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OCCHI MORTI
Quando Missy Rock cadde dal letto, perdendo un occhio e spezzandosi un braccio, il vaso si riempì e l’acqua iniziò a tracimare. Non c’era stata la classica goccia che, unendosi alle altre, aveva portato l’acqua olltre il bordo; c’era stato, piuttosto, un meteorite piombato giù a velocità folle. Gocce acide erano piovute tutt’intorno, corrodendo la superficie benevola delle cose. Il meteorite era l’occhio fisso di Missy Rock, e questo era un fatto. L’altro, era che l’acqua dentro il vaso era prutrida e stagnante, vecchia di decenni.
– Si può sapere che ti è preso? Marco mandò giù il boccone, concentrandosi sul movimento dell’epiglottide. – Credo di aver fatto un brutto sogno. – Credi? – lei spostò l’aria con la mano, masticando di gusto pane sporco di marmellata ai lamponi. – Sì, una brutta sensazione. Mi sono svegliato all’improvviso, tutto qui. – E perché te la sei presa con Missy? Vittoria ha pianto per tutta la mattina, lo sai? – Mi spiace, è stato un gesto istintivo. Gliene comprerò una uguale. Paola rimase in silenzio, a fissare il vasetto incrostato di marmellata dietetica. – E se, con il tuo movimento istintivo, avessi afferrato e scaraventato giù dal letto Vittoria? – Non dire scemenze, so distinguere nostra figlia da una bambola. Paola arcuò le sopracciglia, allontanando il busto dal tavolo per accarezzarsi il pancione. – Me lo auguro, visto che qui sta per arrivare il bis – disse scostando la sedia e alzandosi in piedi. – Sarà meglio che mi avvii, altrimenti rischio di far tardi all’appuntamento col ginecologo. – Sei sicura che non devo accompagnarti? – Sicura – disse lei chinandosi per baciarlo sulla fronte. – Sono ancora in grado di farcela da sola. Ricordati di andare a prendere Vittoria all’asilo, va bene? – D’accordo. Marco allungò le mani, a cercare la rotondità soda del ventre della moglie. Chiuse gli occhi, gustandosi il calore che emanava dal corpo ingrossato di lei. Pensò a Enrico, che galleggiava silenzioso nel liquido amniotico. Si sciolse dall’abbraccio, improvvisamente infastidito.
Eh, sì. Sei proprio da buttare, pensò raccogliendo Missy Rock dal cesto dei giocattoli. Osservò la cavità orbitale vuota e il braccio montato al contrario da Paola, chiedendosi perché mai sua moglie non avesse buttato quel fantoccio direttamente nel cesto dell’immondizia. Non era più un giocattolo adatto a una bambina, assomigliava a un feticcio demoniaco, ormai. E, come tale, gli era apparso anche quella mattina, quando aveva ancora tutti e due gli occhi e l’arto al posto giusto. Naturalmente, aveva mentito: non c’era stato nessun incubo, solo quella bambola del cazzo che lo fissava. Si era svegliato di soprassalto, come se qualcuno gli avesse sussurrato all’orecchio. Il viso statico e sornione di Missy Rock lo stava osservando da pochi centimetri di distanza, mentre il braccio, troppo simile a quello di un vero neonato, era alzato nella sua direzione, a sfiorargli la spalla. Marco aveva sentito il cuore ribellarsi e fare un balzo in avanti, contro la cassa toracica. Allora aveva afferrato la bambola, che sua figlia aveva infilato clandestinamente nel loro letto, e l’aveva sbattuta con rabbia a terra, quasi fosse stato un insetto velenoso. Ripensò all’abbraccio immobile che Missy Rock aveva tentato di dargli e le gambe tremarono, sfiorando la stoffa leggera dei pantaloni. Si sedette sul lettino di Vittoria, la bambola sulle ginocchia e un malessere intimo che pretendeva di essere preso in considerazione. Era la bambola, lo sapeva. Lo spavento della mattina aveva riaperto la porta su quella strana fobia, ripiombandolo indietro di anni. Evidentemente, la porta era solo accostata. Scagliò Missy Rock contro il muro: nell’urto il braccio si staccò di nuovo e Marco lo vide roteare nell’aria e disegnare parabole veloci. Ce l’aveva fin da bambino, quel problema. E sapeva anche come si chiamava perché sua mamma gliel’aveva detto, quando era stato più grande. Gliel’aveva raccontato ridendo, a dire il vero, di quando suo figlio scoppiava a piangere di fronte alle bambole, e di come fuggiva a nascondersi sotto il letto. Pediofobia, era il termine giusto. Marco si distese sul letto, le braccia incrociate dietro la testa e lo sguardo fisso sulla carta da parati coi cuoricini. Aveva un ricordo vago di quel periodo, spezzoni d’infanzia, disarticolati ma nitidi. C’era una bambola, in particolare, che lo terrorizzava, questo lo rammentava bene. Era quella di sua sorella, quella maggiore. Era un bambolotto, di quelli che assomigliavano ai neonati veri, con la plastica a simulare in maniera piuttosto realistica la pelle rigogliosa e paffuta dei bimbi appena nati. Marcò voltò il capo e incrociò lo sguardo orbo di Missy, che lo sfidava dall’angolo della stanza. Era una bambola come quella che l’aveva traumatizzato da piccolo. Sbirciò l’orologio: mancavano ancora un paio d’ore prima che Vittoria uscisse dall’asilo. Si girò nel letto e chiuse gli occhi, le palpebre ormai un peso insostenibile. Prima di scivolare nel sonno, un pensiero lo inseguì. Qualcosa che aveva pensato prima, mentre sondava i ricordi, che riguardava sua sorella. Il lettino cigolò sotto il peso del suo corpo scosso da un singulto. Spalancò gli occhi, ma non vide il sole di maggio che trafiggeva le tendine di seta, mentre arabeschi lucenti s’inseguivano sul parquet. Marco fluttuava in un’oscurità cullante e protettiva. A pochi centimetri, in quel buio, qualcuno lo osservava, in silenzio.
La campagna s’era appiattita, fusa in un turbinio verde e marrone che scorreva veloce in decine di fotogrammi illegibili al di là del finestino. L’asilo di sua figlia era dall’altra parte del paese, ma l’urgenza che Marco aveva avvertito, deflagrata prima nella testa e poi nello stomaco, aveva ridotto il problema a dimesioni minime. Quando bussò alla porta di sua madre, Vittoria era un puntino ormai sbiadito nella scala delle sue priorità. – Mamma, ti ricordi di quando, da bambino, avevo paura della bambola di Laura? La domanda raggiunse Luisa come un gancio in pieno volto; Marco vide le sue nocche sbiancare contro il legno della porta che aveva appeno aperto. – Tesoro, che ci fai qui a quest’ora? – Ti ricordi? – incalzò lui entrando in quella che un tempo era stata anche casa sua. – Certo che mi ricordo – iniziò Luisa con una bozza di sorriso sulle labbra. – Ma, come aveva previsto il dottore all’epoca, tutto si è poi risolto. Marco strinse gli occhi nella penombra della stanza. – Come ti è tornata in mente questa cosa? – aggiunse lei, la voce disturbata da un lieve tremolio. – Non si è risolta. Stamattina ho fracassato la bambola di Vittoria. – Hai fatto cosa? – strillò Luisa, questa volta decisa. – E Vittoria sta bene? – Certo che sta bene. Senti... – Fece un inventario mentale del vocabolario. Fu tentato di inventare una scusa e di chiudere lì quella conversazione bislacca; poi le parole si materializzarono in suoni, propagandosi nel soggiorno. – Io credo di conoscere la causa della mia fobia. Mia sorella, quella più grande, aveva pensato. – Che intendi? Marco fece un passo verso di lei, osservò la leggera peluria del labbro superiore imperlata di sudore, le rughe che le increspavano il viso e pensò che erano passati tanti anni. Troppi. – Devi dirmelo, mamma. Non ero solo, vero? Ci fu un silenzio elettrico. L’acqua del vaso, putrida e stagnante, vecchia di decenni, inondò il pavimento. Poi, la voce di sua madre, in equilibrio precario sul ciglio del pianto. – Nacque morta. Tu vivo, lei morta. Dissero che lo era già da una settimana. Poi la mamma aggiunse un altro particolare. Ma a Marco non interessava: lo sapeva già che la sua gemella aveva gli occhi spalancati. Occhi morti che lo fissavano.
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