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Ed ecco un altro animale del mio Bestiario, un bel Ranocchio fresco fresco di cottura, dopo una sfoltitura per renderlo di dimensioni più u(SAM)ane:
RANOCCHIO
È piacevole affacciarsi alla finestra della mia camera, in autunno. Mario e i ragazzi sono di sotto, a guardare la partita. È appena iniziata e già li sento strepitare. C'è un albero, proprio davanti alla finestra, una vecchia quercia. Mi basta allungare una mano per toccare i suoi rami. Io la trovo meravigliosa, ma presto le sue foglie ingiallite riempiranno il prato e dovrò di nuovo litigare con Mario, come tutti gli anni, perché lui la vorrebbe tagliare. Sono affezionata alla mia quercia, alla casetta che io e Mario abbiamo costruito insieme. Mi considero una donna felice, con un marito meraviglioso e due figli stupendi. E un lavoro che mi piace e mi appassiona. Maestra. Per molti è riduttivo, non hanno idea di cosa significhi stare a contatto con menti così giovani, quali soddisfazioni può dare. Chiudo i vetri e torno alla mia scrivania. Apro la cartella e tiro fuori i compiti in classe. Inizio a leggere, e la mia penna bicolore si muove in continuazione sul foglio. I minuti passano, e io sorrido spesso, leggendo le prodezze dei miei alunni. Infine, dopo un'oretta, arrivo all'ultimo. TEMA: LA MIA FAMIGLIA, di Alice Ferri, V-A. Non è originale, lo ammetto, è un classico. Un compito che assegno tutti gli anni. Ma ha la sua importanza, mi aiuta a comprendere meglio i bambini. Alice, per esempio, è la solita bambina dell'ultimo banco. Quella taciturna, che non fa amicizia facilmente. La vedo sempre tornare a casa da sola, nessuno viene a prenderla. So che abita vicino alla scuola, ma lo trovo ugualmente triste. Per questo sono curiosa di leggere questo tema, di entrare nella sua testa, di esplorare la sua vita. Nella mia famiglia siamo in quattro. Non mi convince. La mia famiglia è composta da quattro persone, avrebbe dovuto scrivere. Papà, mamma, io e ranocchio. Qui sorrido, perché intuisco già un conflitto. È evidente che ranocchio sia il fratello minore, ed è pure evidente che lei lo consideri inferiore, che lo detesti. Che ne sia gelosa, insomma, perché altrimenti si sarebbe lasciata per ultima, invece la scelta di relegare lui in fondo alla frase indica un'affermazione di superiorità. È come se gridasse al mondo, e alla sua famiglia, io sono meglio di ranocchio! Continuo. Papà fa il tassista, ed è quasi sempre fuori casa. Mamma ha smesso di lavorare quando è arrivato ranocchio. La mamma dice che lui è mio fratello, ma non è vero. Inarco un sopracciglio. Mamma dice che è lo stesso, che devo considerarlo un fratello. Lei dice che è un bambino sfortunato, che una maledizione ha ridotto così. All'inizio credevo che scherzasse. Tre anni fa, quando siamo andati a fare un pic-nic giù alla palude, eravamo solo noi tre, ma quando siamo tornati ranocchio era con noi. Quando lei ci ha raccontato quella storia, ho pensato che ci prendesse in giro. Invece ranocchio è rimasto con noi. Mamma gli ha preparato una camera tutta per lui; mangia con noi, non ci abbandona mai. A dire il vero non lascia mai mamma, è sempre dietro a lei. Interrompo la lettura e storco un labbro. Agito la matita, incerta. Alla fine traccio un punto interrogativo accanto a questo periodo. Non mi dispiace che i bambini sbizzarriscano la loro immaginazione, ma è decisamente andata fuori tema. Riprendo a leggere. Ranocchio non mi piace granché, come fratello non vale niente. Non parla, non ne è capace. Saltella solo, in quello è in gamba. Io non posso portare a casa i miei amici, mi vergogno di presentare ranocchio come mio fratello; ma mamma non capisce, dice che sono cattiva. Ho pensato di ucciderlo, di portarlo da qualche parte e abbandonarlo. Però ho paura. Lo so che è solo un ranocchio, e non mi può fare niente, ma mi fa paura lo stesso. Come se fosse qualcos'altro. Qualcosa di diverso. Ora una ruga solca la mia fronte, e ho smesso di sorridere. Sembra sempre più uno scherzo di cattivo gusto. Dove vorrebbe arrivare, questa bambina? Da quando ho letto quella favola ci penso sempre. E se mamma avesse ragione? Se bastasse un bacio per farlo tornare un bambino? Mi spaventa: non sono certa di volere che ranocchio diventi un bambino, però la mia vita sarebbe diversa se avessi un fratello vero. Ma solo l'idea di baciare ranocchio mi disgusta! È viscido, sempre bagnato, è... Se fosse un rospo sarebbe peggio, per fortuna è solo un ranocchio. E se non funzionasse? Io non sono una principessa, forse bisogna essere principesse per riuscire a rompere l'incantesimo. Sono sbalordita, devo ammetterlo. Alice ha travisato completamente il tema, ma il risultato è comunque brillante. Giro la facciata. Qualcosa devo fare, non sopporto di andare avanti così. Non ho più amici. La mamma si occupa solo di ranocchio e mi ignora. Papà è sempre a lavorare, e so che è a causa di ranocchio, l'ho sentito litigare con la mamma. Devo decidere: ranocchio mi fa un po' di paura, ma forse se tornasse a essere un bambino sarebbe tutto diverso. Potrebbe essere un sacrificio che merita, in fondo. Oddio, spero che nessuno lo scopra mai, che ho baciato un ranocchio! È finito... così! Senza aggiungere altro. Un intero tema solo su... ranocchio! Rigiro la pagina e lo rileggo, parola per parola. La matita gira a lungo, nell'aria, assegnando voti teorici. Meriterebbe un voto minimo perché ha travisato il tema, il massimo per la sua fantasia. Assegno il massimo, prima di cambiare idea. Però non sono certa di volerle far leggere questo tema di fronte alla classe. Un gelo improvviso mi assale, e istintivamente vado a chiudere i vetri, ma li trovo già chiusi. La grossa quercia davanti a me non mi sembra più bellissima, mi spaventa; ho la sensazione di essere spiata. Cerco di ridere di questa assurdità, ma non ci riesco. Rimetto i temi nella borsa e scendo al piano di sotto da Mario e i ragazzi.
Alice non c'è: non è venuta a scuola, stamattina. Il suo tema è l'unico rimasto dentro la cartella. E io sono delusa, tantissimo. Avrei voluto parlare con lei, discuterne. Avrei voluto che mi confermasse che è tutto frutto della sua immaginazione. Che sciocchezze, certo che lo è! Però ho passato una notte d'inferno, con incubi popolati da ranocchi. Quando suona la campanella dell'ultima ora, raccolgo le mie cose, la cartella semi-vuota col suo tema, ed esco dalla scuola. Resto incerta al bivio. Tornare a casa, oppure... Scelgo l'oppure, l'altra destinazione. So bene dove abita Alice e voglio andare a trovarla. Per sapere come sta, per portarle il suo tema, per conoscere i genitori. Non ammetto l'unica vera ragione che mi spinge ad andare là: vedere ranocchio, sapere se esiste, se c'è davvero. Anche se è una pazzia. Ancora combattuta, in pochi minuti mi trovo davanti alla casa di Alice: una villetta quasi come la nostra, solo più misera e trasandata. Il giardino è in stato di abbandono, neppure cintato. Attraverso decisa il sentiero. Busso alla porta dipinta di rosso e scrostata dal tempo. «Non ci sono, non li ho ancora visti, stamattina.» Sobbalzo e mi volto. Una donna anzianotta, con capelli grigi arruffati e un grembiule, è arrivata alle mie spalle. «Io sono Rosa,» si presenta, e mi indica la casa accanto. «Vivo lì.» «Sono... sono la maestra di Alice... la figlia...» Mi sento in imbarazzo, adesso, quasi fossi incapace di giustificare la mia presenza. Rosa annuisce. «È strano,» dice, e ripete: «Non li ho ancora visti.» «Sono andati via?» chiedo. «Alice non è venuta a scuola, oggi.» «E dove?» sbuffa la donna. «La macchina è ancora lì.» E vedo il muso del taxi sporgere sul fianco della casa. «Ci incontriamo sempre, tutte le mattine, facciamo due chiacchiere. Sono persino venuta a bussare, ma non ha risposto nessuno.» «Potrebbe essere successo qualcosa?» La donna rabbrividisce. «I ladri... o peggio?» Non so che dire, sono impreparata a questa situazione. «Io ho la chiave,» dichiara la donna. «Me l'ha lasciata Gabriella per ogni eventualità. Vuole andare a vedere?» Sono esterrefatta. «Io? Ci vada lei, ne ha più diritto di me.» La donna è incerta. «Non vorrei che pensassero che li sto spiando. Ultimamente sono tutti così strani, in questa famiglia.» Dovrei scappare, filarmela, invece l'idea di entrare in quella casa mi attrae. «Potremmo farlo insieme. È giustificato, non crede? Siamo preoccupate.» «Oh sì,» risponde la donna. «Non è mai successo niente del genere.» Lo facciamo, e metto piede in quella che già considero la casa del mistero. Con stupore ci accorgiamo che le luci sono tutte accese, anche se il sole illumina le stanze. «Strano, strano,» commenta Rosa. E andiamo avanti, nella nostra perlustrazione. È una casa ordinaria, con mobili dozzinali e troppi soprammobili acchiappapolvere. Non vedo nulla di bizzarro. Rosa è di altro avviso, appena entra in cucina. «Guardi! Guardi!» Guardo, e vedo un tavolo apparecchiato. Quattro sedie, quattro piatti, quattro bicchieri. Quattro, e io provo un brivido. «Non hanno cenato qui!» afferma trionfante Rosa. E poi commenta. «Forse aspettavano un ospite.» Anche lì la luce è accesa, e siccome in questo periodo dell'anno il buio cala alle sei di sera, è probabile che sia accaduto qualcosa appena prima di cena, costringendoli ad andare via all'improvviso. Nel salone accanto, tutti i peggiori timori di Rosa si concretizzano. La stanza è in subbuglio: mobili spostati, soprammobili sparsi a terra e infranti, una sedia rovesciata. E poi sangue, tanto sangue. Schizzi sui muri, sul divano. «Oh mio Dio!» urla Rosa. «Mio Dio! Mio Dio!» Io sono paralizzata, non riesco a parlare.
La polizia arriva, nella fattispecie due agenti, un uomo e una donna. Non ci sono reali prove che sia stato commesso un crimine, ma gli indizi sono inquietanti. Ci interrogano, brevemente, poi ci liquidano come testimoni di poca importanza. Ci ritroviamo sedute su un divano, dimenticate, mentre i poliziotti perquisiscono la stanza del presunto delitto. Sono costretta a confortare Rosa, tra le cui mani è apparso magicamente un fazzoletto con cui detergere le lacrime che sta spargendo ovunque. «Era strana! Gabriella era diventata così strana, come potevo immaginare...» Un urlo ci paralizza, ma solo per un attimo. Poi scatto in piedi, quasi senza accorgermene, e mi dirigo correndo verso il salone. La poliziotta è svenuta, cosa che mi sembra incredibile, e il suo compagno sta cercando di rianimarla. Appena mi vede entrare, grida. «Non si avvicini! Non tocchi niente!» E poi. «Non guardate, è meglio. È terribile.» Mi rendo conto che Rosa mi ha seguita. Cosa non dovremmo guardare? Gli occhi del poliziotto sono fissi su un mobile, una grossa credenza. Non noto nulla di strano. Poi mi rendo conto che lui sta guardando sotto al mobile. Mi chino leggermente per vedere meglio. In fondo, contro il muro, c'è qualcosa che dapprima non riesco a identificare. Sembra sporco di sangue. Mi avvicino ancora un po' e la riconosco. È una mano, una mano mozzata, una mano molto piccola, la mano di una bambina. Rosa, dietro di me, si mette a strillare.
Arrivano altri poliziotti e tecnici, e la mano viene estratta. Ogni tanto qualcuno ci dice di allontanarci, ma senza insistere, e noi non ci muoviamo. Non è stata tagliata ma strappata, dicono. Fanno ipotesi: un cane rabbioso? Non ci sono segni di morsi, comunque. L'idea stessa che ci sia qualcuno così forte da strappare la mano a una bambina terrorizza persino loro. Rosa è sottoposta a un interrogatorio più serrato, ma non può dire molto, la sera prima è andata a cena dalla figlia, e non era lì. Interpellata sulla possibilità che manchi qualcosa, lei si guarda intorno e risponde decisa. «Il tappeto.» E visto il loro stupore, indica. «C'era un tappeto, lì, una specie. La pelle di un animale, un orso forse. Alla bambina piaceva molto, ci giocava sempre.» E giù altre supposizioni: se ne sono serviti per portare via i corpi. Io approfitto del fatto che nessuno si interessi a me per uscire dalla stanza. Nel corridoio guardo con bramosia la scala che conduce al piano superiore. La casa è già stata perquisita, e non è stato trovato nulla, nessun segno di violenza eccetto che nel salone. Ma non è questo che mi interessa. Salgo le scale con cautela, ma anche con una strana eccitazione. La camera dei genitori è aperta, si intravede il letto, ma io l'ignoro. Apro la porta della stanza accanto. È la camera di Alice, indubbiamente, l'impronta di una bambina è inconfondibile. Mi sento a disagio, conscia che è quasi certamente morta, e mi ritiro in silenzio. Mi blocco davanti alla porta della stanza accanto. Entro con timore e trepidazione. Resto stupita anche se, in fondo, ho trovato quello che cercavo. È una cameretta tutta verde e bianca. Si vede chiaramente che è stata ricavata da uno stretto ripostiglio. Non c'è un letto, ma una specie di culla, una specchiera, molto bassa, e un armadio, che mi affretto ad aprire e trovo vuoto. Tappeti, per terra, e tanti cuscini. E poi un acquario per i pesci rossi, ma senza pesci. Non ho dubbi che sia la camera di Ranocchio, ma lui non c'è. Spinta da un impulso che non riesco a comprendere, la perquisisco. Cerco ovunque, anche sotto i mobili, ma non trovo niente, men che meno il fantomatico ranocchio. Esco dalla stanza delusa. Decido di visitare anche l'ultima camera, per precauzione. Il letto matrimoniale è ordinato, con un copriletto bianco frangiato. Proprio nel mezzo spicca una macchia verde. Mi paralizzo, col cuore in gola. Ranocchio è lì, al centro del letto, che mi sta guardando. È solo una piccola rana, dalla pelle lucida di un bel verde acceso. Due grossi occhi neri mi scrutano, come se volessero entrare nella mia mente. È così piccolo, fragile, ispira tenerezza. Ed è solo, ora è rimasto solo, ne sono sicura. Faccio un passo avanti e mormoro il suo nome. «Ranocchio.» Lui saltella verso di me, fino a trovarsi sul bordo del letto. In quel momento non mi pongo domande, penso solo che è in pericolo, che non può restare lì, che devo metterlo al sicuro. Allungo la mano e lui non scappa. Ho paura di fargli male, così stendo solo il palmo davanti a lui. Ci sale sopra, aggrappandosi con le sue zampette. Lo copro con l'altra mano, perché non scappi, e me lo porto al cuore. Mi sento eccitata, senza una ragione comprensibile. Sento anche che sto facendo qualcosa di sbagliato, ma non ne posso fare a meno. Fuggo via da quella camera, sempre stringendo tra le mani il mio ranocchio.
«Signora, cos'ha lì? Mi faccia vedere.» Cerco di sorridere. «Non... non è niente. È solo una rana. Dev'essere entrata dalla finestra aperta.» Sbuffa. «In questa casa è stato commesso un crimine, non si può portare via niente, dovrebbe saperlo!» Assumo il tono che sono solita usare con i miei studenti. «Ma agente, è una rana! Morirà se non la metto subito in acqua!» Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, e io ne approfitto per scappare subito via.
Non parlo di Alice, della sua famiglia, della loro sparizione, di polizia e interrogatori. Presento solo ranocchio, dico loro che è un principe, che un malvagio sortilegio ha trasformato in ranocchio. Dico loro che da adesso vivrà con noi, e devono imparare a trattarlo come uno della famiglia. Mario si sta divertendo un mondo, e non interviene. Di certo pensa che io li stia prendendo in giro. Renzo, il più piccolo, prende la cosa seriamente, o finge di farlo. «Un fratello, insomma, sarebbe una specie di fratello.» Poi fa un inchino al ranocchio. «Allora fratello ranocchio, mettiamo le cose ben in chiaro, i miei giocattoli sono solo miei e tu non puoi toccarli.» E poi allarga le braccia in gesto teatrale. «Come posso presentarlo ai miei amici? Devo dirgli che ho una rana per fratello?» Mario scoppia a ridere, e non mi aiuta. Claudio, il più grande, ha già dodici anni. Ha ascoltato la mia spiegazione con una smorfia di disgusto sul volto, e ignora le buffonate di Renzo. Mi guarda serio. «Ci stai prendendo in giro, mamma? Se volevi un animale bastava dirlo, anche se sono dell'idea che avere Renzo tra i piedi è già abbastanza. Certo potevi scegliere meglio, avrei preferito un cane.» In fondo non è andata troppo male, temevo peggio.
E il peggio arriva, quando aggiungo un posto a tavola. Niente sedia per ranocchio, lo poso semplicemente sul tavolo. Lui non si mostra molto educato, e sale direttamente sul piatto. Renzo lo guarda con disgusto. «Mangia insalata?» Forse non è il caso di dirgli che le rane mangiano insetti vivi. Gli unici che ho trovato sono nascosti tra quelle foglie di insalata. Mario interviene. «Non ho niente in contrario che tu la tenga, ma portarla a tavola non ti sembra un po' eccessivo? Dovresti metterla nella vasca del bagno, non credi?» Claudio è inorridito. «Nel bagno? Dove andiamo noi?» Io mi sento sfiduciata. Non capiscono, non riescono proprio a capire. Ma capiranno, ne sono sicura.
«È qui.» Non gli chiedo neanche cosa, continuo a spogliarmi e indosso la veste da notte. Mario è già coricato nel letto e lo ripete, seccato. «Mi hai sentito? La tua rana è qui! È saltata sul letto!» Lo so, non ho bisogno di guardare: ranocchio non mi abbandona mai. Mi segue ovunque, per tutta la casa. Saltella tranquillo, incurante dei pericoli, sempre a controllarmi; non mi perde mai di vista. All'inizio mi divertiva, ma dopo poche ore inizio già a essere stressata. «Dove l'hai presa? Perché l'hai portata a casa?» Scivolo dentro il letto. Ranocchio è ai miei piedi, gli occhi fissi su di me, non accenna ad andarsene. «Era di una mia alunna. Lei non lo può più tenere.» «E l'ha affibbiata a te? Lo dovresti sapere che non si possono tenere rane in casa. Hanno bisogno di stare... in uno stagno. Sono animali sporchi, possono portare malattie.» Ringhio. «Non mettertici anche tu!» Spegne la luce, imbronciato. Io resto immobile, ho paura a distendere le gambe, paura di far del male al mio ranocchio.
Mi vesto, mi pettino, e lui è lì. Seduto sul letto appena rifatto, al centro del copriletto. E mi guarda, naturalmente. Devo andare a scuola. Dovrei, almeno. Potrei darmi malata. Non me la sento di lasciare Ranocchio solo in casa. E se gli succedesse qualcosa? Ai ragazzi non piace, e neanche a Mario, non vorrei che gli giocassero qualche scherzetto. Prendo la cartella, la poso, poi la prendo di nuovo. Ranocchio segue ogni mio movimento. Mi siedo sul letto, accanto a lui, e accarezzo il suo dorso. «Devo andare a lavorare, ce la fai a restare da solo? Non preoccuparti, torno presto. E poi staremo insieme tutto il pomeriggio, non devo uscire.» Lui è silenzioso, non l'ho ancora sentito gracidare. «Sei un principe?» gli chiedo. «Sei davvero un principe? Il mio principe?» Poi scuoto il capo, perché mi rendo conto che mi sto comportando in modo assurdo, quasi fossi io stessa in preda a un incantesimo. Mi rialzo e lo saluto con un sorriso. «Non combinare guai, mentre non ci sono.»
Decido di prendere la macchina, anche se lo faccio di rado, solo per risparmiare qualche minuto di tragitto. Giro intorno alla casa e raggiungo il garage. Proprio davanti alla porta c'è un mucchio di letame. Lo guardo incredula, senza capire. L'ha messo lì Mario? E per quale ragione, noi non abbiamo piante che ne necessitano. Mi avvicino con cautela. Il puzzo è nauseabondo. E non c'è dubbio, è proprio una collinetta di escrementi, davanti alla porta del garage. Non posso neppure aprirla, in queste condizioni! Lancio maledizioni contro il mondo intero, ma finisco per munirmi di una pala e torno rassegnata. Affondo la pala in quell'ammasso informe, e il puzzo pare pure accresciuto. Sento arrivare conati di vomito ma mi sforzo di continuare. Appena ritiro la pala e vedo cosa ho portato alla luce, mi metto a urlare. Non riesco a smettere: continuo, isterica, finché non accorrono i vicini preoccupati.
«Sono resti umani, non c'è dubbio. Di... corpi diversi, il dottore ne è sicuro. Alcune ossa sono troppo piccole per appartenere a un corpo adulto...» Neanche il poliziotto riesce a continuare. Mario mi tiene stretta e mi consola. Io piango sulla sua spalla. Lo so che sono resti umani, l'ho capito subito, appena ho visto quelle ossa sulla pala. E so anche di chi sono, chi è la bambina, specialmente. La piccola Alice, che ho troppo trascurato; non potrò più rimediare, adesso. «Ma cosa significa?» urla Mario, arrabbiato. «Sono escrementi, o no?» Il poliziotto annuisce, pallidissimo. «Sono escrementi.» «Escrementi di cosa?» urla mio marito. «Vorrebbe farmi credere che qualcuno... se li è mangiati?» Il poliziotto cerca di ridere, con pessimo risultato. «No, certo, non è possibile... non può succedere...» «Allora che significa? Perché li hanno depositati qui, nel nostro giardino? È una minaccia forse? Siamo in pericolo?» Il poliziotto ha la fronte aggrottata, va a parlare con un collega, poi torna da noi. «Lasceremo una macchina di pattuglia qui davanti, per la vostra sicurezza.» Non sono certa che sia solo questa la ragione, ma non mi importa, mi sento comunque più protetta. Mario continua ad abbracciarmi e mi accarezza. «Sta tranquilla, va tutto bene, non ci succederà niente.»
Ma non va affatto bene. La convivenza con Ranocchio è complicata. Lui ha esigenze complicate. Mi pare di passare la giornata a occuparmi di lui. Lascio il lavoro, temporaneamente. Ufficialmente per lo shock causato da ciò che ho rinvenuto in giardino, e per il timore di avventurarmi fuori casa da sola. Riesco a farlo credere persino a Mario. La realtà è che non voglio lasciare solo Ranocchio. I ragazzi non lo accettano. Altro che fratello, o principe incantato, non lo possono proprio sopportare, e lui è sempre tra i piedi. Litigo con Claudio, che ha cercato di dargli un calcio. Quando appronto una stanza per Ranocchio, Mario ne fa una tragedia, ma dopo un paio di notti passate con Ranocchio in mezzo a noi, toglie i suoi vestiti dall'armadio e si trasferisce lui in quella stanza. Io dovrei rincorrerlo, chiedergli scusa, convincerlo a tornare, lui non aspetta altro. Invece taccio, lascio che vada via. Resto sola con Ranocchio. Lui è tranquillo, gli basta starmi accanto. È felice quando lo prendo in mano, me ne accorgo. Gli concedo di saltarmi in grembo, ogni tanto. Mentre la mia famiglia si sfalda, sento il nostro rapporto rinforzarsi, di giorno in giorno. C'è armonia tra di noi, ci capiamo. A parte il fatto che lui è una rana.
Poi, però, iniziano gli incubi. Sono in una palude, ed è notte, e sento rane gracidare, ma non le vedo. Solo che non sono rane normali, lo so che sono orribili, e le loro voci spaventose. Io sono immersa nell'acqua fino ai fianchi, e ho difficoltà a muovermi. Sott'acqua qualcosa sfiora le mie gambe nude, ed è viscido, disgustoso. Io grido, e chiamo Ranocchio. L'ho perso, non riesco a trovarlo. Mi allontano sempre più dalla riva, inoltrandomi in quella palude tenebrosa. Sono disperata, sento che devo trovarlo a tutti i costi, è di vitale importanza. Lo chiamo in continuazione. Poi davanti a me l'acqua ribolle, e capisco che qualcosa di gigantesco sta per emergere. Qualcosa di spaventoso, di terrificante. Eppure non fuggo, continuo a chiamarlo. Ed esce, s'innalza sull'acqua, è una montagna di carne spaventosa, con due malvagi occhi neri, cerchiati di rosso. Assomiglia vagamente a una rana, ma è gigantesca, con protuberanze mobili simili a tentacoli lungo tutto il dorso. Una creatura uscita dall'inferno. Spalanca la bocca, una voragine senza fine, e vedo la sua lingua guizzare verso di me, come un elastico. Mi rendo conto che vuole mangiarmi, che finirò dentro di lei, nel suo stomaco, che mi digerirà, che mi... E qui mi sveglio, quasi soffocata. Sento un peso immane sullo stomaco, che mi sta schiacciando. Sento che il mostro è qui, davanti a me, e vuole mangiarmi. Allora allungo la mano e cerco l'interruttore, disperata, tastando il comodino. Quando la luce si accende, davanti a me ho Ranocchio. Si è accoccolato sul mio petto e mi sta guardando. Non riesco a trovare la forza di scrollarlo via, resto sveglia, a guardarlo, per il resto della notte. La luce accesa.
E questo è solo l'inizio, poi è peggio. C'è una presenza incombente, nella casa, una presenza spaventosa. Qualcosa di gigantesco, malvagio e pericoloso, che mi opprime. Lo sento ovunque, in ogni stanza. E Ranocchio è sempre con me. Ogni volta che accade, che sento quel mostro alle mie spalle, che mi paralizzo, che devo sforzarmi per non urlare, che raccolgo abbastanza coraggio per girarmi a guardare, non c'è mai nessuno. Soltanto Ranocchio che saltella dietro di me, e mi guarda. Tutto sembra diverso. La mia bella casa si è trasformata in una trappola mortale, le stanze sono troppo buie, piene di angoli che non avevo mai notato. L'erba del giardino è troppo alta, potrebbe nascondere qualsiasi cosa. Persino la mia amata quercia è cambiata, ora sembra solo un mostro che sovrasta la casa. O forse no. Sono io a essere cambiata. Sto impazzendo.
I giorni passano; io e Mario litighiamo. Io sto già vivendo un incubo, proprio non ho intenzione di sopportare il suo malumore. Non capisco perché si rifiuti di capire, perché tutti si rifiutino di farlo. Eppure Ranocchio ha già avuto una famiglia, no? E senza tante storie. Invece: «Non ti riconosco più! Sei cambiata, sembri un'altra!» E poi: «È quella maledetta rana! Ti rendi conto che stai trascurando i tuoi figli per lei? Che razza di madre sei?» È cattivo, e sa di esserlo. Non si ferma. «Perché ti comporti così? Perché racconti quelle storie assurde? Perché ci stai trattando in questo modo?» Non lo so, non riesco a capirlo neppure io. Sto iniziando ad avere paura di Ranocchio, eppure non posso fare a meno di difenderlo sempre, di proteggerlo. E infine, l'inevitabile. «Credo che sia il caso che tu chieda aiuto. Sono certo che un consiglio professionale potrebbe esserti utile. Ti ho fissato un appuntamento...» Lì esplodo, schiaffeggio mio marito, per la prima volta nella nostra vita coniugale, e corro fuori di casa. Lui mi rincorre. «Aspetta, fermati, non volevo...» Ma è inutile, ho già raggiunto il marciapiede, e mi guardo intorno. C'è la macchina. Non abbiamo più avuto il coraggio di metterla in garage, dal giorno del ritrovamento delle ossa è parcheggiata qui, in strada. La portiera è aperta, recupero le chiavi di riserva sotto il cruscotto. Metto in moto e parto prima che Mario possa raggiungermi.
Non ho niente dietro, neppure un centesimo, non mi sono preoccupata di portare con me la borsetta. E man mano che mi allontano da casa, senza una meta, torno lentamente a ragionare. Non è immediato, la mancanza di Ranocchio è qualcosa di fisico, di doloroso. L'ho abbandonato, l'ho lasciato in casa con mio marito, e lui lo odia, potrebbe fargli del male. Quasi torno indietro. Ma poi ragiono, per la prima volta da giorni. Combatto quel senso di separazione e mi costringo a riflettere. Fisso la mia mente su Alice. Chi ha ucciso Alice e la sua famiglia? Come hanno fatto i suoi resti a giungere nel mio giardino? C'è una sola cosa in comune tra di noi: Ranocchio. E qui torna straziante la sua mancanza. No, non è possibile, Ranocchio non ha fatto del male a nessuno. Lui è un ranocchio, così piccolo, così bravo, così carino. È questo che mi attende? Che succederà a me, a mio marito, ai miei figli? Faremo la fine di Alice? Il mostro che vive nella mia casa ci mangerà? Ma perché, perché è successo? Ranocchio ha vissuto tre anni con quella famiglia, senza che accadesse niente. Lo hanno preso alla palude... la palude... Accosto la macchina e prendo la cartina dal cruscotto. Trovo anche qualche spicciolo dimenticato lì e me lo metto in tasca. Dapprima non trovo paludi da nessuna parte, poi noto una macchia azzurra, che potrebbe anche essere un laghetto. Non è segnalata con alcun nome. Proseguo, ora che ho stabilito la mia meta.
Il bar è piccolo ma grazioso. Lo stile rustico, confortevole. C'è un ragazzo dietro il banco, che mi sorride appena entro. Ho abbastanza soldi per prendere un caffè, li poso sul banco. «C'è una palude, da queste parti?» Alza le spalle. «Una specie. Ormai l'hanno bonificata quasi tutta. Ne resta ben poco. Deve continuare su questa strada per un paio di chilometri. Sulla destra, la noterà subito.» Annuisco. «E ha un nome?» «Che io sappia no. L'hanno sempre chiamata la palude della strega. Non penso che possa dirsi un nome, quello.» Sobbalzo. «Una strega? C'era una strega?» Scoppia a ridere. «No, non c'è nessuna strega. La chiamano così e basta.» Non chiedo altro, perché è troppo giovane e non vorrei farmi deridere anche da lui.
È una palude, sì, ma è piccolissima. La vedo da lontano, ma vedo anche un casolare proprio sulla strada. Una vecchia sta stendendo i panni in giardino. «Mi scusi...» «Che c'è, si è persa?» Scuoto il capo. «Quella palude...» La guarda. «E allora?» «I miei figli vorrebbero fare una gita qui, è... sicura?» La vecchia ride. «Ha paura che anneghino? Non c'è rimasta abbastanza acqua, l'hanno quasi prosciugata tutta. Stia tranquilla, non succederà niente.» «È per il nome... Ha un nome minaccioso...» Inarca un sopracciglio. «Che nome?» «Mi hanno detto... non è la palude della strega?» Ride di nuovo. «La chiamano ancora così?» Mi butto. «C'era davvero... una strega, da queste parti?» «Oh, è un nome antico, sono secoli che la chiamano così.» Non nascondo la mia delusione. La vecchia però continua, sorprendendomi. «Sì, c'era. Ma badi che stiamo parlando di tre secoli fa, almeno. Una vecchia del villaggio, una levatrice. Dicevano che operasse malefici, le avevano reso la vita impossibile. È stata costretta a rifugiarsi in quella palude. Poveretta, erano tutti così superstiziosi, a quei tempi.» «E poi che è successo?» «Niente, cosa vuole che sia successo?» «È... è morta lì?» Evidentemente sì, è una domanda sciocca. «E dopo... ci sono stati strani... avvenimenti?» Scoppia a ridere. «Vuole sapere se ci sono i fantasmi? No, mai stati fantasmi. Solo zanzare e tante tante rane.» La ringrazio e mi allontano, sempre più turbata.
Non è la palude del mio sogno, decisamente no. L'acqua non è neppure tanto torbida, dubito che sia profonda più di mezzo metro. Ci sono poche zanzare e ancor meno rane. O le ho messe in fuga col mio arrivo, o anche loro hanno finito per estinguersi. In fondo è un posto carino, ideale per un pic-nic, non c'è nulla di spaventoso o di misterioso. La cosa, però, mi demoralizza soltanto.
Quando torno a casa è scesa la sera. Le luci sono tutte spente e regna il silenzio. Trovo sul tavolo di cucina un biglietto di Mario: lui e i ragazzi sono andati a vedere la partita e torneranno tardi. Mi hanno lasciato la cena in forno. Non la tocco neanche. Ecco, è bastato tornare in questa casa per sentirmi di nuovo oppressa. Qualcosa di mostruoso mi sta spiando, mi odia, vuole uccidermi. Ranocchio non c'è, non mi è venuto incontro, e subito cresce l'ansia. Che me l'abbiano portato via, che gli abbiano fatto del male. Resisto, ma solo qualche istante, poi mi metto a correre, salgo le scale precipitosa, e lo chiamo pure. In bagno non c'è, la sua vasca è vuota. Lo trovo in camera, sul mio letto. La porta è chiusa: Mario lo ha imprigionato lì, prima di uscire. Quasi piango dal sollievo. Ranocchio saltella sul letto, verso di me. Io allungo una mano e lo accarezzo. Sento un brivido, l'oppressione, il terrore. Ritiro subito la mano. Perché è morta Alice? Perché è morta sua madre? Perché adesso, dopo tanti anni? Potrei recitare a memoria quel tema. Il succo della storia è uno solo: Alice aveva deciso di baciare Ranocchio. Ecco l'unica differenza. L'evento scatenante di ogni cosa. Aveva deciso di provare, di vedere se si sarebbe trasformato. Ma non l'ha fatto, altrimenti Ranocchio non sarebbe più un... ranocchio. Oppure sì? Oppure l'ha fatto e... e quello che si è trovata davanti non era il fratello che desiderava, e neppure il principe azzurro, ma... «Cosa sei?» mormoro a Ranocchio. «Cosa sei davvero? Cosa si nasconde dentro di te?» Devo saperlo, devo scoprirlo, a qualunque costo. Prima di perdere Mario e i miei figli, prima che mi rinchiudano in manicomio. Lo devo scoprire. Perché la madre di Alice non l'ha mai fatto? Eppure Ranocchio seguiva solo lei. Ma è stata Alice a tentare. Aveva paura? Terrore, proprio come ne ho io adesso? Sento che il male è qui, in questa stanza, mi sta guardando, mi odia. Eppure Ranocchio è così carino, così dolce, non riesco neppure a concepire che possa farmi del male. Che altro mi resta? Continuare questa vita d'angoscia, o baciare un ranocchio? Se non succederà niente, potrò farmi una risata. Ma se... se dovessi trovarmi davanti il mostro dei miei incubi? Se spalancasse quella bocca oscena, se la sua lingua pendula mi afferrasse alla vita e mi trascinasse in una voragine molle e puzzolente? Deglutisco. Interrogo Ranocchio. «Tu non mi faresti mai del male, vero?» Ranocchio saltella, come se volesse essere preso in braccio. Lo vuole anche lui, lo so, desidera essere liberato. E io ho bisogno di sapere, dovesse essere l'ultima azione della mia vita. Lo raccolgo, con entrambe le mani, lo sollevo davanti al mio volto. Dargli... un bacio? Su quelle... labbra? Fremo, ora mi sembra molto meno bello. Anzi, assomiglia sempre più alla rana-mostro dei miei sogni. Chiudo gli occhi, varrà lo stesso farlo a occhi chiusi? Lo avvicino alle mie labbra. Ecco, vada come vada, ormai è fatta.
Ma non è così. Non faccio in tempo a baciarlo. Uno schianto violento alle mie spalle mi fa trasalire. Vengo investita dai frammenti del vetro esploso. E sento la presenza, una presenza mostruosa, quella dei miei incubi. E non è Ranocchio, ancora tra le mie mani, è dietro di me, immensa e potente. Non faccio in tempo a girarmi, che vengo afferrata, alla vita. Mi spavento, faccio volare Ranocchio e mi aggrappo al bordo del letto con entrambe le braccia. Non è l'abbraccio viscido che mi aspettavo, ma qualcosa di forte e ruvido, che pare voglia segarmi in due. Vedo con orrore rami intorno al mio corpo. Mi stringono, mi schiacciano, tentano di tirarmi via. Altri rami, più piccoli, guizzanti come serpenti, stanno cercando di imprigionarmi le braccia. E allora, per un solo attimo, volto la testa. La mia cara, vecchia quercia ha preso vita, ora è un mostro dai mille tentacoli, e i suoi rami non sono più di legno inanimato, ma si ergono rabbiosi, colpiscono la casa, cercano di abbattere il muro. Vengo sommersa dal suo odio, dal desiderio che ha di farmi a pezzi, di sbranarmi. Una voragine si è aperta sul tronco, e tanto assomiglia a una bocca famelica. No, non è la mia quercia. La mia quercia è morta, qualcosa ha preso il suo posto, qualcosa di antico e malvagio, che è sopravvissuto per secoli con l'unico scopo di adempiere alla sua vendetta. La strega sarà anche morta, tanto tempo fa, ma il suo odio ha continuato a esistere, è cresciuto a dismisura, vigila affinché la sua maledizione possa perpetrarsi in eterno. E si trasferisce, da oggetto a oggetto, per seguire lui, il mio ranocchio. Sì, non lo perde mai di vista; era la quercia la presenza ossessiva che sentivo alle mie spalle. La quercia che sempre ci spiava attraverso i vetri. Immagino l'attimo cruciale in cui Alice ha cercato di baciare Ranocchio. Immagino la pelle d'orso sotto di lei animarsi, diventare un mostro, la immagino fare a pezzi la bambina e i suoi genitori, divorarli. Perché è questo che vuole, quella maledetta strega, che nessuno spezzi mai il suo incantesimo. «Ranocchio!» urlo. «Ranocchio!» Lui è rotolato a terra, confuso, ma al mio urlo si riprende. Balza sul letto e continua a saltellare verso di me. Sento il muro incrinarsi, tanta è la forza di quei rami. Parte dell'intonaco crolla al suolo. Io non resisto più, il suo abbraccio mi sta trascinando via. Perdo la presa, prima una mano, poi l'altra. E mentre sto per essere portata via, urlo ancora una volta. «Ranocchio!» Lui salta. E io faccio l'unica cosa possibile, l'afferro in volo. Il mostro mi ha quasi trascinato fuori dalla finestra quando lo bacio. Non chiudo gli occhi, anzi, li fisso sui suoi, che ora non mi sembrano più minacciosi, e lo bacio sulle sue labbra umide.
E vissero tutti felici e contenti. No, non proprio. Decisamente no. La strega muore. Quello spirito inquieto, quel mostro di rabbia e odio, cessa di esistere. Il suo urlo cavernoso è terrificante, e i rami mi abbandonano all'istante. La sento crollare, andare in pezzi, dietro di me. Le radici staccarsi dal terreno, il tronco franare al suolo. Ma non me ne accorgo quasi. I miei occhi sono fissi sul bellissimo ragazzo nudo che ho di fronte, e le mie labbra sono ancora attaccate alle sue. E nei suoi occhi non più da ranocchio, leggo amore, di più, adorazione. Io crollo a terra, non più sostenuta dai rami, avvinghiata al suo corpo. E mi sento bene, così bene come non mi sono sentita mai. Quando Mario e i ragazzi tornano, trovano l'albero crollato, la parete della camera distrutta, un giovane di una ventina d'anni seduto sul mio letto, con indosso i vestiti di mio marito. E nessuna rana. Non è facile fornire loro una spiegazione. La vecchia quercia mi aiuta. Il suo legno trasuda sangue. Certo, trovano una spiegazione logica, è una linfa rossa, che può venire scambiata per sangue, ma ciò non toglie che emana un odore di putrefazione, di palude. È Mario stesso a farla a pezzi con un'ascia e portarla via. E Ranocchio? «È come un figlio,» dico a Mario. «Può essere nostro figlio.» Ma lui non mi crede, come potrebbe? Non crede a nulla, all'inizio, finché non si rende conto che ho detto la verità. Il mio principe non più ranocchio mi segue sempre, ovunque vada. Non parla, non ne è capace. Non sa fare niente. Devo aiutarlo a vestirsi, imboccarlo a tavola, insegnargli a usare una forchetta. È come fosse davvero un bambino, per certi versi. Eccetto che è bellissimo. E quegli occhi neri che mai si staccano da me non sono occhi da bambino, e Mario se n'è accorto. Lui mi guarda con amore, con desiderio. C'è qualcosa in lui che non ho mai conosciuto. Che non ho mai visto negli occhi di nessuno, neppure in quelli di mio marito. Quella scintilla non c'era quando l'ho conosciuto, né quando abbiamo fatto l'amore la prima volta, e neanche quando ci siamo sposati. È amore, vero amore. La più assoluta totale abnegazione. Lui mi adora, letteralmente. E temo proprio che la stessa luce alberghi nei miei occhi, quando lo guardo. Non è un principe, non credo proprio. Penso che fosse un contadino. Uno di quelli che ha scacciato la strega dal villaggio. O più probabilmente uno dei loro figli, forse non l'unico su cui è stato lanciato l'incantesimo, ma di certo l'ultimo vivente. È su di loro che lei si è vendicata, maledicendoli. Chissà per quanto tempo è stato un ranocchio. Forse secoli, persino. Vorrei sapere com'era prima del malvagio incantesimo. Un neonato, un bambino, come adesso? Perché non parla, perché non sa fare niente? Non l'ha mai imparato o l'ha scordato? Non importa, glielo insegnerò io, poco alla volta. A trentaquattro anni mi sento vecchia accanto a lui, che sembra solo un ragazzo, ma quando penso a quanti anni potrebbe avere realmente provo un brivido. La mia famiglia non capisce, come potrebbe? Sento che si sta sfaldando, che si stanno allontanando da me. Hanno accettato la sua presenza solo per amor mio, ma la situazione è sempre più intollerabile. Non ho più tempo per loro, ma solo per il mio principe. Li sto perdendo, e ne soffro. Però mi chiedo cos'è giusto. Se ho fatto bene a rinunciare, ad abbandonare i miei sogni di ragazza, smettere di attendere l'arrivo del mio principe azzurro e sposare Mario. Sì, certo, gli volevo bene, mi ha dato una casa, una famiglia, due figli stupendi, ma tutto ciò può bastare? E se mi fosse stata data una seconda occasione? Sorride sempre, il mio principe, mi guarda e sorride. So che Mario se ne andrà, l'ho capito, un giorno tornerò a casa e scoprirò che mi ha lasciata, portandosi dietro i nostri figli. Tremo all'idea che accada, me ne dispero, e allo stesso tempo attendo quel momento con trepidazione. Quando finalmente resteremo soli, io e il mio principe. Non importa che non sappia parlare, le parole sono inutili tra di noi. Intanto alla sera mi corico nel letto, accanto a un marito che ora mi è indifferente e che non mi ha più toccata con un dito. Che è tornato a dormire con me solo per sorvegliarmi. E che ripete ossessivamente sempre quella stessa domanda. Lui non capisce, secondo lui avevo tutto, ero felice, non c'era niente che non andasse, non dovevo desiderare altro. E allora spegne la luce, e nel buio, ciascuno spalle all'altro, come estranei, mi chiede ancora: «Perché l'hai baciato?»
FINE
Edited by marramee - 4/11/2009, 14:43
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