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Sa Filonzana
Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte, piano piano, come salisse tacita dal sentiero accompagnata da un corteggio di spiriti erranti, dal batter di panni delle panas giù al fiume, dal lieve svolazzare delle anime innocenti tramutate in foglie, in fiori... (Grazia Deledda)
Il turno di guardia volgeva al termine. Efisio si muoveva cauto. Sotto le querce possenti si udivano solo i suoi passi e il lieve tintinnio della cartucciera, che urtava il fucile a tracolla. Di notte era poco probabile che qualche viandante si avventurasse lassù; ma i gendarmi avrebbero potuto farlo, nel tentativo di sorprenderli nel sonno. Se fossero venuti i carabinieri, loro quattro, contro chissà quanti, non avrebbero avuto altro scampo che una fuga silenziosa. Per questo Efisio rendeva leggeri i passi sulle foglie e tendeva l'orecchio ai suoni portati dalla brezza, fra i tronchi segnati dalle ferite sanguigne della sughereta. Il ruscello cantava la sua canzone sempre uguale, poco lontano. L'acqua brillava dei radi riflessi di luna filtrati attraverso le foglie e pareva d'argento. Il giovane bandito sedette a terra, appoggiò le spalle al fusto di una quercia e aprì la bisaccia. Vegliare gli metteva sempre appetito, soprattutto in quell'ora in cui la notte pareva fermarsi, il tempo smettere di scorrere e l'alba allontanarsi, mentre gli occhi sembravano riempirsi di sabbia. Estrasse la leppa, il coltello a serramanico. Accarezzò l'elegante manico d'osso e ne estrasse la lama. Sorrise appena. Una lama snella e lucida come era giusto che fosse per incutere rispetto, si disse. Forgiata a Pattada, nella migliore coltelleria di tutta la Sardegna. Tagliò una fetta di pane e un pezzo di formaggio, bevve un sorso di vino e cominciò a masticare con calma. Da dove si trovava, in posizione un poco sopraelevata, poteva vedere un ampio tratto del sentiero che qui correva in una radura, dove il ruscello si allargava formando una piccola pozza. Se fossero sopraggiunte le guardie, le avrebbe non solo udite, ma anche viste. Annuì soddisfatto e portò di nuovo la borraccia alle labbra, gettando indietro il capo per bere. Quando riabbassò la testa, il gesto usuale di asciugarsi le labbra con la mano restò incompiuto a mezz'aria ed Efisio sentì qualcosa di freddo risalire lungo la schiena e afferrarlo alla nuca. Una donna stava curva sul ruscello. Non l'aveva sentita arrivare, pareva uscita dal nulla. Lavava dei piccoli panni, li batteva con un oggetto allungato, bianco. Una nenia giungeva alle orecchie di lui come un soffio: mista allo sciabordare della stoffa nell'acqua, scandiva il ritmo dei gesti della lavandaia. La sensazione di gelo si fece più intensa. Quella voce! Possibile? Il ragazzo avvertì uno strano formicolio, dentro. Si alzò, piano, e si avvicinò senza fare rumore. Allora il respiro gli si troncò nel petto. Paska! Paska dal volto di madonna incorniciato dalle bande di capelli nerissimi; Paska dagli occhi di antica dolcezza sotto le sopracciglia folte; Paska, lei sola, da sempre nei suoi pensieri. Comprendere quel che era accaduto e sentir crescere dentro sgomento e rabbia fu tutt'uno.
Innassiu lo guardò perplesso. “E perché sarebbe venuta proprio qui? Con tutti i posti che ci sono per lavare i panni!” “Non lo so. Come faccio a saperlo?” Efisio era pallido, il viso tirato. “Non gliel'ho certo chiesto: disturbare una pana!” Rabbrividì. “Ovvio”, annuì Gavino. “Ci sarebbe mancato altro che attirarsi la sua ira. Come se non bastassero le guardie a darci la caccia”. “Smettetela! Mi sembrate tre comari!” esclamò Ziromine. Porse agli altri un'anfora dal collo stretto, dopo aver tolto il tappo di sughero. “Bevete un sorso di vino, piuttosto. Spiriti di donne morte di parto, che lavano i panni dei loro bambini in piena notte!” Rise. Poi, rendendosi conto che i suoi compagni restavano in silenzio, li guardò uno per uno, inarcando un sopracciglio. “Oh piccioccheddus! Ma ci credete sul serio?” “Ziromine! Io l'ho vista!” “Sì sì! Solo che sono anni che la vedi dappertutto. Sei pazzo di lei, come se non lo sapessimo. Dammi ascolto: toglitela dalla testa e sarà meglio per tutti”. Efisio strinse i pugni e scosse il capo. “No. Era davvero Paska. Antioco l'ha uccisa”. “Non dire assurdità!” La voce di Ziromine rimbombò nella grotta angusta che era la loro tana da mesi. “Cosa ti salta in mente?” “Quello che ho detto”. Gavino intervenne. “Efisio, non esagerare, adesso. Suo marito non c'entra”. “Sì che c'entra. Se è diventata una pana vuol dire che è morta di parto. E l'ha messa incinta lui!” “Va bene, ma non è colpa sua. Sarebbe successo in ogni caso. È stato il destino”. “Il destino!” sibilò il ragazzo. “Che destino? Quello stesso che me l'ha portata via quando è andata sposa? Questo destino ha sempre la faccia di Antioco Murgia!” Uscì in fretta dalla caverna. Gli altri tre banditi si fissarono in volto a vicenda, poi Innassiu diede voce al pensiero di tutti: “È sconvolto. Speriamo che non vada giù a Mamoiada a mettere le mani addosso ad Antioco o saranno guai”.
Efisio sedette vicino alla sponda, dove l'aveva vista inginocchiata presso l'acqua, quella notte. Paska morta. E morta in quel modo, poi. Ricacciò l'idea, era troppo orribile. Pensava a lei fin da bambino, ma l'aveva sempre guardata da lontano. “È la figlia di ziu Basilio Mereu”, gli dicevano i compagni, deridendolo quando lo sorprendevano imbambolato a fissarla, con le palpebre immobili e le labbra serrate. “Un pastore, sei, oh Efisio! Cosa hai da spartire con una come lei?” Era vero, Paska era la figlia dell'uomo più ricco di Mamoiada. Eppure non perdeva mai occasione di sorridergli, quando la madre non la osservava, e il ragazzo viveva di quegli sguardi. Una volta gli si era avvicinata con l'anfora premuta contro il fianco. Era appena finita la sfilata del carnevale. Lui, insieme agli altri giovani, svestiva le cinghie che reggevano sulla schiena il grappolo di campanacci da mamuthone. “Salute, Efisio Carta”. “Salute a te, Paska Mereu”. Si era sentito brutto e sporco con il suo nero pastrano di pelo di montone, il cinturone di cuoio grezzo e i pantaloni al polpaccio dell'antichissimo costume propiziatorio, e i capelli sudati, appiccicati alla fronte per la maschera di legno che si era appena sfilato. I campanacci gli erano caduti di mano, finendo a terra con un frastuono sordo. Lei aveva sorriso, ma non con scherno, ed era arrossita. Aveva chinato gli occhi, le lunghe ciglia erano parse posarsi sulle guance. Poi aveva accennato all'anfora con la mano libera. Lui aveva annuito e le aveva teso uno dei boccali che le donne anziane stavano allineando sulle tavole. La ragazza aveva versato il vino. “Buon pro ti faccia”. Aveva inclinato appena il capo. “Ti saluto, Efisio”, e con questo si era allontanata. Il giovane aveva bevuto sentendo quel vino scendere dentro come un balsamo, e aveva dimenticato le spalle martoriate dalle cinghie, doloranti per il peso dei campanacci che per tutto il giorno erano ricaduti sulla schiena, seguendo il ritmo dei passi e dei saltelli durante la danza cadenzata della festa. Sempre così era stato il desiderio di lui, poter cogliere uno sguardo e ricordi come lampi. Poi lei era andata sposa ad Antioco Murgia. Era normale. Antioco Murgia era ricco, aveva greggi e armenti, e tanche, ossia poderi. E uliveti, e sugherete. Solo ziu Basilio Mereu, suo novello suocero, possedeva più terre. Non poteva che andare in quel modo. Ed Efisio aveva finito per rifugiarsi sui monti tutto l'anno con le sue poche bestie, per non dover vedere Paska in giro per Mamoiada, al braccio di quell'uomo che gliel'aveva portata via. In seguito, si era dato all'abigeato su commissione nelle foreste della Barbagia: era un mestiere redditizio e gli permetteva di non pensare a lei, dovendo preoccuparsi della propria incolumità. Percorreva a piedi con i suoi compagni miglia e miglia, lontano dal paese natale; e a volte, nelle tanche di qualche possidente di Asuai o di Samugheo si potevano vedere pecore marchiate con le iniziali di gente di Seulo, molto più a Nord di quanto sarebbe stato normale trovarle. La banda di Efisio era diventata abile. Sarebbe stato un bel colpo per le guardie acchiapparli una volta per tutte, ma loro conoscevano i boschi come la propria bisaccia, e sapevano passare invisibili accanto a intere compagnie di carabinieri di Sua Maestà il Re di Savoia. Da alcuni mesi erano tornati a quella sughereta non lontana da Mamoiada, perché Innassiu doveva occuparsi degli affari di suo fratello morto da poco: i quattro si sentivano abbastanza sicuri che qui nessuno li avrebbe denunciati. Non avevano mai fatto nulla ai danni della gente del paese, e molti dei maggiorenti attuali erano cresciuti con loro. Tutti sapevano dove si trovavano e di comune accordo fingevano di non saperlo. Non si infastidivano a vicenda e tanto bastava. Innassiu aveva però ritenuto più prudente dare disposizioni a ziu Elias, il pastore che aveva il suo piccolo podere poco fuori paese, e che li riforniva di formaggio e di pane. Il pensiero di ziu Elias riportò Efisio al presente. E se fosse andato l'indomani a chiedergli notizie di Paska? Da quando erano tornati si era sempre trattenuto dal farlo. Non voleva rischiare di sentirsi dire che lei era felice con un altro. Ora, però, doveva almeno sapere quando era morta. Anzi, quando quel maiale di Antioco Murgia l'aveva ammazzata. Sì, era vero, aveva ragione Gavino, suo marito non ne aveva una vera colpa; ma il ragazzo lo sapeva con la testa, non con il cuore. Non riusciva a liberarsi di quell'idea: l'aveva messa incinta Antioco, che dunque era il solo responsabile della sua morte. Punto e basta. Gliel'aveva portata via una volta di troppo. Strinse i pugni, rabbioso. Non poteva perdonarglielo, come aveva cercato invece di perdonargli le nozze. Non si era reso conto che era sceso il crepuscolo. Se ne accorse perché avvertì il passo di Ziromine avvicinarsi e tornò alla realtà. “Vieni a mangiare, piccioccu”. Efisio scosse la testa, ostinato. Il suo volto dai tratti marcati si era fatto duro. “Non ho fame”. “Sei cocciuto peggio di un asino! È tutto il giorno che sei qui. Anche se lei verrà, sarà solo a notte fonda. Vieni a mangiare”, ripetè l'uomo. Il giovane fissò lo sguardo lontano e non rispose. Ziromine rinunciò, ma di lì a poco sopraggiunse Gavino con un foglio di pane pistoccu, il classico pane biscottato, su cui era posato un pezzo di carne arrostita alla brace e alcuni fichi. Efisio lo ringraziò con il capo e non disse nulla. Gavino lo lasciò solo e lui si perse ancora nei ricordi e nel rancore, dimenticando il cibo. Presto fu buio, ed egli attendeva. Si accese la prima stella nel cielo. Sorse la luna, ed egli attendeva. Si alzò la brezza, ed egli attendeva. E poi, come uscita dal nulla, Paska fu accanto a lui. Lo guardò con i grandi occhi tristi e si chinò sull'acqua, picchiando sui panni con l'oggetto bianco che le aveva visto usare la notte prima. Una tibia di morto. Efisio rabbrividì. Pensò che le mani di lei avrebbero dovuto carezzare i capelli e le guance del bambino che le era stato negato, e non battere in quella corrente gelida le piccole fasce con quell'orrore, uscito da chissà quale inferno. La guardava, senza parlare, perché non si distrae mai una pana, o sarà condannata a ricominciare daccapo il suo lavoro e il conteggio dei sette anni della sua pena riprenderà dall'inizio. Pensò a tutta la gioia che le era stata strappata, ai primi passi del suo bimbo che non avrebbe mai seguito, alla prima parola che non avrebbe mai udito, alla prima risata cui non avrebbe mai risposto. E visse, come se la fanciulla andasse narrando, il momento in cui lei aveva visto, fra le doglie che le mordevano il ventre, il petto e il cervello, sa filonzana in gramaglie ai piedi del letto, con la sua maschera nera e la sua orrenda gobba. Con il fuso in mano, filava il filo di un destino. La ragazza non sapeva se fosse il suo o quello del piccolo, ma aveva detto: “Me. Prenditi me, ma non lui”. E sa filonzana aveva teso il filo fra le dita magre fino a spezzarlo. E poi, Paska levò gli occhi e il giovane capì che sì, tutto questo glielo aveva narrato lei, in quel modo segreto che hanno a volte i morti di parlare con i vivi. “Salute, Efisio Carta”, mormorò la fanciulla; ma non con quel tono che aveva avuto allora, sicuro e fermo. No. La sua voce era piena di rimpianto. “Paska, no. I sette anni...” “Sì, lo so”. E il ragazzo comprese, in quello stesso modo di prima, che lo aveva fatto per lui, per donargli sette anni, per valicare i mondi nel solo modo che sapeva, dandogli convegno ogni notte al ruscello. E che lo aveva sempre amato come lui l'amava. Allora rispose: “Salute a te, Paska Mereu”.
All'alba Efisio scese verso Mamoiada. Costeggiò i muretti a secco che delimitavano le tanche. Un asinello lo guardò curioso un attimo, poi tornò a chinare la testa sull'erba rada. Il ragazzo osservava gli ulivi, il tronco e la chioma piegati tutti in un'unica direzione dal vento che li batteva da secoli. Ora l'aria era ferma, ma gli ulivi restavano inclinati, e gli parevano una strana metafora della sua vita con Paska. Giunse in vista del poderetto di ziu Elias e si fece più prudente. Si avvicinò. Il vecchio stava seduto sullo sgabello a tre gambe, con la sommità della testa appoggiata sotto la coda di una capra. Mungeva. Appena il pastore lasciò andare la bestia, lo chiamò, salutandolo per primo in segno di rispetto. “Salute, Efisio Carta”, rispose l'altro senza scomporsi. Il giovane si avvicinò, mentre l'uomo afferrava un'altra capra e riprendeva a lavorare. “Se sei venuto per il formaggio, è presto. Te ne posso dare solo due forme”. “No, sono venuto per Paska”. Il vecchio sobbalzò e la capra gli sfuggì. “Paska è morta, piccioccheddu”, sussurrò. “Lo so”, annuì Efisio. “L'ho vista. È una pana”. Ziu Elias non commentò. Si limitò a fissarlo fra le sopracciglia bianche, lunghe, che coprivano parte degli occhi infossati nelle orbite. “Voglio sapere quando è successo, e che ha fatto...” represse una smorfia di rabbia, “... suo marito”, terminò, ingoiando a vuoto. “Perché lo vuoi sapere?” “Perché sì”. Ziu Elias si alzò e fece un cenno con il capo, precedendolo nel capanno.
Mentre si dirigeva verso Mamoiada, le parole di ziu Elias gli risuonavano dentro, divampando. Erano tre anni che lei era morta, ma quel maiale si era preso un'altra dopo neppure due mesi. La sorella di Paska, Grixenda. Va bene, il vecchio pastore aveva detto che lo aveva fatto per accudire Bustianeddu, il bambino. Ma ora Efisio odiava Antioco anche per questo. Gliel'aveva portata via, l'aveva ammazzata e l'aveva pure tradita. “Lascia stare, piccioccu”, lo aveva consigliato ziu Elias quando aveva compreso le sue intenzioni. “No. Mi deve spiegazioni”. “Sei impazzito! Non sei nessuno, tu. Che spiegazioni ti deve?” Non c'era stato nulla da fare. Se ne era andato dopo aver giurato vendetta. Efisio superò senza vederle le prime case del paese e attraversò la piazza già bianca di sole a grandi falcate, stringendo il manico della leppa, la lama già aperta nella tasca della giubba, mentre le donne dalla testa avvolta nei fazzoletti neri si fermavano agli angoli delle vie, indicandoselo a vicenda. Nessuno dei quattro fuorilegge era mai stato tanto sfrontato da farsi vedere in paese a quel modo. Il giovane bandito si piantò a gambe larghe sotto il balcone di Antioco Murgia. “Oh Antiogu! Vieni giù!” gridò. “Dobbiamo parlare”. Il viso di Murgia fece capolino fra le imposte. Un volto dai tratti scolpiti, solenni come una maschera prenuragica. L'uomo fece un cenno con la testa e di lì a poco era di fronte a lui. “Che vuoi?” Ma Efisio non riusciva a parlare. Ansimava. Tremava. Estrasse la leppa. Fu un attimo. Mentre il ragazzo gli si gettava contro, Antioco portò la mano al panciotto e qualcosa luccicò fra le dita. Il suo braccio scattò in avanti in un affondo deciso. Efisio si guardò il fianco; una chiazza di sangue si allargava sul tessuto. Antioco Murgia, senza battere ciglio, ripulì la sua leppa sui calzoni: “Volevi qualcosa?” L'altro non si mosse, gli occhi vacui. Il coltello gli era caduto di mano. L'uomo lo raccolse e glielo tese, tenendolo per la lama. “Se non ti serve altro, togliti di qui, prima che faccia chiamare i carabinieri”. Efisio esitò un momento, e avvicinandosi gli sussurrò: “Lei è mia, ora”. Poi si volse e fuggì via. Antioco restò interdetto. “Tu sei pazzo, piccioccu. Pazzo da legare”, mormorò guardandolo sparire dietro l'angolo della chiesa.
Efisio arrancava su per il sentiero. Sentiva freddo. La macchia di sangue sul fianco si era ingrandita, inzuppava i pantaloni fino a mezza coscia. La cartucciera pesava, e anche il fucile, ma doveva raggiungere i compagni. Poi, a una curva del sentiero, la vide. Sa filonzana in gramaglie, con la maschera nera sul viso. Il fuso in mano e il filo teso. “No”, rantolò lui. “Non ancora”. Fece un cenno con la mano, come per allontanarla, le passò accanto e tirò dritto, incespicando. La mulattiera si inoltrò sotto la sughereta. Il ragazzo si guardò alle spalle. Era solo. Si fermò, sedette a terra. E sa filonzana sedette accanto a lui. Teneva il filo fra le dita e dava lievi colpetti al fuso, senza fretta. E il fuso girava e girava, torcendo il filo in silenzio. Efisio si alzò a fatica. “Come hai fatto a raggiungermi?” balbettò. Si toccò la ferita, larga e netta. La leppa di quel maiale era bene affilata, pensò, ironico. Sa filonzana era sempre là. Solo, ora era in piedi. Il fuso girava e girava, torcendo il filo in silenzio. Il bandito le voltò le spalle e si allontanò, instabile sulle gambe. “Vattene”, gorgogliava. “Vattene!” Gesticolava come per scacciare le mosche. La luce sembrava essersi fatta crepuscolare, e lui faticava a proseguire. Qualcosa gli mozzava il respiro a metà e le ginocchia cedevano. Si appoggiò a un tronco. Sputò sangue. No. Non ancora, si disse. Tentò di affrettare il passo. Ormai non doveva essere lontano dal rifugio. Alla curva successiva, avvertì di nuovo la presenza, sa filonzana al suo fianco. Gli abiti neri, le dita bianche. “Lasciami solo!” gridò il ragazzo. Lo sforzo lo spossò, e le parole morirono in uno sbocco di sangue. Tossì, annaspò per respirare. Si trascinò verso un altro albero. Il fuso girava e girava, torcendo il filo in silenzio. “No”. La voce di Efisio era un raspare dolente. Riuscì, appoggiandosi alle querce, a raggiungere le vicinanze della grotta. Tentò di chiamare i compagni ma gli uscì solo un sibilo e un getto di schiuma rossa. Tossì ancora. Poi udì un suono d'argento che per le sue orecchie fu un canto celeste. Il ruscello. Si trascinò verso la polla. Il respiro saliva raschiando su per il petto. Efisio crollò a terra. Affogava in quella schiuma che gli riempiva la gola. Sentì dei passi, qualcuno gridò: “Ziromine! Ziromine!”. Il giovane aprì gli occhi. “Innassiu...” ansimò. Ma serrò subito le palpebre: sa filonzana era in piedi alle spalle dell'amico. Il fuso girava e girava, torcendo il filo in silenzio. Ziromine e Gavino sopraggiunsero di corsa. “Portiamolo dentro!” Tentarono di sollevarlo, ma Efisio scosse il capo più volte, le labbra chiuse, i denti stretti. Il naso si era fatto affilato, il viso grigio, le guance scavate. Non parlava e scrollava la testa in segno di diniego. Allora Ziromine comprese e si alzò. “Aspetta la sua donna”, sussurrò. Lui gli strinse la mano e un sorriso lieve si disegnò sulle labbra viola. Tamponarono la ferita e lo medicarono dove si trovava. Ziromine non parlava ma, sul suo volto chiuso, gli altri lessero il destino del ragazzo, che stringeva ormai l'anima fra i denti. Il suo respiro strideva, e sa filonzana in gramaglie filava. Il sole compì il suo curvo cammino nel cielo e venne il tramonto. Il fuso girava e girava. La luna si fece grande e lucente. Il fuso girava e girava, torcendo il filo in silenzio. Fu allora che i quattro uomini udirono una nenia e videro la pana china sull'acqua, battere camiciole di bimbo con la sua tibia di morto. “È vestita da sposa”, mormorò Gavino, attonito. Paska, nella sua veste a ricami scarlatti, si volse verso il giovane bandito. Efisio, barcollando, si alzò in piedi. Drizzò la schiena, fissò sa filonzana nelle orbite vuote della maschera. Tese la mano a Paska. “Salute, Efisio Carta”, disse la ragazza in un soffio. Sa filonzana fermò il fuso. “Salute a te, Paska Mereu”. E sa filonzana spezzò il filo.
Ringrazio Andrea Pani per la gentilezza nella rilettura e la consulenza sul sardo e sulle ambientazioni. Un grazie particolare a Maurizio. Lui sa perchè
Edited by federica68 - 5/7/2011, 13:22
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