Madre, patria
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Madre, patria

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    SPOILER (click to view)
    Lo passo di qua, riveduto e corretto


    Madre, patria



    Nicolae in paese è ormai Nico, per tutti. Lo chiamano così gli amici di bevute, il tabaccaio all’angolo e la ragioniera della sua ditta quando il quindici del mese gli consegna la busta con i soldi.
    — Questo è per te Nico.
    Pure la barista ha preso confidenza. Le prime volte lo serviva in fretta, infastidita dalle occhiate verso le sue tette. Ora si è abituata al modo di fare del ragazzo, il suo sguardo gli fa piacere. Lo ricambia soffermandosi sui bicipiti in bella mostra mentre gli passa la tazzina di caffè, lungo quanto il suo sorriso.
    È un tipo carino Nico: fisico asciutto, spalle robuste, occhi di un blu intenso; i lineamenti gentili, all’opposto, nascondono un carattere duro. Spaccherebbe il mondo intero, per rabbia; per sua fortuna tutta l’energia se ne va sgobbando nei cantieri come manovale, sei volte a settimana.
    Le sere o le giornate di pioggia le passa al bar, nella confusione delle macchinette mangia soldi, fra bevute di birra intervallate da aspre sorsate di “palinca”, una bomba fatta apposta per stordire i ricordi della madrepatria. Attorno al tavolo in cui siede insieme ai suoi connazionali si intrecciano risate e storie di quando vivevano là. Sono zingari dentro case in affitto, cuori di pietra e gambe d’argilla. Non ne hanno fatta chissà quanta di strada, a parte quella fino in Italia. Per poi far cosa? Ubriacarsi con la stessa schifezza. Tanto valeva essere rimasti dov’erano nati, avrebbero risparmiato chilometri e umiliazioni. Ma due, tre bicchieri buttati giù con gesto deciso, uno dietro l’altro, bastano per gettarsi dietro le spalle il malessere del giorno.
    L’intruglio a prova di fegato passa in un batter d’occhio dal retro di un furgone ai loro stomaci. Il tempo di scaricare le bottiglie, sistemare i pacchi da spedire ai parenti rimasti in Romania e l’autista riparte per il viaggio contrario portandosi via l’odore pungente di prugne macerate nell’alcool.
    La domenica, neanche a dirlo, Nico la passa insieme ai soliti, nell’unico modo conosciuto. Cambia poco rispetto alle sere, il sole sostituisce il lampione e loro, da rapaci, si trasformano in rettili sonnacchiosi, pronti a bersi i primi raggi e l’ennesima birra del mattino quando ancora devono evaporare i fumi di alcol della notte precedente. Sembrano cenci stesi all’aria, fermi ad asciugare, in attesa di una ventata di novità. E invece, non accade mai nulla.
    A dire il vero ogni tanto per Nico ci scappa un giro fino a Roma, si tratta di questioni “d’affari”, compiti dapprima delicati, poi, nel tempo, sono diventati facili da sbrigare quanto scolarsi una ceres tutta d’un fiato.


    Nico ha fatto da poco vent’anni, buona parte dei quali passati tra orfanotrofio e carcere minorile. Poi è arrivato in Italia grazie alla bella idea, avuta chissà da chi, di far entrare nella Comunità Europea il suo popolo. Strana gente davvero, nelle cui vene scorre uno strano miscuglio: si riconoscono tracce dello spirito libero delle tribù nomadi e la scorbutica fierezza dei vari popoli, in continue lotte tra loro, per conquistare una terra per secoli considerata inospitale e solo di passaggio. Così come i bellicosi antenati, col tempo si era rabbonito pure lui, grazie alla paga garantita, e gli ardori ribelli si erano via via spenti.
    Adesso Nico vive di un onesto lavoro, un sogno concreto il suo: pochi impicci e un minimo guadagno per campare decente. Non è partito per fare fortuna, vuole solo lasciarsi dietro la rogna che lo perseguita.
    La sua vita si è messa a correre al contrario dal momento in cui la madre l’ha abbandonato all’Istituto per l’Infanzia.
    Sono passati tanti anni da quel giorno. Se si ferma a ricordarlo rivede lei, una sagoma ritta davanti al cancello, tranquilla, neanche lo avesse accompagnato a scuola e non all’orfanotrofio.
    Prima di andare, la madre gli aveva allacciato l’ultimo bottone della camicia, la mano di lui ad allentarla passandosi il dito dentro al colletto, per poi tornare a stringere la busta di plastica con dentro due magliette, un pantalone di velluto a coste larghe, un maglione e qualche paia di mutande.
    Continuava a tenersela al petto mentre la donna in tailleur blu, aggraziata quanto un sergente dell’esercito, cercava di farsi dire il suo nome; se la mamma o il papà erano ancora vivi, se aveva dei fratelli. Lui se ne stava muto di fronte a un bicchiere di latte riempito fino all’orlo. Era tentato di berlo, ma non voleva cacciarsi nei guai; se l’avesse fatto di sicuro non sarebbe più riuscito a tenere la bocca chiusa. Era sotto un doppio ricatto.
    — Tu non dire niente, altrimenti la mamma muore e non viene più a riprenderti — gli aveva imposto lei, mentre lo sospingeva su per il viottolo. Il latte e la fetta di biscotto, invece, dovevano sciogliere i suoi timori. Ma anche volendo, cosa avrebbe mai potuto dire? Di fratelli o sorelle non ne aveva, figurarsi un padre. Ci aveva rinunciato da sempre a dare sembianze a un'ombra. Troppi i nomi spiattellati dalle malelingue sul possibile padre: non era mai riuscito a capirci niente.
    Sentiva le chiacchiere delle vecchie accovacciate fuori dell’uscio, su sedie più sciupate di loro, con nient’altro da fare se non parlar male di chi passava. Insultavano quel figlio di nessuno quando se lo ritrovavano davanti: pantaloncini logori, sempre scalzo, la faccia e la canottiera perennemente in gara su chi, tra le due, a fine giornata, sarebbe diventata più sporca. Di poco, ma vinceva la maglia. Ci strisciava addosso di tutto, la usava perfino come sacca, tenendola stretta sul bordo per appoggiarsi in grembo il bottino conquistato.
    — Figlio di un cane, ma una madre che ti guarda non ce l’hai? Piccolo bastardo!
    E gli tiravano dietro le pietre a portata di mano, nella speranza di fargli perdere parte delle mele fregate. Lui se ne scappava saltellando, le mani a tenere il marsupio improvvisato, tanto da sembrare buffo quanto un canguro.


    Aveva resistito quanto più possibile dentro all’orfanotrofio, un ritrovo per anime in cerca di un sostegno finto quanto il sorriso cerimonioso del Direttore. Lo tirava fuori, come un abito elegante, per le occasioni ufficiali. Durante certe visite le teste dei ragazzi, anziché sberle, ricevevano carezze, altrimenti la responsabile della fondazione per gli aiuti internazionali, nel suo francese vaporoso quanto la messa in piega, avrebbe minacciato di sospendere i finanziamenti.
    A sedici anni stanco delle prepotenze aveva tagliato la corda. Gli inservienti non si erano certo dannati l’anima per corrergli dietro. Passato il subbuglio della fuga si era sentito sollevato come non mai. Aveva camminato per giorni, i passi svelti ad accorciare la distanza tra lui e un posto qualsiasi; per andargli bene doveva solo essere il più lontano possibile. Il buio si andava infittendo e lui, per darsi forza, canticchiava le strofe di una vecchia canzone, scalciando sassi e lanciando legni oltre il ciglio del sentiero.


    Io-s fecior de morosan [Io sono figlio di Morosan]
    Sed în codru câte-un an, [Sto nel fresco per un anno,]
    Si la mândra câte-o luna [Alla mia amata per un mese]
    Ca-s fecior de mama buna.[Perché sono figlio di buona madre.]


    Aveva preferito la strada alle sevizie patite da ogni ragazzino passato di lì; anche lui, come gli altri, fingeva di non aver subito certi dolori, invece ne avrebbe portato per molto i segni, lenti a sparire quanto la cicatrice sotto al mento, lasciata dai punti messi all’ospedale quando era “caduto” dalle scale.
    — Il nostro caro Nicolae è un po’ troppo vivace, non sta un attimo fermo — aveva confermato Vasile, il più stronzo fra tutti gli stronzi impegnati a vigilare sulla sua irrequietezza. Lo teneva forte per un braccio mentre i medici gli curavano la ferita. Nico se ne era rimasto per un quarto d’ora a labbra serrate, a sopportare i bruciori provocati dal cotone imbevuto di tintura di iodio, ravvivati dall’acido che gli montava per le parole del sorvegliante, inzuppate di bugie.
    Di cicatrici, crescendo, ne avrebbe collezionato ben più grandi. Si vedevano solo quando faceva il bagno: due coltellate di striscio all’addome e una alla spalla destra. Era il marchio della strada, faticoso farsi rispettare, ma negli anni ci era riuscito. Nel frattempo sopravviveva con delle consegne di contrabbando e qualche furto, se gli andava bene della stessa merce trasportata, fino a quando non lo avevano scoperto. Quella volta aveva rischiato di essere ammazzato di botte.
    Ogni notte era dura da passare. In genere, le trascorreva nella decrepita caserma della Securitate, dismessa dopo la caduta del regime. Sonni non certo riposanti, fatti a occhi chiusi e mente sveglia a catturare il minimo scricchiolio sospetto.


    Fu un pomeriggio all’osteria a cambiargli la vita. Dopo aver scaricato nel retrobottega quattro casse di vino conobbe chi lo voleva far riflettere.
    — Hai un sacco di possibilità davanti a te, non fare il fesso, basta un niente e la tua vita cambierà da così, a così — fece il tizio seduto al tavolo accanto alla cucina, rovesciando la mano a mostrargli il palmo, per poi offrirgliela in una stretta. Doveva farsi furbo, la ricchezza bisognava andarsela a prendere dove stava: perché non approfittarne? Il destino gli stava servendo un passaggio da prendere al volo.
    Non erano stati puntuali i due conosciuti a Timisoara. Diffidava dei tipi, facce poco raccomandabili, oltretutto la sera prima si erano presi una sbronza colossale, al punto da non sembrare convincenti fino in fondo. Invece la macchina era arrivata sul serio, con un’ora di ritardo, ma era arrivata, giusto in tempo per non fargli salire in gola i dubbi che lo attanagliavano.
    — Scansa gli scatoloni e mettili uno sull’altro.
    Prima di avviarsi aveva cercato di trovare una sistemazione decente senza riuscirci. Se ne era restato silenzioso per molto, forse per colpa della scomodità dell’auto, stipata all’inverosimile. Buona parte del viaggio lo avrebbe fatto con il gomito e la spalla puntati contro i cartoni di bottiglie “Ursus”, la regina fra le bionde.
    Mentre la macchina macinava chilometri il suo stomaco lottava con le curve, prese a troppa velocità, e la miscela di timori. Il più immediato era che gli cadesse addosso la pila di scatole; l’altro, non meno pressante, era la destinazione finale del viaggio. La busta di plastica di un tempo era diventata una sacca sportiva messa sulle ginocchia, eppure gli indumenti ripiegati lì dentro, taglia a parte, non erano cambiati più di tanto.

    Ci vollero una notte e un giorno per attraversare mezza Europa. Il cartone in cima agli altri, ormai vuoto, lo buttarono fuori dal finestrino appena superata la dogana con l’Italia, dopo che era filato tutto liscio. Il poliziotto, alquanto assonnato, aveva rigirato in tutti i versi i documenti prima di riconsegnarglieli. Sembravano in regola ma in effetti non lo erano. Dal finestrino di dietro Nicolae osservava inquieto il movimento delle mani dell’italiano. Per fortuna i sospetti non ebbero conferma e furono liberi di andare.
    Appena ripartiti il guidatore, che diceva di chiamarsi Tamàs e si spacciava per ungherese, si era messo a ridere.
    — Ragazzo, strappa un altro cartone, mi si è fatta sete, dobbiamo festeggiare alla faccia loro!
    E si era scolato un’altra birra. Smanettando tra volante e cambio, con la bottiglia d’impiccio, aveva lanciato una bestemmia perché se l’era rovesciata sui pantaloni. Nico, per la sbandata della macchina, dovette usare tutte e due le mani per non far cadere i cartoni. Dopo l’ultimo fuori programma il viaggio era proseguito in modo più confortevole. Era riuscito perfino a stendersi. Ma restava vigile, pungolato non solo dall’angolo della scatola, premuto sul fianco, ma anche dai compagni d’avventura. Rimuginava su come gli avrebbero chiesto di ripagare il piacere, in apparenza disinteressato. Tutto aveva un prezzo: quello di Tamàs, l’ungherese, era un “lavoretto” al mese.


    La terza birra della domenica, nel giorno del primo “favore” reso al dannato individuo, la prese alla stazione, insieme al treno per Roma. Nico ci andava per rifornirsi di roba, era il lavoro fatto per ripagare il passaggio; in fondo non gli era andata così male, avrebbe potuto chiedergli di peggio fosse stato un “finocchio”.
    Gli piaceva vagare per quella città caotica e particolare. Dalla stazione scendeva per via Cavour, fino al Colosseo. Ci aveva messo un po’ per imparare la strada; una volta aveva perso l’orientamento e si era ritrovato davanti alla fontana di Trevi. Si era meravigliato per l’eccessiva bellezza del marmo, bianco e liscio come il seno di Ileana. Non era più riuscito a ritrovare il piccolo gioiello scolpito ai margini della piazza, smarrito tra i palazzi che si stagliavano sui viali. Il ricordo speciale lo tenne con sé, come i delicati capezzoli della sua prima ragazza.
    Ci ritornava sempre volentieri a Roma, in quei luoghi, tra antichità e splendori, poteva sembrare uno straniero come migliaia di altri. Confuso tra i turisti si sentiva più sicuro di sé.
    La sensazione di benessere durava fino al momento di riprendere il treno. Era solo un’ora e mezza dalla stazione Termini a casa, la passava seduto al suo posto a rigirarsi il biglietto tra le dita, un occhio a chi faceva su e giù per il corridoio, l’altro a guardare un quieto paesaggio interrotto solo dalle gallerie che acceleravano il tragitto.
    Il pacco di roba lo teneva infilato dentro l’elastico delle mutande, sotto la cintola, dove gli altri, i “cattivi”, ci nascondevano la pistola. Andando avanti così sarebbe toccato pure a lui sentire il freddo della canna d’acciaio solleticargli la pelle. Presto, continuando di questo passo.
    L’ungherese l’aveva inquadrato fin da subito. Nico era un tipo sveglio e con il suo viso da bambino avrebbe ingannato chiunque.
    — Hai la faccia da cucciolo e il cuore da lupo.
    Una sera a cena glielo disse con sincerità di ubriaco, mentre batteva allegro il bicchiere contro il suo, ululando alla luna che faceva capolino dalla finestra. Lo prendeva in giro facendogli il verso. Tamàs rideva e picchiava forte il palmo sul tavolo, tra piatti sobbalzanti e il vino che si rovesciava sulla tovaglia plastificata.


    Nico ha solo vent’anni e il mondo non lo conosce poi così tanto. Ma ha imparato a soffrire la solitudine, a sopportare la fatica in silenzio, a sembrare sempre spavaldo e a sorridere alle ragazze cercando di non far notare i denti mancanti, in alto: due a destra e uno a sinistra.
    Nico parla bene l’italiano e se non fosse per i denti non avrebbe problemi a rimorchiare una bella ragazza, una nata e cresciuta in questa terra. Le ragazze Italiane sono brave a darsi delle arie truccandosi, ma senza esagerare, così come spesso fanno le Rumene.
    Lui ha imparato a sorridere di sbieco, non più di tanto, per non far vedere i vuoti; perché da dove viene i soldi non si buttano per un dentista e le ragazze non sono schizzinose quanto qui.
    Si accorse di questa cosa mentre abbordava una tipa alle giostre. All’inizio sembrava ben disposta, lui nel parlare le fissava le tette, lei lo ricambiava lanciandogli occhiate maliziose. Preso man mano confidenza lui si era sciolto, c’era scappata pure qualche battuta. Rideva sempre più convinto fino al momento in cui lei aveva abbassato lo sguardo dagli occhi alla bocca: aveva smesso di sorridere e con due parole l’aveva congedato.
    — Ciao, scusa ma noi adesso dobbiamo andare.
    La ragazza prese la strada di casa sottobraccio all’amica. Lui, rimasto insoddisfatto e con un’eccitazione addosso, l’aveva seguita per un poco, fino all’angolo della farmacia. Poi l’aveva lasciata perdere.
    Se ne era rimasto accanto al negozio, a bocca spalancata davanti a una vetrina, a passarsi un dito nei buchi fino a quando il tipo in camice bianco non era uscito fuori.
    — Guarda che questo non è mica il bagno di casa tua, vai a specchiarti da un’altra parte.
    Cacciandolo così in malo modo aveva corso il rischio di perdere pure lui qualche dente, ma Nico era riuscito a controllarsi, in fondo si sentiva più deluso che offeso.
    Comprese, una volta di più, quanto tutto doveva incastrarsi in modo perfetto se voleva ottenere ciò che desiderava. Mettere a posto la propria vita costava, non era sufficiente la fatica, occorreva molto di più.
    Per sfogarsi era ritornato alle giostre, a fare a gara su chi accendeva più luci calciando forte il pallone ancorato al braccio meccanico. Ma le tette della tipa gli rimbalzavano davanti agli occhi. Per tale ragione si era ritrovato tra i cespugli, dietro al vialone della zona industriale, a farselo solleticare da una delle tante, una di quelle pronte a tirare fino al mattino, tra un lavoretto e l’altro. Nel mezzo, tra gli svariati clienti, rimbalzava l’eco di insulti strillati dai finestrini di macchine in corsa, accompagnati da risate sceme. Chi passava di lì, prima o poi, finiva col prenderle per il culo. Chissà a chi doveva il favore la ragazzina sotto di lui, e quanto ancora gli sarebbe costato il passaggio che l’aveva condotta fino ai piedi di un benessere duro da conquistare.


    Ne ha imparate di cose Nico da quando è arrivato in Italia. Per esempio a impastare due palate di sabbia e una di cemento, a passare nel giusto verso le pietre e i mattoni al muratore sospeso sopra la palanca e a bere senza attaccarsi alla bottiglia, altrimenti gli poteva arrivare una martellata sui piedi.
    Ogni mattina trasporta un’infinità di secchi di calce sulle spalle, fin quasi a spaccarsi la schiena, che invece resiste tenace, tanto da permettergli di assettarsi ogni sera sulla sedia fuori dal solito bar.
    Adesso è diventato il “loro” rifugio, ma soltanto perché la maggioranza degli italiani si è spostata più in là, lontano dalla feccia chiassosa. Tre o quattro nazionalità che paiono una a chi passa veloce, buttando un occhio infastidito per poi proseguire in silenzio o con brontolii offensivi.
    Seduto al tavolo insieme agli altri è tornato a provare invidia per qualcuno: per chi ha il portafogli pieni di soldi senza il suo stesso mal di schiena. Tutti pronti a offrire l’ultima bevuta, ostentando la loro ricca generosità contrapposta al suo onesto modo di tirare a campare. Lui con ostinazione lo difendeva, così come la volontà di lasciarsi dietro le spalle le malefatte passate.
    Duro coricarsi nel soffocante sottoscala in cui dormiva, dentro al quale non c’entrava nient’altro se non il letto, e i panni li teneva nel borsone ficcato sotto la rete del materasso. L’avrebbe volentieri cambiato con una camera più grande e confortevole, magari con un appartamento tutto suo. Nel buco in cui viveva riusciva a rimpiangere la vecchia casa. Chissà in quale condizione si trovava ora, abbandonata anch’essa dalla madre.


    Nico non ci aveva più pensato a lei: troppe le lacrime spese, troppe le pene. Ma se si sforzava vedeva il suo viso pallido, la frangia di capelli inumiditi dal vapore che risaliva dal coccio in cui sfriggeva del pollo o dalla pentola in cui ribollivano verdure raccolte nell’orto sul retro. I lineamenti delicati ne accentuavano la malinconia, così come il velo di fumo che usciva dalla stufa; sullo sfondo, le calze di nailon appese ad asciugare per potersele rimettere la mattina dopo.
    Sua madre. Forse ora invecchiava serena, consolando un uomo nel modo che meglio le riusciva. Oppure era infossata sotto uno strato di terra senza memoria. Un nome su di una croce e neanche un fiore a rallegrare la sua eterna tristezza, che le si leggeva quando rientrava a notte fonda con addosso l’unica faccia ricordata dal figlio.
    Non riusciva a sostituirla con una più gioiosa, come nel giorno in cui avevano preso il treno per andare al mare. Avevano giocato a lungo sulla riva, lui correva svelto tra le onde, i pantaloni risvoltati all’insù e i piedi a mollo. Per pranzo si erano divisi una carpa allo spiedo, per dolce una pasta farcita di mandorle e vaniglia, specialità del grazioso ristorante dirimpetto alla distesa d’acqua, con i tavoli di pietra e le sedie eleganti. Tra le venature del marmo, puntandoci il polpastrello dell’indice, il bimbo aveva rintracciato il verde degli occhi di lei.
    I suoi ricordi erano sequenze sfocate che gli frullavano nella testa: il tovagliolo a incastrarsi al collo della maglietta, l’enorme forchetta impugnata come fosse una spada, le punte dei piedi a sfiorare le mattonelle a scaglie bianche e nere, mentre dondolavano soddisfatti per un pasto straordinario. La donna per una volta aveva deciso, grazie a una paga più generosa del solito, di goderseli i suoi sudati guadagni, altrimenti spesi per l’affitto e la scorta di patate.
    Seduta al tavolo aveva avuto sorrisi per tutti. Per la coppia del tavolo accanto e per il cameriere, particolarmente scherzoso mentre la serviva come si conveniva con una vera signora. Forse la credeva in vacanza con il bimbo, oppure le sue smancerie si dovevano a tutt’altri motivi: compreso il tipo di donna, si aspettava come mancia una “sveltina” da consumare nel retro del locale.
    Magari era per tale motivo che durante il rientro l’umore di lei era tornato nero come il mare appena lasciato, ultima immagine stampata nella memoria prima del successivo distacco.
    Se li stava dimenticando gli occhi di sua madre da quando smerciava la roba per Tamàs, come i buoni principi ripromessi: si stava quasi convincendo a lasciare il posto in cantiere per andare più spesso a Roma. I dubbi restavano. Ma vedere i soldi girare con tanta facilità dalle tasche alle mani di chi gli era accanto, facevano vacillare le sue convinzioni. Non riuscivano ad attecchire, come radici di una pianta in un vaso troppo piccolo.


    Nelle ultime mattine per Nico la sveglia trilla un po’ più tardi, nessun furgone passa a prenderlo e a lavorare ci va in bici.
    Ora Nico se la cava anche a tirare su le pietre per rimettere in sesto un muricciolo di contenimento. Da una settimana lavora nel giardino della villa fuori paese, accanto alla strada di accesso che porta ai garage. È la villa dell’Ingegnere, la più bella della zona. Lui e la moglie sono dei veri signori e non gli mancano di certo i soldi.
    Da qualche giorno, da quando bazzica la villa, Nico fa tante domande, specie sul padrone di casa.
    — Quello c’ha un sacco di grana — conferma il capomastro che è del posto — per sfizio s’è fatto pure uno zoo.
    Gironzolando nelle pause, oltre a una coppia di struzzi, Nico ha intravisto dei lama, alcuni pavoni, intere voliere con pappagalli di tutte le taglie e i colori. Sono solo alcuni dei tanti animali che tiene nascosti nel centinaio di ettari posseduti. Le storie di paese, rinfocolate dal vecchio muratore, mentre liscia il cemento tra una pietra e l’altra, parlano addirittura di una coppia di tigri. Ma Nico non ne ha visto neppure l’ombra delle belve feroci. In compenso, sbirciando dalla lavanderia, dove è andato a sciacquarsi le mani, intravede il salotto: la casa è davvero piena di oggetti preziosi. Ritornato al suo posto ne parla con il solito vecchio.
    — C’hanno tanta di quella roba da far invidia a un museo — gli dice, esagerando, il muratore — me lo ha detto mia sorella che per anni ha stirato la biancheria della signora.
    Così la chiamano i suoi concittadini: la “signora”, tra il rispettoso e il risentito per l’aria da snob che si porta dietro. Ci ha messo non poco ad abituarsi a quel posto dimenticato da Dio, costretta a vivere in mezzo a dei bifolchi ignoranti. Ma da quando ha il suo passatempo preferito, le giornate gli passano via meglio. Se ne va in giro per antiquari e case d’asta: ha messo su una discreta collezione, più o meno lecita.
    Più di un esperto apprezzava il gusto della donna, riconoscendole una capacità di scovare dei pezzi rari pagandoli meno del loro valore. Grazie al suo sofisticato intuito, unito alla spregiudicatezza del marito, la signora aveva davvero fatto della loro casa una sorta di galleria d’arte.
    Nico, la sera stessa, commise l’errore di parlare con Tamàs del lusso intravisto nella villa dell’Ingegnere. Lui era rimasto con il bicchiere lasciato a mezz’aria, lo sguardo fisso negli occhi del ragazzo, e aveva iniziato a ululare. Il tipo aveva davvero risvegliato il lupo che era in lui.


    — E con questo cosa ci dovrei fare? — fa il muratore facendogli vedere, con la cazzuola, come il contenuto del secchio se ne va giù troppo liquido. Gli sembra di rimescolare del caffellatte anziché del cemento.
    — Ma che c’hai nella zucca?
    Oggi alle martellate preferisce le parole, non basta pestargli i piedi per raddrizzarlo. Nico in effetti ha ben altro in testa che impastare sabbia e cemento. La sua mente gira ossessiva come la brontolante betoniera accanto a lui. È taciturno, se ne sta tutto il tempo per i fatti suoi, risponde male e se ne sta in disparte.
    Il colpo era programmato per il prossimo sabato. Così avevano deciso. La scelta era caduta sul giorno libero della domestica. Scambiandoci due battute aveva scoperto che grazie all’assenza dei padroni, invitati a una prima a teatro, aveva ottenuto il permesso di rimanere a dormire dai parenti in città per festeggiare il compleanno della zia. La villa sarebbe rimasta vuota per qualche ora.

    Il comportamento strano di Nico continua, anziché mangiare insieme a loro, il ragazzo gironzola attorno all’ingresso della lavanderia.
    — Mi sa che Nico s’è innamorato della cameriera.
    È convinto uno dei muratori, mentre in realtà lui vuole solo approfittare del momento in cui gli altri se ne stanno distratti, a masticare i loro pranzi, per studiare il piano d’azione. Con i lavori in corso il garage risulta accessibile. Sgusciando per una feritoia lasciata nell’angolo del muro, ancora da ultimare, uno smilzo come lui poteva entrare e farsi beffa dell’allarme, ne è sicuro, per poi aprire e far entrare gli altri. Era certo: da lì sarebbero penetrati, appena buio, per sgraffignare oro, argenteria o quant’altro risultasse a portata di mano e facilmente riciclabile. In una mezz’ora avrebbero arraffato il massimo possibile e se la sarebbero svignata prima dell’arrivo della polizia. In ogni caso Nico aveva studiato anche il percorso più breve per andarsene in fretta senza passare per la strada principale.
    In apparenza sembrava un lavoretto con pochi rischi. Nessuno sarebbe risalito a loro. Tutti si sarebbero convinti che i ladri erano dei balordi venuti da fuori, una delle varie bande specializzate in questo genere di furti. Chi mai del paese si sarebbe azzardato a rubare nella casa dell’Ingegnere? In effetti lo sapevano tutti, vantava protezioni importanti, sufficienti a farlo stare sicuro quanto un coccodrillo nella sua pozza.
    La sera stessa, mentre penetrava col cuore in gola all’interno del garage, Nico ebbe la prova: il lupo dentro di lui aveva iniziato a prendere il sopravvento.
    In due minuti sono all’opera. Tamàs se ne sta ad arraffare le cornici sul mobile del salotto, l’altro compare rovista nei cassetti dello studio; Nico riceve l’ordine di andare al piano di sopra, a cercare dell’oro di sicuro nascosto da qualche parte. Il ragazzo si muove attento, anche se la villa è di certo deserta. Dopo aver controllato la camera matrimoniale e lo studio grande, si avvicina alla porta in fondo; l’apre con cautela: in quel momento la vede. Resta fulminato sulla soglia, la mano alla maniglia, ammirando la visione di fronte a lui, illuminata dallo squarcio di luce penetrato dal corridoio.


    Un altro bagliore, stavolta di fari d’automobile, taglia obliquo la penombra del salotto folgorando il sangue freddo dei due ladri intenti nella razzia.
    — Cazzo! Arriva qualcuno.
    Tamàs è mezzo ubriaco ma non tanto da non accorgersi di quanto sta accadendo.
    — Oh porca puttana… Scappiamo!
    — E Nico?
    La domanda rimane sospesa nell’aria, come i gesti di Tamàs, fin troppo chiari. I due, lasciano tutto in terra e si lanciano verso il garage per darsela a gambe.
    Nico, nel frattempo, se ne sta al piano di sopra, all'oscuro di quanto sta avvenendo giù in basso. L’auto, per via dei lavori al vialetto, si è fermata proprio davanti alla porta d’ingresso. Il passo veloce del padrone di casa è accentuato dal cattivo umore provocato dalla discussione con la moglie.
    — La prossima volta che decidi di andare all’opera vedi di non metterci un anno a prepararti e ciò che è successo non si ripeterà.
    L’uomo non conclude la frase di rimprovero. L’ingresso della villa è tutto sottosopra. Comprende al volo la situazione. Si porta l’indice alle labbra per zittire la moglie, con l’altra mano le impedisce di entrare.
    — Chiama il 112 — le sussurra prima di varcare la soglia.
    Poi si fa avanti e con cautela prende la direzione dello studio. Ne esce impugnando una pistola. Vedendolo armato la moglie strabuzza gli occhi.
    — Cosa diavolo hai intenzione di fare? Aspetta che arrivino i carabinieri.
    Lui scuote la testa.
    — Non permetterò che dei bastardi mettano le mani sulla mia roba. Tu esci di fuori e aspetta. Credo che i ladri sono già scappati.
    I sacchi lasciati sul pavimento, davanti ai suoi occhi, ne sono una prova.
    — Tu non muoverti cara, vado a controllare di sopra.
    Al primo piano, inconsapevole, Nico se ne sta a osservare rapito la bellezza della donna di fronte a lui. La pelle d’avorio, l’espressione del viso di un’infinita serenità eppure al tempo stesso raggiante.
    Come non aprezzare tanta bellezza? Al punto da perdere la cognizione del tempo e del luogo. Si avvicina per ammirare la perfezione dei lineamenti. La sfiora con i polpastrelli, timoroso. La stringe con delicatezza tra le mani e la porta a sé, per farla sua. In quel preciso istante irrompe nella stanza l’ingegnere. Difficile stabilire chi dei due rimane più sorpreso. Forse proprio Nico. Non fa in tempo a muoversi che due colpi risuonano nell’aria, in sequenza. Il terzo rumore è un tonfo in terra. Sulla scena, temendo il peggio, arriva trafelata la moglie. Si porta le mani alla bocca, poi le schiude per gridare al marito — O Gesù mio, ma cosa hai fatto, disgraziato?
    Ora anche lei osserva, turbata, ciò che giace sul pavimento.
    L’ingegnere se ne rimane immobile, impaurito dal suo gesto. La moglie avanza fino a inginocchiarsi per valutare il danno inferto dal proiettile. Il marito è una statua di sale, senza parole né espressione, pallido in volto. Lei si rianima e gli impone
    — Metti via quella diavolo di pistola e aiutami a portarla via, tra poco arriveranno i carabinieri.
    L’uomo pare riprendersi, ma invece di dar retta alla moglie si avvicina alla finestra. Da fuori il suono delle sirene si va facendo sempre più forte. La signora vedendo il marito ancora inebetito, sfila via l’arma dalle mani dell’uomo. Intanto Nico è a terra in preda ai dolori. Il mondo, per lui, si è definitivamente messo a girare all’incontrario.

    *****

    Nel letto d’ospedale Nico è rimasto per tre settimane disteso sofferente, tra i cavi che lo tenevano in trazione. Dimesso è finito dritto in prigione, condannato dopo un processo per direttissima: due anni e otto mesi per furto con scasso. Si è presto adattato al carcere, in fondo c’è abituato.
    Pagherà per intero la sua colpa senza tradire nessuno, convinto a non spifferare i nomi dei suoi complici. Prima del dibattimento l’avvocato d’ufficio gli ha consigliato di non dire nulla. Se si fosse limitato a raccontare il minimo indispensabile, tenendo la bocca chiusa sulle altre questioni, avrebbe fatto in modo di non far calcare troppo la mano. Nella sua richiesta c’entrava di sicuro l’ingegnere. Rischiava lui stesso il gesto da giustiziere della notte, per non parlare di tutto il resto.
    Per Nico l’epilogo del furto era stato così rapido tanto da non rendersi conto di quanto gli era accaduto. Un secondo prima era nella stanza estasiato e subito dopo se ne stava aggrovigliato tra i cespugli del giardino, tibia e perone della gamba rotti e una morte nel cuore. Insieme alla gamba si era spezzato anche l’incantesimo. Le luci blu dei lampeggianti dell’auto dei carabinieri gli sembrarono quasi una liberazione.
    Adesso, a mente fredda, una cosa gli è chiara: è vivo per miracolo, o meglio per un angelo. Nico lo ripete a tutti mentre si aggira per i corridoi del carcere, durante l’ora d’aria o in sala mensa. Al tal punto da diventare insopportabile, tanto che alla fine non la può raccontare più a nessuno, bene che gli va o gli danno del “matto” o rischia di prenderle di santa ragione. Nel frattempo se ne resta confinato tra quattro angoli di mura, a mirare la stessa porzione d’orizzonte, insieme a un macedone e a un marocchino. I due, pur guardandolo un po’ storto, pensano che il ragazzo sia solo uno dei tanti poveri cristi rinchiusi là dentro. Un compagno di cella tranquillo e che non dà un fastidio. A parte quando, anziché dormire, ritira fuori i ricordi di quella sera. Ora che è passato qualche mese, Nico rivede ogni scena come fosse un film.
    Gli era andata bene davvero: il padrone di casa gli aveva sparato addosso due proiettili e lui era rimasto illeso. Il primo aveva mandato in frantumi il vetro della finestra da cui poi si sarebbe buttato, il secondo aveva scheggiato il quadro tenuto in mano, e che gli aveva fatto da scudo, per andarsi a conficcare sul bordo della tavola.
    L’immagine sacra, tenuta davanti a sé quando l’uomo aveva sparato, era un frammento di una pala lignea, scomparsa anni addietro da una delle tante chiesette nel mezzo della campagna toscana, un dipinto del quindicesimo secolo di scuola senese: una madonna con bambino di pregevole fattura. La visione di lei, con il bimbo stretto tra le braccia, aveva smosso le viscere delle sue emozioni infantili. Assomigliava in modo impressionante a sua madre, come se la ricordava Nico, curva sui fornelli, a friggere ali di pollo nella cucina di casa.
    Il ritorno alla cruda realtà, fatta di sbarre e imposizioni, non gli aveva impedito di credere che a salvargli la vita, per quanto disgraziata fosse, era stata proprio sua madre, apparsa all’improvviso. Così, in sere particolari, mentre i suoi compagni di cella parlano di donne e malaffare, Nico se ne rimane disteso, con lo sguardo in apparenza perso tra le maglie della rete del letto sopra al suo. In realtà se ne sta a borbottare le sue strambe preghiere, rivolte a un angelo improbabile, strano davvero: sul volto un sorriso da Madonna e in petto un cuore da puttana.


    Fine



    Edited by VdB - 15/4/2009, 00:50
     
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  2. Paolo_DP77
     
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    Ottimo, Van.
    SPOILER (click to view)
    Ho già letto e commentato il racconto nell'altra sezione, adesso mi sembra sicuramente migliorato per tutta la parte che riguarda il furto. Ho ancora qualche dubbio sui pdv in un paio di passaggi, ma niente che infici veremante la lettura, e comunqe noto il miglioramento dalla versione precedente. Quindi confermo: 4.

    Ciao
     
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  3. Daniele_QM
     
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    Il racconto mi ha lasciato due impressioni differenti. La prima, positiva, riguarda lo stile di scrittura e l'oculatezza di dettagli folkloristici che riguardano Nico e la sua terra. La seconda, negativa, riguarda la quantità di errori e imperfezioni sintattiche e qualche discrepanza tra i tempi verbali del racconto. La storia è carina, pur non eccezionale. Oscillo tra il 2 e il 3 ma arrotondo in eccesso. Tre.
     
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  4.  
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    Ciao,
    oggi è il tuo turno.
    SPOILER (click to view)
    Bello. I miei complimenti.

    Stile scorrevole e abbastanza preciso, anche se forse ogni tanto ti lasci prendere la mano e prediligi la riflessione alla narrazione.
    La storia è credibile (anche se non posso dare giudizi sulle parti rumene nel senso che qualcosa potrebbe essere inverosimile, ma non ho competenza).
    Il personaggio non è male, anche se ogni tanto ho l'impressione che non pensi completamemte da immigrato.
    Non è equilibratissimo come stuttura. Ci sono le 5 righe di introduzione (che potrebbero anche essere eliminate), una robusta storia e poi il finale con la rapina e l'epilogo sono un po' tirati via in fretta, almeno rispetto al resto della costruzione.

    Qualche errore/considerazione formale che ti metto nelle Varie (anche se io non li considero nel mio voto finale).

    Sarebbe il perfetto 3 e mezzo. Metto 4.


    VARIE

    - Se usi i trattini per i discorsi diretti ( - ) dovrebbero essere quelli lunghi e, solo se termina la riga e vai a capo, non va messo quello in chiusura di frase, che va chiusa con il punto.
    Esempio: " – Ma quale angelo, tu hai solo avuto culo. "
    Al contrario, se dopo il discorso diretto c'è il discorse indiretto che si riferisce ad esso (il classico "disse"), non devi andare a capo, ma metterlo di seguito (separato da un trattino).
    -Quando c'è la canzone metterei l'originale in corsivo e la traduzione tra parentesi quadre (o come nota).
    -" la regine fra le bionde." - refuso
    -"Nico parla bene l’italiano e se non fosse per i denti non avrebbe avuto problemi a rimorchiare una bella ragazza, una nata e cresciuta in questa terra, che si sapeva dare delle arie truccandosi, ma senza esagerare, come a volte facevano quelle del suo paese." - questa frase non scorre
    -"sfriggeva il pollo " - è voluto?
    -"Le leggende di paese..." - secondo me devi cambiare termine, perché lui non c'entra con il paese inteso come villaggio
    -"Oh porca troia" - dicono così in Romania?
    -..."pensavano che il ragazzo era un povero cristo come loro..." - meglio "fosse"

     
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  5. VdB
     
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    Ciao Paolo grazie, mi sei stato molto di aiuto ;)
    Ciao Danielequemme
    CITAZIONE
    La seconda, negativa, riguarda la quantità di errori e imperfezioni sintattiche e qualche discrepanza tra i tempi verbali del racconto.

    Per la mia crescita evolutiva sarei curioso di veder segnalato la totalità delle imperfezioni, tanto per capire di cosa si sta parlando. Se lo fai mi fai una cortesia, altrimenti non potrò che rimanere delle mie idee.
    Ciao Alberto ottimi spunti, vedrò quel che ne saprò ricavare...
    Saluti
    V.
     
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  6. Daniele_QM
     
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    Hai ragione. Ecco qui, spero di esserti utile :D :

    CITAZIONE
    dire il vero ogni tanto per Nico ci scappava un giro fino a Roma, si trattava di questioni “d’affari”, compiti dapprima delicati, poi, nel tempo, erano diventati facili da sbrigare quanto scolarsi una ceres tutta d’un fiato

    Tra "delicati" e "poi" invece della virgola ci andrebbe un "che".

    CITAZIONE
    Poi era arrivato in Italia grazie alla bella idea, avuta chissà da chi, di far entrare nella Comunità Europea il suo popolo, nelle cui vene scorreva uno strano miscuglio: con tracce dello spirito libero delle tribù nomadi e la scorbutica fierezza dei Daci.

    Dopo i due punti non si può iniziare la frase con un "con", o lo togli oppure togli i due punti e sistemi la frase senza usarli, che forse è anche meglio.

    CITAZIONE
    Continuava a tenersela al petto, quasi fosse un orsacchiotto, quando la donna in tailleur blu, elegante quanto un sergente dell’esercito, cercava di farsi dire il suo nome

    Avendo inserito nella frase il "quando", dovresti completarla non con l'imperfetto ma con il passato remoto (quindi "cercò" e nn "cercava"), altrimenti, potresti sostituire a "quando", "mentre" e in questo caso puoi tenere l'imperfetto.
    CITAZIONE
    pantaloncini logori, sempre scalzo, la faccia faceva a gara con la canottiera su quale, delle due, sarebbe diventata più sporca.

    Il concetto è carino ma la frase non funziona. "su quale" mi pare non vada bene, dovresti ricostruire da capo la frase secondo me. Rileggila attentamente, "fare a gara su quale" non ha un senso logico.

    CITAZIONE
    Nico se ne stava a labbra serrate a sopportare i bruciori provocati dal cotone, imbevuto di tintura di iodio, e dalle parole del sorvegliante, inzuppate di bugie

    La frase in realtà non è sbagliata, va bene, mi chiedo però se non funzioni meglio scrivendo " e le parole", nel senso di sopportare bruciore e parole, mentre tu hai inteso dire che il bruciore è provocato dalla tintura e dalle parole. Questo non è un errore, è solo uno spunto per riflettere, mi sembra che la frase suoni meglio ma è una mia impressione.

    CITAZIONE
    Se ne era restato silenzioso

    Opinione personale, suona maluccio. Se ne era rimasto in silenzio?

    CITAZIONE
    la regine fra le bionde.

    La reginA


    CITAZIONE
    Il poliziotto, alquanto assonnato, aveva rigirato in tutti i versi i documenti, sembravano in regola ma in effetti non lo erano

    Anche qui, tra "documenti" e "sembravano" ci vorrebbe un "che" al posto della virgola.


    CITAZIONE
    Ma restava vigile, pungolato non solo dall’angolo della scatola a premergli sul fianco, ma anche per i compagni d’avventura

    Ma anche "dai" compagni d'avventura.

    CITAZIONE
    Rideva sempre più convinto fino al momento in cui lei aveva abbassato lo sguardo dagli occhi alla bocca: si era scocciata di sorridere e con due parole lo aveva congedato.
    - Ciao, scusa ma noi adesso dobbiamo andare – e prese la strada di casa, sottobraccio all’amica. Lui rimase insoddisfatto e con un’eccitazione addosso, la seguì per un poco, fino all’angolo della farmacia. Poi aveva lasciato perdere

    Allora posto questo periodo come esempio ma ne ho visti altri simili. Inizi con il passato imperfetto, per poi passare nella frase successiva al passato remoto, che mantieni per poi finire con il trapassato prossimo (se non erro). Per dare maggiore fluidità al racconto dovresti cercare di suddividere attentamente i periodi in cui usi uno o l'altro tempo verbale, secondo se i ricordi di Nico sono più o meno lontani ad esempio, ma il il mio consiglio è quello di scegliere un tempo verbale e mantenere quello considerando che non c'è un presente e un passato ma solo un passato scaglionato in vari ricordi.


    CITAZIONE
    Fu per quel motivo che si ritrovò tra i cespugli, dietro al violone della zona industriale, a farselo solleticare da una delle tante pronte a tirare fino al mattino, tra un lavoretto e l’altro, intervallati dall’eco di insulti strillati dai finestrini di macchine in corsa, accompagnati da risate sceme

    Violone sarebbe "vialone" giusto?
    In questa frase, quando si arriva a "intervallati" suppongo che il soggetto siano lui e lei ma, appunto, si suppone perché in realtà la frase inizia con Nico come soggetto e mi viene il dubbio che invece sia riferito a "tra un lavoretto all'altro" che comunque non è proprio un plurale. Insomma, io cercherei di rivedere la costruzione di questa frase.

    CITAZIONE
    Adesso era diventato il “loro”, ma soltanto perché la maggioranza degli italiani avevano deciso di andare altrove, lontano da quella feccia chiassosa

    Per rendere più chiara la frase metterei "adesso era diventato il loro bar" anche se lo ripeti, è più chiaro. Ci ho messo un po' a capire che significasse "il loro".

    CITAZIONE
    e manco un fiore

    "Manco" è un po' dialettale, ci starebbe meglio "neanche" secondo me.

    CITAZIONE
    prima del imminente distacco.

    prima "dell'imminente distacco"

    CITAZIONE
    quasi convinto a lasciare il posto in cantiere per andare più spesso a Roma.

    era quasi convinto "di" lasciare, oppure "si era quasi convinto a lasciare"

    CITAZIONE
    Nico, la sera stessa, commise l’errore di parlarne con Tamàs del lusso intravisto nella villa dell’Ingegnere

    poiché l'oggetto di riferimento è nella frase stessa, dovresti scrivere "parlare" e non "parlarne".
    [QUOTE][Il ritorno alla cruda realtà, fatta di sbarre e imposizioni, non gli avevano impedito di credere che a salvargli la vita, per quanto disgraziata fosse, era stata proprio sua madre, apparsa come un angelo/QUOTE]
    Il ritorno... non gli "aveva" impedito

     
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  7. shivan01
     
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    Ciao Van. Un bel pezzo, senza dubbio.
    Le imprecisioni sono essenzialmente nella chiusura dei dialoghi, ma te ne ha parlato già Alberto.
    La storia è interessante. Non ne so molto, ma è verosimile che il punto di vista di un immigrato nella situazione di Nico sia quello, quindi ottimo anche qui.
    C'è un "manco" che è proprio romano. Vedi tu.

    Comunque è un 4, senza dubbio.
     
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  8. rehel
     
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    Decisamente sono rimasto colpito! :woot:
    Bella storia, molto dettagliata e precisa, che evidenzia un lavoro di documentazione verbale o scritta.
    Ottime alcune frasi:
    ...la tazzina di caffé, lungo quanto suo sorriso... :shifty:
    ..delle vecchie accovacciate fuori dell'uscio, su sedie più sciupate di loro, con nient'altro da fare se non parlar male di chi passava...
    Ragazzi, questa è ottima scrittura.
    E poi arrivi alla fine e pensi che il finale semra debole, ma poi giunge come un treno la frase finale:
    ...le sue strambe preghiere rivolte a un angelo improbabile, con il viso da Madonna e il cuore da puttana...
    Da applauso! Posso dirlo? ;)
    E allora penso di scrivere troppo spesso male, perché troppo poco lo faccio col cuore.
    Il mio "senso" storico si attiva in una frase.
    : con tracce dello spirito libero delle tribù nomadi e la scorbutica fierezza dei Daci. Così come i bellicosi antenati si era rabbonito pure lui, grazie alla paga garantita, e gli ardori ribelli si erano via via spenti...
    Allora, i daci erano certamente degli ossi duri, qualcosa ne sanno i romani che li conquistarono. Ma è anche vero che alla fine, dei daci non ne rimasero che poche tracce, tanto è vero che i romani dovettero ricolonizzare quelle terre spopolate dalla guerra e lo fecero con coloni provenienti dalla Germania, dalla Francia (allora Gallie) e dall'Italia.
    Qindi si dovrebbe dire che i rumeni di oggi discendono da quest'ultime popolazioni, oltre che dalle tribù nomadi che in vari tempi successivi scorrazzarono in quelle terre e ai goti, che passarono praticamente dappertutto.
    Una precisazione storica che non inficia la bontà del acconto.
    Per me sarebbe 4 e mezzo o cinque, ma posso solo darti quattro.
     
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  9. Empedoclia
     
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    Ho appena letto il tuo racconto:

    L'abilità narrativa che hai dimostrato non lascia indifferenti (io ne sarei totalmente incapace), la perizia nei dettagli spesso di matrice "bassa" mi richiama alla mente quello che recentemente ho riscoperto in Verga, nelle fatiche di Gesualdo. Sono interessanti i richiami alle sue origini, le sue reazioni rispetto alla realtà dura in cui si trova a vivere, in cui sembra muoversi con una maestria acquisita nel tempo, ma al contempo rivelando le sue debolezze e ingenuita' da straniero, da bambino cresciuto ma in fondo ancora bambino (tutta la storia mi sembra incentrata sul permanere dell'infanzia al di là della maturità crudele che attraversa nei suoi 20 anni). Sarebbe stato magari interessante inserire connotazioni geografiche precise relative alla provenienza di Nico, magari con qualche rimpianta descrizione di paesaggi in piu'.

    La parte finale potrebbe essere narrata con una suspance maggiore, nella parte in cui si accorge che la madonna ha il volto della madre. Magari proprio sottolineando il fatto che dal suo punto di vista la madonna non ha un volto simile alla madre, ma ha IL volto di sua madre, che e' diverso.

    Lo stile ricco di dettagli ha secondo me il suo punto di forza quando descrive fatti o luoghi legati alla realtà in modo preciso e realistico (appunto), mentre le comparazioni analogiche mi risultano piuttosto fuoriluogo (es: lungo quanto il suo sorriso/ elegante quanto un sergente dell’esercito/ la faccia faceva a gara con la canottiera su quale, delle due, sarebbe diventata più sporca/ tanto da assomigliare proprio a un canguro/ vaporoso quanto la messa in piega/ ecc.)

    Magari potresti ottenere un effetto migliore usando come secondo termine delle similitudini qualcosa di fortemente legato al personaggio: il sergente dell'esercito e il canguro sembrano accostamenti che fa il narratore, mentre sarebbe piu' efficace che le analogie nascessero dal punto di vista del bambino.

    A volte i periodi potrebbero essere accorciati, perche' il lettore rischia di perdersi in troppi rimandi. Magari anche in questo caso evitare le analogie per ottenere una frase piu' strettamente legata al fatto in se e non alla sua interpretazione da parte del narratore ( o del personaggio) risulterebbe di maggiore effetto. ma questa è una mia opinione.

    Per il resto il risultato è lodevole, anche se vorrei avere più tempo per segnalarti piccole incongruenze che potrebbero sorgere con maggiore attenzione ad una seconda lettura. 3 abbondante.

    Una curiosità:

    Io-s fecior de morosan Io sono figlio di Morosan
    Sed în codru câte-un an, Sto nel fresco per un anno,
    Si la mândra câte-o luna Alla mia amata per un mese
    Ca-s fecior de mama buna. Perché sono figlio di buona madre.

    è traduzione letterale? Perche', ditemi quello che volete ma

    Io-s fecior de morosan Io sono figlio di Morosan
    Sed în codru câte-un an, Sto nel fresco per un anno,
    Si la mândra câte-o luna Nella mia amata per un mese
    Ca-s fecior de mama buna. Perché sono figlio di buona madre.

    è molto molto più figo :P

    E' stato un piacere.

    Empedoclia
     
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  10. VdB
     
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    Ciao Shivan, grazie per l'ottimo giudizio, mi conforta :)
    sui dialoghi, la formattazione da word a usam mi aveva cambiato il carattere con degli "sgorbietti", così ho messo innanzitutto il trattino breve, poi ho usato un sistema insolito per me e quindi ho toppato.
    Ciao Daniele, molte cose da te segnalate le riconosco come imprecisioni, su altre cose (taglio dei "che" o appunti sullo stile o costruzioni delle frasi) invece credo rientrino nella visione soggettiva. Sui tempi verbali, sì in effetti danzo un po' troppo tra l'uno e l'altro, vedrò di migliorare.
    Ciao Rehel, ti ringrazio molto per il commento, mi è di conforto, considerando la mia poca propensione allo scrivere. Vedrò di farne tesoro dei tuoi apprezzamenti. Sull'appunto storico, avevo ovviamente letto l'evoluzione del popolo Rumeno, perchè volevo inserire, seppur in modo breve un richiamo al carattere, fra tutto mi aveva colpito il contrasto dei Daci e seppur più lieve, l'influenza dei Traci, popoli senz'altro bellicosi. Dopotutto i siciliani avranno più influssi arabi, normanni o greci? credo a seconda dei casi... Purtroppo sono uno storico da internet e questo si nota :P
    Ciao Empedoclia, grazie per la lettura e il commento, mi hai dato vari spunti.
    CITAZIONE
    Sarebbe stato magari interessante inserire connotazioni geografiche precise

    Credo di aver costruito già un quadro iniziale complesso, il rischio sarebbe stato di appesantire il tutto, my opinion "obviously".
    CITAZIONE
    mentre le comparazioni analogiche mi risultano piuttosto fuoriluogo...
    Magari potresti ottenere un effetto migliore usando come secondo termine delle similitudini qualcosa di fortemente legato al personaggio: il sergente dell'esercito e il canguro sembrano accostamenti che fa il narratore

    qua non ti ho seguito molto, le mie analogie sono "visive" di chi osserva appunto dal di fuori la scena, (un bambino che saltella via con le mani all'addome e la canottiera piena di mele tanto da assomigliare a un marsupio, ciò visto un canguro) certo capisco che estrania dal contesto della storia, ma non dalla visione che si "crea" il lettore. Sempre secondo me. :P
    CITAZIONE
    La parte finale potrebbe essere narrata con una suspance maggiore

    Vero, ci penso su.
    CITAZIONE
    A volte i periodi potrebbero essere accorciati, perche' il lettore rischia di perdersi in troppi rimandi.

    Vero anche questo, di solito faccio frasi brevi (ho una storia su ri-raccontiamo in cui all'opposto sono fin troppo essenziale nella lunghezza dei periodi), qui ho abbondato troppo, ma era una scelta, non so fin quanto felice.
    CITAZIONE
    vorrei avere più tempo per segnalarti piccole incongruenze che potrebbero sorgere con maggiore attenzione ad una seconda lettura

    Di questo ne sono certo! Grazie per aver usato il termine incongruenze, piuttosto che non errori -_-
    Sulla canzoncina infantile l'ho rintraciata su internet (e non è stato immediato, credimi) ed essendo infantile di sicuro non sarà "nella mia amata" ma "della" mi son fidato di quanto trovato.
    Ciao a tutti e a rileggerci
    Van
     
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  11. Empedoclia
     
    .

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    CITAZIONE
    CITAZIONE
    mentre le comparazioni analogiche mi risultano piuttosto fuoriluogo...
    Magari potresti ottenere un effetto migliore usando come secondo termine delle similitudini qualcosa di fortemente legato al personaggio: il sergente dell'esercito e il canguro sembrano accostamenti che fa il narratore

    qua non ti ho seguito molto, le mie analogie sono "visive" di chi osserva appunto dal di fuori la scena, (un bambino che saltella via con le mani all'addome e la canottiera piena di mele tanto da assomigliare a un marsupio, ciò visto un canguro) certo capisco che estrania dal contesto della storia, ma non dalla visione che si "crea" il lettore. Sempre secondo me. :P

    Mi spiego meglio: sempre secondo me, se le analogie "visive" fossero fatte dal punto di vista del protagonista (bambino o adulto) e non dal punto di vista di un'osservatore terzo quale puo' essere il lettore, risulterebbero più efficaci perche' il lettore si troverebbe a condividere inconsciamente il modo di vedere le cose del protagonista.

    Peccato per la canzoncina, non sembrava così infantile ;P

    Buon lavoro per perfezionare questo già ottimo racconto.

    Empedoclia
     
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  12. Paola_Milli
     
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    Ciao :)
    SPOILER (click to view)
    Scrivi davvero bene, con proprietà e ricchezza (cosa non da tutti) complimenti.
    La storia mi è piaciuta, ben tratteggiato il protagonista, ma il finale e l'epilogo sono un po' troppo di fretta.
    Fa niente, ti do 4 lo stesso


    Bacio
     
    .
  13. VdB
     
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    Ciao Empedoclia grazie per l'approfondimento, ne terrò di certo conto.
    Ciao Paola, grazie mille per il commento e il giudizio lusinghiero, mi ci voleva! :P
    RicamBacio! :D
    Van
     
    .
  14. federica68
     
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    SPOILER (click to view)
    Non sono riuscita a finirlo, mi dispiace.
    Ci sono troppi errori di grammatica tanto che la storia che potrebbe anche essere interessante diventa difficile da seguire per le continue dissonanze sintattiche.
    Mi spiace davvero perchè come altri ti hanno segnalato ci sono alcune immagini molto belle e pregnanti.
    Fin dove sono arrivata ti ho segnalato le cose che ho visto, ma non posso andare oltre l'1, mi dispiace davvero, ma la grammatica non è un dettaglio di poco conto in un racconto. L'anno scorso ho letto bandi di concorsi che escludevano a priori i racconti con errori grammaticali, tanto per fare un esempio.
    Non posso dare un parere sulla storia perchè non l'ho finito...
    CITAZIONE
    Nico ha fatto da poco vent’anni ed esclusi gli ultimi due, buona parte li aveva passati tra orfanotrofio e carcere minorile.

    i tempi verbali devono essere uguali


    CITAZIONE
    La sua vita si era messa a correre al contrario nel momento in cui la madre l’abbandonò all’Istituto per l’Infanzia.

    CITAZIONE
    — Tu non dire niente, altrimenti la mamma muore e non viene più a riprenderti.
    Gli aveva imposto lei, mentre lo sospingeva su per il viottolo.

    la seconda parte va vicino alla prima, sono legate, invece così sembrano slegate







    CITAZIONE
    A sedici anni non ce la fece più e tagliò la corda. Gli inservienti non si dannarono certo l’anima per corrergli dietro. Passato il subbuglio della fuga si sentiva sollevato come non mai,

    l'imperfetto andrebbe per un verbo che indica una azione continuativa e non istantanea, come infatti fai correttamente qui:
    CITAZIONE
    Il buio si andava infittendo e lui,

    ma direi che nel passo quotato prima o continui con il passato remoto o passi al trapassato
    per darsi forza, canticchiava le strofe di una vecchia canzone, scalciando sassi e lanciando legni oltre il ciglio del sentiero.


    CITAZIONE
    — Hai un sacco di possibilità davanti a te, non fare il fesso, basta un niente e la tua vita cambierà da così, a così.
    Fece il tizio seduto al tavolo

    il commento al discorso diretto va vicino al discorso diretto e non a capo


    CITAZIONE
    Non erano stati puntuali i due conosciuti a Timisoara. Diffidava dei tipi, facce poco raccomandabili, oltretutto si erano presi una sbronza troppo grossa per raccontarla giusta. Invece la macchina era arrivata sul serio, con un’ora di ritardo, ma era arrivata, giusto in tempo per non fargli salire in gola i dubbi che lo stavano facendo ritornare sui suoi passi.
    — Scansa gli scatoloni e mettili uno sull’altro.
    Prima di avviarsi cercò di trovare una sistemazione decente senza riuscirci. Se ne era restato silenzioso

    un passato remoto da solo in un passaggio che è tutto al trapassato...

    CITAZIONE
    — Hai la faccia da cucciolo e il cuore da lupo.
    Una sera a cena glielo disse

    niente a capo







    CITAZIONE
    Nico parla bene l’italiano e se non fosse per i denti non avrebbe avuto problemi

    i tempi dei verbi devono essere logici... col presente ci va "avrebbe"

    CITAZIONE
    ma senza esagerare, come a volte facevano quelle del suo paese.

    se intendi dire che quelle del suo paese esagerano non ci va la virgola qui.

    CITAZIONE
    Se ne era accorto di questa cosa

    si era accorto di questa cosa. Così è una ripetizione come dire a me mi

    CITAZIONE
    lui si era sciolto e c’era scappata pure qualche battuta. Rideva sempre più convinto fino al momento in cui lei abbassò lo sguardo dagli occhi alla bocca: si era scocciata di sorridere e con due parole lo congedò.
    — Ciao, scusa ma noi adesso dobbiamo andare.
    La ragazza prese la strada di casa, sottobraccio all’amica.

    i tempi dei verbi devono essere gli stessi


    CITAZIONE
    Sua madre. Forse se ne stava a invecchiare serena, a consolare un uomo nel modo che meglio gli riusciva,

    le riusciva



    CITAZIONE
    Non riusciva a sostituirla con una più gioiosa, come nel giorno in cui presero il treno ed andarono al mare.

    tutto questo passo rievocativo vuole il trapassato, essendo un flash back...







    CITAZIONE
    commise l’errore di parlarne con Tamàs del lusso intravisto nella villa dell’Ingegnere.

    parlare con Tamas del lusso. Così è una ripetizione, come dire a me mi

    CITAZIONE
    Lui rimase con il bicchiere lasciato a mezz’aria, lo sguardo fisso negli occhi del ragazzo, poi aveva iniziato a ululare.

    i tempi dei verbi devono essere gli stessi





    CITAZIONE
    Quel giorno il comportamento strano di Nico continuava, anziché mangiare insieme a loro, il ragazzo gironzolava attorno all’ingresso della lavanderia.

    uno stacco più lungo dopo continuava, starebbe meglio
    CITAZIONE
    — Mi sa che Nico s’è innamorato della cameriera.
    Si era convinto uno dei muratori,

    il commento al discorso diretto va accanto al discorso diretto e non a capo




     
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  15. VdB
     
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    User deleted


    SPOILER (click to view)
    Ciao Federica, aspettavo il tuo commento! mi spiace che non lo hai finito: in pratica l'immagine fnale è quella di lui che si rivede davanti il viso della madre nelle sembianze di una Madonna, in un dipinto scoperto nella villa durante un tentativo di un furto. C'era una commistione di sacro e profano, tra il legno del frammento della pala che ha respinto il proiettile e l'immagine stessa che incantandolo non gli ha permesso di accorgersi dell'arrivo del padrone di casa. Insomma, nella vita non puoi mai esser certo se un episodio ti salva o ti rovina la vita...
    In merito alle segnalazioni, tranquilla, non partecipo a concorsi; la scrittura, per me, è solo un gioco. Per il momento preferisco gioiere per buone idee rese male che piangere per quelle cattive rese bene...
    Il tuo uno lo accetto con rispetto, meglio un 1 sentito che un 4 regalato... oltretutto, 'sto giro, son fin troppo soddisfatto per gli altri commenti, tutti più o meno lusinghieri.
    Ciauz

     
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17 replies since 2/4/2009, 00:42   393 views
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