Il Mokambo
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Il Mokambo

di Alberto Priora - fantastico - 39630 car.

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    Anche questo secondo mese ho legato il mio racconto a uno dei sette vizi capitali (7 vizi per 7 racconti). Se non capite quale, ve lo dico dopo...

    IL MOKAMBO
    di Alberto Priora

    “Anche se conosci la porta che apri, ma non saprai mai veramente dove ti conduce.”

    Dal mare arrivava una brezza gelida che pareva spingere più del solito le onde, costringendole a risalire di controvoglia la riva.
    Un gruppo di gabbiani era impegnato a zampettare sulla battigia. Quando vide arrivare la donna, smise di farlo e, seccato, si spostò in acqua, dove rimase a galleggiare dondolandosi mentre berciava in segno di protesta.
    Elena camminava con le mani in tasca e lo sguardo perso davanti a sé, immersa in pensieri che non le davano tregua. Passò sopra le orme degli uccelli senza notarle; il bavero della giacca rialzato in modo da proteggersi dal tempo invernale e i capelli lunghi e biondi che si agitavano nel vento.
    Si fermò all’improvviso e si girò verso l’acqua, fissando il suo sguardo su di una boa ancorata a qualche decina di metri dalla spiaggia.
    — Bastardo! — mormorò. — Sei un bastardo. E io una stupida che ti ha creduto fino in fondo e fino all’ultimo momento.
    Strinse i pugni con forza, piantandosi le unghie nella carne nel buio delle proprie tasche, ma si interruppe quando sfiorò la stoffa con il bordo di un anello che non si era ancora decisa a togliere. Rinunciò ancora una volta a sfilarselo dal dito e a scagliarlo lontano da sé; poi sospirò e si rimise a camminare.
    La spiaggia era completamente deserta in quella stagione. In altri periodi dell’anno sarebbe stato tutto un fiorire di sdraio e di ombrelloni, un rincorrersi di bambini e genitori, un vociare di ragazzi e di ragazze pronti a corteggiarsi.
    — E v-a-f-f-a-n-c-u-l-o! — disse scandendo le lettere una a una, quando le vennero in mente quelle immagini di felicità; uno stato d’animo che le sembrava lontano e per sempre irraggiungibile. Il vento si impossessò della lettere e si portò lontano l’intera parola.
    Un mulinello di sabbia si attorcigliò sui suoi passi ed Elena sollevò lo sguardo: dove terminava la spiaggia e iniziava la striscia d’asfalto c’era un locale con le imposte sbarrate. I suoi muri bianchi erano ornati di tasselli colorati a formare mosaici dozzinali di soggetti marini, mentre robuste catene bloccavano sedie e tavolini impilati e sovrapposti, ma ormai così corrosi dalla salsedine da risultare inservibili. In alto c’erano le lettere dei neon, spenti da tempo, che ne recitavano il nome: Mokambo.
    Elena non si ricordava di aver mai visto aperto quel locale. Le sembrava che fosse chiuso da sempre, dopo un qualche fallimento di cui non aveva mai sentito notizia, ma che si accorgeva di aver sempre dato per scontato. Nessuno aveva ritenuto che fosse un affare investire dei soldi per riaprire un bar ristorante in quel posto.
    Le prime gocce di pioggia le bagnarono i capelli.
    — Splendido! Ci mancava solo questo.
    Si diresse fino all’edificio per cercare un riparo sotto il suo stretto porticato. Poteva sedersi sui gradini d’ingresso o appoggiarsi al muro in attesa che smettesse di piovere.
    Ah, quanto vorrei essere da un'altra parte. Forse non più con te, adesso che so come sei veramente, ora che so che sei solo un traditore.
    E mentre stava in piedi contro il muro, tenendo le braccia conserte e socchiudendo gli occhi per il fastidio del vento bagnato, udì un rumore alle sue spalle; proprio dall’interno del locale, come se qualcuno stesse spostando qualcosa di pesante, facendolo stridere sul pavimento. Dopo due o tre secondi il rumore cessò.
    Elena trattenne il fiato, cercando di sentire altri suoni al di là dello spirare del vento. Era possibile che qualche operaio avesse scelto proprio quella giornata dal tempo ignobile per mettersi a lavorare in quel posto abbandonato?
    Ancora qualche istante di silenzio e poi ancora rumori di cose spostate; quindi il diffondersi della musica di un pianoforte accompagnato da un violino. Una melodia piacevole e dal timbro classico, che però Elena non riusciva a identificare.
    Una raffica di vento più forte delle precedenti la fece rabbrividire. Sul mare i gabbiani presero il volo.
    — Forse fa troppo freddo anche per loro — mormorò. — E io che sto qui, allora? Non posso mica volare via. Potessi, ma non posso, porca puttana.
    Si girò verso la porta, che era stata protetta da pannelli di legno ormai consumati in più punti, e afferrò la maniglia, sicura che l’avrebbe trovata bloccata. Invece questa cedette subito e il battente arretrò di qualche centimetro verso l’interno, liberando la musica e facendola mescolare al vento.
    Elena spinse a fondo la porta.
    L’interno del Mokambo era vivo, caldo e illuminato. Alcune persone erano sedute ai tavoli e un cameriere stava passando con un vassoio in mano; su di un palco sul lato destro un uomo anziano stava suonando al pianoforte accompagnato al violino da un ragazzo con i capelli raccolti in una coda. L’aria era calda e profumata.
    — Signorina, le spiace chiudere la porta?
    — Come? — rispose Elena cercando di capire chi le stesse parlando.
    — La porta. Entra aria fredda.
    A un tavolo lì accanto, il più vicino alla porta di cui Elena stringeva ancora la maniglia, era seduta una coppia intenta a giocare a scacchi. L’uomo a destra, sulla trentina, con i capelli corti e il viso largo, teneva sollevato un pezzo sulla scacchiera e la guardava in attesa di una sua decisione. Il suo avversario, più giovane di almeno un decennio, continuava a fissare il gioco immerso nella sua strategia.
    Elena si accorse che anche il cameriere si era fermato e aveva girato lo sguardo verso di lei. La musica non si era interrotta, ma sembrava essersi abbassata di volume.
    — Sì, certo. Scusatemi. Scusatemi davvero — disse chiudendosi la porta alle spalle e tradendo il suo stupore nel tono di voce.
    — Non si dia pensiero; possiamo sopravvivere a uno spiffero — rispose l’uomo finendo la mossa e poi appoggiandosi soddisfatto allo schienale. — E adesso voglio proprio vedere come te la cavi.
    Elena fece due passi in avanti e si guardò attorno. Nell’ampio salone del locale si trovavano una ventina di tavoli, mentre un bancone dominava tutto il lato più lontano con alle spalle scaffali pieni di bottiglie e bicchieri. Lo stile era sobrio, anche se numerose fioriere contribuivano a dare un colore più vivace.
    — Prego signorina — disse il cameriere invitandola a sedersi a un tavolo libero.
    — Ma io non…
    — Si accomodi.
    Elena scosse lievemente la testa, ma seguì comunque le indicazioni e si sedette. Un segnaposti di vetro indicava il suo tavolo come il numero otto. Il tavolo vicino era quello degli scacchisti; il giovane non aveva ancora fatto la sua mossa, e anzi sembrava non essersi neppure mosso di un millimetro, con le dita sparse sulle tempie e lo sguardo fisso sui pezzi.
    — Cosa le porto? — il cameriere era sulla quarantina, con gli occhiali e la linea dei capelli in ritirata.
    — Io, non so.
    — Se mi permette, mi sembra infreddolita. Le posso consigliare una cioccolata calda. Quelle della signora Lucia sono ottime — un suo accenno verso il bancone, dove una signora cinquantenne e bionda armeggiava con la macchina del caffè, la identificò al di là di ogni dubbio.
    — Sì, va bene.
    L’atmosfera tranquilla e pacata del locale sembrava avere l’effetto di calmarla. Forse era l’atteggiamento di chi ci stava già, completamente distaccato dall’aria di tempesta che stava all’esterno.
    Elena alzò gli occhi verso il soffitto, aspettandosi di vedere i lampadari illuminati a diffondere la luce calda che permeava l’ambiente del Mokambo. Si stupì di vederli spenti.
    Si guardò attorno. La luce del sole penetrava, impossibile, dalle tende color arancione che ornavano le finestre.
    — Ma scusate? — disse alzandosi. Nessuno parve badare a lei.
    Si avvicinò a una finestra e sbirciò fuori sollevando l’orlo di stoffa. Il mare era calmo e il cielo era limpido, solcato da poche e piccole nuvolette bianche presso l’orizzonte, i raggi del sole passavano attraverso il vetro e le riscaldarono la mano. L’opposto di quando era entrata solo pochi minuti prima. Elena rimase qualche tempo a fissare i gabbiani che oziavano presso la riva.
    — La sua cioccolata, signorina.
    Il cameriere era tornato al tavolo e aveva appoggiato una tazza fumante al suo posto.
    — Che strano, sa che il tempo è cambiato in un attimo. Quando sono entrata stava piovendo e faceva freddo. Non le sembra strano?
    — Non so che dirle, signorina. Quando lavoro ho poco tempo da dedicare a come è il tempo all’esterno.
    Elena tornò al suo tavolo. Il profumo della cioccolata le riempì le narici promettendole dolcezza e ristoro.
    — Certo. Solo che è stato così repentino… — affondò il cucchiaino nel liquido scuro e poi se lo portò alla bocca. — È squisita. Aveva davvero ragione, grazie.
    — Sono lieto per lei, signorina. Il mio nome è Alfonso; se ha bisogno di altro, mi chiami — rispose il cameriere con un lieve inchino, prima di dirigersi verso un altro tavolo dove una coppia era intenta a sfogliare un giornale.
    Il sottofondo musicale cambiò in un tema che Elena era sicura di aver sentito in qualche film famoso, anche se il titolo, pur danzandole sul bordo della mente, non le veniva proprio. Il duo di musicisti era comunque molto bravo e affiatato, anche se per la differenza d’età potevano essere nonno e nipote.
    — Ecco, visto. Te lo avevo detto che non avevi scampo! — esclamò lo scacchista più anziano battendo le mani tra di loro. Quando Elena si voltò a guardarlo lui le rispose con un sorriso e disse: —È un bravo ragazzo, ma si distrae facilmente. Se solo stesse più attento…
    — La vuoi finire? — rispose lo sconfitto.
    — Scusami tanto Giulio, ma sto solo dicendo la verità. Se poi la verità brucia beh, non è un problema mio.
    — Crepa, Aldo — rispose l’altro alzandosi. Elena lo osservò mentre si allontanava; i gesti che tradivano un certo nervosismo.
    — Non giochi più? — gli chiese il vincitore.
    — No. Per oggi basta.
    Aldo si passò una mano tra i capelli e poi scosse la testa. —Vuole fare una partita, signorina?
    — Veramente io non so giocare molto bene. Saranno anni che…
    — Sa almeno come si muovono i pezzi?
    — Sì. Quello sì.
    — E allora venga a sedersi qui. Ha altro da fare?
    Elena si voltò verso la porta che le stava quasi alle spalle e poi passò lo sguardo sulle finestre illuminate.
    — Veramente…
    — Veramente non ha altro da fare. Forza, venga a sedersi qui.
    Elena prese la sua tazza e si spostò. Giulio si era allontanato e adesso li guardava stando appoggiato al bancone. La padrona del locale gli si avvicinò e gli porse una tazzina di caffè.
    Aldo iniziò a rimettere in ordine i pezzi, passando a Elena quelli che aveva catturato nella partita appena conclusa. Quando furono a posto la invitò a fare la prima mossa.
    — Aprono i bianchi.
    — Sì, certo — rispose lei muovendo di due caselle il pedone di fronte al re.
    — Vede. Non è così a digiuno se ha fatto come prima mossa una mossa corretta.
    — Da piccola giocavo con mio padre.
    — Certe cose non si dimenticano — disse lui spostando il pedone nero di fonte a quello di colore opposto.
    La musica cambiò ancora, anche se Elena se ne accorse solo dopo che era già iniziata. Adesso era il ragazzo con il violino che guidava la melodia, sfiorando arie d’Irlanda.
    Elena fece la sua seconda mossa spostando il cavallo e poi terminò la cioccolata. Aldo aveva accanto a sé un bicchiere pieno fino a metà di aranciata; rispose alla mossa e poi ne bevve un sorso. La partita proseguì senza molti sussulti fino a quando l’alfiere bianco non venne mangiato da un cavallo senza che potesse essere eliminato a sua volta.
    — Ops — disse Aldo. — Però non mi sembri molto rilassata, amica mia. Qualcosa che ti agita?
    Elena lo guardò seccata. Nello spazio di poche mosse era passata a darle del tu e a farle domande personali.
    — Non credo che siano affari suoi!
    Lui sollevò le mani con i palmi rivolti verso di lei.
    — Non volevo essere curioso. Facevo solo conversazione. Non so neppure…
    — Elena, ma restiamo sulla partita, va bene?
    Non ci rimasero molto. Una decina di mosse più tardi il re bianco finiva sotto scacco matto.
    — Non te la cavi così male, comunque. Vuoi la rivincita.
    Elena si alzò. — Magari un’altra volta. Adesso farò meglio ad andarmene, non voglio fare troppo tardi.
    — Nessun problema. Io sono qui.
    Elena si diresse verso il bancone, ma prima che potesse parlarle vide che la donna faceva un cenno a qualcosa che era alle sue spalle.
    — Devo pagare una cioccolata.
    — Già a posto — rispose Lucia con un sorriso.
    Elena si voltò, ma Aldo stava rimettendo ancora i pezzi nelle loro posizioni di partenza. Era comunque l’unica persona nella direzione in cui aveva guardato la padrona del locale.
    — Allora, arrivederci.
    — Arrivederci, cara.
    Quando passò accanto ad Aldo gli fece un cenno di ringraziamento, ma lui si limitò a inclinare la testa di lato.
    Elena raggiunse la porta d’ingresso attraversando le chiazze di sole che penetravano dalle finestre, ma quando l’aprì venne investita da una folata gelida e da gocce di pioggia. Prima che se ne rendesse conto la porta si era chiusa alle sue spalle e lei era a rabbrividire investita dal vento di bufera invernale.
    — Ma che cazzo? — esclamò voltandosi di scatto e rimettendo la mano sulla maniglia.
    Spinse la porta, ma questa volta non cedette. Bussò, ma nessuno venne ad aprirle. Non le sembrava neppure più di sentire della musica, anche se adesso il soffio del vento era abbastanza forte da coprirla.
    Fece il giro esterno del Mokambo senza trovare nessuna finestra da cui sbirciare all’interno. Anche la porta sul retro era chiusa e sbarrata.
    Era quasi intenzionata a proseguire nel suo tentativo di rientrare quando una folata carica di pioggia la convinse a desistere. Scuotendo la testa e chiudendo il più possibile la giacca, si allontanò lungo la spiaggia nella direzione da dove era venuta.

    Il tempo era incerto e grosse nuvole grigie solcavano il cielo.
    Elena aveva dormito poco, agitata per lo strano episodio del giorno precedente; e quell’agitazione non aveva fatto che sommarsi all’agitazione che derivava dalla sua vita personale.
    Certo che farei meglio a dimenticarmi il tutto. A non pensarci più. Dovrei lasciare perdere e basta.
    E mentre camminava sulla spiaggia, diretta verso il Mokambo, sentì agitarsi il cellulare nella tasca.
    Guardò il nome che appariva sul display e si fermò di colpo.
    Lui?
    Non rispose e continuò a non rispondere fino a quando il telefono non smise di suonare.
    Che coraggio.
    Le tornarono in mente le ultime settimane, tese e scomode; ricordi pessimi in cui aveva scoperto tante cose che non le erano piaciute. Poi, anche se controvoglia, anche se involontariamente, la sua mente scivolò verso ricordi più intensi ma anche più dolci, ricordi più felici, ma anche più decisi, che solo più tardi aveva interpretato in maniera diversa. Quando le cose avevano iniziato a rivelarsi per quelle che erano realmente ed erano esplose dalla loro finzione.
    Il cellulare suonò di nuovo.
    Un gabbiano la sorvolò chinando la testa verso di lei.
    Elena rispose.
    — Cosa vuoi?
    — Chiederti scusa, tanto per iniziare.
    — Ah.
    — Davvero.
    Elena si morse il labbro.
    — Ed è scusa per averti tradito, scusa per averti picchiato o scusa per qualcos’altro che ho fatto e che non sai ancora?
    — Sei molto dura con me — rispose lui cambiando il tono di voce.
    — Ma guarda. Forse è la prima volta che qualcuno non sta al tuo gioco e che non lo subisce?
    — Io ti ho chiamato per chiederti scusa.
    — Bene, allora addio — rispose Elena interrompendo la comunicazione.
    Dio che stupida, si disse mentre il cuore le batteva forte e lei non sapeva decidersi sul perché. O forse sì, perché aveva ancora un regalo al dito da cui non si era separata.
    Arrivò al Mokambo. Non c’era nessuno in giro e le finestre erano sbarrate come lo erano state il giorno precedente. Tutto era deserto, abbandonato come il mondo intero sapeva.
    Elena tese la mano, ma senza avere il coraggio di impugnare la maniglia; non sapeva decidersi se temeva di più il trovare la porta chiusa o aperta, se venire respinta o accettata da quella cosa impossibile che aveva visto il giorno prima. Poi, quando abbassò la mano e fece per voltarsi e tornare sui suoi passi, udì un pianoforte suonare.
    Si girò di scatto e abbassò la maniglia. E ancora una volta non trovò quello che si aspettava.
    La sala del ristorante era grande, enorme rispetto a come avrebbe dovuto essere. Dalla parte opposta alla porta c’era una serie di vetrate che si affacciavano su di un verde giardino interno inondato dai raggi del sole, mentre le pareti erano di un bianco luminoso, ornate da lampadari di cristallo e dipinti classici. I tavoli erano disposti a distanza tra loro, con preziose tovaglie di lino e candelabri dorati.
    Lucia vestiva con un completo raffinato di colore nero, completo di farfallino dai toni viola, e aveva in mano una stilografica pronta per scrivere su di un grosso registro appoggiato a un leggio. I capelli biondi erano raccolti in una coda e il suo aspetto era giovanile a dispetto dell’età.
    — Buongiorno. Ha una prenotazione?
    Elena fece due passi in avanti e sentì chiudersi la porta alle sue spalle. Quasi al centro della sala, a un pianoforte a coda, lo stesso uomo anziano del giorno precedente era intento a suonare Mozart accompagnato dal violino del giovane.
    — Io… no, credo di no.
    — Non c’è problema. Le trovo subito un tavolo libero.
    Elena vagò con lo sguardo, incredula. Il cameriere del giorno prima, in un impeccabile vestito bianco, si stava spostando con un vassoio di salumi; si avvicinò a un tavolo e iniziò a servire i due giocatori di scacchi, intenti però a discutere tra di loro senza l’ombra di una scacchiera tra di loro.
    — Prego, da questa parte — le disse Lucia.
    — Ma non capisco… mi state prendendo in giro?
    — Come, scusi?
    Elena non si mosse, ed abbassò la voce quasi involontariamente. — Ieri questo era un bar e lei era al bancone e il vecchio e il ragazzo suonavano anche se il piano era diverso e loro due giocavano a scacchi…
    — Sì è vero, mi hanno detto che gli piace giocare a scacchi, ma lei come lo sa?
    — Come lo so? — Elena si irrigidì. — Ero qui ieri e tutto era diverso, cioè uguale.
    La donna la fissò. — Si sente bene?
    Elena alzò le mani con i palmi rivolti in avanti. — Guardi, facciamo che esco e non ci pensiamo più, va bene?
    A un altro tavolo la coppia di ragazzi del giorno prima si teneva per mano; lei guardava lui con un sorriso malizioso.
    Elena arretrò fino alla porta. Giulio e Aldo si erano voltati a guardarla, un’espressione incuriosita sul volto, ma senza segno di riconoscerla.
    È lo stress, è l’agitazione per la situazione in cui mi sono cacciata.
    Tastò dietro di sé e afferrò la maniglia; poi aprì il battente e uscì arretrando sulla veranda del Mokambo. La porta si richiuse eclissando i volti di chi stava all’interno ed Elena si ritrovò sulla spiaggia.
    Il cellulare suonò di nuovo, il numero sul display sempre quello con cui chiamava lui. Elena non rispose e non osò riavvicinarsi all’ingresso, ma fuggì via piangendo, le lacrime calde che le rigavano il viso e cadevano nella sabbia.

    Un altro giorno e altre nuvole la accompagnarono lungo la spiaggia. Era mattino presto, Elena non aveva quasi dormito e aveva chiamato in ufficio per dire che non ci sarebbe andata. Non sapeva per quanti giorni sarebbe riuscita ancora a tenere in sospeso il suo lavoro; non molti a giudicare dalla voce del suo capo quando le aveva risposto.
    Ma ha senso tornare?
    Poteva tornare alla vita di prima, quando uno dei suoi colleghi era diventato proprio la causa dei suoi problemi? Anche ammesso che lei fosse riuscito a convincerlo a lasciarla stare, poteva essere un ambiente abbastanza tranquillo da trascorrere quasi metà della sua giornata? E se quella che lui si era trombato di nascosto era un’altra collega? Magari Silvia, quella vipera della contabilità?
    Un gruppo di gabbiani strideva in cielo volando nella corrente. Elena si ritrovò, senza che ne avesse avuto davvero l’intenzione, davanti al locale. Una parte di sé voleva starne lontano, temendo che tutto quello che credeva di aver visto fosse in realtà figlio di un esaurimento nervoso pronto a scoppiare, ma un’altra parte provava una curiosità da soddisfare, un’attrazione per qualcosa che non capiva. Le due parti si erano annullate e l’avevano condotta lì.
    — Devo essere davvero fuori di testa! — disse mettendo una mano sulla maniglia, ma senza abbassarla. Cercò di sentire della musica come nei giorni precedenti, ma c’era solo il rumore del vento.
    Ecco, vedi che era solo la tua immaginazione?
    Poi spinse la porta e questa arretrò, anche se non avrebbe dovuto, e lei si ritrovò, per la terza volta all’interno del Mokambo.
    L’aria sapeva di fumo e di chiuso, la luce era artificiale e fredda. Lucia, con una sigaretta che pendeva dal labbro, era appoggiata a un bancone di metallo e si stava grattando un’ascella con una pigrizia esasperata, mentre il cameriere era seduto a uno dei tavoli con aria stanca e assente. Entrambi sollevarono lo sguardo su di lei, ma senza attribuirle alcuna importanza.
    Elena fece tre passi all’interno. L’arredamento era differente da quello che aveva visto il mattino prima, così come quello del giorno prima era stato differente da quello del giorno precedente. I tavoli erano di legno, con la superficie lucida forse all’origine, ma rigata e sporca adesso; le sedie non erano tutte uguali, ma male assortite come se fossero state progressivamente recuperate da altri locali. Le tende alle finestre, scolorite e impolverate, facevano filtrare poca luce dall’esterno; erano di tessuto con banali quadrati rossi e bianchi stampati in maniera dozzinale. Il vecchio, con i capelli scarmigliati e la barba lunga, dormiva appoggiato sul piano, chiuso e ingombro di bicchieri vuoti e di bottiglie di vino; del violinista non c’era traccia.
    — Salve — disse Elena con un filo di voce.
    Nessuno le rispose.
    Al centro della sala, Aldo e Giulio giocavano a scacchi. La scacchiera era di cartone e al posto di uno dei pezzi c’era una saliera vuota. Entrambi i giocatori avevano lo sguardo spento, agganciato alla partita come se fosse l’unica cosa che restava loro nella vita, come un salvagente a cui aggrapparsi per non affogare.
    Aldo mosse un cavallo e lo mise giù a tre caselle di distanza, poi tossì fragorosamente e si guardò attorno come per cercare un posto in cui sputare. Quando vide Elena si trattenne, e si limitò a uno stanco sorriso.
    — Buongiorno cara.
    — Buongiorno Aldo.
    Lui alzò un sopracciglio in segno di sorpresa e la fissò intensamente. Giulio mosse una torre e mangiò il cavallo, ma Aldo non tornò a guardare la scacchiera.
    — Sarebbe bello se mi desse qualche spiegazione, una qualche ragione di questa, come definirla, di questa pagliacciata.
    Lui spostò la sedia in modo da poterla guardare meglio. — Credo di non capirla, signorina. Non stiamo facendo nulla di particolare.
    — Mi sta prendendo in giro? Ieri qui c’era un ristorante di lusso, tutto elegante e due giorni fa un bar, mentre adesso c’è questa… questa…
    — Bettola? Merda?
    — Non so, non capisco.
    Giulio si agitò nervosamente sulla sedia per indicare che toccava ad Aldo, ma lui lo ignorò e continuò a guardare Elena. — Non c’è molto da capire, cara mia. Certo che non è un posto di classe, anzi, è un vero schifo, ma è quello che abbiamo. Ce lo facciamo bastare.
    Sul fondo della sala la coppia di ragazzi sembrava intenta a litigare a bassa voce, gli sguardi feroci rivolti uno contro l’altro. La ragazza fece un gestaccio al ragazzo e si girò dirigendosi verso i cessi, il ragazzo si limitò ad alzare il dito medio. Elena vide il cameriere alzare la testa e annuire al passaggio della ragazza davanti a lui; lei fece un gesto osceno con la mano e la bocca e lui si alzò per seguirla. Iniziò a sbottonarsi i pantaloni ancor prima di varcare la soglia.
    Elena scosse la testa. — Io credo di stare impazzendo.
    — Non credo, la follia è ben altra cosa. È una mancanza di rispetto verso di sé e verso gli altri — Aldo mosse quasi senza guardare e portò la regina nera a ridosso del re bianco. Giulio impallidì e si alzò rassegnato mormorando qualcosa.
    — Una partita? — chiese Aldo.
    — Ma io…
    — Sa almeno muovere i pezzi?
    — Vede che mi sta prendendo in giro.
    — Io?
    Giulio era al bancone e si stava facendo fare un caffè.
    — Ho già risposo a questa domanda.
    Aldo ridacchiò e iniziò a mettere a posto i pezzi, logori e rovinati dall’uso.
    Elena si guardò attorno un’altra volta. Il locale era più piccolo del ristorante; senza la vetrata di fondo che si affacciava sul giardino, sostituita da una parete con un paio di porte e con un divanetto in pelle su cui dormiva il violinista.
    — Venite qui tutti giorni? — domandò muovendo il pedone bianco.
    — Che altro abbiamo da fare? — il pedone nero avanzò di due caselle.
    — Ma non avete una casa, un lavoro, una famiglia? — cavallo in F3.
    Aldo la guardò per un istante. — Qualcuno qui ci lavora, anche se gli affari sono quelli che sono. E se si chiede se Lucia arrotonda in qualche modo, la risposta è sì. Almeno credo.
    Elena guardò il cavallo nero saltare in C6.
    — Ma ci sono altri clienti, oltre voi?
    — Altri clienti? In effetti, se mi ci fa pensare, no. Non me ne vengono in mente altri. È una cosa strana, non è vero?
    — Strana? Non saprei — Elena ridacchiò a sua volta e spostò il suo alfiere, o meglio la sua saliera, in B5.
    Non parlarono per il resto della partita, che Aldo vinse facilmente.
    Sullo sfondo il cameriere e la ragazza erano usciti dai bagni, ma la ragazza vi era tornata trascinandosi dietro il violinista ancora rincoglionito dal sonno. Elena iniziò a domandarsi se aveva l’intenzione di farsi il giro completo.
    — Un’altra partita?
    — No. Meglio se vado. Comunque, mi chiamo Elena.
    — Piacere di conoscerti Elena.
    Si alzò e si diresse verso la porta. Vari pensieri le si stavano sovrapponendo nella mente: le sue ansie si mescolavano alle mosse di scacchi, i suoi dubbi si inserivano in domande più grandi.
    — Ci vediamo — disse senza voltarsi prima di uscire nell’aria fredda portata dal mare.
    Sì, ci vediamo.
    Il cellulare suono ancora, ma lei lo ignorò di nuovo.

    E il giorno dopo tornò e il Mokambo era ancora lì, sulla spiaggia battuta dal vento e popolata di gabbiani. E la porta arretrò come le altre volte e oltre la porta c’era una taverna che sapeva di camomilla e lavanda, dove Lucia vestiva con una gonna tirolese e Alfonso portava le bretelle e i pantaloni corti e serviva fonduta con i pezzettini di pane. E anche il pianista e il violinista erano lì, a far ballare gioiosa la coppia di ragazzi. Aldo aveva battuto ancora Giulio senza fatica e si meravigliò che Elena conoscesse il suo nome, anche se Elena non si meravigliava più che lui non si ricordasse il suo. E giocarono a scacchi ed Elena perse ancora, anche se si stava rendendo conto di quali fossero le mosse che sbagliava. E dopo aver giocato parlarono a lungo, un poco come se fossero stranieri che si scoprono e un poco come se fossero amici che si conoscono da tempo.
    — Mi spiace, ma devo andare. Si fa tardi — disse Elena, guardando un orologio a cucù alla parete.
    — Spero tornerai.
    — È possibile — rispose lei con un sorriso, anche se dentro si agitava qualcosa di confuso.
    — Beh, io lo spero.
    Elena questa volta chiuse la porta alle sue spalle a malincuore. Guardò il telefono a cui aveva zittito la suoneria, ma senza più preoccuparsi di chi potesse telefonarle. O meglio, sapeva chi la stava cercando, ma non le importava più.
    Forse è così che si superano le cose.
    Tornò a casa, ma senza accorgersi che qualcuno la aspettava a metà strada e che si mise a seguirla senza più perderla di vista.

    Non si era neppure preoccupata di telefonare in ufficio per dire che non ci sarebbe andata; semplicemente decise di ignorare il problema e invece si recò in comune, dove attese che un impiegato svogliato la ricevesse.
    — Se vuole una licenza d’esercizio non deve rivolgersi a me, però — le disse dopo averla ascoltata.
    Elena si morse un labbro; aveva inventato una storia per evitare domande a cui non poteva avere risposte, ma il suo scopo non era quella di aprire o rilevare un locale, ma di ottenere semplicemente qualche informazione.
    — È vero, grazie, ma prima di investire dei soldi, e si tratta dei miei soldi, vorrei saperne qualcosa di più. Vorrei evitare sorprese.
    L’impiegato la fissò per un attimo, poi alzò le spalle e richiamò dei dati al computer.
    — Allora, qui risulta che la proprietà del locale, che risulta chiuso, sia in mano a una agenzia immobiliare di Milano da circa dieci anni e che sia stata comprata da un’altra agenzia di Milano. Non ci sono altri dati trascritti. Le posso dare il nome, ma per l’indirizzo o il telefono deve rivolgersi al registro delle imprese.
    Elena si piegò in avanti.
    — Ma ci sarà qualcosa che ne parla in maniera più completa, che dice se qualcuno del luogo lo possedeva o lo dirigeva.
    — Ah, magari è in qualche fascicolo nel seminterrato. Se fossimo un comune serio qualcuno verrebbe pagato per informatizzare tutto, ma se fossimo un comune serio si pagherebbero di più gli impiegati.
    — Non parla di una signora Lucia? Oppure di un Aldo?
    L’impiegato scosse la testa seccato.
    — No. Qui non dice nulla. E poi sono solo dei nomi propri. Conosce i cognomi?
    — No, mi spiace.
    — E allora?
    Elena si alzò. — La ringrazio. Adesso è meglio che vada.
    — Non vuole più il nome dell’agenzia?
    — Ah, sì. Ha ragione.
    L’impiegato fece un appunto su di un foglietto e lo porse a Elena. — Comunque, il mio consiglio è di lasciare perdere. Se nessuno si è più preoccupato di riaprirlo, vuol dire che non ne vale la pena. Così abbandonato da anni, verrà un momento in cui crollerà qualcosa e interverranno i vigili; forse allora l’amministrazione si sveglierà per farlo demolire e rilevare il terreno per farci costruire un condominio. In effetti è strano che quel tratto non sia già del comune.
    Elena prese il foglio e fece per andarsene, ma l’uomo le fece ancora una domanda. — Ma le persone di cui chiedeva. È qualcuno che conosce?
    — No. Nessuno che conosco.

    Elena era combattuta. Una parte di lei voleva cercare di scoprire qualcosa e di saperne di più. Avrebbe potuto contattare l’agenzia, anche se non era sicura di che domande fare; se nessuno si era preoccupato di acquistare il Mokambo, forse non sapevano neppure di averlo. Però lo riteneva anche una perdita di tempo, qualcosa di non importante; mentre rimaneva sempre più attirata, giorno dopo giorno, dal locale e dai suoi occupanti, tutte cose che la spingeva a percorrere la spiaggia fino a raggiungerli.
    Il pallido sole di mezzogiorno disegnava qualche ombra sulla sabbia e sembrava farsi assorbire dalle pareti bianche dell’edificio.
    E poi, è possibile che accada solo a me?
    Possibile che fosse stata solo lei a cercare di entrare? Possibile che quello che lei sperimentava non fosse accaduto ad altri? Il Mokambo esisteva, come costruzione; su questo non sembrava esserci dubbio, ma quello che c’era dentro? Ma in fondo lei che ne sapeva?
    Si avvicinò all’ingresso mentre ipotesi folli le vagavano in mente. Avrebbe magari preferito scoprire che era bruciato con dentro i clienti e quegli stessi clienti lo abitavano come dei fantasmi giorno dopo giorno? Bella logica quella; degna di un telefilm di tarda serata.
    Appoggiò la mano alla maniglia, ma prima di piegarla vide un movimento con la coda dell’occhio. Si girò e si accorse di non essere sola e che qualcuno l’aveva seguita.
    — Che cosa vuoi?
    Lui si fermò e rimase in piedi nella sabbia, a una decina di metri di distanza.
    — Solo parlarti.
    — Non abbiamo nulla da dirci. Non voglio parlarti, e tanto meno vederti.
    — È per questo che non sei più venuta in ufficio.
    Elena guardò la spiaggia. Era deserta tranne che per loro due. Provava un poco di paura, ma non voleva farla vedere.
    — Non puoi semplicemente lasciarmi in pace?
    Lui fece un passo in avanti. — Io non voglio che finisca qui, stavo bene con te.
    Elena gli rise in faccia. — Che coraggio. Stavi così bene, da aver bisogno di andare a letto con un'altra? E stavi così bene che quando l’ho scoperto mi hai picchiata, quasi che fosse colpa mia.
    — Lasciami spiegare, Elena.
    — Non voglio sentire spiegazioni. Non voglio nulla.
    — Ma devi ascoltarmi, perché io ti amo e non voglio perderti.
    I gabbiani volteggiavano nel cielo.
    Con la mano dietro la schiena provò ad abbassare la maniglia, ma questa scattò a vuoto, senza aprire la porta. La prese un vuoto allo stomaco.
    — Non è amore il tuo. Non lo è. L’amore è un’altra cosa.
    Lui fece un altro passo verso di lei. Elena ebbe un brivido che non era di freddo; forse una volta avrebbe desiderato farsi stringere, farsi raggiungere e farsi abbracciare, quando le promesse erano tante e il futuro un sogno da concretizzare; ma non più dopo quello che era successo.
    — Elena.
    — Lasciami in pace. Vattene e lasciami stare. Non voglio più nulla da te.
    — Ma porti ancora l’anello che ti ho regalato.
    Lei se lo tolse e lo fece cadere. Si pentì quasi subito del gesto.
    Lui si fermò e cambiò espressione.
    — Sai che, pensandoci, forse la colpa è proprio tua? Sei tu che mi hai costretto ad andare con Silvia e poi hai ancora avuto da dire. Proprio come adesso.
    Lei si spinse con le spalle alla porta, senza dire quello che pensava in quel momento di lui nella speranza di non far precipitare ancor di più la situazione.
    Non avrei dovuto finire qui in questa spiaggia deserta. Non avrei dovuto illudermi di aver trovato qualcosa.
    — Se non vuoi tornare da me, allora non mi meriti — disse lui, avvicinandosi ancora di più.
    — Ecco, allora perché non…
    — Ma questo non vuol dire che io voglia rinunciare a te o che tu non meriti di essere punita per quello che mi stai facendo passare — la interruppe facendosi più vicino.
    Elena abbassò ancora la maniglia in preda alla disperazione, e quasi cadde all’indietro quando la porta arretrò di colpo. La sua intenzione era di riuscire a richiuderla prima che entrasse anche lui, ma non fu abbastanza veloce, perché il suo braccio bloccò il battente e lo spinse all’indietro con forza.
    Lei arretrò e urtò un tavolo, che emise un gemito strisciando sul pavimento. Qualcosa di pesante che si trovava sul piano, cadde.
    — Aiuto, aiutatemi — disse, ma la voce le si troncò quando si voltò per guardare il locale.
    Era deserto. Tutto l’ambiente era immerso nella penombra; e solo pochi sprazzi di luce provenivano da dei lucernari sul soffitto e da qualche spiraglio tra le tavole che chiudevano le finestre. I tavoli erano ricoperti di polvere e le sedie erano accatastate contro una delle pareti. Il bancone sembrava opaco e dietro di esso si intravedevano solo alcuni bicchieri lasciati indietro perché di poco valore.
    C’era solo silenzio tranne i loro respiri: quello di lui ancora più affannato di quello di lei.
    — Ah, chiederesti aiuto a chiunque tranne che a me, vero? Speri che qualche fantasma appaia in tuo aiuto forse?
    Elena si girò e cercò di farsi largo tra i tavoli, ma lui la raggiunse e la spinse facendola cadere a terra.
    — E adesso, brutta zoccola?
    Avrebbe voluto girarsi, ma lui, standole sopra, non glielo permetteva. Il braccio sinistro era bloccato sotto di lei, mentre il destro annaspava tra la polvere del pavimento.
    — Allora? — la voce di lui era secca e piena d’ira.
    La sua mano trovò qualcosa e lo strinse. Se fino a quel momento era rimasta rigida, cercando di lottare, si lasciò andare e questo sembrò cogliere di sorpresa chi la stava assalendo.
    Si girò e lo colpì con il segnaposti di vetro poco sotto la tempia e con tutta la forza che riuscì a dare. Lui si tirò indietro e poi iniziò a scivolare di lato, intontito, ma ancora cosciente. Questo fu sufficiente per permettere a Elena di liberarsi e di dirigersi di nuovo verso l’ingresso, che era rimasto spalancato a mostrare mare e spiaggia nel cuore dell’inverno.
    Qualcosa la prese alla caviglia ed Elena cadde di nuovo. Quando si voltò vide che lui stava sanguinando, e che sul suo volto era dipinta un’espressione feroce e incattivita.
    Provò a scalciare più volte, mancandolo tutte.
    La porta non era lontana, ma lui, così aggrappato, la faceva sembrare irraggiungibile.
    Elena annaspò e iniziò a strisciare verso l’ingresso, trascinandosi lui dietro e cercando di impedirgli di prenderla in maniera più salda. La caviglia le faceva male.
    Se riesco ad arrivare all’esterno.
    Giunse alla porta e tese il braccio per afferrarla proprio mentre lui si alzava su di un gomito e guadagnava su di lei abbastanza per crollarle sulle gambe. La mano di Elena urtò il battente, che andò lentamente a richiudersi e a far svanire la luce che proveniva dall’esterno.
    Poi lui le fu ancora addosso, il fiato misto alla bava e al sangue che le colavano sulla schiena. Le mani le presero il collo e le fecero sbattere la testa sul pavimento una volta e un’altra ancora. La vista le si annebbiò e i rumori che facevano parvero svanire, sostituiti da un ronzio che pareva coprire le note di un piano.
    Non ora.
    E in quel momento a Elena parve che l’illusione fosse tornata.

    Gocce d’acqua le bagnavano il viso e qualcosa di umido le copriva la fronte.
    — Mi senti? — disse una voce lontana.
    Elena aprì gli occhi e vide piegati su di lei Aldo e Lucia, le espressioni preoccupate sui volti.
    — Sono morta?
    — Dio mio, spero proprio di no — rispose Lucia spalancando gli occhi — E soprattutto spero non nel mio locale.
    — Vuoi alzarti? — chiese Aldo.
    Elena annuì, anche se la testa le faceva male.
    — Va bene, ma fai piano.
    La aiutarono a sollevarsi e le offrirono una sedia.
    Il Mokambo era illuminato come in altre occasioni, anche se l’arredamento era ancora una volta differente. Il pavimento era di legno scuro e le zone del locale erano divise da parapetti simili a quelli di una nave. Il soffitto era più basso del solito e da esso pendevano reti e vele, mentre colonne simili ad alberi salivano al soffitto accompagnate dal sartiame. Alle pareti erano appese delle carte nautiche o dei pesci trasformati in trofei. In un angolo un enorme calamaro indicava le cucine.
    Ed erano tutti lì. Non solo Aldo e Lucia, ma anche Giulio accanto a una scacchiera, i due musicisti con i loro strumenti e la coppia di ragazzi. Alfonso, invece, era in disparte sullo sfondo, accanto a una porta che dava sul retro del locale. Era vestito come un marinaio d’altri tempi.
    — Ma cosa è successo? Lui…
    Aldo scosse la testa. — Lo abbiamo sbattuto fuori. Non ti stava trattando per niente bene, sai.
    Elena si tastò la testa e sentì dolore non appena lo fece.
    — Io, non capisco.
    — Quando siete entrati lui ti stava inseguendo. Siamo intervenuti subito, ma ha fatto a tempo a farti cadere e a picchiarti. Meno male che siamo in tanti, perché è un tipo violento. Una certa lezione gliela abbiamo data, però.
    — Da certa gente bisognerebbe stare lontani — aggiunse Lucia.
    — Sì, temo che abbiate ragione. Purtroppo non si finisce mai di conoscere la gente.
    — È vero. Ma adesso non te ne devi più preoccupare. E Alfonso starà attento a che non rientri.
    Elena si alzò. La testa le girava. — Dal retro?
    — Certo. Non è certo il tipo che meritava di uscire dalla porta principale.
    Andò fino a quella porta, Alfonso fece per fermarla, ma lei con un gesto gli chiese di non farlo.
    Oltre c’è la strada, c’è un parcheggio. E poi la ferrovia e la zona industriale. Ci sono passata tante volte.
    Aprì la porta. Oltre c’era un intrico di vicoli, stradine strette fra case antiche che non conosceva e che non aveva mai visto. L’abitato si inerpicava per una collina dominata da un vecchio castello. Richiuse la porta sicura dentro di sé che il giorno dopo il panorama sarebbe stato diverso e che lui non avrebbe più potuto farle del male.
    — Vuole qualcosa? Un tè, magari? — le domandò Lucia.
    — Tante cose, ma adesso mi accontenterò del tè.
    Elena si avvicinò al tavolo e chiese a Giulio di lasciarle il posto.
    — Posso?
    — Prego.
    Aldo la guardò e poi ammiccò alla scacchiera.
    — Una partita?
    — Volentieri, anche se non sono molto brava.
    — Sa almeno muovere i pezzi?
    — Quelli sì. Non c’è problema.
    Aldo le si sedette davanti. — Non vorrei che se la prendesse troppo se perde.
    — Tranquillo Aldo, puoi sempre darmi la rivincita domani.
    Lui rimase sorpreso del fatto che sapesse il suo nome e abbozzò un sorriso. — Sempre che io sia ancora qui.
    — Sono abbastanza sicura di sì. Comunque io ci sarò.
    Anche se conosci la porta che apri, ma non saprai mai veramente dove ti conduce.

    Edited by Alberto Priora - 13/6/2009, 15:13
     
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    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Se non capite qual'è, ve lo dico dopo...

    Lo so che questo non fa parte del racconto ma... ARGH! "Qual è" non si scrive con l'apostrofo! :angry:

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Dal mare arrivava una brezza gelida che pareva spingere ancor di più le onde, costringendole a farle risalire di controvoglia la riva.

    Mi sfugge "ancor di più" rispetto a che cosa, ma soprattutto credo ci sia un "farle" di troppo alla fine della frase

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    — E v-a-f-f-a-n-c-u-l-o! — disse scandendo le lettere una a una quando gli vennero in mente

    quando le vennero in mente, presumo sia donna Elena ^_^.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    — Sì, certo. Scusatemi. Scusatemi davvero — disse Elena chiudendosi la porta alle spalle e tradendo nella sua voce il suo stupore.

    "Elena" lo toglierei, non serve ed è la terza volta che viene nominata in tre righi

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    il giovane non aveva ancora fatto la sua mossa, e anzi sembrava non essere neppure mosso di un millimetro,

    Immagino sia un refuso, "essersi"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    — Sono lieto per lei, signorina. Il mio nome è Alfonso; se ha bisogno di altro, mi chiami — rispose il cameriere con un lieve inchino prima di dirigersi verso un altro tavolo in cui una coppia era intenta a sfogliare un giornale.

    "a cui", ma in questo caso, caso strano, meglio ancora "dove" ^_^

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Aldo aveva accanto a se

    "sé"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Certo che farei meglio a dimenticarmi il tutto. A non pensarci più; né a una cosa che all’altra.

    "né... che"? :huh:

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Dio che stupida, si disse mentre il cuore le batteva forte e lei non sapeva decidersi del perché.

    Quel "del "dovrebbe essere un "sul", ma perché non semplicemente "decidere perché"?

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    non sapeva decidersi se temere più il trovare la porta chiusa o aperta su ciò di impossibile che aveva visto il girono prima.

    È terribilmente contorta questa frase @___@
    A parte il refuso ("girono" al posto di "giorno"), io la riscriverei.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Elena fece due passi in avanti e sentì chiudersi la porta alle sue spalle. Quasi al centro della sala, a un pianoforte a coda, lo stesso uomo anziano del giorno precedente era intento a suonare Mozart accompagnato da violino del giovane.

    Hai perso una "l" per strada, "dal" ^__^;

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Elena vagò con lo sguardo, incredula. Il cameriere del giorno prima, vestito con un impeccabile vestito bianco, si stava spostando con un vassoio di salumi; si avvicinò a un tavolo e iniziò a servire i due giocatori di scacchi, intenti però a discutere tra di loro senza l’ombra di una scacchiera tra di loro.

    Troppe ripetizioni qui: vestito/vestito, tra di loro/tra di loro
    Tra l'altro ci sono anche troppi "di" superflui in questa parte, sarebbe più agevole "scrivere su un registro", "discutere tra loro" e via dicendo.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Il cellulare suonò di nuovo, il numero sul display sempre quello con cui chiamava lui. Elena non rispose e non osò riavvicinarsi all’ingresso, ma fuggì via piangendo, le lacrime calde che le rigavano il viso e cadevano nella sabbia.

    Il "che" è di troppo

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Poteva tornare alla vita di prima, quando uno dei suoi colleghi era diventato proprio la causa dei suoi problemi? Anche ammesso che lei fosse riuscito

    "riuscita"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    E se quella che lui si era trombato di nascosto era un’altra collega?

    "fosse stata un'altra..."

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Una parte di sé voleva starne lontano,

    "Una parte di lei voleva starne lontana"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Ecco, vedi che era solo la tua immaginazione.

    Non dovrebbe essere una domanda?

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Poi spinse la porta e questa arretrò anche se non avrebbe dovuto e si ritrovò, per la terza volta, all’interno del Mokambo.

    Metterei "che" al posto di "e questa", se no il soggetto della seconda proposizione diventa "la porta".

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    L’aria sapeva di fumo e di chiuso, la luce era artificiale e fredda. Lucia, con una sigaretta che pendeva dal labbro era appoggiata

    Ci vuole una virgola dopo "labbro"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    L’arredamento era differente da quello che aveva visto il mattino prima, così come quello del giorno prima era stato differente da quello del giorno precedente.

    C'è qualcosa che non mi torna in questa frase... ^___^;;
    Forse sarebbe meglio togliere "del giorno prima", altrimenti di primo acchito dà l'idea che ci siano quattro momenti diversi e non tre.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    se fossimo un comune serio pagherebbe di più gli impiegati.

    Chi è il soggetto di quel "pagherebbe"? Non si accorda con niente di quanto lo precede.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Elena era combattuta. Una parte di sé

    "Una parte di lei"

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Però un’altra parte di sé

    Come sopra.

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Elena abbassò ancora la maniglia in preda alla disperazione, e quasi cadde all’indietro quando questa arretrò di colpo.

    "questa" immagino sia la porta, ma non viene menzionata da nessuna parte, così com'è stai parlando della maniglia

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    Elenca annaspò

    Refusino... :rolleyes:

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    In un angolo un’enorme calamaro indicava le cucine.

    Apostrofo di troppo

    CITAZIONE (Alberto Priora @ 7/6/2009, 23:41)
    L’abitato di inerpicava per una collina dominata

    Altro refuso, "si"

    A parte le cose da rivedere (sicuramente qualcuna me la sono persa per strada perché ricordo che ne avevo notate altre) è un bel racconto, molto affascinante, se non fosse per qualche frase convoluta e per le varie correzioni necessarie gli avrei dato un 4, ma mi limito a 3.
     
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    Amante Galattico

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    sono sinceramente preoccupato dalla quantità di refusi, dato che ieri sera ho passato tutto il tempo tra la mia eliminazione ai quarti (ed erano le 21 e 15) e il post alle 23 e 40 a rileggerlo con in mente la bacchetta di Federica...
    OK che ho sistemato il finale che non avevo chiuso nel pomeriggio, ma poi che caspita ho riletto!!!!!
    O è il correttore di word che mi frega....

    Ringrazio subito CMT per la deliziosa attenzione e anche per il voto...
     
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    Losco Figuro

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    CITAZIONE (Alberto Priora @ 8/6/2009, 17:13)
    :(
    sono sinceramente preoccupato dalla quantità di refusi, dato che ieri sera ho passato tutto il tempo tra la mia eliminazione ai quarti (ed erano le 21 e 15) e il post alle 23 e 40 a rileggerlo con in mente la bacchetta di Federica...

    E questo spiega tutto, stavi pensando ai quarti ancora :lol:
    (comunque il correttore di Word è una minaccia per l'umanità, questo è assodato -_-)
     
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  5. federica68
     
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    CITAZIONE (Alberto Priora @ 8/6/2009, 17:13)
    con in mente la bacchetta di Federica...

    chi mi evoca??
    :shifty:
    vedo comunque che sono stata sostituita egregiamente :woot:


    stampa su carta, Alby, che i refusi si vedono meglio :sospysi:

    bacio
     
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  6. rehel
     
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    Bellissimo racconto, atmosfera sublime.
    Per me è da 5 o 6, magari 7.
    Voto 4, non posso altrimenti.
    Io segnalo solo una cosuccia:
    ....Disse scandendo le lettere a una a una...
    Ecco, credo sarebbe più naturale per una persona scandire le sillabe a una a una. Prova ad alta voce. :sunglass:
    Un dubbio...
    SPOILER (click to view)
    Lei è morta, vero? Uccisa dall'ex... o sbaglio?
     
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  7. Alessanto
     
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    Bello.
    Forse un pò prolisso ma si sente davvero poco.
    Personaggi e ambietazione splendidi.

    Solo due segnalazioni:
    un "torno" al posto di un "tornò" da qualche parte all'inizio
    e poi nella frase "il bavero della giacca rialzato in modo da proteggersi dal tempo invernale" non sarebbe meglio "il bavero della giacca rialzato per proteggersi dal tempo invernale"?

    Per il resto il voto è 4.
     
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  8. Snow2
     
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    "ricordi più felici, ma anche più decisi", questa mi ha lasciato un po' perplesso.

    “Anche se conosci la porta che apri, ma non saprai mai veramente dove ti conduce.” Quel "ma"? Se è una citazione da qualcosa ok, altrimenti mi suona un po' strano.

    Trovo poco da dirti, davvero un bel lavoro! Complimenti :D

    Certo ora la curiosità pizzica... Vogliamo leggere gli altri racconti della serie! :sisi:

    VOTO 4
     
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  9. rehel
     
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    E' vero! :o:
    Il vizio capitale... quale è? Io non l'ho capito. :unsure:
     
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  10. silente2.0
     
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    E’ molto affascinante, per via del continuo alternarsi di quest’atmosfera marittima – descritta con perizia, sembra quasi di sentire il profumo di salsedine – e delle strane manifestazioni nel Mokambo. Crei un contesto credibile, adatto per il ritmo lento e riflessivo.

    L’intreccio è raccontato in maniera calma, pacata, c’è ampio spazio per le descrizioni e per tratteggiare i vari personaggi. Ottima padronanza lessicale, come sempre. Dialoghi credibili e realistici, non esagerati, non fuori luogo, nel numero e nella misura giusta.
    Il racconto però un po’ prolisso. Servirebbe togliere, tagliare, qua e là, non per rinvigorire il ritmo, ma per accorciare, per quanto possibile, una vicenda che non offre grande curiosità.
    Bello il finale, con quel dialogo chiarificatore/spiazzante di Lucia in cui dice che spera che la protagonista non sia morta nel suo locale.

    La trama non fa dell’originalità il suo punto di forza. Il rapporto tra lei/lui è reso bene, comprese le continue reazioni/sensi di colpa di lei. Per quanto riguarda il Mokambo, invece, non ci vuole poi molto per farsi un’idea circa la logica che lo muove. Piace il continuo alternarsi di situazioni e il continuo scambio di ruolo dei suoi clienti, ma in fondo non c’è sorpresa, non c’è stupore. Accade quello che ci si aspetta. Per carità, è narrato in maniera eccellente, ma forse ci si trova a un livello di prevedibilità troppo alto.

    Bene i personaggi, soprattutto lei, distrutta dal rapporto che la lega al marito. Benissimo certi piccoli particolari, come quando una delle ragazze del bar si porta cameriere e violinista in bagno.

    In conclusione, stile splendido, ma che avrebbe colpito di più in una storia un po’ meno ordinaria, per quanto suggestiva. :)

    Dico 2, signora Alberta (o signorina? :huh: )
     
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  11. Daniele_QM
     
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    Alberto, questo racconto è forse il migliore che ho letto dei tuoi. Atmosfere da primi del 900, surreali, personaggi indimenticabili, pennellati con tratti da impressionista. Questo è uno di quei racconti che ti restano dentro, so che lo ricorderò anche col passar del tempo. Magari in un'altra vita, in un altro posto... ma ci sarà sempre il Mokambo.
    ;)
    ps
    4!
     
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  12.  
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    Ringrazio tutti i lettori e appena possibile rispondo a tutti i commenti.

    Però uno dei "molto apprerzzanti" si è dimenticato di mettere il suo 4 :lol:
     
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  13. Alessanto
     
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    CITAZIONE (Alberto Priora @ 10/6/2009, 14:02)
    Ringrazio tutti i lettori e appena possibile rispondo a tutti i commenti.

    Però uno dei "molto apprerzzanti" si è dimenticato di mettere il suo 4 :lol:

    ehhh!
    Come sei pignolo!
    Non ti bastava il commento. Pure il voto!
    Ufff...
    OK. Ecco fatto.
    Contento?

    :lol:
     
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  14. VdB
     
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    Ciao Alberto!
    SPOILER (click to view)
    Recito fuori dal coro... Ero tentato di leggere e non commentare, mi piace il tuo stile, lo apprezzo molto, è per questo che mi permetto di inserire ciò che penso di quanto ho letto: bella la storia ma la scrittura mi sembra affrettata, e non solo per i refusi. Mi permetto di farti qualche esempio (in corsivo metto anche come girava la frase per me, soo che non si dovrebbe, però magari puoi ragionarci su):
    CITAZIONE
    Un gruppo di gabbiani era impegnato a zampettare sulla battigia. Quando vide arrivare la donna smise di farlo e, seccato, si spostò in acqua, dove rimase a galleggiare dondolandosi mentre berciava in segno di protesta.

    Questa è una delle frasi (ce ne sono diverse, anzi, molte) costruite con troppe parole: eccesso di informazioni, che appesantiscono, a mio avviso, la narrazione
    Un gruppo di gabbiani zampettava sulla battigia. All’arrivo della donna, seccati, si spostarono in acqua, dove rimasero a dondolarsi e a berciare in segno di protesta.
    CITAZIONE
    il bavero della giacca rialzato in modo da proteggersi dal tempo invernale e i capelli lunghi e biondi che si agitavano nel vento

    ‘sta frase messa così (senza virgole) è strutturata male, oltremodo lunga, con un cambio di soggetto e di significato: il bavero alzato oltre a proteggere dal tempo mica protegge i capelli.
    il bavero della giacca rialzato per proteggersi dal tempo invernale, i capelli lunghi e biondi agitati dal vento
    CITAZIONE
    Strinse i pugni con forza, piantandosi le unghie nella carne nel buio delle proprie tasche, ma si interruppe quando sfiorò la stoffa con il bordo di un anello che non si era ancora decisa a togliere.

    Frase che non rende appieno il gesto anche a causa di una lunghezza eccessiva.
    Strinse i pugni con forza nelle tasche, piantandosi le unghie nella carne, si interruppe quando il bordo dell’anello, che non si era ancora decisa a togliere, sfiorò la stoffa.
    CITAZIONE
    Rinunciò ancora una volta a sfilarselo dal dito e a scagliarlo lontano da sé;

    “da sé” è superfluo e secondo me anche “dal dito”...
    Rinunciò ancora una volta a sfilarselo e a scagliarlo lontano;
    CITAZIONE
    uno stato d’animo che le sembrava lontano e per sempre irraggiungibile. Il vento si impossessò della lettere e si portò lontano l’intera parola.

    Refuso: delle lettere
    Ripetizione lontano-lontano
    uno stato d’animo che le sembrava per sempre irraggiungibile. Il vento si impossessò delle lettere e si portò lontano l’intera parola
    oppure
    uno stato d’animo che le sembrava lontano e per sempre irraggiungibile. Il vento si impossessò della lettere disperdendole.
    CITAZIONE
    Un mulinello di sabbia si attorcigliò sui suoi passi ed Elena sollevò lo sguardo: dove terminava la spiaggia e iniziava la striscia d’asfalto c’era un locale con le imposte sbarrate. I suoi muri bianchi erano ornati di tasselli colorati a formare mosaici dozzinali di soggetti marini, mentre robuste catene bloccavano delle sedie e dei tavolini impilati e sovrapposti, ma ormai corrosi dalla salsedine al punto da essere inservibili.

    Altra frase (troppo) elaborata
    ps doppio suoi-suoi, non necessario il secondo
    Un mulinello di sabbia si attorcigliò sui suoi passi, Elena sollevò lo sguardo: dove iniziava la striscia d’asfalto, oltre la spiaggia, c’era un locale con le imposte sbarrate. I muri, bianchi, erano ornati da mosaici dozzinali, i tasselli a formare dei soggetti marini; delle robuste catene bloccavano le sedie e i tavolini impilati, corrosi dalla salsedine e ormai inservibili.
    CITAZIONE
    In alto c’erano le lettere dei neon, spenti da tempo, che ne recitavano il nome: Mokambo.

    Il termine lettere l’hai usato qualche riga più su, potresti ometterlo, si capisce leggendo per intero la frase, inoltre il “recitavano” mi suona davvero male: un’insegna recita?
    In alto, dei neon, spenti da tempo, ne formavano (fissavano) il nome: Mokambo.
    CITAZIONE
    Elena non si ricordava di aver mai visto aperto quel locale. Le sembrava che fosse chiuso da sempre, dopo un qualche fallimento di cui non aveva mai sentito notizia, ma che si accorgeva di aver sempre dato per scontato.

    Altra frase criptica e sovrabbondante (ps doppio sempre):
    Non potresti chiudere la frase prima di “ma che si accorgeva di aver sempre dato per scontato”?
    Elena non si ricordava di aver mai visto aperto quel locale, chiuso da sempre dopo un qualche fallimento di cui non aveva mai sentito notizia.
    CITAZIONE
    Nessuno aveva ritenuto che fosse un affare investire dei soldi per riaprire un bar ristorante in quel posto.

    Altro sovrabbondanza
    Nessuno aveva ritenuto che fosse un affare riaprire un bar ristorante in quel posto.
    Potrei continuare (gli esempi sono relativi solo alle prime righe) ma è chiaro che il racconto è stato scritto da poco e non gli è stato dato il giusto tempo per sedimentare... peccato, ma se ci torni su tra qualche mese ne verrà fuori un lavoro ottimo, degno del tuo ottimo stile! (si lo so c’è la ripetizione di ottimo, ma nel tuo caso è giusto ripetersi).
    Magari il mio intervento ti avrà soltanto irritato, il mio spirito era di rendermi utile (lo dico in piena onestà), meglio una critica costruttiva che elogi gettati al vento (magari fatti per amicizia o chessò io...). È una gran bella storia ma credo che ci sia da lavorarci su.

    Saluti
    Van
     
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    Allora, qualche risposta in Spoiler, così non influenzo gli altri:
    ehi tu che non hai ancora letto il mio racconto, che sbirci qui? :corpa:

    SPOILER (click to view)
    Premessa: io questo racconto l'ho sognato, o meglio ho sognato proprio un locale (non era sulla spiaggia come l'ho messo) in cui ogni volta che riaprivo la porta era diverso all'interno, finché non la aprivo a rovescio - con i cardini che si spostavano dall'altra parte - e tutto era vuoto e abbandonato.
    Ho pensato di farne subito un racconto.
    Magari un po' in fretta... anche se non così in fretta. Di sicuro devo stare più concentrato, se ancora mi scappano così tanti erori.

    Il vizio mi pareva facile da capire... altrimenti andate per esclusione...

    Cominciamo dai "buoni" :P
    @Rehel
    Grazie. Troppo buono.
    In effetti la scansione delle lettere non è indovinatissima come resa, o meglio io l'ho immaginata proprio così, con lei che scandisce la parola poco alla volta, molto lentamente (tanto è sola) e non tutta insieme e non una sillaba alla volta. Quindi meno che a sillabe e più che a lettere. Prova a farlo
    Fatto?
    Altrimenti minaccio di mettere un "lentamente" :lol:

    No, lei non è morta. Ho volutamente cercato di esorcizzare l'ipotesi sono dei fantasmi e lei diventa uun fantasma, citando l'ipotesi nel racconto.
    Io la vedevo proprio come una porta su un altro mondo, su di un'altra realtà. Anche se l'importante, per il personaggio, non è tanto una realtà specifica, ma il continuare a sperare che sia qualcosa di diverso, il poter continuare a sperare una vita diversa
    [minchia che pensiero profondo :lol: ]

    @Alessandro
    Anche tu troppo buono. Grazie per il refuso che mi è sfuggito. Invece sul bavero secondo me ci può stare (anche se tendo a usare troppe volte "in modo che")

    @Snow2
    No, non è unaserie; è un racconto che potrebbe essere molto più lungo... ma fose così sarebbe esagerato. O magari un seguito mi viene in mente ^_^
    La frase con il ma ha un suo senso messa alla fine del racconto, quando diventa un pensiero della protagonista (mentre all'inizio è un poco spiazzante, vero, ma l'ho fatto apposta)

    @Daniele
    Di sicuro è un racconto più sull'atmosfera che sulla trama, e molto di più sui personaggi. Sono felice che ti sia piaciuto.


    Passiamo ai "malvagi" :lol:

    @Silente
    Grazie per gli apprezzamenti.
    In effetti hai trovato il lato debole del racconto. E ne ero consapevole anche io... quindi poche palle. Lo so che per certi versi è tirato, e che non voleva rivoluzionarsi a ogni capitolo, ma so anche che in 40k ci stava stretto. E pensa che all'inizio volevo usare molto di più tutti gli altri personaggi e intrecciare le loro storie. Forse così avrei cambiato le carte in tavola, e dare quei guizzi che cerchi, invece ho potuto farlo poco. E invece si fa presto a esaurire lo spazio. Considera che per una volta ho iniziato il finale, l'assalto di lui, a 27k. Altre volte avrei condensato tutto negli ultimi 2000 caratteri.
    Un'altra cosa: lui non è il marito, ma solo il fidanzato. So che sembrava così e mi pareva di aver corretto le parti che lo potevano far pensare.

    @VdB
    Malvagio, malvagissimo :P
    seriamente non potrei mai sentirmi irritato per una analisi così attenta, al limite posso non essere d'accordo. Diciamo che non sono d'accordo, ma per impostazione e non tanto nel merito degli appunti che fai.
    Ma comunque un grazie per lettura e commento

    Allora, sui refusi ti do ragione, ma non è fretta, ma stanchezza. Sono probabilmente troppo stanco e vado in automatico quando scrivo la sera o la notte, con il risultato di metterci dei refusi... e pensa che molte parole le correggo...

    Sulle frasi non sono d'accordo, nel senso che è il mio stile per dare atmosfera. Vero che a volte è prolisso, però messe come hai messo tu le frasi, mi sembrano al contrario troppo scarne, troppo dirette.
    E ci hai messo pure degli incisi... però io sono refrattario agli incisi in questo periodo.
    Il che non è un "io scrivo così, ciccia" che è una vaccata. Solo che lo sentirei meno mio...e poi dipende dal ritmo del racconto anche; però prometto di provare a scrivere il prossimo in stile più diretto.

    E quel paio di ripetizioni, sì sono ripetizioni che mi sono sfuggite.

    Comuqnue mi segno le tue segnalazioni e vedo di rifletterci sopra dopo USAm, ma prima di archiviare il racconto tra i possibili candidati a futuri concorsi


    Mi sa che ho saltato il "Sarò breve" :rolleyes:

    Edited by Alberto Priora - 13/6/2009, 15:41
     
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22 replies since 7/6/2009, 22:41   561 views
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