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questo mese vi propongo una cosa diversa. Un racconto che ho tenuto in ghiacciaia per quasi un anno. Stavolta mi sono deciso a postarlo, spero che vi piacerà. A voi.
IL GIORNO DEI GIORNI
1535 - Chichen Itzà La giornata tersa. L’aria ferma, pregna di un calore sopportabile solo da chi era nato lì. La piana di Chichen Itzà, inondata da un sole indifferente, era maestosa come sempre. I templi sorgevano uno accanto all’altro, solenni. Le scalinate in pietra dura, che tante processioni verso la Purificazione avevano visto in tempi passati, s’inerpicavano verso le vette delle costruzioni. Il Sommo Sacerdote Ahau Can Mai, dalla vetta della piramide-tempio del Dio Hunabku, osservava silenzioso la sacra vallata, luogo di pace e devozione, e il luccicare delle armi degli ultimi difensori della lega di Mayapan. L’aggressore, sbarcato sulle coste orientali della penisola dello Yucatan da immense navi, sembrava non avere rivali. Conquistadores, si facevano chiamare. Predoni assassini, pensava lui. Non diversi dagli antichi Toltechi che avevano distrutto l’antica capitale Teotihuacan e cacciato il sacro popolo dei Maya dalle alture guatemalteche, questi nuovi invasori razziavano, distruggevano, violentavano. Ahau Can Mai sapeva che il tempo della sua gente volgeva al termine. Vide gli uomini sciamare fuori dalla foresta. Vide le loro corazze di metallo lucente, i pennacchi rossi, i vessilli, e i loro bastoni di fuoco. L’esercito Maya, o quel che ne rimaneva, si dispose a protezione del tempio del Dio supremo Hunabku, in attesa dell’assalto. I soldati, schierati in silenzio, erano coscienti del destino che li attendeva. Ciascuno di loro aveva un buon motivo per essere lì, e per morirci, se necessario. La famiglia, la casa, le tradizioni, l’orgoglio di essere popolo. L’uomo che doveva esser a capo della spedizione comparve nella piana cavalcando un possente baio e fece arrestare la colonna appena entro la cerchia dei templi che facevano da corona a quello di Hunabku. Alzò lo sguardo verso la cima della grande piramide. La sua preda, il Sommo Sacerdote, era lì. Per un attimo gli sguardi dei due uomini si incrociarono. Ahau Can Mai poi allargò le braccia intonando un inno a Kukulcan, protettore dei sacerdoti, e a Hunakau, signore del metnal, il regno dei morti. Lo sguardo rivolto al cielo, il Sommo Sacerdote cantava con voce tonante, i servi intorno a lui inginocchiati in segno di preghiera e devozione. I soldati ai piedi della torre risposero al canto, in formazione, con voci possenti e orgogliose. Il capo degli invasori estrasse la sciabola e, levandola in aria, ordinò l’assalto, ma la sua voce si perse al canto di guerra dei difensori. Gli spagnoli avanzarono in formazione, inginocchiandosi a caricare gli archibugi, e formarono quella linea di morte che tante volte i sopravvissuti avevano descritto ad Ahau Can Mai con occhi di terrore. I Maya caricarono gli invasori con urla di battaglia e un turbinare di asce sulle loro teste piumate. Ahau Can Mai udì un susseguirsi di colpi secchi, vide fiori rossastri scaturire dai bastoni di fuoco delle prime file dei conquistadores, e i suoi confratelli cadere senza aver potuto combattere da uomini, corpo a corpo, prevalendo solo con la forza e il coraggio. Li vide morire, ed essere rimpiazzati da altri soldati che li avrebbero seguiti nel metnal dopo pochi istanti. Il Sommo Sacerdote vide ripetersi la carneficina che tante volte gli avevano raccontato e comprese una volta in più che non c’era speranza per la nazione Maya, ma non temette per sé. Ahau Can Mai era un pastore di anime e, se non ce ne fossero state più da allevare, la sua vita non avrebbe avuto più senso. Volse le spalle alla battaglia ed entrò nel sancta sanctorum del tempio.
Hector de la Cortona, il comandante spagnolo, ripulì la sua sciabola grondante sangue e s’inerpicò su per la ripida scalinata. Si era fatto precedere da venti soldati; sapeva che i sacerdoti di questo popolo infame lottavano per le loro eresie con ferocia pari ai soldati che uccideva sul campo, e non voleva correre rischi. Le enormi fortune che aveva già accumulato presto sarebbero venute con lui nel suo ritorno da trionfatore in Patria. Si aspettava grandi onori e vasti possedimenti dalla Regina, e non sarebbe stato uno di questi selvaggi a mandare a monte i suoi piani. Giunse alla sommità della piramide, col fiato corto, solo per vedere che i sacerdoti di quel tempio si erano tolti la vita, sventrati; sembrava un suicidio di massa, e un problema in meno. Mancava però il sacerdote che aveva visto dalla spianata, quello col vistoso copricapo. Doveva essere all’interno. Forse non era ancora finita. Entrò nel tempio, guardingo, ma solo per trovare il suo avversario in piedi, davanti a quello che doveva essere una specie di altare. Alto, per il suo popolo. I lunghi capelli neri di un uomo ancora nel fiore degli anni. Il fisico slanciato e potente solo in parte celato dai paramenti sacri che, registrò non senza un velo di cupidigia lo spagnolo, erano arricchiti con finiture in oro massiccio. Il sacerdote, dai lineamenti forti, lo sguardo di ghiaccio, lo guardava in silenzio. Teneva in mano quello che sembrava una sorta di rotolo, forse delle scritture sacre. «Prendetelo», ordinò, e due soldati si fecero avanti. De la Cortona aveva intenzione di riportarlo a Cortés, per deciderne la sorte con lui; in fondo la campagna d’invasione sarebbe stata ancora lunga e un prigioniero di prestigio poteva far comodo, sia con la Regina che per sottomettere la popolazione indigena. Non appena i soldati si avvicinarono al sacerdote, questi cacciò un urlo feroce e brandì un lungo coltello dalla foggia cerimoniale. Subito i soldati puntarono gli archibugi, ma il sacerdote si trafisse l’addome e si dilaniò il ventre, senza emettere un grido, senza staccare lo sguardo fisso da De la Cortona.
Poi Ahau Can Mai cadde. Le viscere a disperdersi sul pavimento del tempio consacrato da Hunabku. La sua ultima preghiera andò a Ixtab, dea del suicidio rituale, perché lo conducesse nel regno dei morti, se lo avesse ritenuto degno. Il rotolo sfuggì dalle mani del Sommo Sacerdote. Un soldato lo raccolse e lo porse con un inchino a De la Cortona. Egli lo srotolò, ma conteneva solo una strana immagine e dei segni nella lingua dei selvaggi, che lui non comprendeva né aveva intenzione di imparare. Lo consegnò al suo attendente ordinandogli di metterlo con gli altri tesori “confiscati”.
Berlino - 1887 Joseph correva per i corridoi della Humboldt-Universität. Il lungo viaggio da Londra l’aveva spossato, ma non voleva perdersi la conferenza del professor Förstemann, che si sarebbe tenuta di lì a pochi minuti. Förstermann era il massimo esperto delle civiltà precolombiane, un vero pozzo di sapere sull’argomento, ma anche un uomo che dava voce a teorie alquanto strampalate. J.T. Goodman, americano, nato giornalista scientifico ma da un po’ ricercatore di primo pelo al King’s College di Londra, amava invece quelle teorie. I misteri di quelle civiltà morte l’avevano sempre affascinato, sin dai tempi in cui sudava per laurearsi in Archeologia. La sala per la conferenza era piccola, in penombra, e pervasa da quel vago odore di stantio che spesso i palazzi antichi rimandavano, con tutti quei tappeti e arazzi a raccogliere polvere per secoli. Poca gente assisteva svogliata alla conferenza del professore. Joseph, maledicendosi per il ritardo, sedette tra le ultime file. «...e questo è il valore dell’opera di Padre Francisco Ximenez, che nel 1721 ci ha regalato questo libro inestimabile.» Il professore alzò una mano a mostrare un libricino in cattivo stato di conservazione, «Il Popol Vuh, così si chiama, è un testo che raccoglie tutte le credenze e le tradizioni del popolo Maya. Da esso i nostri studi ci hanno consentito di scoprire i misteri di quel popolo, che aveva almeno mille anni di storia già prima dell’arrivo di Cortés. La storia ci racconta che l’impero spagnolo ha sottomesso quella popolazione arretrata, ma il Popol Vuh apre nuovi scenari: descrive una società violenta, sì, ma anche molto raffinata, con le sue tradizioni e le sue credenze. In particolare, il pantheon Maya è davvero interessante...» Joseph osservava di sottecchi gli astanti. Le poche decine di persone seguivano la conferenza del professore per lo più molto annoiate, tanto che talvolta l'oratore doveva avere l’impressione di star parlando a se stesso. «...un reperto di particolare rilevanza è stato trovato presso il sito di Chichen Itzà...» il professore mostrò con l’aiuto di un inserviente un grosso cartello recante iscrizioni in lingua mesoamericana. «La cosa stupefacente che siamo riusciti a scoprire è che questo è un calendario! Abbiamo studiato il Codice di Dresda, che lo conteneva, e abbiamo identificato una certa ciclicità...» A questo punto alcuni astanti cominciarono a lasciare la sala. Joseph invece seguiva affascinato quell’attempato professore proseguire nella sua trattazione. Promise a se stesso che avrebbe dedicato tutte le sue forze a proseguire il lavoro di quell’uomo.
21/12/2012 - Chichen Itzà La jeep correva sulla strada sterrata alzando un gran polverone dietro di sé. Paco, l’autista, non dava cenno di rallentare. Mark lo guardava preoccupato, tenendo il cappello con una mano, gli occhi stretti a due fessure per via del vento che gli sferzava il viso con violenza. Nancy, seduta dietro, urlava quasi senza interruzione da quando erano partiti dall’accampamento vicino Valladolid. «Ehi, ma non puoi rallentare?» gridò Mark, «E non girarti, cazzo!» Paco si era voltato per rispondergli. «Oh no, senor, siamo quasi arrivati comunque.» Mark si rassegnò e fece cenno a Nancy di farlo anche lei. Sobbalzarono un’altra mezz’ora e poi il tormento finì. La jeep rallentò e andò a fermarsi in una radura che si era aperta all’improvviso davanti ai loro occhi. La giungla si era schiusa senza alcun segnale premonitore. Molte auto erano ferme sul piazzale, e altre andavano e venivano, scaricando frotte di entusiasti da tutte le parti del mondo. Paco saltò giù fresco come una rosa e cominciò a scaricare gli zaini dei due americani, che invece arrancavano per scendere dalla jeep. Sorrise tra sé, ma i suoi passeggeri non se ne accorsero. Mark si stiracchiò la schiena, ma il primo impatto con il panorama era stupendo. Chichen Itzà! Finalmente! Anni e anni di ricerche e ora era lì, e nel Giorno dei Giorni! Nancy lo richiamò all’ordine, «E dammi una mano qui, dai!» gli strillò mentre si affannava con i pacchi e gli zaini. Lui si affrettò ad aiutarla. La donna aveva abbracciato la sua causa e la sua passione, ma non per questo mancava di innervosirsi quando venivano meno le comodità alle quali era abituata. Mark Goodman aveva continuato la ricerca del suo antenato, primo nella famiglia dopo il vecchio Joseph. Nancy, conosciuta sui banchi dell’Università e mai più lasciata, alla fine si era arresa per amore del marito. ‘Tanto’, pensava sempre tra sé, ‘in un modo o nell’altro nel 2012 questa mania Mark se la farà passare, no?’ J.T. era stato considerato dai suoi familiari, figli e nipoti, come un matto, anzi uno scemo che aveva gettato alle ortiche una brillante carriera giornalistica per correre dietro alle teorie pseudo-archeologiche di quel vecchio pazzo di un tedesco. Quando poi aveva pubblicato nel 1907 quel trattato sul Calendario Maya, l’intera comunità scientifica gli aveva riso dietro. Primo, perché lui non era uno scienziato, e non c’è ambiente più razzista di quello accademico, e secondo perché quando gli avevano chiesto cosa significasse quella data, cosa sarebbe accaduto, J.T. si limitava a far spallucce, confessando di non saperlo. Il suo antenato non aveva vissuto una vita tranquilla ma, come spesso accade, i suoi studi sul Calendario avevano ripreso quota dopo la sua morte, e ora quella folla che Mark vedeva attorno a sé su quella spianata, sacra a popoli morti da secoli, era la testimonianza che qualcosa di buono il vecchio Joseph doveva averlo pur fatto. O forse significava solo che la gente preferisce credere a qualsiasi teoria strampalata piuttosto che adeguarsi al proprio comunissimo quotidiano. Mark non temeva di star rovinando la sua reputazione di studioso di civiltà mesoamericane perché seguiva le teorie del suo avo. Aveva saputo bilanciare i suoi entusiasmi interiori mascherandoli con quel tanto di scetticismo che tanto fa bene all’aura di serietà che uno studioso che si rispetti deve ostentare. Nancy era preoccupata per lui, invece. Conosceva suo marito e le sue ossessioni, e sapeva che quando si metteva in testa una cosa non c’era verso di convincerlo a lasciar perdere. Aveva conosciuto quell’uomo che era ancora un ragazzo. Le era subito piaciuta la sua verve e il suo entusiasmo per gli studi e la vita in genere. L’aver condiviso la passione per l’archeologia li aveva uniti subito. Era stato dopo qualche mese che lui, per la prima volta, le aveva svelato la sua parentela con J.T. Goodman, e di come avesse intenzione di portare avanti la ricerca. Dapprima Nancy aveva percepito questa cosa come fosse un interesse come un altro. Col passare degli anni però, e soprattutto negli ultimi due anni dopo la morte dell’adorata madre Maureen, Mark si era buttato in questa cosa con un fervore inusitato. L’avvicinarsi della data fatidica aveva risvegliato in tutto il mondo l’interesse per quell’antico enigma, che in effetti aveva tutte le carte per essere inquietante al punto giusto. Fiumi d’inchiostro erano stati scritti, e ore e ore di trasmissioni TV con sedicenti antropologi, mistici e chi più ne ha più ne metta, avevano contribuito alla rinascita del mito. Vecchi testi, scritti da prestigiosi studiosi come Cotterell e Gilbert, avevano trovato una nuova giovinezza e vendite da primato in libreria, ma il punto rimaneva sempre lo stesso. Cosa sarebbe successo il ventidue dicembre del 2012? Nessuno lo sapeva. Si parlava di alieni che tornavano sulla Terra, di Nibiru, Oannes, di inversione dei poli magnetici, glaciazioni, di immani catastrofi. Ma nessuno conosceva la verità, perché forse alla fine non ce n’era una da scoprire. Nancy non sapeva cosa sperare, a parte forse solo di riportarsi a casa il suo adorato marito per Natale, e magari non troppo deluso.
Paco estrasse il suo cellulare e chiamò il campo base. Nancy lo sentì dire che stava tornando indietro per fare un altro carico. ‘Un altro carico di imbecilli...’, pensò. Notò anche che Mark guardava con una vena di disgusto quell’ometto indio che gli stava rovinando quel momento magico. Ma fu solo un attimo, poi suo marito si volse e tornò ad ammirare le piramidi, perso nei suoi pensieri. Nancy a questo punto riaccese il suo cellulare, constatando non senza una certa sorpresa che c’era campo in abbondanza persino lì, in mezzo alla giungla. Mark non lo aveva portato, non voleva distrazioni quel giorno. «Andiamo», disse suo marito, «troviamoci un posto e aspettiamo la mezzanotte.» Nancy aveva provato tempo addietro a far capire a Mark che l’idea di una data ‘finale’ non aveva senso, perché la mezzanotte in Yucatan significava primo mattino in Europa, e sera in Giappone, e che un qualsiasi evento non poteva essere legato a un’ora precisa, definita peraltro secondo una convenzione diversa da quella in uso tra i maya. Mark le aveva sorriso, però, e le aveva spiegato che non aveva importanza che ora fosse in giro per il mondo, ma solo il ‘momento’ che sarebbe venuto alla mezzanotte maya, in Messico. Le raccontò anche di come quel calendario fosse preciso in modo incredibile, tanto da predire con secoli d’anticipo un’eclisse solare, poi avvenuta per davvero, con soli trentatrè secondi di ritardo. Tutti questi discorsi erano avvenuti anni prima, e Nancy non osò rovinare quel momento a suo marito riproponendoglieli. La vallata brulicava di polizia ed esercito messicani, e di una folla incredibile di personaggi che si aggiravano per le piramidi con sguardi ammirati, ebeti, il naso all’insù a percorrere con la mente le ripide scalinate che portavano ai templi in cima ai monumenti. Mark fece cenno alla moglie, «Quella è la Piramide del Sole, vedi?» Nancy l’aveva riconosciuta subito, ma disse: «Davvero? Bellissima, eh?» Il marito le sorrise, «Sì, è dedicata al dio Itzamná.» Poi gliene indicò un’altra, «e quella è la Piramide della Luna...» «Qui non c’è l’allineamento no?» «No Nancy, quello è a Tiwanaku, in Bolivia.» Il marito si riferiva al Viale del Sole che univa i due templi principali di quel famoso complesso archeologico. «Quell’allineamento è particolare, perché punta in direzione del polo nord magnetico dov’era posizionato undicimila anni prima di Cristo, nella Baia di Hudson, in Canada. In quell’epoca ci fu l’ultimo ribaltamento dei poli magnetici.» Mark trasudava entusiasmo, e Nancy lo lasciava ripeterle queste cose per la millesima volta. L’amore è amore. I due si mossero verso la piramide di Itzamná, al centro della spianata. Alla base due soldati sbarrarono loro il passo, ma Mark esibì un lasciapassare che avevano ottenuto non senza fatica dalle autorità messicane grazie ai loro studi. S’inerpicarono su per la ripida scalinata, sotto gli occhi vigili dei soldati e quelli invidiosi degli altri turisti che invece erano confinati nei prati tra le piramidi. La vista, da lassù, era da mozzare il fiato. Mark era voluto salire lì perché proprio in quel punto era stato trovato il Calendario Maya. I diari di spedizione spagnoli riportavano questo evento, glissando sul sangue che i Conquistadores avevano fatto versare agli ultimi fieri Maya, che si erano radunati in quel posto a loro sacro a difendere la loro stessa esistenza. Il sole morente inondava di un rosso acceso la vallata e i templi, ma da lassù i due americani potevano vedere anche come la giungla, compatta fin dove l’occhio poteva vedere, trasfigurava in uno strano colore violaceo via via che il sole si tuffava nel Pacifico, lontano a occidente. La gente sotto di loro si andava raggruppando in cerchi; non era consentito accendere fuochi o bivaccare, ma lo era cantare o suonare la chitarra. Ed ecco provenire dal basso un vociare sommesso, e qualche coro. Mark e Nancy avevano altro a cui pensare, però. Sedettero sugli ultimi gradini della scalinata, a picco sulla valle, e ammirarono le stelle accendersi una a una nel cielo terso man mano che la luce del giorno si affievoliva. Ben presto fu sera, e poi notte, e la volta stellata offriva al buio quasi totale uno spettacolo incredibile. I loro occhi di cittadini di rado avevano ammirato una simile bellezza, sebbene fosse la più antica donata all’umanità. La Via Lattea tagliava in due il cielo in volute vaporose di stelle. Le costellazioni, a quella latitudine equatoriale, erano ben riconoscibili, seppur ruotate di quarantacinque gradi rispetto al loro orientamento apparente in zone temperate. Né Mark né Nancy sapevano molto di astronomia, ma non ebbero difficoltà a riconoscere Orione con la sua cintura ornata rosso sangue, la vu doppia di Cassiopea, la Lira con la sua Vega a far da padrona, la lattigine di Andromeda, appena percepibile a occhio nudo e persino, bassa a sud, la Croce in tutto il suo fulgore. Lo spettacolo era tale che dimenticarono persino il motivo per cui erano lì, ma non per molto. Mangiarono qualcosa. E poi tacquero. Non sapevano bene cosa dire, in quel momento, sperduti nella giungla in quel giorno così importante per Mark. «A cosa pensi?» gli chiese Nancy. «A niente» mormorò lui in risposta. «A tua madre Maureen...» chiese lei. Mark tacque; sua moglie lo conosceva troppo bene. Lui allargò un braccio e la strinse a sé. «...era così fiera del mio lavoro, avrei voluto portarla qui...» mormorò. «Lei è qui Mark, è con noi...» Nancy sapeva che la perdita della madre era stata un colpo tremendo per il marito. Dopo che il padre era morto quando lui e David erano ancora piccoli, la madre Maureen aveva dedicato la vita ai due figli, e la famiglia era rimasta unita. Mark aveva sempre trovato in lei un punto di riferimento fondamentale, e quando Maureen era venuta a mancare, era toccato a Nancy occuparsi di lui, a rimettere insieme la sua vita e a spronarlo ad andare avanti. Da allora non passava giorno senza che intravedesse negli occhi del marito passare delle nubi di tristezza, delle quali lui il più delle volte negava pure l’esistenza, ma non in modo molto convincente.
Ventitrè e trenta. «Cosa pensi che accadrà?» chiese Nancy. «Non lo so, amore, non lo so davvero» sospirò Mark, «ne abbiamo sentite tante, ma se dovrà accadere qualcosa, sarà qui, e tra mezz’ora. Non ci resta che attendere.» «E quelli che parlano della fine del mondo?» chiese ancora lei. «Mah, cosa vuol dire la ‘fine del mondo’ poi?» Mark scrollò la testa, «una cosa del genere non ha un fondamento scientifico, non ha senso.» Nancy non credeva che l’avrebbe dovuto avere per forza, un fondamento scientifico, ma tacque, Mark aveva ragione, non c’era che attendere.
22/12/2012 - Chichen Itzà - Ventitré e cinquantanove Mark guardò il suo orologio, il quadrante al fosforo era leggibile al buio con facilità. Si volse verso Nancy, che, accoccolata a lui, era un po’ assopita. «Ehi...» «Mmh... sì?» fece lei di rimando, riemergendo dal torpore. «Ti amo, Nancy» disse lui, e la baciò a lungo. Stettero poi così, abbracciati, a guardare il cielo, e la luna, piena, che nel frattempo era sorta a far piazza pulita delle stelle più timide.
22/12/2012 - Chichen Itzà - Mezzanotte Mark e Nancy, lo sguardo fisso al cielo, convinti chissà perché che se fosse successo qualcosa, sarebbe accaduto lassù, non avvertirono nulla. O quasi. Più che altro percepirono una sensazione di ‘stasi’. Non seppero descriverla, e non lo fecero. La gente, nella vallata, aspettava immobile. «Che succede?» provò a dire Nancy. Mark non le rispose subito, poi disse, «Nulla, credo.» Nancy si strinse a lui. Non c’era altro da fare. Mark disse, «È tutto così... immobile...» Una frase che non aveva senso, che non aveva fondamento scientifico... «Lo sento anch’io, cos’è?» «Non lo so amore. Io scenderei, che dici?» Mark fece per alzarsi. Lei lo seguì giù per la ripida scalinata, attenti a non incespicare o sarebbero finiti a valle, e molto male. Guidati da torce, scesero infine le scale, e si trovarono di nuovo in mezzo alla gente. Nessuno parlava, ma tutti si guardavano in giro, e scrutavano il cielo. Passarono alcuni minuti di disorientamento generale. Mark teneva la moglie per mano, stretta, non voleva perderla in quella folla, e al buio. Controllò l’orologio, ancora mezzanotte in punto. Doveva essersi fermato. «Che ore sono, scusa?» chiese alla moglie. Lei scrutò il quadrante nell’oscurità, e poi picchiettò sul vetro. Un gesto antico, stupido, ma istintivo. «Si dev’essere bloccato, fa ancora mezzanotte.» «Che strano, anche a me», rispose lui con un tono strano nella voce, «e alla stessa ora...»
Uno strano clamore, intorno. La folla si stava agitando. Volsero gli occhi al cielo come stavano facendo tutti. La volta scura riluceva, spezzata a metà dalla stola pallida della Via Lattea. Uno spettacolo meraviglioso, ma loro non capivano cosa stesse guardando la gente, finché non se ne accorsero. Uno a uno, capelli di luce sembravano staccarsi dalla striscia lucente. Erano come stelle cadenti, ma anziché sfrecciare nell’atmosfera per consumarsi in un lampo di morte, sembravano piuttosto fluttuare, leggere. Le videro dipartirsi dalla loro posizione, su, allo zenit, e da tutta la galassia, e spandersi per il cielo. Era come uno spettrale, silenzioso, maestoso fuoco d’artificio, che nessun artigiano avrebbe saputo creare. La folla tacque, d’improvviso, a quello spettacolo. I filamenti sembravano scendere dallo spazio, lenti, fino all’orizzonte. Il nero del cielo era scomparso, per lasciar posto a quel candido velo che sembrava avvolgere la terra in un bozzolo di luce.
Mark e Nancy stettero immobili, abbracciati, rapiti da quella visione. Le stelle, come lacrime di luce, presero a scendere solenni anche verso la piana di Chichen Itzà, verso quella folla di credenti, anche se nessuno sapeva bene in cosa, fino a quel momento. Alcuni, tra la gente, si riebbero da quel momento unico e, presi dal terrore, fuggirono urlando dalla spianata. Molti, però, non si mossero, e anche loro non lo fecero. Non c’era nulla da temere da quello che stavano vivendo, ne erano certi. Mark sorrideva, e piangeva di commozione. Nancy si stringeva a suo marito, la sua pragmaticità era andata in frantumi come un vaso di ceramica nelle mani di qualche bambino maldestro, ma sentiva anche lei che non c’era pericolo. I filamenti scesero su di loro, andando a formare uno strano cerchio intorno alla moltitudine. La matassa luminosa prese poi a roteare, sempre più veloce, e Mark e Nancy, come tutti gli altri, si sentirono sollevare da terra con estrema delicatezza. Sopra di loro, la volta di luce era compatta, e ogni altra cosa era nascosta alla loro vista. I filamenti si chiusero sotto di loro, e furono tutti in una sfera argentea, senza peso, a galleggiare. Non avevano sensazione di stare ancora salendo. Nancy, il cuore a batterle tumultuoso in petto, guardò suo marito, con uno sguardo di perplessità e strana eccitazione, e incontrò quello di lui. Mark era felice, pregno della gioia di chi era sicuro che quel momento sarebbe venuto.
Passò un tempo che non seppero quantificare, e poi sentirono di nuovo il terreno sotto i piedi. Guardarono a terra, e videro una sorta di lastricato. Sembrava una specie di pietra perlacea. Il bozzolo si dischiuse e un’onda di luce argentina inondò la moltitudine. Una forma umana apparve, disegnata in controluce. Una persona esile, sembrava, altro non era possibile distinguere. Nancy tremava, ma non per paura, non sapeva neppure lei per cosa. Stretta tra le braccia del suo uomo, scrutava nel chiarore, la sua mente a lavorare febbrile alla ricerca di una spiegazione razionale a quello che le stava accadendo. Ma furono solo attimi. Capì subito che nessun libro o teorema potevano aiutarla. Non era il momento di cercare un perché razionale, scientifico. Quello era il momento della fede. Cosa fosse quell’essere non sapeva. Ma che fosse Dio, o un alieno; che fosse lei morta o che altro stesse accadendo, scoprì all’improvviso che non le importava. Sorrise, infine, e smise di tremare stringendosi un po’ di più a Mark. Non c’era nulla da temere.
La figura venne avanti, leggera, solo qualche passo, poi allargò le braccia. «Bentornati a casa, figli miei.»
Edited by shivan01 - 20/3/2009, 17:58
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