“La Rete Neurale garantisce il Controllo assoluto, a noi la vigilanza su milioni di vite”: la scritta passò lampeggiando sull’immenso video di controllo che occupava l’intera parete davanti a lui. Era una delle sue massime preferite.
Gettò un occhio alla schiera di supervisori del traffico curvi sulle loro postazioni. Tutto procedeva nella normalità, ma la tensione era comunque alta.
Decise di concedersi una pausa ed estrasse dal cassetto inferiore un pesante faldone di sicurezza. Il volume vibrò sotto la sua mano, mentre il sistema interno scansionava la rete di intrecci venosi del palmo per eseguire il riconoscimento. Mentre la luminosità della copertina sensibile percorreva la mano, poteva quasi percepire le lettere del titolo che si dipingevano sulla sua pelle: «RNC: Rete Neurale di Controllo del traffico metro-mondiale». Il meccanismo si aprì davanti a lui con una lentezza che gli parve quasi deferenza. Anni di sforzi e di sacrifici erano raccolti in quelle carte, un viaggio nella memoria e nel suo impegno quotidiano. Estrasse il ritaglio di giornale che apriva la raccolta, conservato come una reliquia: “Decreto ONU per bloccare il collasso: tutti in Australia!” Davanti a quella tragica notizia, dieci anni prima, aveva avuto l’intuizione fondamentale: in un’unica megalopoli che avrebbe ospitato tutta la popolazione mondiale rimasta, quasi due miliardi di persone, i mezzi di trasporto sarebbero stati di importanza vitale. Intravide la necessità di una nuova generazione di strumenti di controllo del traffico.
Gli appunti gli scorrevano tra le mani: gli cadde l’occhio su un appunto dal tratto violento, che aveva scritto a mano sul margine di una delle prime relazioni: “È nostro dovere far sì che nulla vada fuori controllo”. Le parole dovere e nulla erano sottolineate più volte.
Ritrovò anche la relazione che aveva fatto all’ONU per il suo progetto di metropolitana mondiale (di quel che restava del mondo a dire il vero). Ne ripercorse quasi con nostalgia gli elementi fondamentali: serviva una fitta rete di gallerie sotterranee, tutto lo spazio in superficie serviva per le abitazioni. Poi le prime stime sui mezzi e i viaggi necessari, numeri impressionanti, mai gestiti prima da un unico sistema. Da qui la necessità di una raccolta di dati in continuo su tutte le variabili di una qualche importanza per avere il controllo di mezzi e passeggeri. Con tenerezza accarezzò il tovagliolo del ristorante su cui aveva tracciato il primo abbozzo di calcoli. Un risultato a dir poco inatteso: un tre seguito da 12 zeri. A tanto ammontava il numero di rilevazioni necessarie.
Ecco poi, accuratamente conservato, l’ordine del giorno dello staff di sviluppo convocato pochi giorni dopo. Un’unica domanda: “Quale nuova generazione di sensori ci permetterà di rilevare e trasmettere tutti questi dati?” Occorreva inventare qualcosa di totalmente nuovo.
C’erano voluti mesi di tentativi, ma la risposta pian piano si era fatta largo nella sua mente. Sfilò dalla sua custodia il primo abstract che aveva presentato: le gallerie sarebbero stato un sistema chiuso, quasi sigillato, in cui diffondere uno spray di sensori nanotecnologici comunicanti tra di loro con tecnologia di trasmissione IP sub-aura. Da quel punto in poi era stato quasi facile. Il gruppo di ricerca aveva sfornato nuovi tipi di sensori a ritmo continuo: accelerometri, termometri, misuratori di massa e per la qualità dell’aria, e via così, in un crescendo inarrestabile ed euforico.
Lui aveva dedicato buona parte del suo tempo allo sviluppo del nuovo protocollo IP64 su rete sub-aura: ogni sensore, delle dimensioni massime di pochi micron, era tracciabile singolarmente e poteva trasmettere i propri dati in maniera autonoma. Il principio era semplice: calcolò quale fosse il numero necessario di sensori perché potessero incontrarsi abbastanza spesso, fluttuando nell’aria: nell’attimo dell’incontro si sarebbero scambiati i dati comunicando con minime variazioni delle forze di interazione debole. Tutti i dati transitavano così da uno all’altro con consumi di energia quasi nulli, su su fino al sistema centrale. Era un po’ come un naufrago che buttava a casaccio una bottiglia con un messaggio verso un’isola vicina e da qui un altro naufrago di nuovo verso la prossima isola: il messaggio prima a poi sarebbe arrivato certamente a destinazione. Bastava un numero sufficiente di isole e naufraghi. Beh, sì, a dire il vero ne servivano davvero parecchi: circa 12 miliardi di miliardi di sensori-naufraghi nelle gallerie dell’intero continente.
Era quella la Rete Neurale di Controllo: la sua creatura. Con la RNC nulla poteva più andare fuori controllo: almeno mentre viaggiava nella metro-mondiale ogni uomo sarebbe stato al sicuro da qualsiasi imprevisto.
Il dovere lo chiamava: a malincuore ripose il fascicolo e il faldone al loro posto. Chinandosi per farlo, i suoi occhi videro da una prospettiva diversa lo schermo di controllo sulla parete di fronte. Gli parve un cielo stellato, profondo e misterioso.
* * *
Fu a tarda sera che cominciò a riscontrare le prime anomalie. Semplicemente il conteggio dei treni non tornava, o meglio, dipendeva da come li si contasse. Il sottosistema di monitoraggio attività dava un numero, ma non era lo stesso che risultava dal sottosistema di posizionamento. C’era poco da dire: mancava un treno, e la Rete Neurale non gradiva quell’anomalia: - Cristo, si arrabbiò con se stesso, tot treni sono attivi e altrettanti treni sono sui binari, no? Se non posso fidarmi di questo, di cosa mi devo fidare?
“È un errore umano, un banale errore di programmazione”, sentenziò ai suoi tecnici che lo guardavano smarriti. “Ricontrollate tutte le procedure di conteggio - disse con calma - dalla prima all’ultima”, ma non era poi troppo sicuro che sarebbe servito a qualcosa.
Ma la Rete Neurale stava già dando segni di pazzia. Quel piccolo margine di errore si ripercuoteva amplificandosi: il blocco di prenotazione pareva già abbastanza vicino al tracollo, ma era più preoccupato delle conseguenze per il controllo degli approvvigionamenti. “Effetto farfalla”: queste parole gli si stamparono nella mente. Vide il disastro che stava per aprirsi: una sequenza incontrollabile di sistemi che crollavano uno dietro l’altro, trascinandone con sé altri, a catena. Saltò sulla tastiera del tecnico più vicino e aprì tutte le diciassette sessioni principali di controllo. Disattivò il software di protezione e cominciò a lavorare direttamente sui byte di esecuzione. L’aria attorno a lui era tesa e densa come catrame, tutti sapevano cosa stava facendo e tutti sapevano le possibili conseguenze: era come operare a cuore aperto, ma il paziente era grande come l’intera popolazione mondiale.
Sudava abbondantemente, mentre una voce gli strillava dentro: “Più in fretta, più in fretta, dipende da te, solo da te, devi farlo”. Spacchettò le procedure e le riassemblò daccapo, stava nascendo qualcosa di nuovo e di unico.
Durò un paio d’ore. Ma alla fine poteva dire di avercela fatta. I sistemi erano stabili. Quando chiuse le console di programmazione per un attimo tutta la sala di controllo guardò a lui come a un dio, il dio della programmazione. Il collasso dell’intero sistema di trasporto della megalopoli mondiale era scongiurato.
Qualcuno cominciò a battere ritmicamente le mani. In un attimo fu un’ovazione.
Si fece largo tra selve di mani che si allungavano per toccarlo, per dargli pacche sulle spalle e ricevere uno sguardo. Fuggì via.
Entrò in bagno e si appoggiò al muro con la schiena fradicia di sudore. Si guardò nel grande specchio: la luce verdognola riflessa dalle piastrelle dava un colorito malato alla sua pelle. Si strinse le mani sul ventre e piegandosi in due lasciò uscire un grido roco, quasi un ululato, come una partoriente. Cadde in ginocchio e mugolò piano. Non era ancora finita.
Si rialzò a fatica e si lavò il viso.
Appena uscito incontrò gli sguardi sconcertati dei suoi uomini. Tornò alla tastiera e batté una combinazione: sullo schermo di controllo a parete si materializzò una semplice finestra. A grandezza dodici metri per quindici ci si leggeva: «Numero di anomalie in gestione: 1». Il numero, rosso, lampeggiava in maniera sinistra. “Ho solo permesso che la Rete Neurale conviva con le anomalie. Ma il treno manca ancora”. Si guardavano smarriti: “Trovatelo”, ringhiò.
Si sedette alla scrivania per la telefonata più difficile della vita. Mentre il telefono squillava, guardò l’ora: mezzanotte passata, il Presidente non avrebbe gradito. Gli rispose infatti una voce impastata e furente. Sopportò per un paio di minuti lo sfogo e poi si azzardò. Scelse di farla breve: “Presidente, mi scusi l’ora. Abbiamo un problema. Ci siamo persi un treno.”
“Vuole dire che un treno si è bloccato in galleria?”
“No, Presidente: ce lo siamo persi, ci siamo proprio persi un treno.” “Come sarebbe a dire: ci siamo persi un treno? Non è un giocattolino. Dov’è, è fermo da qualche parte? Non sarà uscito dall’Australia - sibilò con ironia tagliente - Le pare?”
Abbozzò una risposta: “No Presidente, certo che no, ma comunque non sappiamo dove sia. I nostri sistemi dicono che è attivo, conosco la velocità a cui viaggia e ho anche, se le vuole, le temperature corporee di tutti i 357 passeggeri, ma - faceva fatica a dirlo - non so dove sia il treno. La Rete Neurale non lo rileva.” “La sua Rete Neurale - si fermò per un attimo per dar maggior peso a quel che stava per dire - quella sì che è un giocattolino”.
Tremò. Lo atterriva la sua incapacità a tenere sotto controllo quel che gli era stato affidato.
* * *
Il mattino dopo nulla era cambiato. Il pannello lampeggiava ancora sul muro: una anomalia in gestione. Furono provate tutte le strade, sondate tutte le ipotesi. Fu mandato personale di controllo sul percorso per una verifica visiva. Ma nelle gallerie non fu visto passare nulla. Eppure i sistemi continuavano a monitorare l’attività di quel treno, la sua velocità, il consumo energetico. Ma nulla sembrava poterlo rintracciare.
A mezzogiorno era previsto l’arrivo alla stazione di Victory Park a Melbourne. C’era un piccolo gruppo di tecnici e il Presidente, confusi tra la folla della stazione metro-mondiale. Scrutavano una console portatile che monitorava i principali dati di interesse.
Scoccò mezzogiorno.
“Dov’è?” gli sibilò all’orecchio il Presidente.
“Si è fermato.”
“Dove?”
Con l’aria più sconsolata possibile ammise che non ne aveva la minima idea. Si guardò attorno: “Non qui di sicuro, comunque.”
Si avviarono verso l’uscita. Era avvilito. Uno, un solo miserabile treno fuori controllo. E tutto cadeva. Alzò la testa in mezzo a quella folla sterminata. Come si poteva tenere sotto controllo tutto? Se non si riusciva con i treni, figurarsi con le persone.
Guardò con astio il mescolamento delle razze, l’accalcarsi delle urgenze di ciascuno, gli sguardi bassi di tutti quelli che passavano, rannicchiati attorno alle proprie manie. Un bambino dagli occhi vivaci tirava per la gonna la madre: “Mamma, mamma, cos’è quello?”. Indicava verso l’alto col braccino, mentre lei lo trascinava via senza badargli minimamente. “Nemmeno ai figli si dà più attenzione - rifletté tra sé - c’è sempre troppo da fare.”
Senza sapere perché, guardò in su, dove aveva indicato il bambino. Fuori dalla grata fluttuava un treno. Quel treno. Non poteva essere diversamente. Con un grido strozzato richiamò l’attenzione dei suoi e lo indicò. Rimasero tutti imbambolati fissando quelle tonnellate di acciaio che oscillavano lievemente nell’aria.
* * *
Fu condotta un’accurata indagine interna. Quel che era accaduto non era né fisicamente né tecnicamente spiegabile. Nemmeno plausibile. Un treno in corsa a 700 all’ora sospeso su campi magnetici in una galleria sotterranea di pochi centimetri più larga di lui, non può deragliare. Non può nemmeno trasferirsi in superficie e levitare a mezz’aria come una libellula. Eppure era successo.
L’incidente fu messo a tacere. I passeggeri, una volta fatti scendere di lì, furono trovati in leggero stato confusionale. Si ripresero quando ricevettero il generoso rimborso per il disagio subito, insieme a un chiaro invito a tenere la bocca chiusa.
Presentò da solo le proprie dimissioni e sgusciò via. Lui più di tutti avrebbe fatto bene a starsene zitto.
* * *
Era ormai qualche anno che tutto questo era accaduto. Per qualche tempo gli era rimasto il tarlo di dar spiegazione a quell’anomalia. Gli bastò solo ricordare il terzo principio della termodinamica. Tutta quell’informazione che si autorganizzava doveva creare disordine da qualche parte. La rete chiusa si comportava come un enorme condensatore di entropia, di disordine cioè, e a un certo punto doveva scaricarsi. Ecco allora che ogni tanto un treno intero veniva espulso dal sistema.
Dal più grande ordine il più grande disordine.
Coglieva la tragica ironia di quella legge. Ma non ci si poteva porre rimedio. Già, perché continuava a succedere. Non troppo di frequente, ma accadeva: un treno d’un tratto spariva dagli schermi. Nessuno si preoccupava. Mandavano una squadra specializzata alla stazione di arrivo e puntualmente il treno arrivava fluttuando in superficie. A nessuno interessava spiegare come quelle anomalie nascessero: era sufficiente poterle gestire.
I passeggeri che incappavano in quell’esperienza ne restavano svagati per una settimana, ma poi passava. Lo chiamavano train lag, e le assicurazioni avevano sviluppato una nuova polizza per coprirsi da questo rischio.
Le società di scommesse accettavano quote su quando e dove sarebbe accaduto il prossimo episodio.
Tutto nella più assoluta normalità.
* * *
Si voltò verso il suo vicino di carrozza, e si stiracchiò tenendo aperto sulle gambe una versione economica dell’Amleto: era arrivato alla famosa battuta: “Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”. La letteratura era stata sempre una sua passione, ma ora aveva finalmente tempo di coltivarla.
Si volse verso il finestrino, dimenticando che un finestrino non c’era: solo un insuperabile campo di forza li divideva dal muro che sfrecciava grigio e indifferente.
Chiuse gli occhi e provò a rilassarsi. Il dramma di Amleto gli risuonava dentro.
Forse si era addormentato: si sentiva cullare dolcemente come nelle onde piccole di un utero materno. Sul collo una brezza lieve e sulla pelle la carezza del sole.
Non sognava: aperti gli occhi, capì che il treno correva lieve e senza rumore a qualche decina di metri da terra. Si sentiva straordinariamente bene. Tutti attorno a lui avevano occhi lieti e grati.
D’un tratto si rese conto che tutte le preoccupazioni di una vita, tutto il suo impegno, tutta la sua responsabilità, nulla potevano di fronte alla libertà di quel momento.
Si sentì aprire a nuove possibilità. Era per questo che era fatto.
* * *
Quando il treno fermò, mentre le squadre di soccorso li stavano accompagnando sulle rampe mobili di emergenza, là in basso, lontano, gli parve di vedere un bambinetto che lo salutava con la mano. Si chiese se poteva essere lo stesso bambino di allora. Certo che no, erano già passati anni, doveva essere cresciuto.
Eppure sembrava proprio.