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Il sole aveva bussato da qualche ora alla finestra sopra il letto, trovandolo, come sempre, già sveglio. Oramai Alfredo era in piedi. A una certa età le abitudini cambiano. Ci si sveglia sempre prima. Pare che la capacità di dormire un sonno decente si affievolisca insieme con le altre. Che ingiustizia. Che senso ha svegliarsi tanto presto, quando non si ha davanti che una giornata sempre uguale alla precedente e che è sempre più arduo disgiungere dal concetto di noia? Oggi però non è così. Oggi è sabato. E la capacità di fare una bella presa, quella no, non scema con l'avanzare dell'età: anzi si affina!
La colazione era durata il fugace lampo di un caffè. Era così da quando, tre anni prima, Faustina era passata a miglior vita lasciandolo vedovo a badare a sé stesso da solo, per la prima volta dal giorno della sua nascita. Anche il risveglio era cambiato. Non più un sorriso comprensivo ad accoglierlo dentro un'altra giornata. Adesso era quello ghignante, ondeggiante della dentiera nel bicchiere sul comodino a dargli il pista libera. La barba, invece, era stata un'operazione più laboriosa. Il rasoio da barbiere va maneggiato con estrema cura. Mica è come quegli ordigni a elettricità che ora fanno un gran baccano e ti lasciano la barba lunga di un giorno. O come i tradizionali rasoi a lamette. Anche da queste piccole cose si nota lo scorrere incessante del tempo. Per tanti anni i rasoi erano stati semplicemente a una lama (e nessuno se ne era mai dato cruccio). Era prossimo a diventare nonno quando fu messo in commercio il rasoio "rivoluzionario", il primo a due lame: "la prima lama tira fuori il pelo e lo taglia, la seconda, prima che il pelo rientri, lo taglia più in profondità”. Ora, alla soglia degli ottantacinque anni, hanno inventato quello a tre lame. Di questo passo fra breve avremo il rasoio a cinque lame: “La prima tira fuori il pelo, la seconda gli fa il solletico, la terza lo malmena, la quarta lo prende un po’ per il culo e la quinta lo taglia”. No! Meglio schiuma, pennello e rasoio vecchio stile della serie: "Et voilà. Ragazzo: spazzola". C'erano voluti venti minuti buoni, ma ora, davanti allo specchio c’era un'altra persona: la pelle del viso era ragionevolmente liscia, rughe a parte - "come il culetto di un neonato" - si compiacque fra sé. E l'effervescente pizzicorino del dopobarba lo faceva sentire bene, vivo. Si, almeno di sabato. Gli piaceva questa sensazione di rinascita. La sfida lo rinvigoriva, quel sentimento di competizione riaccendeva in lui parte del giovanile entusiasmo.
Aveva una questione da sistemare.
Osvaldo stava giocando bene, ultimamente. Non sbagliava una presa. Ebbe un sussulto, le guance gli si colorirono di rosso vivo, come avesse alzato un po' troppo il gomito. Qualcosa dentro ribolliva ancora. L'ultima mano del sabato precedente. Aveva fatto male i conti, dannata memoria. Come aveva potuto consentire al rivale di acciuffare in una sola botta sei e asso di denari... per di più con quel bell'imbusto di sette bello? Denari, primiera e il bellimbusto: tre punti secchi per il 21-19. "Gioco - partita - incontro" - aveva sentenziato Osvaldo, con quel sorrisetto da vincente, suo malgrado, che negli ultimi mesi aveva imparato a odiare. Sorrisetto scolpito su quel volto dalla mascella prominente. Volitiva? Forse. Più che altro, però, era dovuta al disallineamento dei denti che, fra quelli veri, pochi e quelli finti, molti, mal combaciavano provocando un innaturale protendersi della mascella verso l'alto. Ma non sarebbe finita così! Glielo avrebbe ricacciato in gola quel sorrisetto: parola d'onore! Lo sguardo si posò sulla piccola lavagna di plastica bianca con bordatura rossa che si era fatto regalare per l'ultimo compleanno. Una di quelle moderne lavagne da ufficio o da scuola. Quanto avrebbe preferito una antica, tradizionale lavagna nera, col gessetto bianco e il cancellino di pezza che era tanto divertente tirarsi rincorrendosi per le aule e i corridoi durante la ricreazione (e non solo). Pare che non se ne facciano più. Col pennarello rosso aveva segnato il resoconto delle loro sfide: Osvaldo - 265 / Alfredo - 262: sotto di tre.
Ben 527 sabati. 527 partite al solito tavolino del solito caffè. La bellezza di più di dieci anni. Senza quasi mai saltare l'appuntamento, anche nei periodi di festa: tanto, a quell'età, ogni giorno è una festa - un sorrisetto amaro si impadronì, non voluto, del suo volto - il rovescio della medaglia a quello trionfante di Osvaldo. Basta. Erano già le tredici e alle quattordici e trenta in punto doveva essere al caffè, al piccolo bar teatro della loro sfida. Per essere precisi nel retro del bar, dove erano allestiti i tavolini per le partite a carte. Il regolamento, che avevano stabilito di comune accordo, recitava che se allo scoccare delle ore quindici, all'orologio "ufficiale", quello a forma di Gatto Isidoro, sopra il bancone del bar, uno dei contendenti non era presente, l'altro vinceva di diritto la partita e si aggiudicava il punto di quel sabato. Una volta era arrivato praticamente di corsa e aveva fatto in tempo a varcare la soglia del caffè appena trenta secondi prima che la coda-lancetta di micio Isidoro avesse completato il suo ultimo giro verso la tacca delle ore quindici. Era successo al battesimo di Marco, l'ultimo dei suoi nipoti. La cerimonia e il rinfresco si erano protratti oltre il tempo che aveva pronosticato. Che corsa in taxi. Il tassinaro lo guardava dallo specchietto come fosse stato un pazzo: un anziano signore in doppio petto e scarpe lucide con gli occhi fuori dalle orbite a sbraitare stizzito, vaneggiando qualcosa su un regolamento infame, su un gatto di nome Isidoro e un rivale sputacchioso in un assolato, sonnolento pomeriggio estivo.
Figli ne aveva: due. Sara si era stabilita in America in uno stato per lui impronunciabile: Massacchussets… o qualcosa di simile, mentre Sandro viveva a due isolati da lui e passava a trovarlo almeno un paio di volte a settimana. Sandro gli aveva regalato già tre nipoti. Non si poteva certo lamentare. Un po' di solitudine lo punzecchiava di tanto in tanto, ma riusciva sempre a cavarsela, in un modo o nell'altro. Una pastina in brodo per oggi può andare bene. Meglio stare leggeri: si tiene la mente più sveglia!
Era in piedi, davanti allo specchio, sistemandosi il bavero della giacca grigia. Il tempo di una pettinatina e sarebbe sceso in strada. Aveva la chioma quasi del tutto bianca. Anche se qualche capello contestatario protestava, ostentando orgogliosamente l'antico colore corvino. A passi lenti, cadenzati si diresse verso il bar. Passi da vecchio, si sarebbero definiti. La realtà era diversa. Avrebbe potuto agevolmente accelerare il cammino, ma perché arrivare tanto presto? Erano le quattordici e venticinque e di tempo ne aveva.
Il sole primaverile era ancora alto, e quando Alfredo fece ingresso nel bar si sentiva un po' sudaticcio. Salutò con un cenno della mano Gianni intento ad asciugare le tazzine dietro al bancone. Il ragazzone, novanta chili di simpatia, ricambiò il saluto, e sembrò un po' sorpreso di vederlo. Da cinque anni aveva preso il posto di Antonio, suo padre, che aveva gestito con impareggiabile simpatia quel luogo di ritrovo per circa tre decenni e ora stava godendosi la pensione, si fa per dire, in una casa di riposo in preda al morbo di Alzheimer, riconoscendo a stento i famigliari più stretti. Gianni accennò ad apparecchiargli un caffè. "Oggi offro io, dai… un caffè ti farà bene…". Alfredo declinò ringraziando: "Oggi no, grazie, vado subito nel retro". E così fece. Il retrobottega del bar era vuoto. In effetti solitamente il sabato pomeriggio a quell'ora c'erano solo lui e il suo "odiato" rivale. Gli altri tavolini si sarebbero animati non prima delle sedici. Si sedette al consueto tavolo in un angolo, un po' appartato e sistemò la zeppa di legno, che portava sempre da casa, sotto una zampa per consentirne una certa stabilità. Mentre la coda di gatto Isidoro toccava le quattordici e cinquantacinque, Alfredo si dilettava a mescolare il mazzo di carte indugiando in coreografie degne di un vero prestidigitatore, evoluzioni che aveva imparato in decenni di milizia sui tavolini da gioco. Non era troppo preoccupato del ritardo di Osvaldo. Sapeva. Lui aveva il dovere di essere presente: il regolamento lo imponeva, ma sapeva.
Gatto Isidoro sorrideva beato nel centro del quadrante che segnava le quindici e cinque. Mentre al bancone un ignaro avventore chiedeva che gli fosse macchiato il caffè, nel retro del bar, un anziano signore, in elegante giacca grigia, stava riponendo un mazzo di carte nel suo astuccio. Sapeva che erano passate le quindici, sapeva che aveva vinto il punto di quel sabato, sapeva che avrebbe vinto anche i punti dei sabati seguenti. D’altronde sul regolamento non si faceva menzione di un possibile ritiro, neanche per forza maggiore, né si faceva menzione di clausole particolari da adottare in caso di decesso di uno dei contendenti.
Le lacrime che aveva trattenuto, anche senza troppi sforzi, un paio di giorni prima al funerale di Osvaldo si condensarono in una unica, densa e salata. Forse Alfredo neanche si accorse del suo sgorgare e scivolare sul volto assecondando le linee intrecciate delle rughe, come le biglie di vetro seguivano il percorso tracciato sulla sabbia nei tiepidi pomeriggi estivi della sua infanzia. Indugiò qualche secondo nel ricordo dell'amico, poi ebbe uno scatto schiacciando con uno schiaffo la lacrima che era arrivata in prossimità del mento, come fosse un insetto fastidioso: e, forse, proprio quello aveva pensato del solletico improvviso alla guancia. Si alzò, fece scivolare il mazzo di carte in una tasca e uscì. Ora Gianni stava preparando la schiuma di latte per il cappuccino e rischiò di ustionarsi per rispondere al saluto di Alfredo che infilò l'uscio senza indugiare oltre. Aveva qualcosa da fare a casa.
Mezzora dopo era in poltrona, nella sua bella giacca da camera bordò. Avrebbe buttato un occhio alla TV: un quiz, una partita di calcio o qualche stupido Talk Show e la giornata sarebbe arrivata al capolinea anche stavolta. Forse una telefonata di Gianni o magari una visita con i nipotini chissà! Prima di accendere il televisore, gettò un'ultima occhiata soddisfatta alla lavagna:
Osvaldo - 265 / Alfredo - 263: sotto di due.
Altri tre sabati e passerò in testa.
…e dopo? Già, dopo che sarebbe successo?
Un'ombra percorse il suo volto. Sapeva che allora, solo allora si sarebbe reso conto che il suo rivale, il suo amico non c'era più. Che sensazione di abbandono e solitudine. Però ci avrebbe pensato sul momento. Ora non voleva. Non poteva. Aveva qualcos'altro a cui pensare: appena tre sabati e sarebbe passato in testa.
Doveva tenere duro e l'avrebbe vinta lui quella partita.
Edited by giorgio.marc - 12/6/2009, 15:12
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