Ikkancellati
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Sarà tutt’altro che professionale ammetterlo, ma è la sacrosanta verità: parlare con una ragazza che ha perso la testa non è affatto facile, specie quando porta la quarta di reggiseno. Mancano i punti di riferimento: le espressioni del volto, il movimento delle labbra, l’intensità dello sguardo. A tratti, hai la stessa sensazione di quando frequentavi ancora la prima elementare e percepivi i tuoi simpatici compagni di classe farti le smorfie dietro la schiena, senza riuscire mai a voltarti in tempo per beccarli sul fatto. È molto più difficile di quanto si potrebbe pesare. Solo un'ora prima, io e Alex, qualcosa a metà fra colleghi e compagni di sbornia, sbarchiamo all'Aeroporto Internazionale di Malta. Due BMW ci aspettano, il sole cruento di agosto riflesso sul tettuccio come se Dio stesse provando a dare loro fuoco con una lente d’ingrandimento. «Jumana, si chiama Jumana?» «Sì, con la “i” lunga» dice Alex, salendo a bordo dell’auto diretta a Kastilja, la sede governativa dell’isola. «Jumana Al-zamily. Araba da parte del padre, italiana da quella della madre.» «Conosce l’italiano, quindi?» Alex ridacchia, ironico. «Forse meglio di noi. Ha lavorato per dodici anni in Italia come giornalista freelance. Se la cava molto bene soprattutto con gli insulti, o per lo meno così dice il rapporto.» L’autista apre lo sportello della mia auto, mentre la BMW con Alex a bordo ci saluta con una nuvoletta di fumo grigiastro, densa come uno sciame di api. Le cicale, nascoste da qualche parte, fanno un baccano assurdo, come per protestare contro il rombo dei jet che continuano ad arrivare. E partire. No-stop. Trenta secondi dopo, stiamo percorrendo anche noi una strada che sembra essere stata costruita da un fan delle Hotwheels. «Sono tutte così le strade di Malta?» L’autista scoppia a ridere. Poi, arrangiandosi come può con l’italiano, fa: «Tante curve, tanti buchi.» «Quanto ci vuole per arrivare al Mater Dei Hospital?» «Venti, venticinque minuti.» Sul sedile c’è un giornale, The Times of Malta, una delle tante impronte che si è lasciato dietro un secolo e mezzo di dominio britannico. Nel 1969 Malta ha ottenuto l’indipendenza dagli inglesi, pagata col sangue. Indipendenza alla quale, solo settant'anni dopo, ha in gran parte rinunciato, proponendosi fra i maggiori sostenitori del Blocco Occidentale, sotto il controllo sovranazionale del mio datore di lavoro: le Nazioni Unite. Sembra però avere funzionato. Malta - per non dire l’Europa intera - hanno ora sotto controllo l’influsso di immigrati illegali provenienti dall’Africa. La data del giornale è quella di oggi. In prima pagina c’è una foto di Jumana, mentre viene caricata sul lettino mobile dell’ambulanza. È ancora bagnata fradicia. Si riferiscono a lei non per nome, ma col termine che si usa per descrivere queste persone: Cancelled. Una Cancellata. «Suppongo che abbiate un nome simile anche in maltese?» «Sì» fa l’autista, divertito come se stesse parlando di una cazzo di partita di calcio. «Ikkancellati.» Eppure divertente non lo è. In un certo senso, incompleti lo siamo un po' tutti. Ma quei pezzi mancanti sono nascosti nelle nostre teste. Un Cancellato, invece, deve fare i conti con la vergogna che gli mettono addosso gli occhi della gente. Con quei loro sguardi stupiti, le persone sono capaci di bucargli l’anima con l’efficacia di un trapano elettrico. Se questo momento fosse un drink, sarebbe: 1 misura di rabbia, ½ misura di afa, ¼ di gastrite, il tutto agitato bene. Alla faccia dei venti minuti, arriviamo a destinazione con tre quarti d’ora di ritardo. «Tante curve, tanti buchi» ripete l’autista, scusandosi. Ad accogliermi, un’infermiera. Sul volto: un sorriso collaudato tanto largo da fare ponte fra orecchio e orecchio. La seguo, attraversando corridoi così lunghi e intricati che mi sento intrappolato in un labirinto. Le pareti sembrano allargarsi e restringersi come stessero respirando, un senso di claustrofobia che va via solo quando il medico mi stringe la mano. «La Cancellata non ha nulla di serio» dice in un italiano invidiabile. Io lo ringrazio, poi supero i due caschi blu a guardia della porta. E la vedo. E, prima ancora che possa introdurmi, Jumana fa: «Stacca lo sguardo dalle mie tette!»
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EUROPA OGGI
Intervista in esclusiva con Nicola Trapani: Il primo Cancellato italiano ci racconta la sua vita di Jumana Al-zamily
ROMA - A primo impatto, appare essere un trentenne come tanti altri. Indossa una camicia bianca e un paio di Denim strappati. Ha un principio di calvizie. Se lo incontraste per strada nulla del suo aspetto catturerebbe la vostra attenzione. Eppure sotto la camicia si nasconde una verità che nessuno potrebbe sospettare: Nicola Trapani, infatti, è privo di torace. In questa intervista esclusiva, Nicola, che insiste per essere chiamato solo “Nico”, racconta la sua verità a EUROPA OGGI.
È il 2010. Nico è ancora un bambino. «Avevo poco più di tre anni la prima volta che ho scoperto di potere fluttuare in aria come un palloncino a elio. La gravità era d'un tratto nulla. Sotto di me, c’era la mia camera, il mio letto – e me stesso che dormiva.» Quella che descrive Nico viene chiamata in gergo OOBE, acronimo per out-of-body-experience. Ossia, esperienza extracorporea. «All’interno di un sogno tutto è etereo, immateriale, inconsistente. Al contrario, in una OOBE ogni singolo elemento, ogni forma, ogni suono, ogni sensazione è più concreta della realtà stessa.» Le prime esperienze extracorporee sono un misto di esaltazione e terrore. «Le OOBE si concludevano sempre allo stesso modo: tornavo, o meglio, precipitavo nel mio corpo. Era come salire sulle montagne russe senza cinture di sicurezza. A essere onesti, me la facevo sotto. Eppure c’è un limite a quante volte la stessa cosa può terrorizzarti. Presto ho smesso di averne paura.»
Senza mai confidare le sue esperienze a nessuno, la vita di Nico prosegue come quella di qualsiasi altro bambino. «I primi esami. I primi amici. E poi Stella [nome fittizio, ndr], la mia prima ragazza.» Ed è proprio a questo punto che, facendosi coraggio, decide di parlarne. «A quei tempi erano in pochi a sapere cosa fossero le OOBE. Ed erano ancora in meno a credere che si trattasse di un fenomeno reale. La mia prima ragazza, manco a dirlo, non era fra questi. Eppure... posso dirla così com'è? Ecco: l’amavo, l’amavo di brutto. Tanto che decisi di confidarmi con lei. Nella mia testa coltivavo l'idea romantica che quando due persone “si amano davvero”, devono dirsi tutto. Ero un cretino. Ma una cosa la sapevo: Stella non mi avrebbe mai creduto senza prove.» Così decide di visitare la sua ragazza durante l’OOBE. «L’indomani le avrei descritto la sua camera, in cui non ero mai stato, nei minimi dettagli. Non avrebbe avuto altra scelta che credermi.» Ma Nico vede qualcosa di inaspettato. «Stella non era sola.» Probabilmente, tutto sarebbe finito lì. «E io – prosegue, mordicchiandosi le labbra - avrei continuato a vivere nel silenzio come tanti, per paura di essere ridicolizzato.» Se non fosse che oltreoceano, James Patrick Rolland, uno scienziato del MIT, Massachusetts Institute of Technology, decise di impiantarsi nel cervello un processore quantistico: il precursore di quello conosciuto oggi come INQ, Innesto Neurologico Quantico. Risultato: nel 2043 Rolland scopre che la coscienza umana è capace di utilizzare le capacità computazionali del processore per accedere ad altre dimensioni, auto-inducendosi gli OOBE. Come si dice in questi casi, una scoperta rivoluzionaria. «Anche se non era ancora nulla - aggiunge Nico, scuotendo la testa - a confronto di quanto lo stesso Rolland riuscì a fare proseguendo la ricerca.»
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«O mi procuri un elicottero o, per quanto mi riguarda, puoi andartene a farti fottere!» sbotta Jumana. È strano parlarle senza poterle vedere la bocca. Per un attimo, mi domando se quella voce non sia solo nella testa, ma il suo dito medio a cinque centimetri dalla mia faccia non lascia spazio a dubbi. «Non ti sembra una richiesta esagerata?» «Visto che l’ONU ha deciso di mandare un suo ufficiale a rompermi le scatole, credo di no» dice Jumana, incrociando le mani. Ha le dita sottili di una pianista. A incorniciare le unghie, tracce di smalto rosso-fuoco. «Allora?» «Esistono duecentoquarantadue persone sulla faccia di questo pianeta dotate di innesto. Nessuna di loro si chiama Jumana.» «Cosa vuoi che ti dica? Non è un nome comune in Occidente.» «Non è quello il punto» faccio io, trascinando una sedia di plastica messa da parte in un angolo della camera di fianco al lettino. «Il problema è che sei una Cancellata.» «Un guaio più mio che tuo» ribatte lei, girando i palmi verso l’alto, come arrendendosi a una volontà divina superiore. «Senza innesto è impossibile essere una Cancellata. Quindi le cose sono due. O mi trovo davanti il primo caso di persona con un innesto illegale, non registrato. Oppure quello che ho davanti è un miracolo. Io opterei per la prima.» La mano destra si chiude in un pugno, fatta eccezione per l’indice che invece sprofonda nel materasso. «Voglio un elicottero.» «Come ti sei procurata l’innesto?» «Eli-cot-te-ro» insiste Jumana, mentre io, innervosito, mi alzo dalla sedia e comincio a camminare su e giù come un papà in attesa. «Un elicottero» ripete ancora. E continua a farlo anche una, due... quattro ore dopo. «Procurami un cazzo di elicottero.»
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Paceville è una Las Vegas ristretta, uno sfogo disperato di vita. Pochi isolati, poche strade, che ospitano un numero esagerato di pub, ristoranti, discoteche, casinò, strip club. I neon si riflettono sulle vetrine e sull’asfalto, i quali a loro volta rimandano riflessi schizofrenici di luce colorata in tutte le direzioni. A ogni angolo ci sono ragazzi ubriachi che vomitano quel che rimane loro dell’anima. Pensionati che ne approfittano per derubarli del portafoglio. Io e Alex ci troviamo allo Steaming Beauty, uno strip club da due soldi che farebbe pena anche a un magnaccio, dove sono i buttafuori stessi a importunare le ragazze. Siamo già mezzi ciucchi. L’intento sarebbe proprio quello di intossicarci, rimorchiare e svegliarci l’indomani mattina con una sana vergogna di ciò che abbiamo fatto la sera precedente. Lui è già a buon punto. Gli ci sono voluti pochi bicchierini e ancora meno minuti per rimorchiare qualcuno, un tipo simpatico di nome John. Davanti a me, invece, si prospetta la solita serata deludente. John si alza per recarsi al cesso. Alex fa: «Non deprimerti: la notte è ancora giovane. Guarda quante belle tipe; ce ne sarà una che ti piace.» «Il punto è se a loro piaccio io.» «Sai cosa penso? Che in realtà sei tu a volerti nascondere dalle donne.» Vorrei dargli torto: ma di bracci di ferro oggi ne ho avuti abbastanza. «Non riesco a togliermela dalla testa, sai.» «Chi?» «Jumana.» «Dimentica il lavoro, cazzo: divertiti!» Le ragazze si attorcigliano attorno al palo come serpenti eccitati. Le cosce luccicano, tutte cosparse di brillantini. I loro respiri sono governati dal ritmo incessante della musica, la quale si alterna fra l'abisso emotivo del trip hop e i suoni arrapanti dello smoky jazz. Una ragazza in topless si avvicina, a ogni passo i capezzoli ballano come due occhi a molla. «Xi triedu?» «Italiani» fa Alex. «Ah», esclama la ragazza. «Desiderate?» Se questo momento fosse un drink, sarebbe: 2 misure di sconforto, 1 misura di mal di testa, ½ cucchiaino di angoscia esistenziale. Ma invece, senza risparmiarsi il sorrisetto strafottente, Alex ordina: «Un body shot.» E, indicando il sottoscritto, specifica: «Per lui.» «No, no» faccio io. Vorrei nascondermi sotto il tavolo, tipo quei bambini nei filmati educativi in bianco e nero della Guerra Fredda. “Se vedete un lampo di luce” dicevano, “accovacciatevi sotto il banco”. Come se fosse bastato quello a salvarli dalla deflagrazione atomica. «E dài» insiste Alex. Il mio piccolo Armageddon nucleare sorride, le labbra lucide come il dorso di un'anguilla. Io continuo a rifiutare, finché non torna John e si aggiunge anche lui al coro: «Body shot, body shot...» La ragazza fa: «Okay.» Se ne va. Un minuto dopo torna con un bicchierino di tequila. Si posiziona davanti a me. Mette due dita in bocca, succhiandosele con tanto di “pop” finale come a incoronare un pompino. Sorridendo ancora, si passa le dita bagnate sul seno. Ci fa cadere sopra dello zucchero: sembra neve. «Pronto?» fa lei, chinandosi in avanti. Io non rispondo. Si mette una fetta di limone fra i denti. «Body shot, body shot...» continuano Alex e John. Le lecco il seno, morbido, caldo, un senso di conforto lungo solo una frazione di secondo nel quale però vorrei perdermi in eterno. Poi è il turno della tequila: mi brucia l’esofago come se fosse acido solforico. Infine, il limone. «Dieci euro» fa la ragazza, non dandomi nemmeno il tempo di riprendermi il controllo delle corde vocali. Alex la paga, approfittandone per ordinare due gin tonic. «E un Cuba libre» aggiungo io, mentre lei si pulisce con un tovagliolo, che avrà utilizzato decine di volte solo per questo. Al posto del sorriso, la ragazza ha adesso un'espressione schifata. «Grazzi, sbejjah» dice - qualunque cosa significhi -, e si allontana sculettando, inghiottita dall'ombra che aleggia come una minacciosa coltre di Nulla e Vuoto su tutti noi. O forse solo su di me. Alex e John si baciano. Poi, rivolgendosi a me, Alex fa: «Meglio?» Fatto sta: mi sento peggio di prima. Ma non glielo dico. Invece faccio: «Credi che ti sarebbe possibile procurarmi un aggeggio che vola?»
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EUROPA OGGI
Intervista in esclusiva con Nicola Trapani: Il primo Cancellato italiano ci racconta la sua vita.
(Prosegue da pagina 12) Sono passati cinque anni dalla brutta delusione amorosa di Nico. «Avevo solo una bottiglia di vino che sapeva di aceto - della serie 3X2 - a farmi compagnia.» La vita di Nico sembra non stare andando da nessuna parte. È in cerca di un posto di lavoro che nessuno è disposto a offrigli. «Poi mi capita di gettare lo sguardo su un annuncio.» Che noi di EUROPA OGGI siamo riusciti a rintracciare. Ve lo riproduciamo:
Programma Ulysses delle Nazioni Unite
Cercasi candidati per l’impiego in strutture sia militari che civili di esploratori interdimensionali. Si richiede passata esperienza di:
OOBE (out-of-body experiences), ossia Esperienze extracorporee NDE (Near death experiences), ossia Esperienze pre-morte ESP (Extra-sensory perception), ossia Percezioni extra-sensoriali simili
«Per quanto mi riguardasse, avevo già sentito parlare della scoperta che aveva permesso ad alcuni scienziati di auto-indursi le OOBE. Ma la cosa mi pareva tanto lontana, da non averle mai prestato troppa attenzione. Al colloquio mi presentai convinto di stare sprecando il mio tempo, ma che diavolo? Al limite, sarei tornato alle visite periodiche all’Ufficio di Collocamento. Non avevo nulla da perderci.» Nico continua: «Il mio curriculum lasciava alquanto a desiderare: nessuna qualifica universitaria, nessuna esperienza militare, nessuna seria esperienza lavorativa.»
Il colloquio si svolge in un ambulatorio. «La dottoressa mi fece indossare un caschetto pieno di elettrodi. “Si tratta solo di un esame elettroencefalografico” disse, sforzandosi di assumere un tono rassicurante. Poi fece per mettermi un paio di cuffie. “Questi si chiamano suoni binaurali. La aiuteranno ad auto-indursi una OOBE”. Ma io le risposi di non averne bisogno.» Due giorni dopo, Nico viene indirizzato alla base militare di Rocca di Papa. Si presenta con un pezzo di carta in mano che dice: AMMESSO. Ad accoglierlo, il Prof. Coriandoli, noto docente di fisica all’Università di Roma “La Sapienza”. «Il Prof. mi dà un libro. “Capitolo III, pagina 22” dice. E mi chiede di leggere a voce alta. Ricordo quella frase come se l’avessi letta solo ieri:
La mente (così come i metalli e gli elementi) può essere trasmutata, da stato a stato, da grado a grado, da condizione a condizione, da polo a polo, da vibrazione a vibrazione.»
Il libro dal quale ha letto Nico è il Kybalion, un testo esoterico che raggruppa alcune delle più fondamentali conoscenze ermetiche. «Il Prof. mi fece eco: “Da vibrazione a vibrazione”. Poi, sorridendo, disse: “I tuoi occhi possono percepire la luce emanata dai fari di un’auto, ma non quella ultravioletta. La ragione è semplice: vibrano a una frequenza diversa”.» Nico continua: «Sapete, è un po’ come quando, agitando una mano davanti al volto, questa sembra diventare quasi invisibile. Il Prof. mi spiegò come le diverse dimensioni, sia quelle postulate dai testi esoterici che dalla fisica quantistica, sono realtà sovrapposte: occupano lo stesso spazio, ma vibrano a frequenze diverse. L’innesto, unito alle capacità innate della persona, permettono di accedere a queste dimensioni.»
Ed è a questo punto che il Professore confida a Nico la seconda scoperta di James Patrick Rolland, molto più significativa della prima. «Ammetto che ebbi qualche difficoltà a credergli. Quello che mi disse superava ogni immaginazione, inclusa la mia. Mi disse: “Grazie all’innesto, la mente può influenzare la materia a tal punto da fare cambiare livello di vibrazione non solo alla coscienza - ma anche al corpo. In altre parole, è possibile visitare le altre dimensioni fisicamente”.» Il Professore Coriandoli è entusiasta delle possibili applicazioni. «Mi disse anche: "Pensa cosa potremmo fare il giorno che la tecnologia ci permetterà addirittura di concentrare le capacità mentali dell’individuo con innesto su oggetti esterni."» Già: cosa?
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«Siamo troppo alti» urla Jumana, sporgendosi dal portellone laterale aperto per vedere meglio. Io siedo invece di fianco al pilota, Chris. Gli do un colpetto sulla spalla, facendogli segno col pollice verso di abbassarsi. Rivolgendomi a Jumana, dico: «Mi dici cosa diavolo siamo venuti a cercare?» «Gli altri cinquantaquattro disgraziati che erano a bordo del barcone insieme a me.» «Come?» Il motore dell’elicottero – un vecchio Bell 212, sulla coda le insegne del Blocco Occidentale, impiegato nel pattugliamento del Mediterraneo – fa più rumore di una mandria di bufali al galoppo. Urlo: «Non abbiamo avuto nessun rapporto a riguardo. Hanno trovato solo te. Sei sicura di quello che dici?» Guardandola da dietro, la schiena sembra inarcarsi a esse come quella di un cobra pronto a riempirti di veleno. La notte scorsa, sono tornato all’hotel Fenicia solo, con più alcool che sangue nelle vene. Il resto della notte, l’ho passato fissando il soffitto della camera girare in tondo senza riuscire a chiudere occhio, il pensiero rivolto a lei. Ho immaginato di infilarle la mano fra le cosce. Di trovarla bagnata. Eppure, ogni volta che mi sforzavo di immaginare il suo volto, spariva come inghiottita dalle sabbie del deserto che l'hanno partorita. «Orrajt» fa Chris, facendomi il segno dell'Okay. Ora siamo tanto bassi che il nostro passaggio riesce a disturbare la superficie del mare, ma Jumana dice che non basta. «Più giù.» Il pilota risponde con un secco: «Le, gbien!». Scrollo le spalle. Chris si corregge, traducendo la frase in italiano: «No, amico. Troppo pericoloso.» Mi volto per dirle che non possiamo ma... «Che succede?» faccio io. Per la prima volta da quando l’ho incontrata, Jumana tace. «Cos’hai visto?» Ho una cattiva sensazione. Rimando al mittente un rigurgito d’acido. Poi è Jumana stessa a rompere il silenzio. Puntando col dito, fa: «Sono là.» «Non vedo nulla» ribatto io. Jumana incrocia le braccia sul petto, come se fosse stata investita dall'alito gelido della Morte. «Io vedo solo acqua.» Anche Chris conferma: «Xejn, nulla.» «Come pensavo» dice Jumana, voltandosi verso di noi. «Non potete vederli.» Slaccio la cintura del sedile. Il pilota cerca di trattenermi con una mano. «No!» «Tranquillo.» Mi avvicino a Jumana, sorprendendomi di quanto sia stabile l’elicottero. «Ho bisogno di vedere coi miei stessi occhi. Devi spiegarmi nel dettaglio come ti appare la realtà.» «Tutto è di un unico colore» dice lei, la voce rotta. Si passa una mano sul viso invisibile. Il dito viene via bagnato di lacrime e moccio. «Co... come se qualcuno mi avesse messo un paio di occhiali con delle lenti rosse.» «Lo spettro di luce rosso è quello più debole» le faccio io, «il più distante dalla luce originaria. Dal paradiso, se vuoi. Ti trovi in una dimensione infernale. Deve trattarsi però di un inferno marginale, altrimenti non riusciresti a percepire anche questa realtà, quella in cui si trova il resto del tuo corpo.» Concentrandomi, inizio a scorrere da dimensione a dimensione, tenendo lo sguardo fisso nel vuoto in cui dovrebbe invece esserci la testa di Jumana. È come cercare di sintonizzarsi su una stazione radio. Passando da una realtà all’altra vedo creature alle quali ormai sono abituato, piccole entità eteree simili a ragni, mosche e mantidi religiose. Anche se non viene pubblicamente ammesso dai militari, le funzioni degli esploratori interdimensionali va oltre la semplice ricerca scientifica. Tanto per fare un esempio, i militari approfittano dell’interazione con demoni e affini per raccogliere intelligence sul nemico. So cosa dico: l’ho fatto io stesso. In passato ho interagito con djinn, trickster, gargoyle. Si tratta di interi ecosistemi sovrapposti al nostro. Ma ora come ora m’importa solo di riuscire a sintonizzarmi sulla frequenza dimensionale giusta. «Ciao.» È tutto quello che riesco a dire quando mi appare davanti ciò che, per quanto mi sforzassi, non ero riuscito ad immaginare la notte prima: il volto di Jumana, striato di lacrime. Lei dice: «Mi vedi?» Faccio cenno di sì. «E vedi anche loro?» Guardo giù. Una ventina di corpi galleggiano nel mare come un branco di sardine morte. E Jumana fa: «Sono stati tutti cancellati.»
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EUROPA OGGI
Intervista in esclusiva con Nicola Trapani: Il primo Cancellato italiano ci racconta la sua vita.
(Prosegue da pagina 15)
A Nico vengono insegnate tecniche di concentrazione, visualizzazione e meditazione Pranayama. Gli insegnamenti sono intensivi. Si prolungano per diversi mesi. Ma, alla fine, conclusa senza complicazioni l’operazione d’innesto dell’INQ, arriva il giorno della prima esplorazione interdimensionale. Nico è disteso sul lettino. Le sue condizioni vitali sono monitorate dal computer. Il Prof. Coriandoli lo invita a fare un respiro profondo. «Visualizza una dimensione qualsiasi, a tuo piacimento.» Nico ci racconta: «La verità è che per anni ho vissuto attanagliato dalla depressione. Svuotato di speranze. Di energie. Di gioia di vivere. Se ci foste stati voi nei panni miei, in quale posto avreste desiderato trovarvi?»
Nico ha un attacco cardiaco. «Tutti possono imparare a giocare a calcio, ma i Maradona sono l’eccezione. Quando si viene alle OOBE è la stessa cosa. Avevo una predisposizione naturale verso questo genere d’esperienza così al di sopra della norma che nemmeno lo stesso Professore poteva immaginare che la prima volta sarei riuscito a spingermi tanto in là.» Quando gli domandiamo di descriverci cosa vide, Nico balbetta qualcosa che non capiamo. Poi precisa: «Una luce, ma diversa da qualsiasi luce si possa immaginare. Qualcosa di così puro, assoluto, da fare addirittura male.» Quello che Nico ha visitato è il Paradiso. O meglio, uno dei tanti paradisi che oggi sappiamo esserci. «“Inferno, Paradiso, Purgatorio, sono tutti nomi differenti per dimensioni che vibrano a frequenze diverse” mi spiegò il Professore il giorno dopo. Il Paradiso che avevo visitato io era il quarantaduesimo, uno dei più intensi. Il livello di beatitudine era stato così insopportabile da causarmi l’arresto cardiaco. Chi l’avrebbe mai detto che il Paradiso potesse far paura?» Ma le conseguenze dell’esperienza di Nico andavano ben oltre l’impatto psicologico. «Il Professore mi spiegò che una cosa del genere era già avvenuta con due esploratori interdimensionali americani che si erano spinti troppo in là nelle dimensioni infernali. Il forte impatto emotivo aveva impedito loro di rimaterializzarsi del tutto. Quando mi vidi allo specchio, non riuscii a credere ai miei stessi occhi. Era come se qualcuno mi avesse cancellato il torace con una gomma. La parte superiore del mio corpo era del tutto separata da quella inferiore. Eppure potevo muovere le gambe senza problemi. Solo che il torace, invisibile e impalpabile, continuava a vibrare a una frequenza diversa.» Nico ha perso una parte di se stesso in Paradiso. E nessuno sa come recuperarla.
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Alex mi chiama al cellulare. «Buone notizie: i piani alti hanno ricevuto il tuo rapporto. Sono soddisfatti. Abbiamo concluso: possiamo tornarcene a casa» «E Jumana?» Con un tono confuso, Alex fa: «Jumana cosa?» «Cosa le accadrà?» «Credo che verrà presa in custodia dai militari.» «Come? Assurdo, non ha fatto nulla.» «Sì, ma non ci riguarda.» Ha ragione, eppure non posso fare a meno di dirgli: «Voglio visitarla un’ultima volta, prima di partire.» «Ma che ti prende?»
Al Mater Dei Hospital, trovo Jumana rannicchiata nel suo letto. Le faccio: «Come va?», ma lei non risponde. Insisto. Alla fine dice: «Per voi non cambia nulla, vero?» «Non capisco.» «Una cinquantina di clandestini spariti nel nulla sono altrettanti problemi in meno, no? Come fa quel detto che avete voi in Italia? Occhio non vede...» «Ti va di fare due passi?» Lei sbuffa. Poi ci ripensa. «Va bene.» Anche una volta mostrata loro la scheda con la mia brutta faccia e sopra il simbolo dell’ONU, le due guardie non sanno esattamente cosa fare: se seguirci o rimanere a guardia della porta. «I vostri ordini sono di non muovervi, giusto? Tranquilli, mi prendo io ogni responsabilità.» Le infermiere ne avranno viste di tutti i colori, eppure tutte quelle che incrociamo nei corridoi si voltano a guardare il corpo senza testa di Jumana, gli occhi sbarrati come se stessero guardando una pellicola di Dario Argento. Mormorano fra loro: «Dik ikkancellata.» Ogni tanto prendiamo l’ascensore, schiacciando un bottone a caso, solo per trovarci in un’altro piano, identico a quello precedente. Ho di nuovo la sensazione di essere intrappolato in un labirinto, anche se questa volta a vagare senza meta siamo in due. A rompere il silenzio è Jumana. «Se i loro corpi privi di vita sono rimasti intrappolati in quella dimensione infernale, dove sono le loro anime?» «Non lo so. Finora abbiamo scoperto oltre centocinquata dimensioni diverse, ma in nessuna di queste abbiamo incontrato le anime dei defunti.» Lei sospira. «Da quando l’ONU ha istituito il Blocco Occidentale il numero di immigranti illegali è calato di quanto? Settanta, settantacinque per cento?» «Settantotto, per essere esatti.» Il corridoio termina in una camera con scritto sopra: MORTWARJU. Obitorio. Davanti a noi c’è una finestra a scorrimento, che qualche infermiera deve avere dimenticato aperta. Jumana appoggia i gomiti sul davanzale. «D’accordo, ci sono i pattugliamenti degli UAV, i satelliti, la cintura navale. Eppure, credimi, i barconi partono ancora dalle coste di Tripoli.» «Eri tornata in Libia per questo?» «Volevo scoprire che fine fanno tutte quelle persone» dice, facendo il gesto di passarsi una mano fra i capelli, solo per poi rendersi conto di non potere e fermarsi a metà. Con un tono deciso, fa: «Se dico “marocchino” qual è la prima parola che ti salta in mente per associazione? Con ogni probabilità, “stupratore”. Palestinese? Kamikaze. Iracheno? Attentatore. Certo, alcuni lo sono davvero. Eppure il restante novantanove per cento sono marocchini che lavorano per dare da mangiare ai figli, palestinesi e iracheni che hanno paura quanto noi di venire ridotti in cenere dalla bomba di un pazzo. Se gli occidentali dovessero scoprire di essere loro i “cattivi ragazzi”, lo accetterebbero? Forse sì: perché nella coscienza collettiva la verità è definita dal numero di copie vendute.» «Se nessuno di loro era fornito di impianto, l’unica possibilità che rimane è una nuova forma di tecnologia. Qualunque cosa sia, deve averti mancato, anche se non del tutto. Ti ha preso solo la testa, appunto.» Dall’obitorio esce un’infermiera, tirandosi dietro un lettino vuoto. Sul lettino, un mazzo di chiavi con attaccata una figurina di Betty Boop. «C’è un altro problema.» Lei si volta, senza dire nulla. Io faccio: «I militari intendono prenderti in custodia.» «Me lo aspettavo.» «Forse hai visto qualcosa che non dovevi.» «Abbiamo visto. C’eri pure te, bello.» Io non dico nulla. Poi lei fa: «Vaffanculo.» La prendo per una mano, trascinandomela dietro. «Che cazzo fai?»
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Chiudo la porta dell’obitorio alle nostre spalle. I cardini sembrano protestare contro quest’intrusione improvvisa, ma non ci nota nessuno: il corridoio è deserto. «Da dove hai preso quelle chiavi?» Al centro della stanza vi è un lettino costituito di cemento e ricoperto con delle mattonelle in ceramica, in modo da poterle ripulire facilmente dal sangue, dalla merda e dalle viscere che fuoriescono dai cadaveri durante le autopsie. Dei lettini mobili sono parcheggiati contro una parete. Il muro opposto, invece, è occupato dalle celle frigorifere. La luce violenta e asettica dei neon è respinta dal pavimento, dalla pelle sudata di Jumana. «Trova una sega elettrica.» «Come?» «Dovrebbe essercene una da qualche parte» dico io, inidirizzandomi verso le celle. «Sbrigati.» Un anziano. Un uomo sulla cinquantina. Un altro anziano, questo dev’essersi suicidato: al posto della mandibola ha un ammasso indefinito di carne spappolata. «Trovato» fa Jumana. «E ora?» «Credo d’avere trovato anch’io ciò di cui abbiamo bisogno.» Il cadavere giusto è disteso su un piccolo lettino metallico estraibile. Lo tiro fuori. Poi prendo il cadavere in braccio. Ha già iniziato a irrigidirsi. È come tenere stretti a se un manichino della GAP senza giunture. Lo poso sul lettino delle autopsie. Jumana dice: «Povera ragazza, non avrà avuto più di trent’anni.» «Dammi.» Jumana mi passa il trapano. «È già attaccato alla presa.» «Passami quei guanti lì» le dico, «anche il grembiule. Se ti fa schifo, non guardare.» Inizio l’incisione alla base del collo. Il sangue viene fuori abbondante. Jumana non solo continua a guardare, ma mi passa pure uno Scottex sulla faccia, per asciugarmi il sudore e gli spruzzi di sangue che mi finiscono sul volto, solleticandomi il naso, le labbra. Mi sussurra all’orecchio: «Ho capito cosa vuoi fare.» All’inizio non è possibile distinguere nulla. Poi si incominciano a intravedere un sottile strato di grasso molle, i nervi, i muscoli recisi. Quando taglio la trachea, fuoriesce un denso liquido giallastro, con dei pezzettini più solidi di quelli che potrebbero essere i resti di cracker o qualcosa del genere: dev’essere il rigurgito dell’ultimo pasto della ragazza. Affondo la sega con più forza. I tendini biancastri, una volta tagliati, scompaiono rifugiandosi nella carne morta, come una chiocciola spaventata nella conchiglia. Sono abbastanza elastici da dare l’illusione di essere ancora vivi. Jumana indossa un paio di guanti. Poi con le mani allarga il taglio in modo che possa vedere meglio. Infine Il trapano arriva all’osso, facendo un rumore simile al lamento di un cagnolino abbandonato. «Ecco.» La decapitazione è completata. Sciacquiamo via tutto il sangue possibile. Rimetto il cadavere nella cella frigorifera, mentre Jumana cerca di ripulire nel miglior modo possibile la testa mozzata della ragazza sotto l’acqua corrente. «Me la sarei immaginata più pesante» fa Jumana, ruotando la testa fra le mani come fosse una palla da bowling, poi dice: «Vieni qui.» Lo faccio. Lei mi slaccia la cintura. La usa per stringere un cappio attorno alla testa del cadavere, impedendo al poco sangue rimasto di continuare a sgocciolare. «Perché stai facendo questo per me?» Non le rispondo. Invece mi sbottono la camicia. Lei guarda il vuoto dove invece dovrebbe esserci il mio petto. E dice: «Quella parte di te stesso dov’è?» «In Paradiso» faccio io. «Ma in una dimensione così vicina alla fonte di luce originale, da essere intollerabile per un mortale. Se dovessi tornarci, l’impatto emotivo sarebbe così forte che questa volta potrei rimanerci intrappolato, in eterno sottoposto all’agonia della beatitudine.» «E allora vieni da me» dice lei. E io chiudo gli occhi. Quando li riapro, sono di nuovo all’inferno. Nel suo inferno, quello di Jumana. Le sue labbra sono più morbide di quanto immaginavo. Glielo dico, mentre lei, inginocchiandosi, fa: ssssshhh. Apre la cerniera lampo. Se questo momento fosse un drink, sarebbe: 2 misure di vita, altrettante gocce di speranza, e... Vorrei rimanere nella sua bocca in eterno, ma dopo un poco vengo. Jumana, ripulendosi le labbra con le dita, dice: «Meglio se ci diamo una mossa.» Sento ancora il cazzo pulsare. Ricacciandolo nei pantaloni, le dico: «Porta qui uno di quei lettini». Mentre lei si dà da fare, torno dall’inferno alla realtà originale. Jumana mi appare di nuovo priva di capo. «E adesso?» «Sdraiati.» Posiziono la testa in modo che sembri parte del corpo disteso di Jumana. «Ora, stringi le mani attorno al collo, in modo da tenerla ferma.» La copro con un lenzuolo, che le tiro su fino al mento. Rimane visibile solo la testa. Con gli occhi chiusi, sembra appartenere davvero a una ragazza addormentata. «Speriamo che nessuno faccia caso al colorito.»
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«Ma tu... tu sei pazzo!» urla Alex al telefono, mentre io insisto: «O mi dài una mano, o sono fottuto. Fatti venire un’idea.» «Marsaxlokk. C’è questo piccolo villaggio di pescatori, Marsaxlokk. Con qualche centinaio di euro forse potrei convincere qualche pescatore a portarvi fino in Sicilia. Un peschereccio maltese non dovrebbe attrarre troppa attenzione.» «Un’altra cosa: devi venire a prenderci all’ospedale.»
Guardando Jumana, il capitano fa: «Hija ikkancellata?» «Lo siamo entrambi» faccio io, sbottonando la camicia quanto basta per fargli vedere il vuoto. «Ikkancellati.» Gli sorrido. Lui si sforza di fare lo stesso. Poi, strofinando assieme le dita, dice: «Voi pagate. Io tutto Okay.» Mi avvicino a Jumana. Chiudo gli occhi. Li riapro. All'inferno anche l'acqua ha tinte rossastre. Una pentola, ecco come mi immagino il Mediterraneo. Un'enorme pentola che raccoglie il sangue versato dalla gente uccisa cercando di attraversarlo. Non ha fondo, o limiti di capienza. Ha già inghiottito milioni di vite, di speranze, di storie di miseria destinate in eterno a rimanere ignote, eppure continua a farlo. «Intendi ancora scrivere quell’articolo?» Jumana annuisce, l'espressione concentrata come alla ricerca di qualcosa di prezioso in se stessa. «E se fosse un’esploratore interdimensionale, un funzionario stesso dell’ONU, a confermare quello che hai visto?» «E perché dovresti farlo?» «Ho trascorso tutta la mia vita cercando di nascondere cose. Prima le OOBE. Poi il mio essere un Cancellato. Adesso basta.» «Non so se è una buona idea» dice Jumana, la fronte aggrottata. «Potresti essere addirittura accusato di tradimento.» L’orizzonte sembra estendersi all’infinito, eppure fra mezz’ora verrà sostituito dalle coste della Sicilia. «Non so cosa accadrà. Rischiamo entrambi. È vero che una volta pubblicato l’articolo, con tutti gli occhi dei media puntati su di te, eviteranno di arrestarti. Ma è altrettanto vero che gli “incidenti” accadono». Sospiro, avvicinandola a me. «In ogni modo, tocca a noi decidere se vale la pena rischiare.»
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EUROPA OGGI
Intervista in esclusiva con Nicola Trapani: Il primo Cancellato italiano ci racconta la sua vita.
(Prosegue da pagina 21)
Nico assiste a uno spettacolo mostruoso. «Saranno stati almeno una ventina, forse più. Tutti morti, annegati. Uomini. Donne. Credo di avere scorto anche dei cadaveri di bambini. Nessuno di loro aveva degli innesti. L’unico modo di trasferirli in un’altra dimensione è con l’ausilio di una tecnologia capace di concentrare l’intento di una persona dotata di innesto su un oggetto esterno: in questo modo, invece di essere lei a cambiare dimensione, è l’oggetto sul quale si concentra l’attenzione a farlo.» Va notato che nei media alternativi, si fanno sempre più insistenti le voci secondo le quali la DARPA, Defense Advanced Research Projects Agency, in collaborazione con altre agenzie del Blocco Occidentale, avrebbe messo a punto un’arma capace di modulare le onde cerebrali dell’operatore fornito di innesto in modo tale da cambiare la frequenza vibrazionale della materia. Anche se questa tesi viene stigmatizzata definendola una “teoria cospirazionista”, è giusto ricordare ai lettori che l’ONU da tempo evidenzia il bisogno di controllare l’espansione della popolazione umana, così come delineato dall’Agenda 21 articolata in Brasile nel giugno del 1992. «Spedendo gli immigranti illegali all’Inferno, si raggiungerebbero due obbiettivi allo stesso tempo» continua Nico. «Da una parte, il controllo dei clandestini che arrivano sulle coste europee. Dall’altra, una graduale diminuzione della popolazione del Terzo Mondo. Si tratta però di genocidio.» Ma come potrebbe essere applicata questa nuova tecnologia? «Non credo che sarebbe troppo difficile. Basterebbe fornire le unità marine, o addirittura quelle aeree, di un sistema per la proiezione di onde elettromagnetiche, che concentrerebbe sull’obbiettivo l’esatta frequenza emessa dalle onde cerebrali dell’operatore dotato d’innesto. Funzionerebbe su un principio simile a quello delle corde musicali. Quando una corda vibrante si accosta a una statica, quella ferma inizia a vibrare alla stessa frequenza.» Ci vollero quattro anni prima che l’ONU svelasse al pubblico la possibilità dei viaggi interdimensionali. Altri due prima di ammettere l’esistenza di quelli che oggi conosciamo come Cancellati. Se questa nuova tecnologia dovesse esistere davvero, quanto ci toccherà aspettare stavolta prima di venirne a conoscenza?
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«Perla d’argento.» «Come?» Accompagnata dal rumore dell’acqua che s’infrange contro lo scafo del peschereccio, Jumana dice: «Il mio nome significa “Perla d’argento”.» Se questo momento fosse un drink, ne ordinerei ancora. «È di buon auspicio?» Prendendomi la faccia fra le mani, dice: «Potrebbe essere altrimenti?»
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EUROPA OGGI
Intervista in esclusiva con Nico Trapani: Il primo Cancellato italiano ci racconta la sua vita.
Nico chiude l'intervista con una frase, che non sarà di certo originale, ma speriamo sia vera. «Il futuro è ancora tutto da decidere.»
Questo articolo è stato pubblicato in memoria di Jumana Al-zamily e Nicola Trapani morti in un incidente stradale solo pochi giorni dopo la stesura definitiva.
Edited by RobertoBommarito - 15/7/2011, 14:49
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