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Lo passo di qua, riveduto e corretto
Madre, patria
Nicolae in paese è ormai Nico, per tutti. Lo chiamano così gli amici di bevute, il tabaccaio all’angolo e la ragioniera della sua ditta quando il quindici del mese gli consegna la busta con i soldi. — Questo è per te Nico. Pure la barista ha preso confidenza. Le prime volte lo serviva in fretta, infastidita dalle occhiate verso le sue tette. Ora si è abituata al modo di fare del ragazzo, il suo sguardo gli fa piacere. Lo ricambia soffermandosi sui bicipiti in bella mostra mentre gli passa la tazzina di caffè, lungo quanto il suo sorriso. È un tipo carino Nico: fisico asciutto, spalle robuste, occhi di un blu intenso; i lineamenti gentili, all’opposto, nascondono un carattere duro. Spaccherebbe il mondo intero, per rabbia; per sua fortuna tutta l’energia se ne va sgobbando nei cantieri come manovale, sei volte a settimana. Le sere o le giornate di pioggia le passa al bar, nella confusione delle macchinette mangia soldi, fra bevute di birra intervallate da aspre sorsate di “palinca”, una bomba fatta apposta per stordire i ricordi della madrepatria. Attorno al tavolo in cui siede insieme ai suoi connazionali si intrecciano risate e storie di quando vivevano là. Sono zingari dentro case in affitto, cuori di pietra e gambe d’argilla. Non ne hanno fatta chissà quanta di strada, a parte quella fino in Italia. Per poi far cosa? Ubriacarsi con la stessa schifezza. Tanto valeva essere rimasti dov’erano nati, avrebbero risparmiato chilometri e umiliazioni. Ma due, tre bicchieri buttati giù con gesto deciso, uno dietro l’altro, bastano per gettarsi dietro le spalle il malessere del giorno. L’intruglio a prova di fegato passa in un batter d’occhio dal retro di un furgone ai loro stomaci. Il tempo di scaricare le bottiglie, sistemare i pacchi da spedire ai parenti rimasti in Romania e l’autista riparte per il viaggio contrario portandosi via l’odore pungente di prugne macerate nell’alcool. La domenica, neanche a dirlo, Nico la passa insieme ai soliti, nell’unico modo conosciuto. Cambia poco rispetto alle sere, il sole sostituisce il lampione e loro, da rapaci, si trasformano in rettili sonnacchiosi, pronti a bersi i primi raggi e l’ennesima birra del mattino quando ancora devono evaporare i fumi di alcol della notte precedente. Sembrano cenci stesi all’aria, fermi ad asciugare, in attesa di una ventata di novità. E invece, non accade mai nulla. A dire il vero ogni tanto per Nico ci scappa un giro fino a Roma, si tratta di questioni “d’affari”, compiti dapprima delicati, poi, nel tempo, sono diventati facili da sbrigare quanto scolarsi una ceres tutta d’un fiato.
Nico ha fatto da poco vent’anni, buona parte dei quali passati tra orfanotrofio e carcere minorile. Poi è arrivato in Italia grazie alla bella idea, avuta chissà da chi, di far entrare nella Comunità Europea il suo popolo. Strana gente davvero, nelle cui vene scorre uno strano miscuglio: si riconoscono tracce dello spirito libero delle tribù nomadi e la scorbutica fierezza dei vari popoli, in continue lotte tra loro, per conquistare una terra per secoli considerata inospitale e solo di passaggio. Così come i bellicosi antenati, col tempo si era rabbonito pure lui, grazie alla paga garantita, e gli ardori ribelli si erano via via spenti. Adesso Nico vive di un onesto lavoro, un sogno concreto il suo: pochi impicci e un minimo guadagno per campare decente. Non è partito per fare fortuna, vuole solo lasciarsi dietro la rogna che lo perseguita. La sua vita si è messa a correre al contrario dal momento in cui la madre l’ha abbandonato all’Istituto per l’Infanzia. Sono passati tanti anni da quel giorno. Se si ferma a ricordarlo rivede lei, una sagoma ritta davanti al cancello, tranquilla, neanche lo avesse accompagnato a scuola e non all’orfanotrofio. Prima di andare, la madre gli aveva allacciato l’ultimo bottone della camicia, la mano di lui ad allentarla passandosi il dito dentro al colletto, per poi tornare a stringere la busta di plastica con dentro due magliette, un pantalone di velluto a coste larghe, un maglione e qualche paia di mutande. Continuava a tenersela al petto mentre la donna in tailleur blu, aggraziata quanto un sergente dell’esercito, cercava di farsi dire il suo nome; se la mamma o il papà erano ancora vivi, se aveva dei fratelli. Lui se ne stava muto di fronte a un bicchiere di latte riempito fino all’orlo. Era tentato di berlo, ma non voleva cacciarsi nei guai; se l’avesse fatto di sicuro non sarebbe più riuscito a tenere la bocca chiusa. Era sotto un doppio ricatto. — Tu non dire niente, altrimenti la mamma muore e non viene più a riprenderti — gli aveva imposto lei, mentre lo sospingeva su per il viottolo. Il latte e la fetta di biscotto, invece, dovevano sciogliere i suoi timori. Ma anche volendo, cosa avrebbe mai potuto dire? Di fratelli o sorelle non ne aveva, figurarsi un padre. Ci aveva rinunciato da sempre a dare sembianze a un'ombra. Troppi i nomi spiattellati dalle malelingue sul possibile padre: non era mai riuscito a capirci niente. Sentiva le chiacchiere delle vecchie accovacciate fuori dell’uscio, su sedie più sciupate di loro, con nient’altro da fare se non parlar male di chi passava. Insultavano quel figlio di nessuno quando se lo ritrovavano davanti: pantaloncini logori, sempre scalzo, la faccia e la canottiera perennemente in gara su chi, tra le due, a fine giornata, sarebbe diventata più sporca. Di poco, ma vinceva la maglia. Ci strisciava addosso di tutto, la usava perfino come sacca, tenendola stretta sul bordo per appoggiarsi in grembo il bottino conquistato. — Figlio di un cane, ma una madre che ti guarda non ce l’hai? Piccolo bastardo! E gli tiravano dietro le pietre a portata di mano, nella speranza di fargli perdere parte delle mele fregate. Lui se ne scappava saltellando, le mani a tenere il marsupio improvvisato, tanto da sembrare buffo quanto un canguro.
Aveva resistito quanto più possibile dentro all’orfanotrofio, un ritrovo per anime in cerca di un sostegno finto quanto il sorriso cerimonioso del Direttore. Lo tirava fuori, come un abito elegante, per le occasioni ufficiali. Durante certe visite le teste dei ragazzi, anziché sberle, ricevevano carezze, altrimenti la responsabile della fondazione per gli aiuti internazionali, nel suo francese vaporoso quanto la messa in piega, avrebbe minacciato di sospendere i finanziamenti. A sedici anni stanco delle prepotenze aveva tagliato la corda. Gli inservienti non si erano certo dannati l’anima per corrergli dietro. Passato il subbuglio della fuga si era sentito sollevato come non mai. Aveva camminato per giorni, i passi svelti ad accorciare la distanza tra lui e un posto qualsiasi; per andargli bene doveva solo essere il più lontano possibile. Il buio si andava infittendo e lui, per darsi forza, canticchiava le strofe di una vecchia canzone, scalciando sassi e lanciando legni oltre il ciglio del sentiero.
Io-s fecior de morosan [Io sono figlio di Morosan] Sed în codru câte-un an, [Sto nel fresco per un anno,] Si la mândra câte-o luna [Alla mia amata per un mese] Ca-s fecior de mama buna.[Perché sono figlio di buona madre.]
Aveva preferito la strada alle sevizie patite da ogni ragazzino passato di lì; anche lui, come gli altri, fingeva di non aver subito certi dolori, invece ne avrebbe portato per molto i segni, lenti a sparire quanto la cicatrice sotto al mento, lasciata dai punti messi all’ospedale quando era “caduto” dalle scale. — Il nostro caro Nicolae è un po’ troppo vivace, non sta un attimo fermo — aveva confermato Vasile, il più stronzo fra tutti gli stronzi impegnati a vigilare sulla sua irrequietezza. Lo teneva forte per un braccio mentre i medici gli curavano la ferita. Nico se ne era rimasto per un quarto d’ora a labbra serrate, a sopportare i bruciori provocati dal cotone imbevuto di tintura di iodio, ravvivati dall’acido che gli montava per le parole del sorvegliante, inzuppate di bugie. Di cicatrici, crescendo, ne avrebbe collezionato ben più grandi. Si vedevano solo quando faceva il bagno: due coltellate di striscio all’addome e una alla spalla destra. Era il marchio della strada, faticoso farsi rispettare, ma negli anni ci era riuscito. Nel frattempo sopravviveva con delle consegne di contrabbando e qualche furto, se gli andava bene della stessa merce trasportata, fino a quando non lo avevano scoperto. Quella volta aveva rischiato di essere ammazzato di botte. Ogni notte era dura da passare. In genere, le trascorreva nella decrepita caserma della Securitate, dismessa dopo la caduta del regime. Sonni non certo riposanti, fatti a occhi chiusi e mente sveglia a catturare il minimo scricchiolio sospetto.
Fu un pomeriggio all’osteria a cambiargli la vita. Dopo aver scaricato nel retrobottega quattro casse di vino conobbe chi lo voleva far riflettere. — Hai un sacco di possibilità davanti a te, non fare il fesso, basta un niente e la tua vita cambierà da così, a così — fece il tizio seduto al tavolo accanto alla cucina, rovesciando la mano a mostrargli il palmo, per poi offrirgliela in una stretta. Doveva farsi furbo, la ricchezza bisognava andarsela a prendere dove stava: perché non approfittarne? Il destino gli stava servendo un passaggio da prendere al volo. Non erano stati puntuali i due conosciuti a Timisoara. Diffidava dei tipi, facce poco raccomandabili, oltretutto la sera prima si erano presi una sbronza colossale, al punto da non sembrare convincenti fino in fondo. Invece la macchina era arrivata sul serio, con un’ora di ritardo, ma era arrivata, giusto in tempo per non fargli salire in gola i dubbi che lo attanagliavano. — Scansa gli scatoloni e mettili uno sull’altro. Prima di avviarsi aveva cercato di trovare una sistemazione decente senza riuscirci. Se ne era restato silenzioso per molto, forse per colpa della scomodità dell’auto, stipata all’inverosimile. Buona parte del viaggio lo avrebbe fatto con il gomito e la spalla puntati contro i cartoni di bottiglie “Ursus”, la regina fra le bionde. Mentre la macchina macinava chilometri il suo stomaco lottava con le curve, prese a troppa velocità, e la miscela di timori. Il più immediato era che gli cadesse addosso la pila di scatole; l’altro, non meno pressante, era la destinazione finale del viaggio. La busta di plastica di un tempo era diventata una sacca sportiva messa sulle ginocchia, eppure gli indumenti ripiegati lì dentro, taglia a parte, non erano cambiati più di tanto.
Ci vollero una notte e un giorno per attraversare mezza Europa. Il cartone in cima agli altri, ormai vuoto, lo buttarono fuori dal finestrino appena superata la dogana con l’Italia, dopo che era filato tutto liscio. Il poliziotto, alquanto assonnato, aveva rigirato in tutti i versi i documenti prima di riconsegnarglieli. Sembravano in regola ma in effetti non lo erano. Dal finestrino di dietro Nicolae osservava inquieto il movimento delle mani dell’italiano. Per fortuna i sospetti non ebbero conferma e furono liberi di andare. Appena ripartiti il guidatore, che diceva di chiamarsi Tamàs e si spacciava per ungherese, si era messo a ridere. — Ragazzo, strappa un altro cartone, mi si è fatta sete, dobbiamo festeggiare alla faccia loro! E si era scolato un’altra birra. Smanettando tra volante e cambio, con la bottiglia d’impiccio, aveva lanciato una bestemmia perché se l’era rovesciata sui pantaloni. Nico, per la sbandata della macchina, dovette usare tutte e due le mani per non far cadere i cartoni. Dopo l’ultimo fuori programma il viaggio era proseguito in modo più confortevole. Era riuscito perfino a stendersi. Ma restava vigile, pungolato non solo dall’angolo della scatola, premuto sul fianco, ma anche dai compagni d’avventura. Rimuginava su come gli avrebbero chiesto di ripagare il piacere, in apparenza disinteressato. Tutto aveva un prezzo: quello di Tamàs, l’ungherese, era un “lavoretto” al mese.
La terza birra della domenica, nel giorno del primo “favore” reso al dannato individuo, la prese alla stazione, insieme al treno per Roma. Nico ci andava per rifornirsi di roba, era il lavoro fatto per ripagare il passaggio; in fondo non gli era andata così male, avrebbe potuto chiedergli di peggio fosse stato un “finocchio”. Gli piaceva vagare per quella città caotica e particolare. Dalla stazione scendeva per via Cavour, fino al Colosseo. Ci aveva messo un po’ per imparare la strada; una volta aveva perso l’orientamento e si era ritrovato davanti alla fontana di Trevi. Si era meravigliato per l’eccessiva bellezza del marmo, bianco e liscio come il seno di Ileana. Non era più riuscito a ritrovare il piccolo gioiello scolpito ai margini della piazza, smarrito tra i palazzi che si stagliavano sui viali. Il ricordo speciale lo tenne con sé, come i delicati capezzoli della sua prima ragazza. Ci ritornava sempre volentieri a Roma, in quei luoghi, tra antichità e splendori, poteva sembrare uno straniero come migliaia di altri. Confuso tra i turisti si sentiva più sicuro di sé. La sensazione di benessere durava fino al momento di riprendere il treno. Era solo un’ora e mezza dalla stazione Termini a casa, la passava seduto al suo posto a rigirarsi il biglietto tra le dita, un occhio a chi faceva su e giù per il corridoio, l’altro a guardare un quieto paesaggio interrotto solo dalle gallerie che acceleravano il tragitto. Il pacco di roba lo teneva infilato dentro l’elastico delle mutande, sotto la cintola, dove gli altri, i “cattivi”, ci nascondevano la pistola. Andando avanti così sarebbe toccato pure a lui sentire il freddo della canna d’acciaio solleticargli la pelle. Presto, continuando di questo passo. L’ungherese l’aveva inquadrato fin da subito. Nico era un tipo sveglio e con il suo viso da bambino avrebbe ingannato chiunque. — Hai la faccia da cucciolo e il cuore da lupo. Una sera a cena glielo disse con sincerità di ubriaco, mentre batteva allegro il bicchiere contro il suo, ululando alla luna che faceva capolino dalla finestra. Lo prendeva in giro facendogli il verso. Tamàs rideva e picchiava forte il palmo sul tavolo, tra piatti sobbalzanti e il vino che si rovesciava sulla tovaglia plastificata.
Nico ha solo vent’anni e il mondo non lo conosce poi così tanto. Ma ha imparato a soffrire la solitudine, a sopportare la fatica in silenzio, a sembrare sempre spavaldo e a sorridere alle ragazze cercando di non far notare i denti mancanti, in alto: due a destra e uno a sinistra. Nico parla bene l’italiano e se non fosse per i denti non avrebbe problemi a rimorchiare una bella ragazza, una nata e cresciuta in questa terra. Le ragazze Italiane sono brave a darsi delle arie truccandosi, ma senza esagerare, così come spesso fanno le Rumene. Lui ha imparato a sorridere di sbieco, non più di tanto, per non far vedere i vuoti; perché da dove viene i soldi non si buttano per un dentista e le ragazze non sono schizzinose quanto qui. Si accorse di questa cosa mentre abbordava una tipa alle giostre. All’inizio sembrava ben disposta, lui nel parlare le fissava le tette, lei lo ricambiava lanciandogli occhiate maliziose. Preso man mano confidenza lui si era sciolto, c’era scappata pure qualche battuta. Rideva sempre più convinto fino al momento in cui lei aveva abbassato lo sguardo dagli occhi alla bocca: aveva smesso di sorridere e con due parole l’aveva congedato. — Ciao, scusa ma noi adesso dobbiamo andare. La ragazza prese la strada di casa sottobraccio all’amica. Lui, rimasto insoddisfatto e con un’eccitazione addosso, l’aveva seguita per un poco, fino all’angolo della farmacia. Poi l’aveva lasciata perdere. Se ne era rimasto accanto al negozio, a bocca spalancata davanti a una vetrina, a passarsi un dito nei buchi fino a quando il tipo in camice bianco non era uscito fuori. — Guarda che questo non è mica il bagno di casa tua, vai a specchiarti da un’altra parte. Cacciandolo così in malo modo aveva corso il rischio di perdere pure lui qualche dente, ma Nico era riuscito a controllarsi, in fondo si sentiva più deluso che offeso. Comprese, una volta di più, quanto tutto doveva incastrarsi in modo perfetto se voleva ottenere ciò che desiderava. Mettere a posto la propria vita costava, non era sufficiente la fatica, occorreva molto di più. Per sfogarsi era ritornato alle giostre, a fare a gara su chi accendeva più luci calciando forte il pallone ancorato al braccio meccanico. Ma le tette della tipa gli rimbalzavano davanti agli occhi. Per tale ragione si era ritrovato tra i cespugli, dietro al vialone della zona industriale, a farselo solleticare da una delle tante, una di quelle pronte a tirare fino al mattino, tra un lavoretto e l’altro. Nel mezzo, tra gli svariati clienti, rimbalzava l’eco di insulti strillati dai finestrini di macchine in corsa, accompagnati da risate sceme. Chi passava di lì, prima o poi, finiva col prenderle per il culo. Chissà a chi doveva il favore la ragazzina sotto di lui, e quanto ancora gli sarebbe costato il passaggio che l’aveva condotta fino ai piedi di un benessere duro da conquistare.
Ne ha imparate di cose Nico da quando è arrivato in Italia. Per esempio a impastare due palate di sabbia e una di cemento, a passare nel giusto verso le pietre e i mattoni al muratore sospeso sopra la palanca e a bere senza attaccarsi alla bottiglia, altrimenti gli poteva arrivare una martellata sui piedi. Ogni mattina trasporta un’infinità di secchi di calce sulle spalle, fin quasi a spaccarsi la schiena, che invece resiste tenace, tanto da permettergli di assettarsi ogni sera sulla sedia fuori dal solito bar. Adesso è diventato il “loro” rifugio, ma soltanto perché la maggioranza degli italiani si è spostata più in là, lontano dalla feccia chiassosa. Tre o quattro nazionalità che paiono una a chi passa veloce, buttando un occhio infastidito per poi proseguire in silenzio o con brontolii offensivi. Seduto al tavolo insieme agli altri è tornato a provare invidia per qualcuno: per chi ha il portafogli pieni di soldi senza il suo stesso mal di schiena. Tutti pronti a offrire l’ultima bevuta, ostentando la loro ricca generosità contrapposta al suo onesto modo di tirare a campare. Lui con ostinazione lo difendeva, così come la volontà di lasciarsi dietro le spalle le malefatte passate. Duro coricarsi nel soffocante sottoscala in cui dormiva, dentro al quale non c’entrava nient’altro se non il letto, e i panni li teneva nel borsone ficcato sotto la rete del materasso. L’avrebbe volentieri cambiato con una camera più grande e confortevole, magari con un appartamento tutto suo. Nel buco in cui viveva riusciva a rimpiangere la vecchia casa. Chissà in quale condizione si trovava ora, abbandonata anch’essa dalla madre.
Nico non ci aveva più pensato a lei: troppe le lacrime spese, troppe le pene. Ma se si sforzava vedeva il suo viso pallido, la frangia di capelli inumiditi dal vapore che risaliva dal coccio in cui sfriggeva del pollo o dalla pentola in cui ribollivano verdure raccolte nell’orto sul retro. I lineamenti delicati ne accentuavano la malinconia, così come il velo di fumo che usciva dalla stufa; sullo sfondo, le calze di nailon appese ad asciugare per potersele rimettere la mattina dopo. Sua madre. Forse ora invecchiava serena, consolando un uomo nel modo che meglio le riusciva. Oppure era infossata sotto uno strato di terra senza memoria. Un nome su di una croce e neanche un fiore a rallegrare la sua eterna tristezza, che le si leggeva quando rientrava a notte fonda con addosso l’unica faccia ricordata dal figlio. Non riusciva a sostituirla con una più gioiosa, come nel giorno in cui avevano preso il treno per andare al mare. Avevano giocato a lungo sulla riva, lui correva svelto tra le onde, i pantaloni risvoltati all’insù e i piedi a mollo. Per pranzo si erano divisi una carpa allo spiedo, per dolce una pasta farcita di mandorle e vaniglia, specialità del grazioso ristorante dirimpetto alla distesa d’acqua, con i tavoli di pietra e le sedie eleganti. Tra le venature del marmo, puntandoci il polpastrello dell’indice, il bimbo aveva rintracciato il verde degli occhi di lei. I suoi ricordi erano sequenze sfocate che gli frullavano nella testa: il tovagliolo a incastrarsi al collo della maglietta, l’enorme forchetta impugnata come fosse una spada, le punte dei piedi a sfiorare le mattonelle a scaglie bianche e nere, mentre dondolavano soddisfatti per un pasto straordinario. La donna per una volta aveva deciso, grazie a una paga più generosa del solito, di goderseli i suoi sudati guadagni, altrimenti spesi per l’affitto e la scorta di patate. Seduta al tavolo aveva avuto sorrisi per tutti. Per la coppia del tavolo accanto e per il cameriere, particolarmente scherzoso mentre la serviva come si conveniva con una vera signora. Forse la credeva in vacanza con il bimbo, oppure le sue smancerie si dovevano a tutt’altri motivi: compreso il tipo di donna, si aspettava come mancia una “sveltina” da consumare nel retro del locale. Magari era per tale motivo che durante il rientro l’umore di lei era tornato nero come il mare appena lasciato, ultima immagine stampata nella memoria prima del successivo distacco. Se li stava dimenticando gli occhi di sua madre da quando smerciava la roba per Tamàs, come i buoni principi ripromessi: si stava quasi convincendo a lasciare il posto in cantiere per andare più spesso a Roma. I dubbi restavano. Ma vedere i soldi girare con tanta facilità dalle tasche alle mani di chi gli era accanto, facevano vacillare le sue convinzioni. Non riuscivano ad attecchire, come radici di una pianta in un vaso troppo piccolo.
Nelle ultime mattine per Nico la sveglia trilla un po’ più tardi, nessun furgone passa a prenderlo e a lavorare ci va in bici. Ora Nico se la cava anche a tirare su le pietre per rimettere in sesto un muricciolo di contenimento. Da una settimana lavora nel giardino della villa fuori paese, accanto alla strada di accesso che porta ai garage. È la villa dell’Ingegnere, la più bella della zona. Lui e la moglie sono dei veri signori e non gli mancano di certo i soldi. Da qualche giorno, da quando bazzica la villa, Nico fa tante domande, specie sul padrone di casa. — Quello c’ha un sacco di grana — conferma il capomastro che è del posto — per sfizio s’è fatto pure uno zoo. Gironzolando nelle pause, oltre a una coppia di struzzi, Nico ha intravisto dei lama, alcuni pavoni, intere voliere con pappagalli di tutte le taglie e i colori. Sono solo alcuni dei tanti animali che tiene nascosti nel centinaio di ettari posseduti. Le storie di paese, rinfocolate dal vecchio muratore, mentre liscia il cemento tra una pietra e l’altra, parlano addirittura di una coppia di tigri. Ma Nico non ne ha visto neppure l’ombra delle belve feroci. In compenso, sbirciando dalla lavanderia, dove è andato a sciacquarsi le mani, intravede il salotto: la casa è davvero piena di oggetti preziosi. Ritornato al suo posto ne parla con il solito vecchio. — C’hanno tanta di quella roba da far invidia a un museo — gli dice, esagerando, il muratore — me lo ha detto mia sorella che per anni ha stirato la biancheria della signora. Così la chiamano i suoi concittadini: la “signora”, tra il rispettoso e il risentito per l’aria da snob che si porta dietro. Ci ha messo non poco ad abituarsi a quel posto dimenticato da Dio, costretta a vivere in mezzo a dei bifolchi ignoranti. Ma da quando ha il suo passatempo preferito, le giornate gli passano via meglio. Se ne va in giro per antiquari e case d’asta: ha messo su una discreta collezione, più o meno lecita. Più di un esperto apprezzava il gusto della donna, riconoscendole una capacità di scovare dei pezzi rari pagandoli meno del loro valore. Grazie al suo sofisticato intuito, unito alla spregiudicatezza del marito, la signora aveva davvero fatto della loro casa una sorta di galleria d’arte. Nico, la sera stessa, commise l’errore di parlare con Tamàs del lusso intravisto nella villa dell’Ingegnere. Lui era rimasto con il bicchiere lasciato a mezz’aria, lo sguardo fisso negli occhi del ragazzo, e aveva iniziato a ululare. Il tipo aveva davvero risvegliato il lupo che era in lui.
— E con questo cosa ci dovrei fare? — fa il muratore facendogli vedere, con la cazzuola, come il contenuto del secchio se ne va giù troppo liquido. Gli sembra di rimescolare del caffellatte anziché del cemento. — Ma che c’hai nella zucca? Oggi alle martellate preferisce le parole, non basta pestargli i piedi per raddrizzarlo. Nico in effetti ha ben altro in testa che impastare sabbia e cemento. La sua mente gira ossessiva come la brontolante betoniera accanto a lui. È taciturno, se ne sta tutto il tempo per i fatti suoi, risponde male e se ne sta in disparte. Il colpo era programmato per il prossimo sabato. Così avevano deciso. La scelta era caduta sul giorno libero della domestica. Scambiandoci due battute aveva scoperto che grazie all’assenza dei padroni, invitati a una prima a teatro, aveva ottenuto il permesso di rimanere a dormire dai parenti in città per festeggiare il compleanno della zia. La villa sarebbe rimasta vuota per qualche ora.
Il comportamento strano di Nico continua, anziché mangiare insieme a loro, il ragazzo gironzola attorno all’ingresso della lavanderia. — Mi sa che Nico s’è innamorato della cameriera. È convinto uno dei muratori, mentre in realtà lui vuole solo approfittare del momento in cui gli altri se ne stanno distratti, a masticare i loro pranzi, per studiare il piano d’azione. Con i lavori in corso il garage risulta accessibile. Sgusciando per una feritoia lasciata nell’angolo del muro, ancora da ultimare, uno smilzo come lui poteva entrare e farsi beffa dell’allarme, ne è sicuro, per poi aprire e far entrare gli altri. Era certo: da lì sarebbero penetrati, appena buio, per sgraffignare oro, argenteria o quant’altro risultasse a portata di mano e facilmente riciclabile. In una mezz’ora avrebbero arraffato il massimo possibile e se la sarebbero svignata prima dell’arrivo della polizia. In ogni caso Nico aveva studiato anche il percorso più breve per andarsene in fretta senza passare per la strada principale. In apparenza sembrava un lavoretto con pochi rischi. Nessuno sarebbe risalito a loro. Tutti si sarebbero convinti che i ladri erano dei balordi venuti da fuori, una delle varie bande specializzate in questo genere di furti. Chi mai del paese si sarebbe azzardato a rubare nella casa dell’Ingegnere? In effetti lo sapevano tutti, vantava protezioni importanti, sufficienti a farlo stare sicuro quanto un coccodrillo nella sua pozza. La sera stessa, mentre penetrava col cuore in gola all’interno del garage, Nico ebbe la prova: il lupo dentro di lui aveva iniziato a prendere il sopravvento. In due minuti sono all’opera. Tamàs se ne sta ad arraffare le cornici sul mobile del salotto, l’altro compare rovista nei cassetti dello studio; Nico riceve l’ordine di andare al piano di sopra, a cercare dell’oro di sicuro nascosto da qualche parte. Il ragazzo si muove attento, anche se la villa è di certo deserta. Dopo aver controllato la camera matrimoniale e lo studio grande, si avvicina alla porta in fondo; l’apre con cautela: in quel momento la vede. Resta fulminato sulla soglia, la mano alla maniglia, ammirando la visione di fronte a lui, illuminata dallo squarcio di luce penetrato dal corridoio.
Un altro bagliore, stavolta di fari d’automobile, taglia obliquo la penombra del salotto folgorando il sangue freddo dei due ladri intenti nella razzia. — Cazzo! Arriva qualcuno. Tamàs è mezzo ubriaco ma non tanto da non accorgersi di quanto sta accadendo. — Oh porca puttana… Scappiamo! — E Nico? La domanda rimane sospesa nell’aria, come i gesti di Tamàs, fin troppo chiari. I due, lasciano tutto in terra e si lanciano verso il garage per darsela a gambe. Nico, nel frattempo, se ne sta al piano di sopra, all'oscuro di quanto sta avvenendo giù in basso. L’auto, per via dei lavori al vialetto, si è fermata proprio davanti alla porta d’ingresso. Il passo veloce del padrone di casa è accentuato dal cattivo umore provocato dalla discussione con la moglie. — La prossima volta che decidi di andare all’opera vedi di non metterci un anno a prepararti e ciò che è successo non si ripeterà. L’uomo non conclude la frase di rimprovero. L’ingresso della villa è tutto sottosopra. Comprende al volo la situazione. Si porta l’indice alle labbra per zittire la moglie, con l’altra mano le impedisce di entrare. — Chiama il 112 — le sussurra prima di varcare la soglia. Poi si fa avanti e con cautela prende la direzione dello studio. Ne esce impugnando una pistola. Vedendolo armato la moglie strabuzza gli occhi. — Cosa diavolo hai intenzione di fare? Aspetta che arrivino i carabinieri. Lui scuote la testa. — Non permetterò che dei bastardi mettano le mani sulla mia roba. Tu esci di fuori e aspetta. Credo che i ladri sono già scappati. I sacchi lasciati sul pavimento, davanti ai suoi occhi, ne sono una prova. — Tu non muoverti cara, vado a controllare di sopra. Al primo piano, inconsapevole, Nico se ne sta a osservare rapito la bellezza della donna di fronte a lui. La pelle d’avorio, l’espressione del viso di un’infinita serenità eppure al tempo stesso raggiante. Come non aprezzare tanta bellezza? Al punto da perdere la cognizione del tempo e del luogo. Si avvicina per ammirare la perfezione dei lineamenti. La sfiora con i polpastrelli, timoroso. La stringe con delicatezza tra le mani e la porta a sé, per farla sua. In quel preciso istante irrompe nella stanza l’ingegnere. Difficile stabilire chi dei due rimane più sorpreso. Forse proprio Nico. Non fa in tempo a muoversi che due colpi risuonano nell’aria, in sequenza. Il terzo rumore è un tonfo in terra. Sulla scena, temendo il peggio, arriva trafelata la moglie. Si porta le mani alla bocca, poi le schiude per gridare al marito — O Gesù mio, ma cosa hai fatto, disgraziato? Ora anche lei osserva, turbata, ciò che giace sul pavimento. L’ingegnere se ne rimane immobile, impaurito dal suo gesto. La moglie avanza fino a inginocchiarsi per valutare il danno inferto dal proiettile. Il marito è una statua di sale, senza parole né espressione, pallido in volto. Lei si rianima e gli impone — Metti via quella diavolo di pistola e aiutami a portarla via, tra poco arriveranno i carabinieri. L’uomo pare riprendersi, ma invece di dar retta alla moglie si avvicina alla finestra. Da fuori il suono delle sirene si va facendo sempre più forte. La signora vedendo il marito ancora inebetito, sfila via l’arma dalle mani dell’uomo. Intanto Nico è a terra in preda ai dolori. Il mondo, per lui, si è definitivamente messo a girare all’incontrario.
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Nel letto d’ospedale Nico è rimasto per tre settimane disteso sofferente, tra i cavi che lo tenevano in trazione. Dimesso è finito dritto in prigione, condannato dopo un processo per direttissima: due anni e otto mesi per furto con scasso. Si è presto adattato al carcere, in fondo c’è abituato. Pagherà per intero la sua colpa senza tradire nessuno, convinto a non spifferare i nomi dei suoi complici. Prima del dibattimento l’avvocato d’ufficio gli ha consigliato di non dire nulla. Se si fosse limitato a raccontare il minimo indispensabile, tenendo la bocca chiusa sulle altre questioni, avrebbe fatto in modo di non far calcare troppo la mano. Nella sua richiesta c’entrava di sicuro l’ingegnere. Rischiava lui stesso il gesto da giustiziere della notte, per non parlare di tutto il resto. Per Nico l’epilogo del furto era stato così rapido tanto da non rendersi conto di quanto gli era accaduto. Un secondo prima era nella stanza estasiato e subito dopo se ne stava aggrovigliato tra i cespugli del giardino, tibia e perone della gamba rotti e una morte nel cuore. Insieme alla gamba si era spezzato anche l’incantesimo. Le luci blu dei lampeggianti dell’auto dei carabinieri gli sembrarono quasi una liberazione. Adesso, a mente fredda, una cosa gli è chiara: è vivo per miracolo, o meglio per un angelo. Nico lo ripete a tutti mentre si aggira per i corridoi del carcere, durante l’ora d’aria o in sala mensa. Al tal punto da diventare insopportabile, tanto che alla fine non la può raccontare più a nessuno, bene che gli va o gli danno del “matto” o rischia di prenderle di santa ragione. Nel frattempo se ne resta confinato tra quattro angoli di mura, a mirare la stessa porzione d’orizzonte, insieme a un macedone e a un marocchino. I due, pur guardandolo un po’ storto, pensano che il ragazzo sia solo uno dei tanti poveri cristi rinchiusi là dentro. Un compagno di cella tranquillo e che non dà un fastidio. A parte quando, anziché dormire, ritira fuori i ricordi di quella sera. Ora che è passato qualche mese, Nico rivede ogni scena come fosse un film. Gli era andata bene davvero: il padrone di casa gli aveva sparato addosso due proiettili e lui era rimasto illeso. Il primo aveva mandato in frantumi il vetro della finestra da cui poi si sarebbe buttato, il secondo aveva scheggiato il quadro tenuto in mano, e che gli aveva fatto da scudo, per andarsi a conficcare sul bordo della tavola. L’immagine sacra, tenuta davanti a sé quando l’uomo aveva sparato, era un frammento di una pala lignea, scomparsa anni addietro da una delle tante chiesette nel mezzo della campagna toscana, un dipinto del quindicesimo secolo di scuola senese: una madonna con bambino di pregevole fattura. La visione di lei, con il bimbo stretto tra le braccia, aveva smosso le viscere delle sue emozioni infantili. Assomigliava in modo impressionante a sua madre, come se la ricordava Nico, curva sui fornelli, a friggere ali di pollo nella cucina di casa. Il ritorno alla cruda realtà, fatta di sbarre e imposizioni, non gli aveva impedito di credere che a salvargli la vita, per quanto disgraziata fosse, era stata proprio sua madre, apparsa all’improvviso. Così, in sere particolari, mentre i suoi compagni di cella parlano di donne e malaffare, Nico se ne rimane disteso, con lo sguardo in apparenza perso tra le maglie della rete del letto sopra al suo. In realtà se ne sta a borbottare le sue strambe preghiere, rivolte a un angelo improbabile, strano davvero: sul volto un sorriso da Madonna e in petto un cuore da puttana.
Fine
Edited by VdB - 15/4/2009, 00:50
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