«Le monde est vieux, mais l’avenir sort du passé. Ecoutez la parole des griots. Elle enseigne la sagesse et l’Histoire car les hommes ont la mémoire courte.» Voce di un cantastorie del Mali
Passaggi
“Il buon senso è una ciotola piena d’acqua messa sul sentiero. L’avido la beve tutta d’un fiato e poi la getta lontano. Lo stolto, non fidandosi, la lascia in terra e prosegue il cammino. Il furbo l’afferra e se la porta via per il suo viaggio. Il saggio, invece, beve quanto basta e poi la ripone per il viandante assetato che arriverà dopo di lui.”
Le parole di mio padre mi risuonano in mente. Lui è un griot: un cantastorie, e fa danzare le parole sulle note della musica. È quello che la vita, e mio nonno con essa, gli ha insegnato a essere. Io ho deciso invece di non diventarlo. Non al suo modo almeno. Il sole è alto e il cammino è lungo, ma la scorta d’acqua mi basterà. La farina di baobab è quasi finita. La poca rimasta si è sparsa nei quattro angoli della bisaccia. Recuperarla diventa difficile: bisogna fermarsi, togliere quasi tutte le cose, inclinarla di lato, ammucchiarla e prenderne il più possibile, scioglierla nell’acqua e infine berla. C’è ancora un ultimo pezzo di pane, ne mangerò la metà, per poi riporlo dopo averlo riavvolto nel panno. Sono fermo sotto un albero così enorme da oscurare la luce. Ultimo soldato rimasto a guardia del deserto che mi attende. Seduto sulle gambe, ascolto il vento che da un punto dietro la schiena è arrivato fin qui. Non si accontenta di scuotermi le vesti, lieve prosegue nel tragitto perdendosi; nel farlo trascina con sé i miei dubbi. Poco importa, altri ne arriveranno, come falchi, pellegrini anch’essi. Si annunceranno con un grido stretto e gelido; la calura si scioglierà nel silenzio, ma subito un altro ne arriverà. Sì, certo, i miei dubbi torneranno, non sarò deluso dall’attesa. Chiudo gli occhi per ascoltare la musica della Kora oscillare nell’aria come se le sue corde fossero suonate dalle mani abili di spiriti benevoli. Accompagno la melodia con l’unico strumento che ancora non ho abbandonato. Batto le mani in terra, sull’immenso tamburo del mondo.
A ogni villaggio mi presento con queste parole: Il mio nome è Ballakè, e vengo da Djenné. Mio padre è un griot, e prima di lui lo era suo padre. Non possono sapere chi sia lui, ma conoscono le storie che racconta e hanno rispetto per la sua saggezza. È un buon modo per ottenere un poco di attenzioni. Da me si aspettano che inizi a narrare le gesta di Sundiata Keita il nostro antico sovrano, signore della savana, dominatore di questa distesa di terre. Quando si accorgono che sono arrivato fino alle loro case da solo, senza strumenti, mi guardano con la faccia strana di chi non capisce. Si fanno diffidenti, vorrebbero sapere perché non sono pure io un umile djeli, un griot, un cantore di lodi. Loro non sanno che conosco già migliaia di storie, ma non mi va di narrarle. Sono in cammino per comporre le parole che narreranno la mia vita, solo quella vorrò cantare un giorno. Non dico nulla eppure capiscono: è un viaggio che assomiglia a una fuga. Ogni popolo ha la propria memoria, ognuno canta la propria canzone a suo modo. Nell’ultimo villaggio ho veduto uomini ballare arrampicati sui trampoli, con indosso orrende maschere. Sembravano divertirsi a prendersi gioco della gente. Li ho sentiti camuffare la voce per non farsi riconoscere, è il loro modo per scacciare la malasorte, dicono. Quella notte ho ballato anch’io, a occhi chiusi, scostato nel buio come un ospite indesiderato. All’alba mi sono svegliato e sono ripartito con tanta forza e un solo saluto. Una ragazza mi ha offerto un panetto appena cotto e il suo sorriso. Le ho risposto, ma le mie labbra non sono state altrettanto convincenti, era l’addio di chi è solo sfiorato dal desiderio di restare.
Il sole continua a farsi sentire. Cade su di me come pioggia, è luce densa, dura. Rende tutto così liscio e lucido quanto un piatto in cui ha appena finito di mangiare un affamato. Mi riparo dai raggi rinsaccandomi nelle spalle, sotto un ombrello fatto di stracci, pelle e ossa. Arrivare in fondo è solo questione di non voltarsi e la nostalgia non potrà guardarmi in faccia: se ne rimarrà sull’uscio della sua casa che è anche la mia. Dove ho lasciato la famiglia. Li porto tutti con me, fissati nell’istante ultimo. Mio fratello Toumani seduto a intagliare una zucca per ricoprirla con la pelle e farne il suo strumento, sotto l’occhio attento di nostro padre. Malaika gli danza intorno, cinguettando con la sua voce da bambina e lui, di tanto in tanto, la scaccia come si fa con le mosche insistenti. Mia madre occupata con il bastone a battere nel mortaio le noci di karité, ammonticchiate sulla stuoia. Da un punto nascosto continuo a fissarli anche se sono già partito. Potevo tornare indietro e riabbracciarli, ma non posso rimanere legato a quelle pareti di fango. I pensieri mi distraggono, sono come i discorsi che affollano la solitudine dei vecchi, ripetitivi e assillanti. Sono ciottoli spersi nella riva, sfrigolano sotto il peso del corpo, induriscono le piante dei piedi, ma non feriscono. Anche i miei dubbi, come quei sassolini levigati, se ne resteranno adagiati su di un letto nelle notti lunghe da passare, insieme a mio fratello Moussa, scomparso tanti anni fa nelle acque del Bani e da quel triste giorno diventato uno spirito buono nei canti di nostro padre.
Mi fermo a osservare la strada, riconosco i contorni che si avviluppano alle alture: la via segue il cammino più armonioso e meno breve. Appare simile alla traccia di un rettile, sembra vagare nel terreno senza una precisa direzione. Credo che dall’alto paio altrettanto confuso, lieve impronta smarrita in questo mare asciutto. Procedo seguendo la traccia scavata negli anni dal passaggio di quanti, prima del mare, hanno solcato la pietra. Mi sembra di tirare una fune interminabile da un pozzo che ne ha di sicuro. Continuo a tendere la corda pure se non avverto il peso del secchio. La sete si nutrirà ancora per un po’ di polvere e luce.
Le ombre si sono allungate e mi danno il senso di quanto il giorno, all’inverso, si sia accorciato. Il sole dà quasi sollievo, dopo essere stato violento per tutto il giorno è diventato delicato. Il suo tocco è piacevole, pari a quello di mio padre quando da piccoli tornava a casa dalle fatiche del lungo giro per i villaggi, ci abbracciava con amore benevolo, usando una grazia che nemmeno lui si riconosceva. Mentre si muove in cielo, seguo la nuvola con lo stesso sguardo di un pesce che osserva una chiazza sospesa sulla pozza in cui vive, e penso: grande è il mondo per pareggiare la molteplice piccolezza degli uomini, grande è questa terra. Lo possono confermare le mie gambe molto più dei miei occhi. È notte, nel silenzio s’accentuano i rumori che il giorno non riesce a cogliere. Il buio è una gabbia senza sbarre, una fortezza priva di mura. Ti imprigiona nel dubbio, nel vincolo del timore. Limpido è l’orizzonte, resterà ancora per poco una linea ben definita. L’aria è mite, fresco il calore, rimango catturato dalla sua dolcezza. Stacco lo sguardo dai miei piedi e lo punto verso le stelle: pian piano iniziano ad apparire. Mi vengono in mente tante storie, ma non ho l’accompagnamento della Kora, né pace per ciò che ho deciso, per iniziare a cantare. La voce rimane strozzata dallo sconforto. Provo a dormire. È mattino, il sole bussa alla spalla, sollevo lo spirito prima di sollevare il corpo. Cielo e animo fanno a gara a chi arriverà più in alto. Sto bene, sorrido e sono felice. Mi basta poco per esserlo, così come può bastarmi poco per cambiare umore. Ma non più, ho deciso: in questa alba le incertezze son polvere sui miei panni, li batto e loro volano via, disperdendosi in un alone scomposto. Bevo alla fontana del giorno e mi disseto. In questo viaggio ho scoperto che ci possono essere mille partenze, e un solo arrivo. Il fine è giungere dove mi spinge la ragione, ovvero la fame. Di tutto ciò che si racconta, attraverso immagini lontane. D’allora, di sera, mi sogno paesi lontani dove tutto è possibile. Ciò che per gli altri è cosa scontata e futile del vivere, per me è la spinta verso un nuovo mondo, anche se dicono non m’appartenga.
Sono passati molti giorni, l’orizzonte è diventato terra sotto i miei piedi. Vedo davanti a me, laggiù in fondo, il mare azzurro sospeso sopra la striscia scura che lo contiene. I muscoli tremano, forse è la debolezza o la gioia, o forse entrambi. Affretto l’andatura. Discendo la strada rotolando sui miei passi. Ho tempo, ma adesso è come se non ne avessi. Man mano che avanzo cambia il colore dello sfondo, si espande la distesa d’acqua, muta ingrigendosi. Molti sono accorsi. I vestiti e le lingue sono diverse, ma la speranza è la stessa. Il traguardo ha una voce: sento il suo respiro affannoso infrangersi sulla riva. Cammino lungo la sabbia umida, osservo come la pazienza dei molti sia corrosa dall’attesa come la costa lo è dalle onde. Siamo in tanti, troppi, ma a ognuno viene data la stessa risposta: “c’è tempo e spazio”, come si parlasse di una teoria di scuola.
Dopo giorni di attesa è il mio turno. Ho passato le notti precedenti a difendere le mie convinzioni, oltre alle banconote, arrotolate anch’esse. Ho stretto monete e speranze, rinserrandole nel pugno, chiuso nella presa. Salendo sul barcone mi accorgo che sono stati detti davvero troppi sì. Ci stringiamo, chissà se le tavole che sagomano la barca ce la faranno a contenere tutti i nostri sogni. Stiamo compressi, quasi senza fiato. È il momento più difficile: dobbiamo decidere se andare o restare. Il tipo al timone decide per tutti: si parte. Siamo a bordo, anzi, proprio sul bordo. Ci teniamo stretti gli uni agli altri, temiamo il peggio ma la strada fatta è talmente più lunga di quella che rimane da fare e non possiamo cedere adesso. Il viaggio inizia per l’ennesima volta. Resistiamo ammucchiati. Il freddo, la paura, la sete e il vento ci tagliano la carne. Guardo i volti di chi mi sta accanto. Siamo raccolti che difficilmente daranno frutti, leggo nei loro occhi questa convinzione. Siamo ombre in movimento. La nostra meta è un’oasi dove l’acqua è per pochi. Siamo membra e sangue e nulla più. Un pasto offerto a una tavola imbandita, dove banditi azzanneranno le nostre carcasse per ricavare guadagni. Vediamo la costa ancora lontana, sembra non voglia raggiungerci, ma dobbiamo andarle incontro noi. La striscia di terra cerca di resistere al mare che le butta addosso, a ritmi regolari e incessanti, una massa d’acqua e di gente. Siamo sfiniti e non riusciamo nemmeno a essere contenti della nave che si sta avvicinando, sopraffatti dai brividi di sete, di rabbia e di freddo. Tremo, non per me, ma per le persone care. Magari mi credono già al sicuro e se muoio forse penseranno che mi sia dimenticato di loro, un figlio ingrato, sparito fra i flussi di una ricchezza promessa e trovata, mentre in realtà sarò sparito tra i flutti di questo canale.
Ci fanno capire che dobbiamo saltare giù, devono fuggire. Noi non abbiamo più energie per opporci, eppure resistiamo, temiamo la morte, quella istantanea delle loro armi o quella un po’ più lenta del mare. Ho paura, troppa paura per pensare, così non mi muovo e aspetto. La disperazione mi si legge addosso, diventerò presto un cadavere nei gorghi di questo mare impervio, e tutte le speranze coltivate nell’arida terra in cui sono nato affonderanno con me. Durante questo viaggio ho scoperto che il mondo è pieno di carogne infami, alcuni lo sono da vivi, altri lo diventeranno da morti. Io sono qui in attesa di conoscere quale delle due sarò: quella che galleggerà sul mare o l’altra che riuscirà a sbarcare.
Tutti si sono gettati in acqua. A parte gli uomini dell’equipaggio sono rimasto solo io sulla barca, ritto in piedi, come un albero che pur avendo paura della tempesta si attacca alle sue radici per resistere. Loro mi guardano, non so cosa fare, così inizio a cantare. Le parole mi escono limpide dalla bocca, la voce sale alta nel frastuono delle onde. Canto le gesta di Soundiata Keïta, il nostro Re mandingo, diventato il più grande dei Re a cui i più grandi uomini, e la sua terra di origine, la sconfinata savana, hanno reso omaggio. Il nostro popolo lo ricorda ancora per il suo coraggio e le sue imprese. Mentre sobbalzo per la ferocia del mare inneggio le sue gesta, per non disperderle nel buio dei tempi. L’uomo che sta al timone ora ha lo sguardo da preda, più che da cacciatore. Il chiarore dei fari della nave in arrivo riesce a illuminarci quanto basta per osservarci in viso. Interrompo il canto. Il tono della voce è deciso, mi presento: Il mio nome è Ballakè, e vengo da Djenné. Mio padre è un griot. Prima di lui lo era suo padre e ora lo sono diventato anch’io un djeli, un cantastorie. Il tipo che mi tiene sotto tiro mi guarda in modo assurdo, non sa di certo cosa sto dicendo. Se invece mio padre Sidiki potesse ascoltarle, sarebbe lieto di queste mie parole.
g vanderban
Edited by VdB - 16/7/2009, 08:42
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