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27 Luglio 1952. Era una di quelle mattine in cui sei felice di essere venuto al mondo. La notte aveva piovuto. Un furioso temporale estivo di quelli che ti lasciano la sensazione che nulla sarà più come prima. E in un certo senso era vero. Una giornata di sole così limpida e tiepida non la ricordavo da mesi. Con il sole era tornato anche il buonumore. Piazza Navona sembrava risplendere di luce propria. Un astro lucente attorno al quale gravitava la Roma splendida di quell’inizio decade del dopoguerra. Gli anni ’50. Qualche carrozzella trainata da pigri ronzini indugiava sopraffatta da quello spettacolo. Un ragazzino strepitava da sotto una montagna di quotidiani ancora freschi di stampa «Giornali! Olimpiadi di Helsinki: Carlo Pedersoli eliminato nelle semifinali dei 100 stile libero… Giornali! È morta Evita Peron… Giornali!». Come se le due notizie avessero la stessa rilevanza. E forse, per buona parte degli italiani, l’avevano: in fondo non è che il mondo sia cambiato così tanto da allora. Edmondo era già al lavoro. Finalmente la pioggia non avrebbe rovinato i capolavori del mio amico madonnaro.
Stavo montando il cavalletto accanto a lui, in attesa di qualche turista da immortalare. Riposte le giovanili ambizioni da grande artista, dovevo pure guadagnarmi la pagnotta quotidiana. E spesso, senza retorica, era proprio con una pagnotta e acqua di fontanella che pasteggiavo. Quanti “nasoni” c’erano a Roma in quegli anni… Anche sforzandomi non ricordo pasti più gratificanti.
Un ronzio. Qualcosa più di un ronzio. Un rombo prolungato. Alle mie spalle sfilò una motoretta, una Vespa 125. La ragazzina in sella sembrava intenzionata a fare un giro della piazza. Con la coda dell'occhio seguivo le traiettorie dello scooter, mentre predisponevo la sediolina da regista dietro al cavalletto. Quella con la scritta C.L.Bragaglia, che stava per Carlo Ludovico Bragaglia. Un mio amico rigattiere, che lavorava saltuariamente come trovarobe per il cinema, me l’aveva fatta avere per pochi spiccioli. Ne ero molto orgoglioso: mi disse che una volta ci si era seduto addirittura il Principe, Totò! Insomma, avere in comune con Lui anche soltanto il sito (per dirla con un termine tanto di moda al giorno d’oggi) dove aveva poggiato il posteriore per me non era un onore da poco.
Tornando a quella mattina e a quel motorino, conoscevo bene la Vespa 125. Guidavo quel trabiccolo da qualche mese. Ne avevo rimediato uno di seconda mano. Si fa per dire, visto che il proprietario, un meccanico, l'aveva usata solo tre mesi prima di cadere e rompersi un ginocchio. Era stato proprio felice di disfarsene anche per poche migliaia di lire. Una volta ci ero tornato perfino a casa, a Bitetto in Puglia: un vero viaggio. Notai che anche Edmondo, solitamente poco attratto da motori e affini, stava osservando le evoluzioni di quella moderna amazzone. Mi accorsi che stava prendendo troppa velocità. Scartò per miracolo il granitico obelisco. La ragazza stava urlando «Aiuto… come si ferma 'sto coso…». Puntava diritta verso la Fontana dei Fiumi. «Il pedale del freno, schiaccia il pedale del freno!» le urlai. La ragazza, in preda al panico, sembrava non capire. Tuttavia eseguì. La moto perse un po' di velocità. Quel tanto che mi fu sufficiente per saltare fuori dalla sediolina, con uno scatto repentino che ancora potevo permettermi, e piazzarmi tra la fontana e la vespa che stava sopraggiungendo. Riuscii, ancora mi chiedo come, a balzare sul portapacchi dietro al sellino, proprio alle spalle della ragazza. Il mezzo si inclinò pericolosamente sulla destra, ma rimase stabile, sempre diretto verso la marmorea opera del Bernini. Per una frazione di secondo, un attimo appena, ebbi modo di pensare a quanto sarebbe stato felice Borromini se avessimo, “sfregiato” l’opera del rivale! Riuscii ad afferrare la leva del freno anteriore a lato del manubrio. Strinsi con forza. La gomma dei pneumatici sfrigolò: le ruote si erano bloccate. La moto slittò sui sampietrini derapando e scodando leggermente sulla sinistra. Mentalmente mi preparai all'impatto con la ringhiera in ferro battuto che cingeva la fontana, mentre il grido stridulo della ragazza mi stava perforando i timpani. Nulla di tutto ciò. La Vespa si fermò a mezzo metro dalla recinzione della fontana. Poggiai una mano sulla fronte passandomela lentamente tra i capelli, ansimante per lo scampato pericolo. Rimbrottai la ragazzina. Era più giovane e esile di quello che mi era parso durante la sua corsa avventurosa. Scendendo dalla moto feci mezzo passo indietro. Andai a sbattere alla bassa recinzione ferrea del monumento. Barcollai, persi l'equilibrio e caddi, finendo goffamente seduto nell'acqua della vaschetta concava che circonda il gruppo scultoreo. Rimasi per un attimo immobile, come sorpreso. Mi alzai massaggiandomi il didietro completamente fradicio e dolorante. La ragazza, dapprima contrita per dare l'impressione di essere convinta dei miei rimproveri, provò a resistere, lo vidi, provò con tutte le forze, ma proprio non ce la fece: dovette cedere al motto di ilarità che le era venuto da dentro. Mi scoppiò a ridere in faccia. A quel punto mi unii alle risate sinceramente divertito. La ragazza, poi, si scusò per la sfrontata mancanza di rispetto e riacquistò un'espressione compita. Con un sorriso disarmante mi ringraziò piazzandomi un bacione sulla fronte e, inforcato il suo metallico destriero, ripartì prudentemente, infilandosi in uno dei vicoli che formano la ragnatela di stradine del centro storico. Roma la inghiottì placida e serena. Mi voltai verso Edmondo, aspettandomi di trovarlo piegato in due dalle risate. Il mio amico, invece, era chino in terra, intento a spargere sui sampietrini, da sempre la tela che preferiva, i “suoi” colori. Colori ricavati da terre, pigmenti naturali, foglie, germogli, fiori e quant'altro.
Ferma dietro di lui, in piedi, c'era una ragazza. Aspetto sofisticato. Abito di tessuto leggero bicolore: bianco e nero, lungo appena fin sopra al ginocchio. Trucco molto leggero: acqua e sapone. Era magrolina e, pur rimanendo immobile, emanava stile ed eleganza.
Il suo sguardo, prima riposto su di me, ora era intento a controllare l'opera di Edmondo. Alle spalle della ragazza era ferma una carrozzella. Sul cocchio notai un uomo sulla cinquantina, brizzolato, anch'egli molto elegante in giacca color crema, cravatta beige e camicia chiara. Sembravano stranieri e molto danarosi. Occasione da non perdere. Mi ricomposi. Senza dar peso alle iniziali rimostranze della fanciulla, la feci accomodare sulla sediolina di fronte al cavalletto. Quindi mi misi all'opera. Il volto della ragazza era radioso. Sembrava una "principessa" e, per quel che ne sapevo allora, poteva anche esserlo. Era felice e divertita da quanto stava accadendo. «Ha gli occhi che ridono» pensai. Terminata l'opera feci cenno alla ragazza di alzarsi e venire a vedere il risultato. Cosa che fece con entusiasmo. Le piacque. Se possibile i suoi occhi risero ancor di più. Richiamò l'attenzione dell'uomo distino sulla carrozzella. Lo fece in inglese ed ebbi conferma di ciò che avevo pensato: americani in vacanza e pieni di dollari. L'uomo stava scrivendo. Guardò in direzione del cavalletto e annuì sorridendo, più per galanteria che per vera convinzione, quindi tornò al suo scritto. La "principessina" mi porse un biglietto da venti dollari che accettai entusiasta. Era circa quindici volte più di quanto chiedevo normalmente ai turisti. Avevo "svoltato" la giornata, che dico la giornata: la settimana! Arrotolai il ritratto e lo cinsi con un nastrino rosa. La ragazza lo prese sorridendo, stavolta non solo con gli occhi, ringraziandomi nel suo idioma. Mi abbracciò e mi diede un bacio sulla guancia. E due, pensai. Prima sulla fronte, ora sulla guancia. Chissà che prima di sera non riesca a rimediare anche un bel bacio sulle labbra! Mi venne da sorridere. La ragazza corrispose, anche se dubito avesse capito i miei pensieri. Ora la sua attenzione era attratta dall'opera di Edmondo. Guardai anch’io. Aveva rappresentato perfettamente la scena di pochi minuti prima. Ero raffigurato nell'atto di cadere goffamente nella fontana del Bernini, mirabilmente riprodotta, di fronte alla ragazzina a cavalcioni della Vespa. La "principessa" si mise in ginocchio. Intinse l'indice della mano destra nel colore rosso mattone, ricavato da chissà quale intruglio di essenze naturali, come avrebbe fatto una bimba golosa con un barattolo di nutella, quindi appose il suo autografo in calce all'opera. Si alzò sorridendo. Diede un biglietto da venti dollari a Eddy, baciando anche lui. Fui percorso da un'ombra di gelosia: non avevo più l'esclusiva del bacio della "principessa", accidenti! La ragazza salì sulla carrozzella aiutata dal Gentiluomo in cravatta. Ci rivolse un segno di saluto con la mano, donandoci per l'ultima volta il suo sorriso. Un cenno al vetturino e il ronzino riprese il suo incedere svogliato. Quella sera, io e il mio compare decidemmo di festeggiare il denaro inatteso. Ci ubriacammo di un buon vinello rosso. Edmondo, a un certo momento, non ricordo più quanti brindisi già avevamo fatto, estrasse dalla tasca dei calzoni un foglio di carta piegato in otto. Distese il foglio. Era il calco della sua opera, firmata dalla ragazza. Il vecchio Edmondo, talmente soddisfatto dal suo "affresco", per una volta aveva contravvenuto al contratto stipulato molti anni prima con se stesso. Come pittore di strada, si era ripromesso di non avere a cuore, in alcun modo, la "conservazione" delle sue opere costantemente esposte alla furia delle intemperie e a ogni sorta di atto vandalico. Stavolta aveva steso il foglio bianco sull’affresco, lo aveva tenuto pressato per diverse ore, mettendoci sopra il baule dove custodiva i materiali della sua arte: i suoi colori "naturali". Così facendo, l'opera era stata impressa sul foglio come una sorta di pagana Sindone. Per vedere l'immagine nel verso corretto andava posto il foglio di fronte a uno specchio. E così facemmo. Il risultato era sorprendente. Scoppiammo a ridere. Ero proprio io, comicamente caracollante all'indietro. I nostri occhi si spostarono all'unisono in basso. In calligrafia pulita, rotonda, molto femminile, si poteva leggere chiaramente la firma della "principessina" d'oltreoceano.
Ancora adesso, di tanto in tanto, nelle lunghe e malinconiche serate invernali che trascorriamo in questa casa di riposo, Edmondo mi chiama nella sua camera e, nel tremolio onnipresente compagno di questa parte della sua vita, estrae da un cassetto il foglio di carta oramai consunto. Lo dispiega e, seduti di fronte allo specchio interno del suo armadio, passiamo ore a guardare quel fotogramma del nostro passato, parlandone, ridendo o piangendoci su.
In calce si legge ancora distintamente la dedica:
With Love Audrey Hepburn
Edited by giorgio.marc - 8/9/2009, 12:50
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