Metz Yeghern
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Metz Yeghern

di F. Maccioni-storico-28.000 car ca

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  1. federica68
     
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    Eccomi, ci riprovo questo mese.
    Questo racconto è molto importante per me, e posso pubblicarlo qui per gentile concessione della Comunità Armena a cui ho ceduto i diritti (tranne la paternità, ovviamente) del racconto: mi hanno aiutata con le fonti e le revisioni storiche, e mi sono stati di grande sostegno e aiuto.

    Per chi volesso conoscerli meglio:
    http://www.comunitaarmena.it/akhtamar.html è l'indirizzo della rivista, mentre questo è il loro sito ufficiale
    http://www.comunitaarmena.it/comunita.html

    voglio ringraziare anche LudovicoVanHallen, al secolo Luigi Milani per il sostegno e i consigli in una fase di dubbio durante la stesura del racconto.






    Metz Yeghern



    Meditate che questo è stato.

    (Primo Levi)



    Istanbul, 24 Aprile 1915
    È alba dorata sulla città dormiente.
    Improvvise, le urla frantumano il fragile silenzio della brezza marina. Calci di fucile abbattono le porte.
    Uomini strappati alle case, al sonno, alle spose. Donne gettate a terra. Bambini trascinati.
    Minacce. Dolore.
    Terrore, lacrime.
    In lunga fila camminano i prigionieri ammanettati.
    Le porte del carcere risuonano.
    Buio. Tortura.
    Orgoglio e fierezza.
    Un cappio di fil di ferro per ciascun uomo.
    Un cappio di silenzio per ogni voce.
    Un cappio di oscurità per ogni volto.
    E l'alba svanisce, e il respiro, e la vita.


    Puglia, Settembre 1924

    C'era un villaggio sui monti dell'Anatolia; non ricordo il nome o non l'ho mai saputo.
    Si levava una musica quel giorno.
    Una musica triste, l'anima del mio popolo antico; al suono del
    tsirnapogh le pietre piangevano. E le case e le piazze piangevano. La voce del flauto tesseva un luogo senza grida, senza terrore, il giorno che la marea urlante irruppe nella nostra vita.
    Metz Yeghern.
    E il sole nascose il volto, sgomento.



    Anatolia, Luglio 1915
    Quando la polvere si era levata lontano, le donne erano corse a casa.
    “Arrivano! Arrivano!”
    Il panico si era impadronito del villaggio.
    Il padre lo aveva chiamato. “Aram! Aram! Vai di sopra, presto! Prendi tuo fratello!”
    Aram, terrorizzato per la confusione, per il viso stravolto di suo padre e per le urla di sua madre, si era arrampicato, spingendo Magar davanti a sé. Da tempo gli adulti avevano deciso che i ragazzi usassero come rifugio una trave del sottotetto in caso di attacco al villaggio. Erano abbastanza minuti da sperare di non essere trovati.

    “Seda!” ordina l'uomo alla moglie. “Fuggi!”
    Seda si aggrappa a lui. “No! No! I bambini!”
    “Non possono seguirti ora. Va'! Presto! Prima che arrivino! Verranno da te più tardi, quando loro se ne saranno andati”.
    “Karnig! E tu?”
    “Io resto qui”.
    Si erge sulle spalle, orgoglioso.
    “Va', presto”. Un attimo di dolcezza, un bacio.
    Attraverso una fessura delle assi, Aram guarda svanire le spalle di sua madre dal riquadro della porta.
    La segue con il pensiero e con gli occhi.
    Scalpiccio di piedi, sedie smosse.
    Sotto ai due ragazzi appaiono il padre e il nonno, vestiti della casacca dai bordi ricamati, come se andassero a una festa. I due uomini siedono a terra con le gambe incrociate, mentre le voci e gli spari esplodono nel villaggio.
    Portano alla bocca gli antichi flauti armeni, e il suono triste del tsirnapogh si leva nell'aria ferita.
    Aram si aggrappa a quel suono come a una speranza. Non può accadere nulla di male, finché il papà e il nonno suonano così. Magar si stringe a lui. È sudato, respira a fatica. Il ragazzo prende la mano del fratellino e restano così, immobili.
    Si sentono piangere le donne, fuori.
    “La mamma...” bisbiglia il più piccolo dei due bambini.
    “La mamma è lontana ormai, non può essere lei che piange, Magar”. Ansima, gli occhi dilatati nel buio. “Zitto adesso”.
    Ascoltano gli ordini dei soldati. I loro passi si avvicinano.
    I prigionieri li seguono; il più grande dei due bambini lo intuisce dal pesticciare strascicato e incerto che si accompagna al risuonare cadenzato, dalle violente imprecazioni che rispondono ai gemiti e alle esclamazioni.
    “Qui!” Una voce come una frustata.
    È la casa di Levon, il migliore amico di Aram, il compagno di sempre.
    “Papà! Papà!” chiama la voce di Levon.
    Un colpo secco. Levon tace.
    Aram ha un conato di vomito ma si trattiene. Suda; un sudore gelido gli scende a rivoli lungo la schiena. La testa gli gira.
    Il tsirnapogh suona, lungo, lento colma l'onda dell'eco dello sparo, dilaga nelle pozze del tempo, negli anfratti del silenzio violato.
    Ascoltando quella musica, la nausea defluisce piano piano e se ne va.
    “Cahit! Qui vai tu!”
    Sono nella casa di Nersès. La madre di Nersès urla. “No! Il bambino no! No!”
    Nersès piange.
    Una voce maschile sovrasta il pianto: “Lascialo!” Un urlo di dolore segue l'ordine perentorio. “Puttana!” Sibila la voce. “Mi ha morso, la cagna!”
    Uno sparo. Nersès non piange più.
    “No!” grida la donna.
    Un altro colpo. La madre di Nersès tace.
    Aram inspira a lungo, per ricacciare la vertigine.
    Le note afferrano l'anima, scavano il cuore lente, profonde come un altro silenzio. Un altro luogo. Non questo, non qui, non ora.
    “Qui! Avanti, forza!”
    Sono qui. Tamburi impazziti nelle orecchie, e la vertigine ritorna.
    Aram e Magar si abbracciano; Magar chiude forte gli occhi e trattiene il respiro.
    “Cos'è che suona?”
    “Uno dei soliti. Non lo sai ancora?”
    Sghignazzate.
    “Ce n'è sempre qualcuno che ci accoglie così!”
    Uno scoppio di risa sguaiate.
    Luce improvvisa. Hanno abbattuto la porta.
    “Sono in due, non uno!”
    “Meglio così”.
    Risate come insulti.
    Le dita di Magar artigliano le spalle del fratello, ma Aram non le sente.
    Il suono lungo del tsirnapogh. Finché il flauto suona non può accadere nulla.
    “Alzatevi, bastardi!”
    Non può accadere nulla.
    Il nonno e il papà continuano a suonare.
    “In piedi ho detto!”
    Non può accadere nulla.
    Passi pesanti sul pavimento.
    “Non volete alzarvi, eh?”
    Nulla, può accadere. Nulla.
    Un colpo.
    Il nonno cade.
    Aram ingoia il grido che sale in gola. Sente gemere il pianto nel respiro sgomento di Magar e gli chiude la bocca con la mano.
    Papà continua a suonare.
    “Alzati!”
    Le note del flauto intessono un sogno, il colore del tramonto e la carezza del vento.
    Un colpo.
    Il respiro dei ragazzi si tronca.
    Papà cade.
    “Due di meno da sorvegliare”.
    “Sì, ma stai sprecando troppe munizioni. La prossima volta usa il calcio del fucile. In testa”.
    Una voce nuova si affaccia sulla soglia: dura, autoritaria.
    “Avanti, fate presto!”
    “Signorsì!”
    I due soldati cominciano a frugare ovunque, nei cassetti, negli armadi; sventrano i divani e i cuscini. Gettano a terra il vasellame, gli oggetti, i libri. Rovesciano i mobili. Cercano oro, denaro, gioielli, qualunque cosa di valore. Aram lo sa.
    Cercano gente nascosta. Loro.
    “Non ce ne sono altri, stiamo perdendo tempo”.
    “Aspetta! Prendiamoci almeno una mancia!”
    “Ma non vedi che questi qui non hanno niente?”
    “Stai zitto e cerca. Sbrigati!”
    Rovistano ancora, imprecando.
    Ci stanno impiegando una vita; i rumori ricordano quelli di un cinghiale che raspa il terreno con il muso in cerca di radici. Una volta Aram lo ha sentito, nel bosco. Grugniva nello stesso modo, ansava come quei due.
    “Merda!” Il più tarchiato dei due soldati si alza in piedi, sotto il loro nascondiglio. “Tutto lavoro inutile”.
    “Te l'ho detto che non c'era niente! Andiamo, muoviti!”
    I soldati si voltano e se ne vanno.
    “Bastardi”, biascica l'ultimo, e prima di uscire sferra un calcio alla testa del nonno con lo stivale chiodato.
    Torna il silenzio sul villaggio. Aram, piano piano, scende dal suo nascondiglio, e tende la mano al piccolo, per aiutarlo. Geme. Ansima. Trema. Ha urla nella testa e lacrime nel petto, ma non piange.
    Magar è pallido e sudato.
    Si avvicinano al nonno e al papà. L'odore ferroso li colpisce come una mazzata: il sangue è schizzato dappertutto, ha sporcato i bei pizzi bianchi delle tende della mamma, ha inzuppato di nero i tappeti colorati. Una vasta macchia gocciolante e slabbrata si è rappresa sul muro, dove il papà appoggiava le spalle.
    Quella vista li sgomenta.
    Aram si sente come sospeso da terra.
    I cocci sono ovunque; le pagine strappate, i cassetti divelti, le ante dei mobili scardinate. Le piume dei cuscini si sono posate come neve dappertutto, inzuppandosi di sangue.
    Le impronte dei soldati insanguinano i vestiti calpestati sparsi a terra, e le loro orme rosse si possono seguire sulla soglia e sulle scale.
    Aram si accuccia a terra nel silenzio irreale, assoluto, seguito al massacro e alla retata; raccoglie il tsirnapogh del padre, lo ripulisce con cura, lo accarezza.
    “Papà?” chiama Magar. Gli toglie alcune piume dal viso, gli accarezza la fronte e le guance con la piccola mano.
    Il volto del papà è bianco, di un bianco impossibile da dire, i suoi occhi guardano il nulla.
    Aram glieli chiude.
    Magar si appoggia al petto del papà e piange, adesso sì. Grida, singhiozza, tanto nessun soldato lo potrà sentire, ormai.
    “Papà, papà!”
    Aram siede a terra, prende fra le sue la mano gelida del nonno e fissa il vuoto con gli occhi spalancati.


    Verso il Deserto Siriano, luglio 1915
    I due ragazzi presero a seguire la lunga colonna molto tempo dopo che era partita.
    Dapprima avevano infatti cercato di scavare una fossa per il papà e il nonno, ma la terra del cimitero era dura; troppo dura per le loro braccia anche se Aram era forte quasi quanto un uomo. Almeno, questo gli aveva sempre detto il nonno, ma forse lo diceva perché gli voleva bene e non era del tutto vero. Infatti non erano riusciti a fare molto più che scalfire il terreno. Di spostare i due corpi, poi, neppure a parlarne. Ma a questo non avevano pensato, altrimenti non avrebbero neppure provato a scavare.
    “Che facciamo?” chiese Magar sconsolato, quando si rese conto che l'impresa era impossibile.
    “Non lo so”, scosse il capo Aram. “Non possiamo lasciarli così. I cani li mangeranno”.
    “No!” gridò Magar.
    Tornarono verso casa.
    I corpi erano disseminati dappertutto per strada, ammucchiati al centro della piazza, dentro le case, sulle scale, per traverso sulle soglie.
    I turchi avevano portato via molte persone, molte altre erano state costrette a prendere la via del deserto, scendendo dai monti, a piedi, verso i campi di concentramento predisposti per loro a centinaia di chilometri di distanza.
    Aram sapeva che quelle marce erano chiamate le marce della morte. Era abbastanza grande da immaginare a cosa sarebbe andata incontro quella gente.
    Molti, però, erano stati uccisi sul posto. Quelli che opponevano resistenza, quelli che avrebbero potuto creare problemi durante la marcia; quelli che li avevano guardati negli occhi. Come il nonno e il papà.
    “Diamo fuoco al villaggio”, propose.
    Magar lo guardò sconcertato.
    “Ci sono troppi morti, Magar, non possiamo seppellirli tutti”.
    “Ma... loro fanno questo!”
    “Sì, nei pogrom, lo so, anche se non incendiano più tanto spesso come prima. Ma noi lo facciamo per non lasciarli mangiare dai corvi”.
    "Ma quando quelli che sono fuggiti torneranno, non troveranno più nulla, così!"
    Aram si guardò attorno, poi chinò il capo. "Non torneranno, Magar", mormorò senza guardare suo fratello in viso. “Non tornerà nessuno”.
    Magar non capì; era troppo piccolo, forse. Restò fermo a guardarlo mentre si affannava attorno ai morti.
    “Aiutami! Non posso fare tutto da solo!” gli intimò Aram.
    Accumularono la paglia nelle case, ma soprattutto sui corpi, per essere certi che bruciassero. Le riserve di legna per l'inverno erano a buon punto, ce n'era in abbondanza; la disposero con cura e ci volle del tempo.
    Poi diedero fuoco a fascine di rami minuti e se ne servirono per appiccare gli incendi.
    Si allontanarono, mentre l'urlo del rogo li seguiva. Si arrampicarono su un'altura.
    “Così non troveranno nulla neppure i turchi, quando verranno per prendersi le nostre case”. La voce di Aram era decisa. I suoi occhi, duri.
    “Dove andiamo adesso?” chiese il piccolo, lo sguardo fisso al villaggio in fiamme.
    Aram guardò lontano, ma non riuscì a vedere la colonna di profughi.
    Il papà e la mamma erano stati molto chiari con loro. Avrebbero dovuto riunirsi agli altri, non restare da soli in nessun caso.
    “Cerchiamo di trovare la mamma”.
    I genitori e il nonno avevano dato disposizioni precise, quando, dopo il massacro degli intellettuali di Istanbul alcuni mesi prima, avevano capito che di nuovo il Metz Yeghern stava per abbattersi su di loro.
    Se il villaggio fosse stato assalito, avrebbero dovuto nascondersi e non fiatare, qualunque cosa fosse accaduta. La mamma sarebbe fuggita in un luogo sicuro, una caverna nota solo agli abitanti, con altre donne, e loro avrebbero dovuto raggiungerla là quando tutti se ne fossero andati.
    Si misero in marcia, ma quando arrivarono non trovarono nessuno. La grotta era vuota.
    “Dov'è la mamma?” Magar era sgomento, con le lacrime incipienti nella voce.
    “Non lo so. Devono averla portata via i soldati”.
    “Il papà ha detto che dobbiamo seguirla”. Lo guardò. “Anche tu lo hai detto, che dobbiamo cercarla”.
    “Adesso non possiamo. È quasi notte, Magar”.
    C'erano dei fagotti abbandonati in un angolo, contenevano del cibo: dovevano averli avuti con sé le donne prima di essere trascinate via.
    Aram frugò nelle bisacce, trovò del pane e del formaggio e ne porse un pezzo al fratellino.
    “Non ho fame”, piagnucolò lui.
    “Devi mangiare o non avrai la forza per raggiungere la mamma”.
    Allora Magar sospirò e prese il cibo, portandolo alla bocca senza convinzione.
    Avevano trovato anche delle zucche piene d'acqua; bevvero a lungo.
    “Perché hanno ucciso il papà e il nonno?” chiese il piccolo dopo molto tempo.
    “Il nonno ce lo ha spiegato, non ricordi? È perché siamo armeni”.
    “Ma papà e nonno non hanno fatto niente di male. Lui era il mio papà!” La sua voce si spezzò.
    “Non piangere! Non serve”. Aram fece la voce decisa, ma anche lui aveva voglia di piangere.
    “Voglio la mamma!” Singhiozzò il bambino. Le lacrime erano arrivate, infine.
    “Non c'è, Magar; ma ti porterò da lei, te lo prometto”. Si sentì molto adulto nel dire quelle parole. Aveva tredici anni, ma Magar lo guardò fiducioso e si rannicchiò accanto a lui annuendo e asciugandosi gli occhi con le piccole mani.
    “Ho freddo”, mormorò poi.
    “Anch'io”. Aram lo abbracciò, protettivo. “Dormiamo, adesso”.
    “Non ho sonno”.
    Ma dopo qualche minuto, il ragazzo avvertì il suo respiro regolare. Si era addormentato.
    Aram decise che avrebbe fatto la guardia.
    Non poteva dormire. L'immagine di suo padre e di suo nonno a terra, il sangue, il suono del tsirnapogh che accompagnava le urla dei soldati e poi il silenzio, erano scolpite dentro di lui. Non appena chiudeva gli occhi rifluivano come un'onda e lo sommergevano, scagliandolo là, a quel momento in cui il lampo dello sparo gli aveva cancellato la famiglia. Udiva il colpo secco, avvertiva l'odore della polvere da sparo, vedeva la macchia rossa allargarsi rapida sul petto dei due uomini e inzuppare la casacca, scempiando i ricami. Risentiva sotto le dita le palpebre rigide e riluttanti quando aveva chiuso gli occhi al papà, e la mano gelida del nonno.
    No, non poteva dormire.
    Nel silenzio della notte, rotto solo da qualche fruscio e da radi richiami di animali notturni, quelle sequenze si ripetevano all'infinito, e avrebbe voluto fuggire fuori da se stesso, gridare, cancellare quelle immagini, quegli odori, quei suoni.
    Ma non si poteva. No, non si poteva proprio.
    I due ragazzi avevano imparato sulla propria pelle il significato di quelle due parole, Metz Yeghern. Finora avevano aleggiato come un incubo, risuonando come la peggiore minaccia immaginabile, ma pur sempre lontane da loro, dalla loro vita tranquilla fatta di ritmi lenti, normali, del calore della famiglia e dell'affetto protettivo dei genitori, del nonno, degli amici.
    Adesso erano piombate all'improvviso nella loro vita, sconvolgendola in poche ore, scardinando tutte le certezze. Dovevano affrontare una minaccia troppo grande, smisurata per le loro forze.
    Aram era abbastanza cresciuto per esserne consapevole.
    Erano due bambini soli, in marcia verso il deserto; e tutto era stato loro strappato all'improvviso.
    Era questo, il Metz Yeghern, e non avrebbero mai voluto conoscerlo.
    Si obbligò a non pensare alla loro situazione e al viso bianco del papà, per cercare di dominare il panico. Ma non riuscì a evitare di riflettere sulla storia che il nonno gli aveva raccontato tempo prima.
    La storia del Metz Yeghern, il Grande Male.
    Non era il primo. Quello era stato nel secolo scorso, quando erano iniziati i pogrom, violenti assalti ai villaggi inermi. L'ultimo sovrano assoluto dell'Impero Ottomano aveva irreggimentato bande di predoni curdi che scorrazzavano da sempre nelle terre anatoliche, indirizzandole contro le comunità armene per dare man forte all'esercito regolare.
    Ora l'Impero si stava sgretolando, c'erano state sollevazioni e rivolte. Ma l'unità andava mantenuta a tutti i costi, era una garanzia per il controllo di un vasto territorio. Sul trono sedeva un nuovo sultano, ma una cosa era restata uguale: l'inquietudine del potere verso gli armeni, verso le loro istanze di indipendenza anche se presentate sempre per le vie istituzionali.
    La colpa del popolo armeno era sempre la stessa. Trovarsi nel cuore delle terre anatoliche, incastrato come un cuneo dissonante, legato alle proprie tradizioni antiche, spezzando l'uniformità che i governi della Turchia, passati e presenti intendevano imporre a tutte le genti di nazionalità turca in fatto di lingua, religione, usanze e cultura.
    Gli adulti avevano spiegato tutto questo ai ragazzi. Avevano detto che il loro popolo era stato accusato di infrangere la legge che vietava di detenere armi, di preparare una rivolta e di volersi alleare con la Russia e con le potenze occidentali per far cadere il Sultano nella Guerra imminente. Era stato diramato un ordine. Tutti gli armeni dovevano consegnare le armi che possedevano, pena l'arresto. I controlli erano stati capillari e inflessibili, al punto che alcuni, non avendone, erano giunti ad acquistare le armi pur di consegnarle ed evitare l'arresto per reticenza. Ma venivano arrestati lo stesso perché, dicevano, avevano commesso un reato: nessuno poteva detenere armi se non era musulmano. Loro le avevano portate, quindi le avevano in casa. Era un giro vizioso, Aram lo aveva compreso.
    Il governo aveva scatenato la caccia, assoldando di nuovo gruppi di banditi nelle zone di confine, affiancandoli ai corpi speciali, come nel primo Metz Yeghern. La storia si ripeteva, anche se con qualche differenza. Questa volta, l'Organizzazione Speciale era costituita da delinquenti comuni liberati dalle carceri apposta per occuparsi di loro. La consegna, se ancora fosse stata necessaria, era di non avere pietà.
    I villaggi venivano assaltati, le donne violentate o fatte schiave, sottoposte a sevizie tremende. I bambini non subivano sorte migliore, e tutti gli uomini venivano uccisi.
    Ai pogrom seguiva la cacciata dei sopravvissuti dalle loro case, la devastazione, il saccheggio dei villaggi e delle campagne.
    Le famiglie erano deportate nei campi nel deserto, e a migliaia morivano di stenti, malattie o violenze prima di arrivare, spesso assaliti e depredati di tutto lungo le piste.
    Il governo mandava poi i suoi emissari a impadronirsi dei beni immobili restati senza proprietari.
    Gli armeni erano ridotti a poche decine di migliaia, ormai.
    Aram e suo fratello sapevano dei reggimenti armeni dell'esercito turco attirati in vallate sperdute e poi massacrati dai commilitoni. Erano stati fra i primi a essere eliminati. Avevano le armi e sapevano usarle, e se si fosse sparsa la voce della persecuzione, avrebbero potuto rivoltarsi e metterle al servizio della causa del loro popolo. La Guerra Mondiale aveva fornito il pretesto: molti erano stati arruolati in deroga alla legge che li esonerava dal servizio militare in quanto cristiani quando la Turchia si era alleata con la Germania.
    Poi era seguito il resto.
    I due ragazzi sapevano delle donne con i seni tagliati e dei bambini seppelliti nella sabbia tranne la testa, lasciati a morire sotto il sole per giorni, o venduti come schiavi, o inviati ai bordelli di città.
    Sapevano che la corrente dell'Eufrate portava i cadaveri della loro gente affogata dai soldati, e delle caverne in cui i profughi erano spinti e rinchiusi prima di essere arsi vivi.
    Sapevano dei corpi delle donne allineati nelle vallette, abbandonati a marcire nel deserto, e dati alle fiamme solo dopo giorni per le preoccupazioni delle autorità riguardo alle epidemie.
    Non sapevano come i genitori si fossero procurati le notizie più recenti, ma le conoscevano e non avevano nascosto loro niente.
    Non avevano ancora visto, però, e la loro mente di bambini non poteva raffigurare l'orrore: soprattutto la mente di Magar.
    Adesso, dopo aver visto e subito, Aram cercava di ragionare, di capire.
    Ma non ci riusciva. Accanto alle immagini del papà e del nonno, dominava una domanda che si era già posto, ma sempre in via teorica, prima. Non riusciva a spiegarsi l'odio udito nella voce dei soldati dei corpi speciali quando avevano fatto irruzione nel suo villaggio, nella sua casa. Come potevano gli uomini far questo ad altri uomini? Quella notte, riflettendo, vegliò come molte altre notti. E, come altre notti, non trovò risposta.

    Non era difficile seguire la pista. Era disseminata di morti.
    Bambini. Moltissimi. I loro amici, i loro compagni di giochi e di scuola.
    Di vecchi. Gli anziani del villaggio e dei villaggi vicini razziati prima del loro.
    I più deboli, uccisi per primi dagli stenti e dalla sete nella interminabile marcia verso il deserto.
    A metà del primo giorno di cammino, Magar non era più capace di piangere. Solo, Aram sperava di non trovare sua madre riversa su quella strada, di non dover affrontare anche quell'orrore.
    Aveva sete. Era esausto. Aveva vegliato tutta la notte, per cedere sul fare dell'alba a un sonno agitato di poche ore. Due, forse tre, non di più.
    Avevano raccolto le bisacce con il cibo e se ne erano caricati quanto avevano potuto. Le zucche con l'acqua si sarebbero rivelate presto il bene più prezioso, e le avevano prese tutte. Il ragazzo più grande si era accollato il peso maggiore; suo fratello non sarebbe riuscito a fare molto, anche se, con un coraggio e una determinazione ammirevole per la sua età e le sue forze, aveva insistito per dividere a metà la fatica. Ma poi non ce l'aveva fatta; era crollato, e Aram gli aveva tolto gran parte dell'ingombrante carico.
    Così ora sudava sotto il sole implacabile, scivolando sulle pietre del ripido sentiero in discesa, e non poteva bere perché aveva deciso di razionare l'acqua per farla durare il più possibile.
    Raggiunsero dopo qualche giorno i margini del deserto e vi si addentrarono.
    Camminavano. Camminavano.
    I giorni presero a susseguirsi tutti uguali. Persero il conto.
    Aram sapeva solo che il peso era sempre più leggero, soprattutto quello dell'acqua, e questo lo sgomentava, perché temeva di avere ancora davanti gran parte della distanza.
    I cadaveri lungo la pista aumentarono.
    Qualche volta trovavano addosso ai morti dei recipienti ancora pieni e bevevano accantonando il ribrezzo, con avidità, rimpiangendo di non poter portare con sé quel tesoro, e rabboccavano le loro zucche anche se il fetore della rapida decomposizione pareva aver raggiunto l'acqua.
    Non importa, si dicevano. Una volta avevano sentito raccontare di un tale sopravvissuto al deserto bevendo la propria urina, e si consolavano pensando che almeno questa era acqua. Puzzolente, ma acqua.
    Cercare di raggiungere la mamma. Tutto quel che facevano era in funzione di questo unico scopo.
    Camminare era diventata la loro dimensione da giorni. Camminare, camminare.
    Il sole sorgeva, ardeva nel cielo bianco e tramontava in un mare di fuoco, ma la colonna restava lontana. La vedevano, adesso, dall'alto delle dune, stagliarsi nel tremolio liquido dell'aria rovente; sembrava sempre a portata di mano, eppure non la raggiungevano mai.
    Aram fremeva per questo, perché si era reso conto da alcuni giorni che il fratellino non riusciva quasi più a mettere un piede davanti all'altro. Barcollava. Non parlava più, non chiedeva più dov'era la mamma. Non domandava più da bere, e tanto meno da mangiare. Il ragazzo doveva imporsi perché Magar bevesse.
    Era preoccupato per lui.
    Finché una mattina non riuscì a farlo alzare.
    “Magar! Magar!” Lo scosse.
    Il bambino si rannicchiò di più, gemendo e respirando di un respiro raschiante che Aram non aveva mai sentito. Si spaventò.
    “Alzati, Magar!” C'era panico nella sua voce. Lo tirò per un braccio. “La mamma ci aspetta!”
    Niente.
    Decise di attendere che si riprendesse un po'. Forse più tardi si sarebbe alzato. Ecco, sì. Avrebbe fatto così.
    Si impose la calma. Fece scendere delle gocce d'acqua fra le piccole labbra screpolate e sanguinanti. “Ecco, Magar. Bevi. Bevi. Ancora un po', dai” mormorava, accarezzandolo sui capelli fatti ruvidi per la sabbia. Ma Magar non rispondeva e non ingoiava. “Ti porto dalla mamma, Magar. Te l'ho promesso. Ma tu devi bere, sai”.
    Niente.
    Le gocce scorrevano fuori dalla sua bocca arida, il bambino non deglutiva e non apriva gli occhi.
    Sul far della sera aveva anche smesso di gemere.
    Aram sentì il terrore afferrargli le viscere, crescere a ondate; non sapeva che fare.
    Lasciarlo riposare ancora. Ecco. Quel pensiero lo tranquillizzò. Forse l'indomani sarebbe stato meglio, si sarebbe alzato e avrebbero ripreso a camminare. Ma come fare a recuperare il ritardo sulla colonna?
    Avrebbero viaggiato anche di notte. Sì, avrebbero fatto così. L'avrebbe portato sulle spalle se necessario.
    Prese il piccolo fra le braccia, cullandolo a lungo, cantandogli nenie infantili e ripetendo mille volte la promessa di portarlo dalla mamma.
    Infine, stremato, cedette a sua volta al sonno.
    Quando l'alba sorse sulle dune dorate, Aram, svegliandosi, avvertì qualcosa di strano, insolito.
    Quella sensazione non durò a lungo.
    All'improvviso comprese che quel che mancava era il respiro raspante come vetro sbriciolato di suo fratello.
    “No”. Scosse il capo.
    “No”. Scrollò il bambino. Era chiuso in posizione fetale, rigido, freddo.
    “No!” Si gettò a terra, con le mani fra i capelli, battendo i pugni.
    Gridò; l'eco ripeté a lungo il nome del piccolo nel silenzio del deserto, e solo il vento rispose alla sua voce.
    Tacque smarrito.
    Strinse Magar a sé e nascose il viso nei suoi capelli tentando di costringere la mente a fermarsi, a cercare un appiglio, un'idea sul da farsi.
    Restò a lungo disteso a terra, aggrappato al fratello, respirando a fatica, gemendo. Cosa avrebbe detto alla mamma, adesso? La mamma! Il pensiero di lei lo avvolse, caldo, rassicurante, e piano piano si calmò. Dopo molto tempo decise che a sua madre restava ancora un figlio, e che quel figlio doveva raggiungerla vivo.
    Allora si alzò e si asciugò le lacrime.
    Scavò con le mani una piccola fossa per Magar e ve lo depose con tutta la delicatezza e la cura di cui era capace. Ma la buca non era abbastanza profonda. Allora lo ricoprì con sabbia e sassi e formò un tumulo, ma non aveva nulla per costruire una croce, nulla per scrivere il suo nome e ritrovare un giorno quella minuscola tomba. Lo scrisse con il dito sulla sabbia.
    Magar.
    Tracciò una croce sotto il nome.
    “Ciao, Magar. Salutami papà e nonno”, mormorò. Si alzò in piedi e riprese il cammino senza più lacrime.
    Il vento del deserto cantò il lamento funebre per Magar.

    Aram non seppe mai come aveva raggiunto la colonna.
    Qualche giorno dopo la morte di Magar aveva finito l'acqua, e aveva continuato a camminare come in sogno, trascinando i passi uno dopo l'altro, giorno e notte come si era ripromesso.
    Non ricordava nulla tranne che a un certo punto era caduto e non era riuscito a rialzarsi.
    Poi aveva realizzato in lampi sconnessi di vaga coscienza mani che lo scuotevano, lo sollevavano; voci che lo chiamavano, concitazione, trambusto, ma come se tutto questo non accadesse a lui. Aleggiava come in un limbo ovattato.
    Poi dita fresche sul volto, e una voce nota che cantava una nenia. La stessa che lui aveva cantato per Magar.
    Forse sono morto, pensò.
    Qualcuno gli versava dell'acqua fra le labbra. La nenia sembrava non avere mai fine.
    Galleggiò per un tempo indefinito in quella musica, finché si rese conto che la voce era reale, e anche le mani che gli carezzavano il viso, i capelli, le labbra che gli baciavano le guance.
    Aprì gli occhi e vide una figura nota, china su un fuoco a poca distanza, rimestare in un paiolo.
    Allora seppe di essere vivo.
    La sua voce uscì raschiando dolente lungo la gola screpolata.
    “Mamma...”

    Puglia, Settembre 1924
    Prima che la memoria del mio popolo vada perduta voglio scrivere queste righe.
    Voglio cantare il mio popolo perseguitato perché gli uomini ricordino, e non dimentichino il Metz Yeghern. Perché ho imparato che l'oblio coltiva incessante, nel grembo dell'umanità, lacrime e morte.
    Voglio cantare con la voce della mia terra che non rivedrò.
    Voglio cantare l'Anatolia dei tramonti infuocati sull'orizzonte lontano, e la tomba di mio fratello bambino perduto nel deserto di Siria, cullato dal vento e dal sole.
    Voglio offrire la mia voce per tessere un canto di ricordi, perché ho imparato che le radici della guerra sono divelte dal fiume della memoria.
    Prima che il mondo dimentichi voglio suonare il
    tsirnapogh ancora una volta,
    perché gli uomini vengano da ogni terra per danzare. E danzando gettino le armi, e l'odio sia cancellato da ogni luogo sotto il sole.



    Agosto 1939
    “La Polonia cadrà”.
    L'uomo gli dava le spalle, guardava fuori dalla finestra.
    “Bene. Continuate secondo le mie disposizioni. La Soluzione Finale è il fine più importante da perseguire. Non dovrei ricordarvelo”.
    “Ma...”
    “Ma che cosa?” L'uomo in divisa bruna si voltò e lo fissò negli occhi. “Discuti i miei ordini, forse?”
    “No”, deglutì il sottoposto. “Certo che no. Solo... pensavo che potremmo renderci poco popolari. Forse... le altre nazioni potrebbero accusarci di voler ripetere l'impresa dei turchi, e...”
    “L'impresa dei turchi, dici?” La voce di Adolf Hitler suonò metallica: “Chi si ricorda più, ormai, del massacro degli Armeni?”





    SPOILER (click to view)
    http://www.comunitaarmena.it/akhtamar/24%2...mpagliazzo.html
    http://it.wikipedia.org/wiki/Abdul-Hamid_II
    http://it.wikipedia.org/wiki/Impero_Ottoma...Turchia_moderna
    http://it.wikipedia.org/wiki/Genocidio_armeno
    http://gariwo.net/genocidi/metz.php
    http://gariwo.net/genocidi/m_compl.php
    http://freeweb.dnet.it/liberi/genoc_armeno/genoc_arm.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...mages/sopra.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...a/scrSearch.asp
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...nia/origini.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...a/religione.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...ia/XI_XVIII.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...armenia/XIX.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...vani_turchi.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor.../genocidio.htmv
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...fine_impero.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...meni_italia.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...menia/tappe.htm
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...armenia/emi.htm
    http://it.wikipedia.org/wiki/Pogrom_d%27Istanbul
    http://it.wikipedia.org/wiki/Pogrom
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=93&idsch=84
    http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=6502
    http://www.zadigweb.it/amis/ric.asp?id=4
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=36
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=35
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=38
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=39
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=40
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=41
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=42
    http://www.zadigweb.it/amis/schede.asp?id=4&idsch=48
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=32&idsch=40
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=33&idsch=41
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=34&idsch=41
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=35&idsch=41
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=36&idsch=41
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=242&idsch=48
    http://www.zadigweb.it/amis/testim.asp?idtes=243&idsch=48
    http://www.gfbv.it/3dossier/armeni/armeni.html
    http://www.nomix.it/armenif.php
    http://www.nomix.it/armenim.php
    http://www.osservatoriocaucaso.org/article...iew/9468/1/212/

    Per il riconoscimento dello status di genocidio, vedi
    http://www.homolaicus.com/storia/contempor...menia/colpe.htm


    Edited by federica68 - 4/11/2009, 11:36
     
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  2. shivan01
     
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    metto 4 anch'io, e non per ricambiare il favore, ma per i motivi che metto in spoiler:

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    Fede, come sai, ti ritengo inattaccabile, anche volendo tentare di farlo, dal punto di vista della perfezione stilistica e formale, quindi su questa cosa neanche mi ci soffermo.
    Come anche sai, ti dissi che avevo trovato questo tuo racconto, quando lo lessi al tempo, un po' pesante. Non tanto per la forma, quanto per il ritmo lento in alcune parti e soprattutto per l'argomento. Un vero pugno nello stomaco. L'effetto è ovviamente voluto, quindi prendi questa indicazione come una nota di pregio o meno. Fai tu.
    Il lavoro documentale che hai fatto per questo lavoro, come anche per altre yue opere, è invece di prim'ordine e, unitamente agli altri aspetti, ti fa guadagnare un meritatissimo 4.
    Ti preferisco comunque in altre cose, come Sa Filonzana, per esempio.


    ciao
     
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  3. federica68
     
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    grazie nicola

    SPOILER (click to view)
    ma il 4 alle falene non era un favore, era meritato!!


    SPOILER (click to view)
    che trovavi pesante il racconto lo sapevo, e in effetti rileggendolo mi rendo conto che in certi passaggi lo è. Ieri sera ho modificato alcune cose, anche se non sostanziali... forse adesso non lo scriverei più così, credo. Ma ho voluto metterlo in gioco lo stesso per vedere se posso migliorarlo. Anche se per il fatto che i diritti sono ceduti non posso farlo partecipare a tutti i concorsi che vorrei, e mi hanno espressamente autorizzata a farlo correre per usam, questo non toglie che mi piacerebbe vederlo migliorato... Alla fine di questo usam vedrò di modificarlo secondo le indicazioni raccolte, e il tuo parere mi dà sempre indicazioni valide. Ne terrò sicuramente conto!! Per sa filonzana, appena avrò il via di là arriverà anche qui... :-)
     
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  4. Daniele_QM
     
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    Molto molto bello, assolutamente credibili azioni e pensieri dei due bambini. Atmosfere suggestive, una tristezza che ammanta l'intero racconto difficile da dimenticare.
    Non mi sono piaciute un paio di cose:
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    Il finale su Hitler. L'ho trovato un po' inutile oltre che d'effetto "forzato". Terminare col diario - o i pensieri - del paragrafo precedente sarebbe stato meglio, per me.
    L'inizio troppo frastagliato. Tre periodi separati mi sembrano troppi, ma è una mia impressione.

    Voto 4. :D
     
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  5. Yue07
     
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    I miei primi complimenti vanno al lavoro di documentazione che hai fatto: accurato e preciso. Poi allo stile che hai utilizzato, al ritmo che diventa più serrato nei momenti di tensione, ai pensieri dei due bambini che diventano nostri per tutto il racconto. Insomma, complimenti per tutto.
    Mi hai lasciata soddisfatta, a tal punto che non posso darti altro che queste poche parole di commento...non saprei che altro dire.
    Quattro.
     
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  6. federica68
     
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    grazie dani e grazie yue
    sono contenta che vi sia piaciuto

    SPOILER (click to view)
    @ dani: la frase di hitler è storica, l'ha pronunciata davvero, è documentata, e l'ho messa per dare il senso che i due genocidi sono strettamente legati... e anche per dare il senso che tutte le speranze del protagonista che tutto potesse cambiare in meglio sono state ammazzate dagli eventi. Forse sì potevo metterlo diversam...
    e le perplessità sulla prima parte sono le stesse che ho avuto io rileggendo. Mi sa che quella parte è da rivedere
     
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  7. Daniele_QM
     
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    SPOILER (click to view)
    Non sapevo fosse una frase storica. Sì, forse allora acquista un senso compiuto. Però non so... è che il racconto è molto "intimo" o "delicato" in qualche modo. Spaziare su Hitler mi ha lasciato un senso di allontanamento. Comunque non toglie nulla alla bellezza del racconto.
     
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  8. federica68
     
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    si in effetti volevo dare come una visione più ampia, il senso di allontanam è voluto.
    Scusa se mi dilungo un po'. La più grande perplessità che avevo su qs racconto era che non volevo che si riducesse tutto a una cosa emotiva, ma volevo ottenere una cosa forse troppo ambiziosa, e cioè far nascere qualche domanda attraverso le emozioni che potevo trasmettere. Mi sono resa conto che il genocidio armeno è non solo misconosciuto, ma la Turchia attua un negazionismo feroce, appoggiata in questo anche da vari paesi occidentali, comunque non sto qui a dilungarmi,per chi fosse interessato c'è tutto nella bibliografia. Solo recentemente le autorità turche hanno ammesso una qualche responsabilità, anche perchè il fatto di ammettere il genocidio è la condizione posta da alcuni paesi europei all'ingresso della turchia nell'unione europea... resta comunque il fatto che la shoa è figlia del metz yeghern in molti sensi, nei modi e nei sistemi usati per la Soluzione Finale anche se nel caso del nazismo sono stati poi resi più scientifici ed efficienti

    certo non potevo dire tutto questo in un semplice racconto, ma non volevo nemmeno ridurre tutto a una cosa emotiva... cioè volevo far sì che il lettore potesse poi andare da solo a cercare notizie incuriosito e forse stimolato dalle emozioni che potevo essere riuscita a suscitare con lo scrittto.

    In questo senso sul finale ho voluto dare l'allontanamento dalla vicenda dei 2 bambini e dare un sguardo d'insieme sulla Storia con la S maiuscola... ma evidentemente non ci sono riuscita se ho dovuto spiegare il tutto

    mancanza mia, ovviamente, ma con il tempo e l'allenamento riuscirò spero almeno in parte a fare anche questo :-)
     
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  9. Daniele_QM
     
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    Non penso che tu non ci sia riuscita. Il senso che volevi dare, io l'ho trovato anche solo nel momento della morte del bambino. A volte l'ampio respiro è un'eco di qualcosa di più piccolo.
    Forse - la mia è una pura ipotesi - potresti pensare a un collegamento tra la situazione tedesca a quella armena. Introdurre Hitler o un suo sottoposto fin dall'inizio, per poi passare al racconto vero e proprio. Così il finale sarebbe un ritorno su Hitler e chiuderesti il cerchio. Sto pensando a una struttura che possa fare da guscio al nocciolo, che è il Metz Yeghern.
     
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  10. federica68
     
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    SPOILER (click to view)
    sì posso valutare la cosa anche se non sarebbe storicamente valida, perchè ai tempi del metz yeghern hitler era ancora un perfetto sconosciuto anche dalle sue parti... c'erano però degli ufficiali tedeschi in turchia questo sì, anche se non nazisti perchè il nazismo non c'era ancora

    cmq l'idea in sè mi pare buona, ci penserò
     
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  11. marramee
     
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    Che dire, molto bello, molto toccante, ben documentato. Una storia che conoscevo già, vista da una prospettiva vincente. La differenza di stili tra le varie parti del racconto non mi convince del tutto, il passaggio dalla storia raccontata al passato alla narrazione in tempo presente, per poi tornare di nuovo alla narrazione al passato. Io avrei tenuto al presente, più incisivo, tutte le parti dei bambini, ma questo è solo un mio pensiero. La storia è perfetta comunque. Un quattro pieno.
     
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  12. federica68
     
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    ciao marramee
    grazie per la lettura e il commento

    guarda ti dirò che il fatto dei tempi è quello su cui ho avuto più perplessità, insieme a quello sulla eccessiva frammentazione dei periodi nella prima parte...

    l'ho postato apposta qui per vedere di miglioralo, perchè magari le cose che per me erano problemi potevano anche non esserlo per il lettore e vice versa

    credo che alla fine di usam lo rivedrò, le cose che stanno uscendo, in fondo, sono una conferma dei miei dubbi

    grazie mille ancora :-)



     
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  13. Idrascanian
     
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    Un racconto che scava negli orrori della storia, l’ho apprezzato moltissimo. Sei riuscita a trattare un tema scottante e dimenticato con rara maestria, regalandoci il punto di vista di due bambini, da sempre vittime innocenti delle insensatezze del mondo.
    Poco da dire sulla forma, ho trovato il testo scorrevole in ogni sua parte, con picchi elevati nel delineare le usanze armene e il loro dramma. L’immagine della lunga marcia nel deserto è potentissima, il finale fa riflettere sulla necessità che certe cose non si ripetano mai più. Sul paragrafo Puglia, Settembre 1924, mi sono commosso. Complimenti, il mio è un quattro tondo tondo.
     
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  14. VdB
     
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    Voto tre-virgola-cinque
    SPOILER (click to view)
    Pregi
    Scrittura chirurgica, mano fermissima la tua, non è una novità, è un pregio. Documentazione ampia, fin troppo, tanto da diventare (a mio avviso) un difetto. Poco da aggiungere.
    Difetti
    Un dubbio sulle date(forse son io che non ho compreso bene): sono passati solo nove anni (1915-1924) dal genocidio, Aman è poco più di un ragazzo (20, 22 anni?), perché allora lo fai parlare come se fosse un uomo maturo e di anni ne sembrano passati un’infinità?
    L’incipit non è esaustivo, se non so nulla di quella data (così come è capitato a me, che sono andato a vedere a quale episodio si riferiva), non aggiunge nulla alla storia (sia a quella con la minuscola che con la maiuscola). O lo ampli o lo elimini, mia modestissima opinion.
    La pecca maggiore è tutta la parte centrale che è un condensato di informazioni (la documentazione, appunto), sa troppo di infodump (come direbbero quelli più bravi). Il finale pecca dello stesso diefetto dell’incipit: o lo ampli (con qualche collegamento con il protagonista, oppure risulta troppo scollegato con la storia, se non con quella con l’iniziale maiuscola). Avevi molte scelte possibili, forse avresti potuto indirizzarti su qualcuna meno lineare. (che ne so, per esempio lui torna nel deserto a cercare dove è sepolto il fratello e ripercorre il viaggio contrario, sia quello fisico, attraverso i luoghi o mentale, attraverso i ricordi)
    In ogni caso racconto di livello superiore alla media. Indeciso tra il tre e il quattro, al momento ci rifletto su e poi voto.

    A rileggerci
     
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  15. federica68
     
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    grazie a entrambi per la lettura e il commento

    @vdb: terrò conto delle tue osservazioni, grazie ancora!! :-)
     
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26 replies since 2/11/2009, 10:48   592 views
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