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Ecco a voi:
28 Settembre 2059
Stava inginocchiato al buio davanti alla finestra semiaperta, in attesa. Era in posizione da più di due ore: gli facevano male le gambe, la schiena e il culo. Affastellati come merce nel magazzino di un rigattiere, i pensieri cadevano via uno dopo l’altro. Spesso rifletteva sulla capacità della mente di passare, alla velocità di un pensiero, dal ricordo di un’immagine alle sensazioni di un odore, al suono di una voce. E lui ne aveva avute di cose su cui riflettere nelle ultime dodici ore. Distolse lo sguardo, certo di non perdersi nulla del panorama che scrutava già da un pezzo, e si versò, alla tenue luce di un lampione in strada, un bicchiere di malvasia.
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«Come fai a bere quel vinello da finocchi?» aveva detto Alberto, la pancia prominente fasciata da una camicia i cui bottoni sembravano pronti a schizzar via dalle asole. «Già. Ti farà cadere l’uccello! Poi sai che divertimento» completarono Michele e i suoi occhi porcini. I due stronzi, appollaiati sugli sgabelli del banco accettazione vicino all’ingresso, erano agenti a riposo con un unico passatempo: rompere i coglioni a chiunque gli capitasse a tiro. Gianni non riusciva a credere che fossero stati in attività. “Un cacciatore deve essere all’erta, pronto a cogliere tutti i segnali, anche i più nascosti. E deve saper muoversi in silenzio: la pioggia non deve accorgersi di voi.” aveva detto il dottor Morgavi durante l’addestramento. Questi due erano proprio l’opposto. La pioggia si accorge di loro eccome! Anzi, potrebbero usarla per lavarsi... Gianni arricciò il naso, mentre con passo svelto passava oltre la postazione dei due imbecilli, dirigendosi verso il piano inferiore. Un tempo le cose erano più facili: questo era quello che aveva sentito mille volte nelle pause di lavoro, tra un caffè e un cornetto. Gli avevano raccontato che prima non c’era bisogno di alcun appostamento. “Le prede uscivano allo scoperto e si aggiravano per le strade, come lumache dopo la pioggia” dicevano. Si andava, si agiva e si incassava, tutto in giornata. Una vera pacchia: nessuna moglie trascurata, nessun figlio visto una volta alla settimana e nessuna emorroide. E i guadagni poi: nei primi mesi un cacciatore poteva guadagnare tanto da potersi permettere un appartamento di trenta metri quadrati in centro. Ora, invece, anche raggiungere il budget mensile minimo era un problema. Scese i gradini alla fine del corridoio e raggiunse lo spogliatoio. Lo accolsero le tende oscuranti delle finestre a nastro, quindi le file di armadi metallici con le targhette con scritti i nomi di battaglia di ciascuno di loro. I neon pendevano dal soffitto proiettando una luce malferma sulle panche di acciaio e formica bianca. Sembrano quelle degli ospedali di quarant’anni fa. Si avvertivano gli scrosci delle docce e note isolate di canzoni in dialetto. Gettò la borsa su un sedile. C’erano due suoi colleghi che si rivestivano dopo la doccia. Quando lo videro sobbalzarono, poi uno dei due: «Nulla?» «No» rispose secco con un cenno e una smorfia. Era di umore nero e quella domanda non lo faceva star meglio. Tutti ad aprir bocca, oggi. Ma che splendida giornata del cazzo! Compose la combinazione del lucchetto e aprì l’armadietto, l’ultimo accanto alla bacheca con i risultati del mese. Nulla di nuovo: una confezione di pallottole di riserva, un asciugamano ripiegato sulla mensola più alta, un flacone di bagnoschiuma economico e, attaccata sull’anta, una foto della sua famiglia. Come si può diventare così? L’ex-moglie e il figlio sembravano ancora felici: un fine settimana al mare, quale modo migliore per risolvere i problemi di coppia? Lui lontano al lavoro, lei lontana dall’altro e il bambino in costume che gioca con la sabbia. Gianni ricordava ogni particolare di quella vacanza: avevano cenato insieme, Carlo si era addormentato sul tavolo del ristorante e loro avevano parlato come non facevano da anni. Una passeggiata e, poi, messo il figlio a letto, avevano fatto l’amore. Di nuovo. Ma proprio il giorno dopo, mentre il sole tramontava dietro i palazzi della periferia e loro, posato il piede sull’asfalto, stavano per adagiarsi di nuovo nella loro monotonia, Marisa l’aveva reso partecipe della sua decisione. Lì, proprio nel parcheggio condominiale. Mille parole ammonticchiate come rifiuti in una discarica, e poi, finalmente: “Non ti amo più. Basta fingere.” Non lo aveva guardato neppure negli occhi. Erano bastate due semplici frasi, sei banali parole, per dire ciò che le sembrava ovvio. Uno sguardo liquido fu tutto ciò che le concesse. Poi una domanda: “Perché, ieri, hai fatto l’amore con me?” Marisa gli aveva restituito un lungo silenzio, punteggiato dal tubare delle colombe che zampettavano su un cornicione. Eccolo di nuovo: il muro di disinteresse verso i reciproci bisogni edificato, mattone dopo mattone, impastando l’indifferenza alla mediocrità. Marisa era salita in auto, il motore caldo per il viaggio, e se ne era andata; Carlo ancora addormentato sul seggiolino nel sedile posteriore. Da quella sera vedeva il figlio quando poteva: una volta a settimana se aveva fortuna. Marisa, invece, se la faceva con il suo Antonio. Tutto al suo posto. L’idea di andare dal giudice e strappare qualche accordo non gli era nemmeno passata per la testa. Perché perdere tempo? A Marisa doveva gli alimenti in ogni caso. Perché affannarsi? Per vedere un avvocato che, arricchendosi, faceva delle domande stronze a Carlo? “E tu, piccolo, preferisci stare con mamma? O con papà?” Avrebbe potuto tirare fuori la storia di Antonio. Ma non ne aveva voglia. Di merda ne vedo e ne odoro anche troppa, c’è bisogno di lanciarla sul ventilatore? “Ognuno di noi ha delle priorità.” gli aveva detto suo padre, anche lui abbandonato dalla moglie. “Quando si fa un lavoro come il tuo occorre considerarsi come quei preti che vanno in Africa a dar da mangiare ai negri. Cosa ti aspettavi? Il tuo mestiere, figliolo, non è semplice. Nella società di oggi si deve agire, sfruttando tutte le occasioni che la fortuna e la bravura mettono a disposizione. Sappi che, comunque, io sono orgoglioso di te.” Suo padre si credeva un tipo di quelli che hanno sempre la risposta giusta al momento giusto. Che gran marea di cazzate! Gianni si era guardato bene dal proseguire la discussione, meglio far finta di niente e non contrariarlo: non aveva voglia di ascoltare i soliti discorsi sulla patria, sull'onore delle origini e sul “dovere che ognuno di noi ha di tenere in piedi il nostro mondo costruito col sudore della fronte”. Guardando di nuovo la foto di Carlo e Marisa, si passò la mano sulle guance ruvide. Doveva farsi la barba; tra un po’ gli sarebbe rimasta incastrata nel colletto della camicia. Poi guardò l’orologio. Prese il cambio di biancheria sul fondo dell'armadietto, lo richiuse e s’incamminò verso l’atrio principale. Merda. Ancora quei due stronzi. Rinsaccò la testa tra le spalle e oltrepassò il posto di osservazione dei colleghi. Mentre varcava le porte a vetri della S.Pu.Si., sentì la voce di uno dei due. Sembra proprio il suono di un cesso che perde. Era contento di essersi perso almeno quell'ultima cazzata.
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Sbuffò al buio, sorseggiando il vino. Che si fottano tutti. Diede uno sguardo alla strada: il luogo scelto era perfetto. Visione dell'incrocio libera e un raggio di osservazione, da uno spigolo all’altro, che gli avrebbe permesso di colpire senza difficoltà. Gianni allungò le gambe, le ginocchia gli scricchiolarono mentre già, dal peso che sentiva nelle viscere, immaginava le mutande macchiate di rosso. Due giorni a mangiare panini, bere acqua tiepida, dormire qualche ora per notte, pisciare in un barattolo e consolarsi con un po’ di vino ormai caldo. Forse mio padre ha ragione: la mia è una missione.
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Mario aprì gli occhi, quindi il suo solito pensiero: Che vita di merda. Dormire mentre il mondo vive e svegliarsi quando gli altri vanno a letto; se c’era una cosa che gli fotteva il cervello era proprio quello. Anche gli operai fanno il terzo turno di seguito solo per qualche settimana. Noi non meritiamo nemmeno questo. Si dannava pensando a quanto fosse bello uscire di giorno. Camminare tra la gente, entrare in un negozio normale, non un postaccio aperto la notte, e comprarsi qualcosa di nuovo. Oppure sedersi a un tavolo e sorseggiare un aperitivo colorato sgranocchiando patatine da una ciotola ovale, osservando la gente che fa un giro. E invece dobbiamo uscire di notte, come gli scarafaggi. Sulla sedia accanto al letto i vestiti abbandonati la mattina precedente stavano lì come stracci. Quanto li odiava! Puzzavano di sudore, profumo e borotalco. Faceva fatica a coprire i buchi sotto le ascelle e tra le cosce. «Dai, Luca, svegliati! È ora di andare» disse con la bocca impastata. L’uomo nel letto infilò la testa sotto le coperte. «Dai! Sempre la solita storia... Ti devi alzare» disse Mario mentre, allungando un braccio, afferrava il cuscino dell'amico. «Ho sonno.» «Me ne sbatto. Dobbiamo andare. Alzati, altrimenti ti infilo questa bottiglia di birra su per il culo...» «E chi ti ha detto che non mi piacerebbe?» ridacchiò Luca cercando di riprendersi il cuscino. «Questo perché sei un frocio vizioso...» Si trovarono a prendersi a cuscinate e a tirarsi le coperte. Ancora col sorriso tra le labbra Luca si alzò e si diresse in bagno. Camminò con le sole calze sul pavimento lurido e svuotò la vescica sulla tazza sporca da settimane. Quando si sta fuori tutta la notte e si abita in un quartiere come quello le faccende domestiche smettono di essere una priorità. Attorno al piccolo lavabo dei secchi di acqua per lavarsi. Almeno oggi è il mio turno. Si usa il sapone e non il profumo. «Un cavallo puzza molto meno di te, mio caro... » disse al riflesso nello specchio lineato. Il suo gemello lo guardò con occhi spenti. Non aveva nulla da aggiungere. Il quartiere riceveva l’acqua con il contagocce: una volta al giorno, per mezz’ora, permettevano a chi aveva ancora diritto al voto di darsi una ripulita. Quando la toglieranno anche a loro saranno cazzi. Come se non fossimo già nella merda adesso che ci tocca guardarci anche dai privati. «Perché non ci mettono al muro e la facciamo finita? Pensa quanta fatica sprecata» gli aveva chiesto una volta Luca. «Le apparenze, mio caro. Sulla carta siamo ancora persone, ma non gli piace cosa facciamo né quello che siamo. Non vedi cosa cazzo succede dopo? Un telegiornale che parla di una nuova guerra tra bande. Come in un puzzle di merda. Un pezzo dopo l’altro fino a quando i normali, o come gli piace chiamarsi, non ci avranno fatto sparire tutti.» «Da quel momento in poi solo pompini dalle mogli... » era intervenuto Sacha. Ricordava che quella volta i tre avevano riso fin quasi a soffocare. Guardò allo specchio il suo doppio e ancora una volta rimase meravigliato dal marrone dei suoi occhi, così scialbo da far gridare al banale anche il più abitudinario degli sportivi della domenica. Si fece la barba, sciacquando la lametta nella bacinella celeste nel lavabo, e indossò le lenti colorate. La vista gli si appannò per qualche secondo. Sembrano di cartone. «Adesso sì che ci siamo» disse, poi, alla sua immagine riflessa. La morte poteva essere dietro l’angolo ma questo non era un motivo per rinunciare a piacersi. Ritornò in camera. Luca si era vestito e stava armeggiando con la cerniera lampo della giacca che sembrava non volesse saperne di salire. Avevano tentato di ripararla decine di volte, ma non serviva a nulla. Un viaggio da sotto in su ed erano da capo. «Giacca nuova, vedo.» «Vaffanculo, tu e lei.» Mario trafficò con la cerniera e, infine, riuscì a sollevarla. Dopo pochi minuti uscirono. «Mi raccomando: chiappe strette e sale in zucca» disse Mario assestando una pacca sulle spalle dell’amico. «Puoi scommetterci, stronzone!» In corridoio ad attenderli la moquette del pavimento, scollata in molti punti, e la carta da parati, fuori luogo come un valletto maschio in un quiz a premi di una televisione privata, che veniva giù a rotoli lasciando tracce di tutte le tonalità del giallo. Passarono accanto la porta della signora Sclafani. Come previsto la porta si aprì: «Buonasera, ragazzi.» Non appena passavano, lei si affacciava: era come se avesse disposto dei rilevatori di movimento lungo il corridoio. «Buonasera, signora.» dissero rassegnati. «State uscendo? Mi raccomando, fate attenzione.» «Lo sappiamo, lo sappiamo.» fece Luca, sconsolato. La cara vecchietta si preoccupava tanto per loro. Da quando abitavano in quella topaia se li era presi in carico: torte, spesa, e sempre un pensiero gentile. “Sa di essere una rompipalle” aveva detto una volta Luca “ma non riesce a farne a meno: è più forte di lei”. D’altra parte il passato della donna era triste quasi quanto il loro presente: emigrata dalla Sicilia quando avevano chiuso le frontiere, viveva facendo il bucato ai normali e con piccoli lavori di cucito. Viveva anche lei nel quartiere dei diversi, quello che subiva le ronde notturne e dove un barbone addormentato su una panchina era un nemico da eliminare. Una sera, tra un orlo e un bottone, la donna gli aveva raccontato della nipote: sopravvissuta ai rastrellamenti del ’39 e rimasta in Sicilia. «Mia nipote è sola. I genitori sono morti la notte del 13 agosto. Vivevano proprio a Palermo, a Borgo Nuovo, uno dei primi dove la polizia è entrata. Si erano rifugiati in chiesa, padre Salvatore aveva chiuso i portoni. Ma sono entrati lo stesso. I cani li hanno trovati in sacrestia. Mia nipote è scappata verso Monte Cuccio» aveva detto mentre il suo sguardo bonario sbiadiva come una macchia con la candeggina. Mentre parlava la donna si era alzata dalla sedia di plastica e da un cassetto della credenza aveva tirato fuori una decina di lettere. Quella sera, mentre la vecchia accarezzava la carta come a coccolare la nipote, la torta al cioccolato era diventata di colpo amara e ogni boccone difficile da inghiottire come una palla da tennis. Passando oltre la porta della vicina, Luca alzò una mano: «Arrivederci signora, si riguardi.» «Ciao, ragazzi. Vi ho già preparato qualcosa da mangiare per domattina. Ve la lascio sulla soglia come al solito?» «Sì, signora. Grazie.» risposero in coro scendendo le scale, ondeggiando. Un ultimo sguardo verso di loro e la porta si richiuse.
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Imbracciò il fucile dopo aver, di nuovo, controllato il mirino. Quando i bersagli sarebbero comparsi voleva fare centro: l’idea di sbagliare gli faceva girare le palle sul serio. Respirò a fondo, guardando un’auto rossa che arrivava all’incrocio. Ancora una volta scommise sulla direzione che avrebbe preso: dritto, sinistra o destra? Il giochino era proprio una coglionata, ma doveva pur passare il tempo. Allora, vediamo, questa andrà a sin… La centrale lo chiamò gracchiando dall’auricolare. «Bersagli confermati. Due conigli in arrivo. Saranno lì tra settanta secondi, buona fortuna Rider. Passo.» «Ricevuto, passo e chiudo.» Osservò di nuovo l'incrocio, una macchina verde bottiglia stava arrivando, poi vide del movimento tra gli alberi: Eccoli. La soffiata era corretta: erano comparsi dal parco all’angolo dell’incrocio. Proprio di fronte a lui; uno biondo e uno bruno, tacchi alti e cosce a vista. Guarda come sculettano, quei due finocchi. Forse sono, davvero, due cagne in calore. Ma come si fa? Nonostante tutto hanno il coraggio di farsi vedere. Rilassato, strinse il calcio del fucile e posò il dito sul grilletto. Un sottile filo rosso si stagliò dritto verso un albero, sopra le loro teste. Mosse la spalla e abbassò, con calma, l’arma.
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«Dobbiamo proprio, Sara?» «Hai fame, no?» disse Mario, formulando la loro frase portafortuna. Un sorriso triste, incespicando, tra un passo e l’altro, i tacchi che affondavano nella terra molle bagnata di pioggia. «Sì, ho fame.» rispose Luca conoscendo la risposta. «E allora zitto, e spera che stasera qualcuno abbia voglia di culo.» Sentendosi protetti da quella loro formula magica, i due, superati gli alberi, si affacciarono in strada e iniziarono a camminare lenti, avanti e indietro. «Ieri sera hanno fatto fuori Sacha…» disse Mario, non aveva avuto il coraggio di dirlo all’amico. Luca era rimasto zitto: aveva solo annuito. «Non conviene essere froci di questi tempi…» disse Mario con la voce roca, imitando un tizio che avevano visto intervistato in TV. «No. Proprio, no » rispose Luca. Un punto rosso apparve sulla fronte di Mario. «Cosa caz…» Si scambiarono un’occhiata. Ci hanno beccato: fu il pensiero formulato all’unisono, poi Luca vide metà della testa del suo amico spazzata via. Si guardò intorno. Vide rosso per un istante, quindi più nulla.
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«Centrale, da Rider. Due bersagli confermati. Passo.» «Rider da centrale. Ottimo. Il bugdet settimanale è raggiunto. Complimenti. Passo e chiudo.» Un ghigno mentre toccava la carta liscia della fattura delle pallottole. Smontò il fucile, riponendolo nella custodia, si gustò l’ultimo sorso di malvasia e uscì. “Sappi che, comunque, io sono orgoglioso di te.” Lo so, papà.
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Il telefono della signora Sclafani trillò nel buio della piccola cucina. La donna, muovendosi tra le ceste di roba da lavare, lo raggiunse; ci vollero una decina di squilli. «Pronto?» Una voce maschile con una leggera inflessione del posto. «Signora Sclafani. Il lavoro è stato apprezzato. Manterremo i patti. Sua nipote la raggiungerà a breve. Le ricordo che vi è fatto l’obbligo di non lasciare il vostro attuale domicilio. Se mai succedesse, dovrà considerare il nostro accordo nullo» La comunicazione si interruppe. Maria Sclafani fissò il ricevitore ancora stretto in pugno. Avrebbe rivisto la nipote; avrebbe dovuto esserne felice eppure delle lacrime le scesero lungo le guance rugose. Mi dispiace, ragazzi. Posò il ricevitore e si incamminò verso la camera da letto. Fuori dalla finestra il cielo del Nord, scuro come al solito, si faceva strada a fatica tra i palazzi grigi. L’acqua aveva formato due baffi neri che, appesi ai davanzali, ornavano le facciate scolorite. Si mise la faccia tra le mani: la disperazione nel cuore.
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Il dottor Michele Conti premette il tasto e chiuse la comunicazione. Poi si alzò dalla sedia di pelle nera e si affacciò su Piazza Duomo. La chiesa era di nuovo impacchettata per restauri: si distingueva appena la sagoma delle guglie tra l'intreccio di tubi d'acciaio e le reti. Nonostante l’ora, la fila al McDonald’s arrivava fino al centro della piazza. L’uomo rifletté qualche istante e sorrise. Da quando la S.Pu.Si. aveva preso l’appalto per la pubblica sicurezza, i guadagni erano stati più che interessanti, occorreva riconoscerlo. E c'è, ancora, da lavorare. Abbandonò la finestra, si sedette di nuovo alla scrivania e prese il fascicolo appoggiato sul ripiano. Aprì la carpetta marrone. Sfogliò alcune pagine e, dopo poco, arrivò alla parte evidenziata in verde. “E’ fatto espresso divieto a qualunque cittadino meridionale presente su suolo comunale di farsi sorprendere in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico. I trasgressori sono punibili con la morte. Ogni libero cittadino che goda dei diritti civili e politici è autorizzato a eseguire la pena in flagranza di reato. Per ogni contravventore punito il Comune riconoscerà un compenso fino a un massimo di euro diecimila e un rimborso delle spese regolarmente fatturate”. Ottimo. Manca solo l’approvazione del Consiglio Comunale. Soddisfatto, chiuse la cartella.
Edited by Alessanto - 15/7/2009, 16:19
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