Acqua alla gola
Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo. ( Eraclito )
Il fiume è gelido. Lo so, anche se me ne tengo a debita distanza. L’acqua è un cubetto di ghiaccio liquido in quel punto, profondo sei metri. Ci si veniva lo stesso a fare il bagno, una volta, quando era assurdo spendere dei soldi per stare in piscina con la cuffia, immersi nel cloro, messo lì a infastidirti gli occhi e il naso. A parte il grigiore dei ricordi, i colori sono rimasti gli stessi. Il verde delle fronde fa da contrasto al blu intenso della pozza contenuta in questa gola, tra due pareti di roccia squadrate da uno scalpello scorrevole e preciso. Una tonalità innaturale già vent’anni fa, ancor più oggi, visto il tratto a cavallo degli scarichi industriali. Eppure il blu intenso persiste, come l’iride di una donna che non rinuncia al suo sguardo da bambina. Mi sembra ci buttino del colorante, perciò è azzurro. Devo averlo ascoltato dal padrone di una pizzeria non lontano da qui; l’acqua è macchiata con un diluente particolare, per tenere sotto controllo il livello della diga, un centinaio di metri a monte. Il fiume, incanalato a dovere, lascia negli ingranaggi del rotore buona parte della sua forza. Poi prosegue, uguale e diverso. Mai lo stesso. Al medesimo modo della diga ha fatto la vita con me. Ho macinato chilometri e salti, in mezzo alle rapide, poi d’improvviso mi ha sbarrato la strada, azzerando le possibilità di lasciarmi andare. Una sola me ne rimane: sparare di getto tutte le cartucce in un istante, incontrollabile. In questo modo si spiega il fatto che mi trovo qui sul margine del fiume, senza canna da pesca e neanche il costume da bagno. L’intenzione è di buttarmi per farla finita, rimanendo intrappolato sott’acqua il giusto tempo. Per essere trascinato via, a pancia in su, come una trota schiattata per l’inquinamento.
I pneumatici delle macchine ronzano a venti metri dalle mie orecchie, sospesi in alto, con una cadenza regolare da circuito automobilistico. L’unico aggancio con la realtà del mondo. Io non vedo chi sta a bordo con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, loro non possono vedere me. Sono costretto all’angolo, come un terzino in affanno o un pugile suonato. I secondi non danno significato alla mia resa. Nessuno getterà in mio soccorso l’asciugamano, nemmeno per stendersi al sole. Sono solo, unica compagnia qualche rettile nascosto tra le erbacce, oltre alle mosche e alle zanzare. Della loro presenza me ne accorgo: sento il formicolio dei pizzichi sull’avambraccio. Le scaccio con ampi gesti, come si fa quando qualcuno ti dice una cosa assurda, impossibile da credersi.
La macchina l’ho lasciata lungo il margine della strada, nei pressi della diga. Prima di avviarmi a piedi ero restato a guardare l’invaso artificiale. Non fosse stato per i residui di rami, foglie e bottiglie di plastica intrappolate nelle griglie di sfioro, il posto risultava bello come l’altro. Dello stesso identico colore. Mentre ero lì, un uomo, spuntato dalla postazione in cima allo sbarramento, mi ha destato dai pensieri. Se ne stava sopra la passerella di accesso alla sala controllo facendo finta di osservare la strada, come se aspettasse qualcuno. Poi ha tirato fuori il pacchetto per sfilare via una sigaretta con un leggero sussulto della mano, un movimento imparato negli anni. Ne avrà avuti dieci meno di me. La sua faccia pareva seccata dalla mia presenza. Forse ha aspettato un po’ prima di uscire, per lui sarò stato un guastafeste. Forse credeva che mi volessi buttare di sotto, oppure non voleva farsi beccare a fumare durante il lavoro. Ma si sbagliava di grosso, almeno riguardo al fumare. Poteva farlo senza problemi, non glielo passavo io lo stipendio e per quanto riguardava la salute, beh, era la sua non la mia. Il tipo prima di rientrare mi aveva lanciato uno sguardo, si era fermato sulla soglia il tempo di far uscire un gatto e le note di una canzone allegra. Mi ha guardato un secondo di troppo, poi ha lanciato la cicca in acqua. La stessa parabola che mi attendeva. Chissà cosa è riuscito a leggermi negli occhi, non sono certo salito a chiederglielo. Fossi stato lì, accanto a lui, avrei visto, mentre portava la mano alla bocca, per l’ultima tirata, la macchia provocata dal tabacco, tra l’indice e il medio; la pelle ormai ingiallita come il soffitto sopra la cappa del camino di casa. Io ho smesso di fumare da quando è nato Andrea, il più piccolo dei mie figli. Una delle poche decisioni azzeccate in tanti anni. Buffo rendersene conto ora che sto decidendo di perderla nell’acqua, la vita. Come fosse un braccialetto, durante il bagno, negli schiamazzi concitati. Ci si spinge e il braccialetto indossato, uno di quelli fatti di fili intrecciati, rimane in mano al tuo migliore amico. L’osserva due secondi, poi cerca la spiegazione nei tuoi occhi. La trova, pure se cerchi di tenerla nascosta. E il braccialetto finisce scagliato in mezzo al fiume, perduto come la fiducia. Ci deve essere predisposizione per certe situazioni, così come per certi lavori manuali. Mi ricordo tra le ragazze, a scuola, ce n’era sempre una esperta nell’intreccio. Fossero fili di lana o ciocche di capelli. O dei sentimenti delle persone: per questi ultimi ci pensava Laura, era brava a tessere trame alle spalle degli altri. Mi sono incamminato sapendo bene dove arrivare. Il posto dove andavamo sempre io, Matteo e Laura. Il nostro minuscolo mare.
Avrei bisogno di Matteo ora, qui, vicino a me. È un piccolo peso tra i tanti che mi porto dietro, nato in questo posto. Non mi ha più parlato d’allora. Avrei voglia di chiedergli scusa per la tresca con Laura. Lei tra di noi, gli istanti tessuti con l’abilità di dita rapide: una treccia che ricade sulle spalle nude. Una trama costruita nei mesi, all’oscuro di lui. Invece di rinchiuderci dentro un’aula venivamo a fare il bagno, senza imbarazzi, in mutande, anche se nell’uscire fuori dall’acqua poi trasparivano i peli scuri e tutto il resto. Dopo, sulla riva, me ne dovevo stare a pancia in sotto per nascondere la mia finta noncuranza per le carezze e i baci tra di loro. Miste alle occhiate scambiate con Laura. Lei confondeva l’amicizia con un’altra cosa. Io facevo lo stesso, il tutto alle spalle di Matteo. Il filo che ci legava si era spezzato in un pomeriggio, colpa del braccialetto. Laura diceva di averlo perso il regalo di Matteo, invece lui l’aveva ritrovato al mio polso, lottando nell’acqua, nella sfida lanciata proprio da Lei. Pretendeva lo portassi nonostante fosse scontato che lui, prima o poi, l’avesse scoperto. Con l’estate in arrivo non si poteva nascondere sotto la manica, spingendolo più su possibile a incastrarsi sotto al gomito. L’avrei dovuto capire fin da subito: l’amore rubato alla disattenzione di qualcun altro non ti porta lontano, e se lo fa, ti trascina via come la corrente di questo fiume. Questione di predisposizione tradire. O è solo l'effetto di una semplice distrazione che ti fa scambiare la ragazza del migliore amico per la tua. Matteo non me l’ha mai perdonata la mia abilità da baro - È stata lei io non volevo - vigliacco pure in questo. Una mano di poker vinta guardando le carte dell’avversario. Tutto troppo facile. E quando il pollo abbandona il tavolo verde, dando una rapida occhiata a chi è rimasto, puoi scoprire di essere diventato te quello da spennare.
Così è stato. Con Laura ci siamo persi e ritrovati più di una volta. Adesso è il turno del trovarsi. Sarà per i figli o perché ormai conosciamo le nostre debolezze: finiamo sempre per accettare i difetti, quasi si compensino fra loro. I suoi occhi a posarsi su un bel fisico atletico, possibilmente uno di quelli a schiena dritta e a culo per l’insù, da salsa e merengue. Perché adesso le è presa la mania per i balli latino-americani. Il martedì, il venerdì e tanto per gradire il sabato. Non ho neanche provato a dirle niente, nonostante le gonne per andare a ballare siano diventate sempre più corte e le scollature sempre più ampie. Quando l’ho fatto, all’inizio, lei mi ha rinfacciato il vizio del gioco. Cosa avrei potuto dire in mia difesa? E allora lei ancheggia come una mignotta cubana e io tentenno tenendo tra le dita quelle puttane di carte. Bel compromesso del cazzo. E così sia: a te gli uomini di cuori, a me le donne di picche. Mi ci scappa un sorriso. Cosa avrò mai da riderci sulle mie disgrazie? Forse è per la soluzione trovata ai miei problemi. Perché i miei casini sono ben altri. Stavolta sono davvero sull’orlo del tracollo, Laura: Te l’ho detto? No, non ne ho avuto il coraggio. Una vita sospesa sul margine del precipizio, la mia. Ho lanciato l’S.O.S. tante di quelle volte che ormai non sono più credibile. La barca affonda e il capitano con essa. Questi qua non scherzano mica, te la piantano una pallottola in testa. Trecentocinquantamila euro, più del valore della casa, che poi è a nome tuo. Mica scemi noi. Le mani bucate implicano certi compromessi, delle fiducie condizionate, a prova d’ipoteca. Ora però devo calmarmi, altrimenti non riuscirò ad avere il coraggio di andare fino in fondo. In tutti i sensi. Inizio a sbottonarmi la camicia quando sento un rumore tra i cespugli. Mi viene di lanciare un sasso. Sarà un fagiano o un cane randagio. Prendo in mano un ciottolo scuro. Nel mezzo, una venatura bianca lo squarcia come fosse un fulmine in un cielo buio. Mi dimentico del cespuglio e dello scorrere della massa d’acqua. Ripenso all’altra notte, al tuono che mi scuote, come il rumore della frenata sull’asfalto. Sposto lo sguardo dall’orologio, appeso alla parete, all’increspatura delle tendine del soggiorno. Pioveva quando ti ho visto scendere dall’auto. Un saluto all’ombra indefinita dietro ai vetri appannati. La tua corsa frettolosa fin sotto la tettoia, le chiavi che cercano e poi trovano il buco della serratura. La mandata e lo scatto dei pistoncini della porta blindata. Lo stropicciare delle suole sullo zerbino. Il tuo volto appena entrata in casa si trasfigura, neanche avessi visto un cadavere. Forse peggio: c’ero io davanti a te, con la mia faccia stralunata, zeppa di dubbi. Le labbra si sono ripiegate, chiudendo il tuo sorriso, come ali di uccello arrivato stanco al ramo. Non avevano voglia di aprirsi, a spiegarsi di nuovo. Laura, così perfettamente ingenua e bella. La luce che entrava dal di fuori, insieme a lei, ne accentuava l’intensità del volto. La pioggia sul suo viso, velato dal trucco, forse troppo pesante per una madre, la imprigionava in un alone etereo e lucente. Il mascara delle ciglia, sciolto da una goccia, aveva iniziato a colare. Con il polpastrello ho tolto via quell’unico difetto, facendo scomparire quella lacrima nera. Bastasse un gesto, uno solo Laura, per rendere tutto perfetto. Si paga lo scotto ad avere accanto una donna con la propensione all’infedeltà. Arrivi a un punto in cui sembra finita la voglia di fare domande. Ma continui a farle. Mi ha risposto arrabbiata: non aveva nessun amante. Le piaceva ballare. Nient’altro. Certe cose, con il tempo, ti passa la voglia di farle. Aveva due figli e un marito stronzo. Bastavano quelli. Un temporale estivo è stato, tutto qua. Fuori, in effetti, aveva smesso di piovere. Per tranquillizzarla e farmi perdonare la sfuriata di gelosia inopportuna, le ho promesso che la nostra situazione finanziaria si sarebbe presto sistemata. Non le ho detto come. Forse non ho barato solo io al tavolo da gioco. Ma sto mentendo per concederle il piatto finale. Più la rigiro in mano la mia vita, come questo sasso di fiume, e meno trovo un motivo valido per tirare avanti. Sono davvero arrivato al capolinea. A salvarmi, nella morte, ci penserà la mia polizza sulla vita. Mi esce un altro sorriso da stronzo. Ho deciso tutto con una lucidità che non mi sarei riconosciuto. Ora si tratta di metterlo in atto il piano. Niente di complicato. Ho mandato un SMS a Laura: “Fa caldo oggi. Vado a fare il bagno, come da ragazzi. Al nostro posto. Ciao a dopo”. L’assicurazione non farà storie, ne sono certo. Forse ci rimarrà male lei. La metà del capitale è vincolata per i ragazzi, l’altra servirà per mettere delle toppe ai conti in sospeso. È ora che mi spicci, carico il braccio e lascio partire il ciottolo contro lo specchio d’acqua: fa due salti e affonda nella pozza. Mai riuscito a farne rimbalzare per più di tre volte, questione di polso. Non ne ho mai avuto, e non solo per i lanci.
Ripiego i pantaloni, attento a non sgualcirli, e li poggio in terra insieme alla camicia. Recito fino in fondo la mia parte. Quando ritroveranno l’auto e i panni dovrà sembrare un tragico incidente, non ci dovranno essere dubbi. Le scarpe, con i calzettoni infilati dentro, le sistemo con cura di lato agli indumenti. Mi avvio. Sento il fastidio crescente dei sassi battermi sotto la pianta. Ora me ne sto sul margine della riva. Nei boxer il mio pisello si è fatto duro. Chissà cosa passa nel cervello in certi momenti. Un’altra presa per i fondelli che mi fa la vita. Guardo la pozza, come ne avessi timore. Abbasso gli occhi, a fissarmi i piedi già a mollo. L’effetto dell’acqua li fa sembrare un po’ più grandi e pallidi. Due minuti immersi e già congelano. Sono quasi le cinque. Sento di non avere la forza di buttarmi, e non per la temperatura dell’acqua. Ma ho pensato a tutto, fin nei minimi dettagli. Cinque minuti e le sirene riecheggeranno nella stretta gola a segnalare l’apertura della diga. Il flusso del fiume si farà sempre più consistente. La corrente aumenterà così come il livello dell’acqua. Basterà immergersi fino alla vita e il fiume mi trascinerà con sé. Un passo e l’acqua mi arriva alle ginocchia. Un altro e l’acqua è a un palmo dall’ombelico, la sponda diventa subito ripida. Me ne sto in attesa, sulla punta delle dita. Non sento più l’erezione, ho altro a cui pensare. Il suono della sirena arriva soffuso, poi si fa insistente e acuto. Si potrebbe confondere con quella della fabbrica poco distante. Questa però annuncia ben altro che non la fine del turno.
Il rumore aumenta con la portata d’acqua. Nel momento in cui perdo il contatto con i sassi mi sento afferrare. Delle braccia mi hanno colto alla sprovvista: difficile da credersi ma qualcuno sta cercando di salvarmi. Non so bene perché, il pensiero va alla cicca gettata dal parapetto e allo sguardo strano di chi deve averne visti altri scomparire nel fiume. Ma il tipo più che salvarmi sembra voglia spingermi nel mezzo della corrente. Seguo l’impulso di difendermi. Mi afferro alle sue braccia, per liberarmi dalla presa. Stiamo ancora a un metro dalla riva, sento i ciottoli che mi urtano la punta dei piedi. Quello non molla, ha la forza di un bue. Non so bene cosa diavolo sta succedendo ma cerco di oppormi alla sua stretta. Tento di girarmi senza riuscirci. Intravedo le sue mani: ora posso vederla la macchia di tabacco tra le dita, strette al mio petto. Ma non solo. Qualcosa nella mia mente succede, un dubbio devasta le mie già traballanti convinzioni. Mi scuoto e cerco di divincolarmi, lo afferro al polso cercando di togliere il suo braccio, voglio guardarlo in faccia per cercare una spiegazione nei suoi occhi. Non vuol darmela, solo questo posso comprendere. Lottiamo sul margine del fiume, ora i miei piedi, nonostante la corrente sia diventata sostenuta, poggiano sul fondo. Afferro il tipo per il collo, lui allenta la presa e riesco a strappare la sua mano dal mio petto. Lui si ferma, fa per guadagnare la riva, stremato. Lo seguo. Il tipo fa appena in tempo a dirmi che pensava stessi affogando. Che poi si è preso paura, non voleva farmi del male. Io mi siedo accanto a lui, lo guardo in silenzio. Nelle dita, strette con forza in pugno, c’è tutta la mia rabbia. È un attimo, smuovo la mano alla ricerca di un qualcosa di consistente, lo trovo: è un sasso incagliato nella sabbia della riva. Lo sradico con le unghie e lo sollevo. La pietra produce un suono sordo sulla sua tempia, nel frastuono del fiume solo io posso udirlo. Non c’è bisogno di fare molto, una leggera spinta e il corpo galleggia riverso. Lo spingo quanto basta per rimetterlo nella corrente. Il corpo scompare oltre la stretta ansa che disegna una esse, appena sotto la strada provinciale.
La potenza del fiume va attenuandosi. Forse qualcuno ha dato l’allarme e ha fatto chiudere le paratie, oppure è passato più tempo di quanto potessi immaginare. Cerco di riprendere fiato. Sento i ciottoli comprimermi sul petto a ogni respiro. Me ne resto come un pesce abboccato all’amo e lasciato a un passo dal pelo dell’acqua. Basterebbe un solo gesto, tornerei tra i flutti e la farei davvero finita, anch’io. Rimango immobile. In attesa. Con una leggera torsione del busto cerco di guardarmi attorno per trovare lo sguardo di Laura: sarà da qualche parte, nascosta. C’è tornata anche lei nel nostro piccolo mare, e non da sola. Oggi quando ha letto il messaggio le deve essere preso un accidenti. Era insieme a lui, nella sala controllo della diga. Non ci ha creduto che venivo qua per fare il bagno. Avrà pensato che avevo scoperto ogni cosa. Invece, come al solito, arrivo in ritardo rispetto ai suoi intrighi. Ma non oggi, non del tutto. Forse volevate solo darmi una lezione o volevate davvero farmi fuori quando mi avete visto sotto il vostro covo d’amore. Non potevate certo sapere quel che mi passava per la testa. Laura, tu e le tue manie d’adolescente. Non perderai mai certi vizi pur sapendo che costano cari. Mi avevi detto di averlo perduto il mio regalo di Natale. Me lo ritrovo tra le dita, strappato dal polso di uno sconosciuto. Scommetto ballava divinamente la bachata il tipo. Mi sollevo sulle ginocchia. Mi alzo in piedi. La mano scaglia nel mezzo dell’acqua il braccialetto. S’immerge, dopo una parabola brillante, sollevando uno sbuffo d’acqua. Finisce come l’altro, di tanti anni prima. È il mio colpo di coda. Poi mi rimetto seduto. La pozza è tornata di un blu intenso. Il rosso del sangue è scivolato via dalle mie dita, come un trucco pesante in una notte piovosa. Bastasse un gesto, uno solo, per salvare le nostre vite, Laura. Ma stavolta, il nostro, non è più un gioco.
G Vanderban
Edited by VdB - 11/5/2009, 00:20
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