro un corpo, che siano petali o impronte digitali o asteroidi o rami di una galassia. Un numero unico dal punto di vista matematico, a cui tende il rapporto degli elementi successivi di qualsiasi serie costituita dalla somma di ogni elemento e quello precedente; le cui potenze sono a loro volta espressione di una serie del genere basata su esso stesso; il risultato della serie infinita: radice di, uno più radice di, uno più radice di, uno e così via. Una grandezza così fondamentale, così tenace che conserva le sue cifre decimali anche quando se ne calcola il quadrato, o il reciproco. Per cui, se esiste qualcosa che racchiude in sé il senso profondo di ogni cosa, è questo numero.» Non si sentiva così esaltato da quando aveva vinto un pesciolino al luna park, infilando tutti i cerchietti nel collo della bottiglia. «Questo... phi. Quanto vale?» La domanda spiazzò Hal. Possibile che Dio, o chi per lui, non sapesse una cosa del genere? Ma forse doveva intenderla in un altro modo: voleva essere sicuro che il signor Baley sapesse quello di cui stava parlando. Il fatto era che Hal non ricordava il valore preciso di phi. Era uno virgola sei e qualcosa, ma non sapeva gli altri decimali. Però ricordava una sua espressione reale, e sfruttò quella, cercando di mascherare l’imbarazzo per essere stato colto in fallo: «Phi è uguale a uno più radice di cinque diviso due.» «Quindi due virgola uno uno otto zero tre...» «No, no» lo interruppe [ho zittito Dio!]. Ma quell’essere “onnisciente” doveva aver commesso un errore di calcolo. «Intendo uno più radice di cinque, tra parentesi, diviso due.» «Uno virgola sei uno otto zero tre tre nove otto otto sette quattro nove otto nove quattro otto quattro otto due zero...» «Sì, quello» confermò infine. «Questo valore, lei sostiene, signor Baley, rappresenta il significato dell’esistenza.» Il cuore cominciò ad aumentare i battiti, e accorgendosi solo marginalmente di avere ancora un cuore che batteva, con il fiato spezzato per l’emozione, Hal rispose: «Sì. Il significato della vita, dell’universo. Di tutto quanto.» «Phi.» Hal annuì. Sto per essere giudicato, pensò. Cercò di inumidirsi le labbra con la lingua, ma anch’essa era secca. Come quella di un morto, ironicamente. «Uno virgola sei uno otto zero tre tre nove eccetera.» Annuì ancora. Ci siamo, si disse. Deglutì, per ricacciare al suo posto il cuore. E in quell’atmosfera così tesa, in quel momento così solenne, le parole dell’essere divino seduto alla scrivania, vestito con un accappatoio color pastello, lo sorpresero più di ogni altra cosa avesse mai sperimentato, nel mondo e nell’aldilà. «Può essere» mormorò tra sé quel dio.
Hal si sentì piovere. Precipitò su se stesso, stordito dal peso di quello che stava succedendo. Ebbe un giramento di testa, e temette di svenire. La voce dell’altro lo riportò in sé. «È una teoria interessante, signor Baley. Molto logica.» Che cosa... credette di aver parlato, ma non era uscito alcun suono. Ci provò di nuovo, ma ancora senza successo. «Io non ci avevo mai pensato, signor Baley. Che tutto si potesse ridurre a un numero. A un unico valore, una grandezza ridotta eppure così solida. È davvero una buona idea. Potrebbe essere quella giusta.» «Giusta per cosa?» riuscì a vocalizzare questa volta, appena percettibilmente. Ma il suo interlocutore poteva capire quando pensava, e capì anche in quel caso. «Per trovare il significato dell’esistenza, che altro?» sembrava sbalordito. «Quello che le avevo chiesto. È stato lei a darmi la risposta, signor Baley.» «Sì, ma...» ma cosa? «Ah, ce n’è voluto di tempo. Ma sapevo che ce l’avrei fatta.» Non stava parlando a Hal. Era un monologo. «È stato faticoso ma alla fine ne è valsa la pena. Certo, investire tutte quelle risorse per mettere su questo mondo, creare un’intelligenza sufficientemente capace, aspettare e ascoltare miliardi e miliardi di morti, prima che uno riuscisse a trovare la Risposta... ma in fondo era proprio questo il piano.» «Quale piano?» Lo sguardo che Hal ricevette era quello che si riserva a un bambino zuccone. «Io non avrei mai potuto farcela da solo, signor Baley. Avevo bisogno di... come la chiamereste voi? Potenza di calcolo, ecco. Mi serviva qualcuno che pensasse per me. Erano necessari gli sforzi e le conoscenze acquisite in migliaia di anni di storia, un accumulo progressivo di cultura, prima che qualcuno si avvicinasse, ma era l’unica possibilità. Come vede, alla fine ho ottenuto quello che cercavo.» «Ma... tu sei o non sei...?» «“Dio”? Direi di sì, almeno sotto alcuni aspetti. Sono stato io a crearvi, e io supervisiono il vostro mondo e la vostra società.» «Ma allora, perché hai bisogno di noi per capire? Se tu hai creato tutto...» «Io ho creato voi. Ho fatto in modo che il pianeta fosse adatto, la specie si evolvesse e la civiltà si sviluppasse. Ma io non ero qui quando tutto è cominciato, e l’universo è molto più antico di quanto io possa arrivare a ricordare, signor Baley. Per quanto i miei poteri siano estesi, tutto ciò esisteva prima di me, e obbedisce a delle leggi che non solo regolano, ma a tutti gli effetti sono, che io stesso subisco e di cui faccio parte. E come voi ricercate le vostre origini, vi affannate per dare un senso alle vostre vite, io cerco di spiegare la mia. Cerco di capire chi o cosa mi ha creato, se c’è una ragione più profonda che spiega la mia esistenza, oltre al puro caso. Voglio capire perché sono qui, e come posso raggiungere uno stato più elevato, una coscienza superiore. Il significato dell’esistenza, signor Baley, è il primo passo. Solo comprendendo l’universo, posso sperare di abbracciarlo. E adesso, grazie a lei, sono più vicino al mio obiettivo.» «Quindi, noi uomini, siamo solo... il significato della nostra esistenza è...» gli era impossibile terminare una sola di quelle frasi. «Non la prenda sul personale, signor Baley. Voi avete comunque un bel posto per vivere, un sacco di occasioni per divertirvi, godervi quello che vi è stato concesso eccetera. E d’ora in poi, quelli di voi in grado di ragionare compiutamente non dovranno nemmeno sorbirsi la scocciatura, dopo la morte, di venire qui da me e tentare di rispondere alla mia domanda. Sarete anche più liberi di prima, adesso che me ne vado.» Aveva capito bene? Dio li stava abbandonando? «Andare?» chiese, spaventato a un livello istintivo, primordiale. «Andare dove, perché?» «Lei mi ha illustrato il significato dell’esistenza, signor Baley. Questo phi, uno virgola sei uno otto zero tre e così via. Vedrò di tirarne fuori qualcosa, là fuori, nell’universo. È possibile che questo numero sia la vera chiave per la comprensione e compenetrazione completa di tutto. Potrei anche tornare un giorno, più saggio e più forte di adesso. O magari potrei riprendere il mio posto qui, perché non ha funzionato. Chi può saperlo? Non certo io, signor Baley.» «Ma che ne sarà di noi? Senza il dio che ci ha creati, abbandonati, persi...» «Oh, ve la caverete. Come avete fatto finora. Non crederà mica che io vi abbia guidato per mano fin dalle origini della vostra civiltà? Ho fatto in modo che l’intelligenza di cui avevo bisogno si sviluppasse, dopodiché ho solo aspettato. Salvo per quanto riguarda la domanda post-mortem, non mi sono mai occupato di voi, sa, signor Baley?» No. Non poteva crederci. Era davvero tutto lì? Era davvero quello il senso della vita, per gli uomini? Dio li aveva creati perché pensassero per lui, e una volta ottenuto quello che cercava se ne sarebbe semplicemente andato? Come poteva una creatura talmente superiore comportarsi in tal modo? Come poteva costringere ognuno di loro a una vita di sofferenze, a subire la morte, a venire interrogato nell’aldilà per poi... per poi cosa? Quell’ultimo pensiero si impose all’attenzione di Hal. «E di me? Che ne sarà di me, invece?» «Lei? Lei è morto, signor Baley. Che altro vuole?» Buio.
Edited by Piscu - 17/3/2009, 09:14
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