Delirio (Cenerentola reloaded)
I C’era una volta un palazzo, e dentro il palazzo tante persone, e dentro le persone tante storie. Tra tutte queste una: la più triste. La più bella.
II La ragazza è seduta al centro della stanza, su uno sgabello impagliato. Tiene le mani sotto le cosce, come le è stato chiesto, e muove avanti e indietro il busto, incapace di trattenere la forza nera che le pervade le membra e lo sguardo, ora attentamente rivolto verso il fondo della stanzetta. Tra i farfugliamenti incomprensibili, ogni tanto le sfugge un risolino isterico. La luce del pomeriggio entra sbieca dalla finestra e si ammala subito di una tonalità livida, intanto che la dottoressa Sofia Herzl, seduta di fronte alla giovane, non è giudicata degna nemmeno di un’occhiata fugace. «Mi senti, Cenerentola?» Il tono della voce è basso, confortante, ma non ottiene risposta dalla sua paziente. «Cenerentola, mi sai dire se lei sia qui, adesso?» Sollevando le sopracciglia, la ragazza scuote su e giù il capo con rapidi scatti nervosi, gli occhi fissi alle spalle della dottoressa. «Si trova là, per caso?» chiede Sofia indicando, dietro di sé, un punto nel quale c’è solo l’angolo tra due muri scrostati. Cenerentola non ha ancora smesso di annuire con quel moto isterico. Trema gracchiante, la sua voce, quando finalmente risponde: «Noo, adesso è… proprio lì, accanto a te. Ti ha messo una mano... sulla testa.» La suggestione spinge un brivido giù per la schiena della dottoressa. Si scuote, convinta che Cenerentola si riferisca alle allucinazioni che da giorni accompagnano la ragazza nelle sue giornate sempre più corrotte dalla pazzia. «Sii gentile, Cenerentola, me la vuoi descrivere, la tua amica?» La paziente ha ripreso il suo mormorio incoerente. Sofia Herzl deve ripetere la domanda altre due volte, prima che la giovane reagisca. In maniera inaspettata, Cenerentola gira di scatto gli occhi, fissandoli in quelli della dottoressa, e si allunga in avanti, con un’espressione minacciosa. La voce le si è abbassata di un’ottava: «Perché non te la guardi da sola!» Poi si mette a ridere, sgolata. Théodor, l’inserviente che finora ha assistito impassibile alla scena, fa un passo verso la pazza, dal posto nel quale è stato invitato a fermarsi, ma la dottoressa lo blocca, sollevando una mano e aggrottando le ciglia, rassicurante. Il ragazzo, un ex-contadino alto e ben piazzato, torna dov’era, con le mascelle contratte a trattenere la rabbia verso la disponibilità che la dottoressa sta dimostrando nei confronti di una che, solo due ore prima, gli aveva quasi staccato a morsi un dito, e che è solita nutrirsi della cenere che trova all’alba in cortile, dove viene accumulata come scarto del riscaldamento notturno. Guadagnandosi così disprezzo e soprannome. Cenerentola riprende, senza invito, e si esprime con la cadenza di una bambina mortificata per una marachella: «La mia Madrina è vecchia, oh sì, vecchia vecchia. Splende il suo abito color del cielo e m’accompagna volando. È magia, oh sì, magia magia. E dimentica tutto, dimentica anche me.» I lineamenti della giovane si frantumano, e lei prorompe in un pianto lamentoso. Sofia abbassa gli occhi, pensierosa. È convinta di poter aiutare la ragazza, ma la proposta che vuole portare al Direttore, il dottor Kertesz, non avrebbe certo riscosso consenso. La donna si alza dalla sedia, mentre Cenerentola è ancora chiusa dentro un lamento incomprensibile, e le si avvicina per poggiarle una carezza sulle spalle magre: i suoi capelli rossi, unti e spettinati, sono invasi dai parassiti. Théodor non fa in tempo a scattare, Cenerentola ha già stretto le mani attorno al collo della dottoressa. «Fermala, fermala! Portala via, ti prego, portala via da meee!» È Cenerentola a gridare, disperata, schizzando sputi in faccia a Sofia. Théodor solleva la paziente con facilità, stringendosela al petto, intanto che la dottoressa Herzl tossisce forsennata per riprendere fiato. «Bibidibobidibù, bibidibobidibù, BIBIDIBOBIDIBUUU’! Tirala via dalla mia testaaa!» urla Cenerentola, sbattendo come un’ossessa tra le braccia dell’inserviente, e il suo delirio si tramuta nel più disperato grido d’aiuto che le mura dell’ospedale psichiatrico abbiano mai udito.
III La villa di Cenerentola sorge poco lontano dai quattro colli sui quali, leggenda vuole, venne fondata la città, in una zona boscosa dai dintorni rurali. Il padrone di casa è restio, rispetto all’iniziativa della dottoressa Herzl, e non fa nulla per nasconderlo. Lei gli ha promesso che, nel giro di qualche tempo, Cenerentola avrebbe ripreso contatto con la realtà, ma sono trascorsi tre giorni e la situazione sembra ben più difficile di quanto tutti sperassero. «Me lo hanno riferito, sì, signore.» L’uomo dimostra più dei suoi cinquantasette anni, è piazzato a gambe larghe di fronte a Sofia: la sua statura è piegata da una artrite dolorosa, ma la voce del padre di Cenerentola è salda. I capelli bianchi e la barba non rasata gli incarcerano gli occhi neri, infiammati dalla rabbia e dalla frustrazione. «Stava parlando con un topo, perdio! E stringeva tra le mani un uccello morto!» Le lacrime stentano a rimanere appese alle sue palpebre arrossate. La dottoressa è convinta sia meglio soprassedere sul fatto che Cenerentola veda, in quegli animali, amici con i quali discorrere. La ragazza, il mattino di quello stesso giorno, era stata rinvenuta a terra, vicino al caminetto: batteva con forza la testa sul pavimento e già sanguinava dalla ferita che si era aperta, quando Anastasia, una delle due brave infermiere che Sofia ha voluto con sé per accudire la giovane, l’ha portata nella sua stanza per medicarla. Il colloquio con il dottor Kertesz aveva dato frutti insperati. Sofia era convinta che l’assistenza presso un luogo conosciuto e protettivo, quale la sua dimora, avrebbe favorito la guarigione di Cenerentola, o almeno il miglioramento dei sintomi allucinatori. La dottoressa Herzl aveva pregato suo padre di concedere un’ultima possibilità alla figlia, prima di abbandonarla al manicomio, dove sarebbe finita in mano a cure costose, ma inadeguate. Chiese di essere accolta presso l’abitazione di Cenerentola, accompagnata da due collaboratrici fidate e responsabili. Le sarebbero dovute bastare tre settimane di tempo per guarirla. «Mi rendo conto di quanto sia difficile per lei, signore. Tuttavia deve dare tempo a Cenerentola, i giorni trascorsi all’ospedale sono stati davvero... complicati.» L’uomo chiude gli occhi, quasi non si accorge che l’adorata bambina è tanto cambiata da aver perso anche il suo vero nome. Rivede sua figlia mentre corre in giardino, serena, fino all’abbraccio offertole dalla madre. Lei li ha lasciati soli da ormai tre anni, quando Cenerentola ne aveva appena compiuti tredici: la donna cadde dalle scale sbriciolandosi le ossa della schiena. Cenerentola e sua madre erano sole in casa, quando successe, e la ragazzina rimase ore intere a vegliare il cadavere, fino al suo ritorno da un viaggio d’affari. Egli ritrovò la figlia in preda a vaneggiamenti – le spazzolava i capelli, levandole grumi di sangue – ai quali seguirono silenzi, bizzarrie e rapporti sempre più complicati. «Non ce la faccio, dottoressa, non posso vedere mia figlia ridotta così. Sa quanto mi sia costato chiedere aiuto al dottor Kertesz, e adesso che è tornata, qui con me…» per un attimo la voce gli si sminuzza in secchi gemiti. Dignitosamente, il vecchio padre sospira il suo dolore e conclude: «Resti pure qui, faccia i suoi esperimenti mentali e salvi la mia bambina, dottoressa. Ma non mi chieda di rimanere a guardare mentre lo fa.» Le parole dell’uomo travolgono Sofia con la forza di un presagio di fallimento. Ma non può fare niente: l’uomo, poche ore dopo, scompare dentro il bosco, su un calesse diretto in città.
IV «Papà è morto?» chiede Cenerentola, con tono puerile, a Geza(diminutivo di Genoveffa, NdA). L’infermiera sta aiutando la giovane a lavarsi. Il suo corpo sembra passato sotto le ruote di una carrozza: Geza non stenta a credere che suo padre si fosse inizialmente affidato alle tutele di un sacerdote. Il quale, però, li aveva lasciati dicendo che non erano i demoni a farle fare quelle cose e a metterle in bocca quelle parole. Qualcos’altro, altre presenze forse, ma non il Diavolo. «No, cara, tuo padre è andato in città per concludere un’incombenza.» risponde con mitezza l’assistente. L’aiuta a rivestirsi, gli occhi verdi di Cenerentola appaiono immensi, incastonati in quel viso malaticcio. I polsi sono neri per i lividi dei legacci, le gambe e il busto tumefatti per le botte ricevute. E le violenze, maledetto sia colui che ne era stato fautore, non si limitano alle parti visibili delle membra. Geza lavora in quel settore da troppo tempo, per non accorgersi di quanto fallimentari siano i metodi impiegati presso gli ospedali psichiatrici: docce gelate, salassi, contenzione, isolamento, a volte crudeltà gratuite perpetrate tra pazienti stessi o, Dio non voglia, da assistenti privi di scrupoli. Certo si sta aprendo una nuova strada, con la leucotomia, ma i pazienti che non muoiono subito a causa dell’intervento chirurgico passano i pochi mesi restanti in stato catatonico, inconsapevoli del mondo, gli occhi vacui e i lineamenti abbandonati sopra filamenti di bava, incoronati da una cicatrice che attraversa il cranio rasato da un orecchio all’altro. «Tu sei mia sorella?» domanda Cenerentola, mentre la donna la accompagna da basso, a preparare la colazione. La ragazza sembra tranquilla, all’apparenza inebetita dalla libertà di cui gode in questi giorni, rispetto alla buia stanza nella quale era segregata durante la degenza. «No, piccola, sono Geza, ricordi?» Cenerentola viene condotta in cucina, dove svolge le attività domestiche sotto l’occhio vigile delle due infermiere. Prepara i pasti e li serve, e in seguito pulisce i pavimenti, rammenda i vestiti, sistema i fiori in giardino, lustra le vetrate delle finestre, sgombra le stanze impolverate e cattura i topi che banchettano in cantina. Dalla partenza di suo padre sono trascorsi diversi giorni: sebbene con molte accortezze, sono avvenuti piccoli miglioramenti e la tensione fra le tre sanitarie va lentamente calando. Vedono con sollievo diminuire gli episodi di autolesionismo e delirio, anche se, qualche volta, Cenerentola riesce a demolire tutto ciò che con pazienza è stato sanato. «Stai tranquillo, piccolino, non ti faccio niente! Come ti chiami?» Il topo arriccia i baffi, sul fondo della trappola, annusando il pericolo che c’è dentro la voce. «Io sono Cenerentola, vuoi aiutarmi a confezionare il vestito per il gran ballo che il principe darà a palazzo?» C’è un attimo di buio, e poi la cantina sbatte violenta contro la sua faccia, ma Cenerentola non sente dolore, prima di perdere i sensi. Al contrario, è felice perché ha trovato un nuovo amico con cui parlare. La mano stretta, troppo stretta, affonda le unghie nella propria carne, scossa dalle convulsioni, e il suo sangue si mescola a quello della bestiola. Poco male, accorreranno altri amici, a leccare quello di entrambi. Presto, prima che arrivino le tre megere.
V Diario della dottoressa Herzl, giorno XII. Un altro attacco isterico. È il quinto in due giorni, ma è stato in assoluto il più difficile da gestire. Sembrava stesse andando bene, accidenti! La paziente ha dapprima aggredito Anastasia con un forte schiaffo, accusandola di averle rubato una scarpa, la quale non si sa che fine abbia fatto. Ho chiesto a Geza di non intervenire, visto che la nostra presenza contemporanea sembra peggiorare il delirio. Cenerentola è fuggita di sopra, abbiamo fatto appena in tempo a evitare che si chiudesse a chiave nella sua stanza: lì ha cominciato a rovesciare tutto, mentre sbraitava frasi sconnesse. Diceva che la stavamo trattando come una schiava: ci ha accusate di sfruttarla per i lavori domestici, dove noi siamo incapaci, e piangeva il padre, che ancora è convinta sia deceduto. Crede che io abbia sposato di nascosto suo padre, e urlava che Anastasia e Geza sono mie figlie, e perciò sue sorellastre. Durante l’eccesso, Anna ha fatto ancora cenno alla donna che, ogni tanto, le appare come fantasia: sembra rassomigliare alla sua madrina di Battesimo, capace di arti magiche che si esauriscono allo scadere della mezzanotte, ora nella quale, ormai tre anni fa, è presumibilmente deceduta la madre della ragazza. Una volta costretta Anna all’immobilità, le abbiamo somministrato una dose di etere per ricondurla a letto. Le cose sembravano davvero migliorare! Oggi stesso, in mattinata, abbiamo ricevuto la visita del dottor Kertesz: voleva appurarsi dello stato di salute di Cenerentola, probabilmente su preghiera di suo padre. Il Direttore inizia a dirsi dubbioso riguardo la mia strategia di cura, nonostante l’atteggiamento delizioso di Cenerentola, la quale si è mantenuta tranquilla e in disparte: dalla finestra guardava il giovane che accompagnava il dottore, quel Théodor che ha conosciuto all’ospedale e che stava di fuori, in attesa, accanto al calesse. Sarà stato questo episodio a scatenare il delirio? Cenerentola si riferiva forse a quel giovane, quando urlava che un principe l’aveva invitata a un ballo per via di un messaggero, nella cui descrizione ho riconosciuto il dottor Kertesz? Non lo so, forse sto sbagliando qualcosa, forse la sua malattia mentale è davvero irreversibile. Forse dovrei indagare di più il suo vaneggiamento, sebbene avverta di non averne i mezzi. Una settimana. Ancora una settimana e, se non ottengo miglioramenti evidenti dello stato allucinatorio, la riporterò dentro. Io non posso permettere che lei ritorni a mangiare cenere.
VI Dorme, la cattiva, da non sembrare viva. Piano, piano piano, senza rumore scendo dal letto, mentre la sorellastra sogna io abbandono la stanza: perfetto! Non si è svegliata, Geza, così dall’uscio esco nel respiro della sera, nel vento fresco, ma non ho ancora un abito, nemmeno una scarpetta, me l’ha nascosta la matrigna maledetta! Piango amare lacrime perché nessuno mi può aiutare, non c’è nessuno qui, tranne i miei piccoli amici: come fare? Magia, oh sì, magia magia. Splende il suo abito color del cielo, m’accompagna volando, mi consola con dolce zelo, è vecchia, oh sì, vecchia vecchia, e dimentica tutto, ma non dimentica me, che la vita ho distrutto. Dove sei, mamma? E dove sei, principe mio? Guardatemi adesso, guardate questo sfavillio di lucenti scintille che brillano sul mio bel vestito, e questi cristalli che donano ai miei piedi uno splendore infinito. Corro dentro il bosco, mentre si fa notte devo ritornare prima di mezzanotte altrimenti la mamma muore, e io con lei, ho il timore. Corro dentro questa meravigliosa carrozza, non ci credete? Prima essa era una zucca e i cavalli erano topi, creature quiete! Al palazzo nessuno mi conosce, trasformata come sono, tutti sono sbalorditi, anche il Re, seduto sul suo trono. Sceglimi, balla con me, principe, balliamo davanti a tutti loro, mentre i miei amici usignoli cantano in coro, sei davvero bellissimo principe azzurro, nel tuo castello meraviglioso, mi sento pronta - che emozione dirlo - a prenderti in sposo! Danziamo sotto queste splendide stelle, ci benedica la magia, scoppino d’invidia le mie sorelle. Sto così bene, ma che ora abbiamo fatto? Quasi mezzanotte, non me ne sono accorta affatto! Ora sento le loro voci. Mi stanno chiamando! Arrivano di corsa, vogliono prendermi prima che io arrivi sull’abisso, mia ultima risorsa. Non voglio perderti, perdonami, mio principe adorato, ma ti troverò al castello, oltre il bosco, dove una volta mi hai baciato. Devo scappare, prima che arrivi mezzanotte, quando l’incantesimo svanisce, quando nemmeno la Fata può fare più nulla, e la mia mamma perisce. La mia scarpa di cristallo! Là sul sentiero, ora ricordo, l’ho persa dopo il ballo.
VII «Mi dispiace, dottoressa, davvero. So quanto lei ci tenesse, e quanto Cenerentola avrebbe potuto trarne giovamento.» Geza, rossa in viso e sguardo basso, sa di avere mancato la fiducia della dottoressa Herzl, che sta cercando di sbollire la rabbia camminando nervosamente lungo la grande sala che accoglie i visitatori dell’ospedale psichiatrico. L’infermiera può fare ritorno nel reparto femminile che accoglie le pazienti più aggressive, consapevole del fatto che la sua mancanza non avrebbe comunque procrastinato ancora per molto il ritorno di Cenerentola nella struttura di cura. Sofia lo sa, e non rimprovera nulla alla giovane assistente: la sua rabbia è per l’insuccesso del trattamento che ha cercato di attuare con la ragazza. Questo non farà bene alla paziente, e nemmeno alla sua credibilità. Si ferma un attimo, sbuffando tutta la sua frustrazione. «Arrivederci, Geza, e grazie. So che anche lei ci credeva, in questa idea. Dirò al dottor Kertesz quanto sia stata preziosa, chissà che questo non le porti la promozione che merita.» Annuisce ringraziando, la donna, e si allontana verso le grida disumane che si rincorrono tra i corridoi dell’istituto. Poi si gira un’ultima volta. «Non la lasci sola, dottoressa! Non la lasci sola, per favore.» Sofia lo promette, all’infermiera quanto a se stessa. Il dottor Kertesz la attende nel suo studio per un colloquio. Fatica a credere che solo la sera prima aveva rischiato che Cenerentola si gettasse in un dirupo, appena al di là della boscaglia retrostante la villa, guidata dal suo delirio e da chissà quali fantasmi interiori. Ricondotta a casa, medicata dai graffi delle sterpaglie e rivestita, erano risuonati i dodici rintocchi quando Cenerentola, finalmente, si era riaddormentata. L’avevano vegliata poi per tutta la notte, e sembrò che la ragazza stesse dormendo il suo primo sonno sereno dopo chissà quanti anni. Quanto le sarebbe costato quel fallimento? Si è forse illusa, e la ragione sta dalla parte di quei colleghi che, nel fabbricato lì accanto, stanno asportando i lobi temporali dei malati? Sofia trae un sospiro profondo ed entra nello studio asettico del Direttore, cercando di trattenere bene in mente che ha voluto agire solo per aiutare Cenerentola a stare meglio. Poco prima di chiudere la porta, si accorge di quanto strillino gli uccellini, quella mattina. Ma il suono, le sembra, è quanto di meno gioioso abbiano mai cantato.
VIII «Finalmente, mio principe, finalmente mi hai trovata!» Théodor non è sorpreso nel vedersi arrivare incontro la svitata. Non gli interessano i motivi per i quali è rimasta assente dall’ospedale per tutti quei giorni. La giovane è decisamente più in forma dell’ultima volta che l’ha vista: altrettanto pazza, forse, ma così bella da far sfiorire tutte le altre internate. L’inserviente si è procurato il compito di riaccompagnare la ragazza alla sua vecchia stanza. Non si aspettava un’accoglienza simile ma, dal suo punto di vista, non è certo un male. «Tranquilla, Cenerentola, torniamo al tuo alloggio.» Ha imparato a non contraddire i malati di mente, per evitare violente reazioni. In quel caso, sarebbe stato oltremodo stupido frenare il vaneggiamento della ragazza. «Balliamo ancora, vero?» Cenerentola si mette a girare su se stessa, strusciandosi attorno a Théodor come in preda a una frenesia d’amore, sorridendo una cantilena stonata in faccia al giovane. Il ragazzo la contiene quanto può, mentre attraversa il cortile del manicomio esposto alla vista dei presenti, siano essi partecipi del mondo o meno. Théodor sceglie di passare lungo il retro del caseggiato che accoglie la sezione femminile. Cenerentola non smette di sussurrargli parole deliranti. «Noi ci sposeremo, ora che siamo di nuovo insieme, qui nel tuo castello! La scarpa nel bosco era mia, sapevo che l’avresti ritrovata. E solo io la posso calzare, altro che le invidiose sorellastre!» Théodor non ha idea di cosa stia blaterando quella squilibrata. Si infila in un corridoio che sa essere poco praticato. «Noi adesso vivremo per sempre felici e contenti, mio principe adorato, vero?» «Oh sì, cara, vedrai che per un po’ saremo felici e contenti.» Guarda bene di non essere visto, Thèodor, prima di spingere la mentecatta in un vano riparato da sguardi indiscreti.
IX «Thèodor, dove eri finito?» «Buongiorno dottore, ecco la sua paziente. Non ne voleva sapere di salire, e ho faticato non poco per rasarla a zero.» Cenerentola viene distesa sul lettino, gli assistenti della sala operatoria le fermano i polsi e le caviglie con legacci di cuoio. Gli strumenti chirurgici riflettono abbagli di fredda luce. La giovane ha lo sguardo perso, si abbandona supina alle manovre che la preparano alla leucotomia, mentre dalla sua bocca esce una nenia, forse una poesia. Nessuno le presta attenzione. «Bibidibobidibù, fa la magia tutto quel che vuoi tu.» Il dottore le pone davanti al bellissimo viso una pezza impregnata di cloroformio.
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