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DOPPIO
di Luca Pagnini
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1 settembre 1939 Da solo, l’ospite aveva resistito immobile giusto qualche secondo. Poi si era alzato. Passeggiava oscillando senza tregua tra la finestra, affacciata sul Tamigi, e una delle due poltrone in pelle al centro della stanza. L'abito che indossava era più grande di mezza misura, ma il taglio dimostrava la mano di una sartoria di alta classe. Facendolo accomodare nell’ufficio, una giovane e procace segretaria pettinata alla moda francese, capelli nerissimi corti e lisci, l’aveva invitato a sedersi in attesa del direttore. Ringraziando, l’uomo aveva lanciato uno sguardo spudorato alla ragazza che era uscita con gli occhi bassi e un sorriso imbarazzato a colorarle il volto.
I vetri delle ante di una libreria colma di volumi rimandavano l'immagine di un cinquantaseienne dalla corporatura massiccia e il viso liscio, lo sguardo acceso, quasi spiritato, che lo rendeva interessante a prima vista. A ogni tratta del suo spostarsi, l’uomo si appoggiava all'alta spalliera per guardare un attimo la foto di Sua Maestà Giorgio VI appesa dietro la scrivania di mogano; quindi si voltava e tornava a fissare il panorama con le mani poggiate sui fianchi e l'espressione ferma ben oltre l’orizzonte. Il picchiettio incessante delle macchine da scrivere, appena ovattato dalla porta socchiusa, gli rivelava la presenza dei tanti giornalisti impegnati nella redazione adiacente. La notte appena trascorsa era stata segnata da avvenimenti che l'avrebbero consegnata alla storia: di sicuro il Times sarebbe uscito con un'edizione straordinaria quel pomeriggio stesso.
Quando la porta si spalancò, l’uomo si stava passando una mano sulla testa calva. «Buongiorno», esordì in italiano il direttore. «Buongiorno», rispose l’altro che subito, con ottimo inglese appena sporcato da un particolare strascicamento della esse, precisò: «Possiamo parlare nella sua lingua, mister Dawson». «Perfetto. Mi scusi per l'attesa, ma, come può immaginare, la riunione con i caporedattori oggi è stata abbastanza articolata». Il direttore del Times camminava lento con l'aiuto di un bastone da passeggio nero con pomolo tondo di peltro lavorato. I suoi sessantacinque anni erano evidenti; notando l'interesse del suo ospite per l'oggetto, l'inglese si fermò e con gesto veloce picchiò un paio di volte il bastone contro lo stinco. Il suono del legno sul legno svelò la protesi al di sotto dei pantaloni. «Un regalo dei tedeschi a Ypres», chiarì. «Il cronista di guerra è un mestiere pericoloso, a volte. Ma... si accomodi». «Anch'io sono rimasto ferito durante la Grande Guerra...» accennò l'italiano sedendosi. «Sul Carso. Ne sono uscito intero, ma per poco non ci lasciavo la pelle». «Reporter?» «No, caporale dei bersaglieri», disse l'uomo usando il termine italiano, quindi tradusse, «soldati di fanteria più veloci a correre degli altri». Dawson aggrottò le sopracciglia e annuì per qualche secondo, poi chiese: «È stato decorato per questo?» «No, la granata era italiana». «Fuoco amico quindi». «Diciamo così. È successo durante un'esercitazione». «Capisco...» «Se non altro, in convalescenza ebbi la sorte di conoscere il Re di allora». «Davvero?» «Sì, proprio nei giorni che mi trovavo ricoverato all'ospedale di Ronchi, vicino Gorizia, Vittorio Emanuele III passò per portare conforto ai feriti. Un'esperienza che negli anni successivi mi è davvero servita». La nota sarcastica con cui l'italiano aveva detto l'ultima frase fu appena percettibile, Dawson sembrò non notarla. «Immagino, l'incontro con le teste coronate fa sempre uno strano effetto anche a me. Ma veniamo a noi... lei vorrebbe il nostro posto di corrispondente da Roma, giusto?» «Sì».
I due parlarono per un po' di giornalismo, di cosa intendessero per notizia e di come doveva essere riportata, poi passarono alla politica. «Quindi, secondo lei, l'Accordo di Monaco è stato il primo errore dei paesi occidentali?» «No, il secondo. Il primo è stato il Trattato di Versailles. La Germania non doveva essere umiliata e...» Il telefono squillò, il direttore si scusò e rispose: «Sì?... Me lo passi... Buongiorno Sir... Sì, è qui... Bene... Sì, a presto». Una volta chiusa la breve conversazione, Dawson estrasse una cartellina di pelle da un cassetto e la posò sulla scrivania. Intanto l'ospite continuava a cambiare posizione sulla poltrona. Dopo qualche secondo di silenzio, l'inglese riprese il dialogo cambiando completamente tema: «Qual è la sua opinione sulla classe lavoratrice?» «Be'...» l’italiano inspirò profondamente mentre con la mano destra afferrava un bracciolo, come se la presa potesse aiutarlo a trovare le parole. «Le mie origini parlano per me. Ripensando a mio padre vedo un lavoratore che... in pratica, assolvendo al proprio dovere sociale senz'altra speranza che un pezzo di pane e la salute della famiglia, ripeteva ogni giorno un atto di eroismo. Ecco, direi che i lavoratori sono degli eroi moderni». «Lei è stato socialista, vero?» gli chiese secco il direttore. «Sì, prima della Grande Guerra, ma cosa...» «Questo è un giornale conservatore, dobbiamo sapere come la pensano i nostri collaboratori. E dopo?» Il tono di Dawson non era aggressivo, ma sembrava che l'incontro stesse cambiando rapidamente genere: il semplice colloquio di lavoro assomigliava sempre di più a un interrogatorio. «Dopo ho capito che il socialismo non aveva futuro». «E?» «E... mi sono rivolto altrove, con eguale scarsa fortuna». In quel momento entrò la segretaria: «L'auto è arrivata». «Grazie, Sheryl. La faccia attendere», disse l'inglese aprendo la cartellina. Quindi, mentre l'italiano guardava la ragazza andarsene, lesse qualche riga e continuò: «Nei primi mesi del 1919 ha avuto dei contatti con i massimalisti, poi diventati comunisti, Bordiga e Gramsci, ma nel marzo era tra i fondatori dei cosiddetti Fasci di combattimento...» «Vero, ma lei come...» «...quindi si fa notare nella campagna elettorale per le elezioni nazionali dell’autunno, ma dal dicembre scompare per più di un anno. Cos'è successo? Dov'è stato nel 1921?» Per qualche secondo l'italiano sembrò più sorpreso che irritato, poi, fissando il suo interlocutore, chiese: «Che cosa sta succedendo, mister Dawson? Cosa significano queste domande?» «Mi risponda e dopo avrà tutte le informazioni che le servono. Ha la mia parola». L'uomo fece per andarsene, dopodiché, con evidente riluttanza rispose: «Il 15 aprile del '19 ci fu l'attacco dei fascisti alla sede dell'Avanti, il giornale di cui ero stato direttore. Non era quella la rivoluzione sociale che l’Italia aspettava, pensai, e forse non era nemmeno quella che intendevo io. Passai l’estate nei dubbi, ma con la sconfitta alle elezioni di novembre ebbi infine la certezza che il popolo non ci seguiva. Anche il fascismo non aveva prospettive. A quel punto abbandonai Milano per ritirarmi al mio paese di origine... La delusione era troppa, volevo solo insegnare e lasciare per sempre la politica. Invece, nel febbraio 1922...» «Fu contattato e nominato sottosegretario alla pubblica istruzione nel sesto governo Giolitti». «Esatto. Il resto della mia carriera immagino la conosca meglio di me». L'altro non parve raccogliere l'astio nella frase e proseguì imperturbabile: «È ancora un anticlericale?» «Piuttosto mi definirei un diffidente». «Parole come... leggo: "Il Vaticano odierno è identico al Vaticano del secolo XVI. È il covo dell'intolleranza e di una banda di rapinatori", mi sembra facciano trasparire qualcosa di più di una semplice diffidenza». «Sono parole che ho scritto molti anni fa, ma l'idea di fondo mi è rimasta. Secondo me, gli uomini possono pregare Dio in molti modi e si deve lasciare a ciascuno il proprio. Direi che il Vaticano non si concilia bene con tale visione». «Suppongo di no... Vedo che è stato arrestato diverse volte». «Sempre per vicende da poco, e tutte prima del 1921». «Cos'ha pensato quando i fascisti sono stati messi fuorilegge?» «Che era destino». «E quando il Re non ha ratificato il risultato delle elezioni del '35, che videro vincenti le sinistre unite, causando così la secessione del governo repubblicano nel nord?» «Che il sangue di troppi italiani sarebbe stato versato inutilmente». «Cosa ne pensa di Hitler?» «Un completo idiota, un razzista che dev'essere assolutamente fermato...» «Ormai saprà anche lei che stanotte la Germania ha invaso la Polonia...» «Certo». «Cosa farà il suo paese?» «Non lo so, e lei, scusi la mia franchezza, sa cosa farà la Gran Bretagna? A questo punto la situazione è alquanto poco chiara per tutti. Dopo l'invasione dei Sudeti, non avete fatto...» Dawson chiuse la cartellina e alzando la mano fece segno di aver capito, quindi disse: «Sappiamo entrambi che lei, nel 1917, ha lavorato in Italia per Sua Maestà il Re d'Inghilterra, ricevendo allo scopo rilevanti finanziamenti», lasciò sedimentare le parole e poi aggiunse, «sarebbe pronto a rifarlo?» Stavolta la sorpresa trasparì da ogni singolo muscolo facciale dell'italiano, «Per l'MI5?» chiese, dopo qualche istante. «Più o meno... Ma venga, è giunto il momento di andare a incontrare qualcuno». Dawson si alzò e dirigendosi claudicante verso la porta disse: «L'Europa è sull'orlo di un baratro, forse l'intero mondo lo è... Dobbiamo a ogni costo tentare di impedire la catastrofe, e il suo aiuto ci sarà prezioso».
***
Dopo aver costeggiato Victoria Station, l'autovettura si fermò in Emery Hill Street. La zona era conosciuta per i teatri, ma l'edificio in cui entrarono era un anonimo palazzo risalente al secondo decennio del secolo. I due salirono in ascensore fino al quinto piano. Prima di entrare in un semplice appartamento piccolo borghese, l'italiano fu sottoposto a un’accurata perquisizione da parte di un giovane in abiti civili ma modi spicci da militare. All'interno, escluso il ticchettio di una pendola, il silenzio era completo. Attesero qualche minuto in un salottino stile vittoriano, poi lo stesso giovane li introdusse in uno studio arredato in modo spartano: una poltrona di pelle dietro a una scrivania disadorna; una lampada da tavolo d'ottone accesa; al centro dello spazio, due semplici sedie di legno; librerie colme di volumi su ogni parete; un tavolino su cui spiccavano una teiera e due tazze. Le sole note di vita e di colore erano date da una coppia di colombi che svolazzavano in una voliera vicino all’unica ma grande finestra. Da una porta al lato opposto entrò un cinquantenne in maniche di camicia che, leggendo con attenzione un foglio, si fermò vicino alla lampada senza accennare di aver notato i due ospiti. Per qualche secondo la scena restò immutata, poi il silenzio fu rotto dal tubare dei volatili e l'italiano parlò: «Immagino lei sia la persona che mi darà delle spiegazioni». Finalmente l'uomo alzò lo sguardo e sorrise: «Certo. Prego, accomodatevi».
«Può chiamarmi mister "C"», esordì il padrone di casa, una volta seduti. «Credo che mister Dawson le abbia già spiegato qualcosa». «Non molto, in realtà. Intanto chi siete?» «MI6». «Servizi segreti?» «Esatto. Ma non perdiamoci in convenevoli», disse mister "C" avvicinandosi alla gabbia, «abbiamo bisogno di informazioni dall'Italia e lei è la persona giusta per averle». L'italiano socchiuse gli occhi: «Che informazioni... e perché io?» «Perché è ben introdotto negli ambienti governativi, e noi dobbiamo sapere per tempo se l'Italia entrerà o no in guerra. E soprattutto», ci fu una pausa ad effetto, «a fianco di chi». L'uomo prese un po' di mangime da una scatola e aperta la gabbia vi introdusse la mano. I colombi beccarono i semi dal palmo. «Splendidi esemplari», intervenne Dawson. «Sì, ancora li uso per missioni speciali. Sono molto più affidabili dei telefoni». Il direttore del Times sorrise. «Dopo la fine della guerra civile e la restaurazione della monarchia», riprese l'italiano, «non credo che il mio governo abbia intenzione di imbarcarsi in un altro conflitto. Inoltre, come saprà, le grandi industrie erano quasi tutte nel territorio della Repubblica Lombardo-Piemontese, e l'esercito realista non ha certo lesinato con le cannonate. Ci vorrà del tempo prima di tornare alla produzione pre-bellica». «Lo sappiamo, ma le pressioni interventiste si faranno sentire anche stavolta, come per la Grande Guerra. Non possiamo correre il rischio di farci trovare impreparati. L'Italia è troppo importante per il controllo del Mediterraneo, Hitler ci sta pensando di sicuro». «Non oserà passare il Brennero, si infilerebbe in un imbuto». «Per ora... e a meno che non ottenga prima l'alleanza del suo paese. Le ricordo le mire in Africa del vostro nuovo Re, e il rifiuto ricevuto dalla Società delle Nazioni. L'ambizione è spesso una cattiva consigliera». L'italiano annuì, poi chiese: «Perché vi fidate di me?» «Perché ha già lavorato per noi e, soprattutto, perché ha dimostrato nel tempo di essere un vero democratico liberale... forse un po' troppo pacifista, ma in questo caso non è detto che sia un difetto». «Cosa dovrei fare?» «Niente di più che il suo lavoro. Sarà il corrispondente del Times e il qui presente mister Dawson le farà avere ogni accredito le necessiti. Solo che... quando avrà una notizia la telegraferà prima a noi, soprattutto quelle non pubblicabili. In cambio riceverà la nostra gratitudine e un cospicuo assegno mensile su un conto bancario che lei ci indicherà». «Ho capito... Ci devo pensare». «Certo, posso concederle ventiquattr'ore». «Saranno sufficienti». Mentre i due ospiti si alzavano, Mister "C" chiuse la gabbia e si avvicinò per stringere la mano dell'italiano: «Bene, sono certo che saprà prendere la decisione giusta. A presto, signor Mussolini».
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L'autista lasciò Dawson alla sede del Times, quindi accompagnò Mussolini fino a Park Lane. Dopo aver ringraziato, l'italiano entrò in Hyde Park e raggiunse il sentiero chiamato Serpentine Road che attraversava l'intero giardino. Si incamminò godendosi la giornata di sole, mangiò con calma un sandwich al chiosco sulla riva del Round Pond, quindi uscì sulla Broad Walk. Per tutta la passeggiata, di tanto in tanto ebbe l'accortezza di guardarsi alle spalle. Quando fu in Palace Avenue sparì dietro un grande cancello di ferro battuto dipinto di nero. Senza esitare percorse il cortile ed entrò in una casa di fine '800. Salì un piano di scale e bussò due volte all'unica porta nel pianerottolo. L'inquilino che aprì aveva un paio di grandi baffi rossi, e dietro un paio di occhiali con le lenti tonde e spesse lo sguardo stanco, come di qualcuno intento a leggere da ore oppure insonne da giorni. Dopo un istante di smarrimento, l'uomo fece un gran sorriso e invitò Mussolini a entrare nel piccolo appartamento. «Com'è andata?» «Meglio del previsto», rispose Mussolini mentre si toglieva il soprabito e il cappello. L'altro sfilò gli occhiali e iniziò a strofinarne le lenti con un fazzoletto, quindi chiuse il libro che era appoggiato sul tavolo accanto a una bottiglia di vodka e sedendosi disse: «Racconta».
Venti minuti dopo, Mussolini terminò il suo riassunto, prese un bicchiere da un piccola vetrina di legno lavorato e si versò da bere. «Se Dawson ti ha portato subito da Sir Stewart Graham Menzies, l'inavvicinabile Mister "C" in persona, hanno davvero bisogno di agenti in Italia, più di quanto pensassimo», commentò l'altro. «Pare proprio di sì». «Secondo te sospettano qualcosa?» «Non credo. Come avevamo previsto l'unico problema è sorto sul vuoto del 1921. Però sono certo che non hanno davvero idea di dove fossi, quindi la storia della crisi di coscienza e il conseguente ritiro al paesello natio regge. Di sicuro faranno dei controlli, e allora incapperanno nel falso rapporto dei Carabinieri di Predappio che ha già ingannato i francesi, e come loro si convinceranno». «Sì, ma stai sempre in allerta. Sono meno stupidi di quanto vogliano apparire». «Se non stessi attento, non sarei qui. Per questo in Italia, in vent'anni di attività, nessuno ha mai sospettato di me». «Né in Italia, né altrove in tutta Europa, se è per questo». Mussolini annuì e guardò fuori da una piccola finestra affacciata su Hyde Park, quindi domandò: «Notizie dalla capitale?» «Sì. Mercoledì 23 agosto, il ministro degli esteri ha firmato il trattato con Von Ribbentrop», rispose l'uomo, toccando la copertina del libro, «ho ricevuto la conferma proprio stamattina assieme alle ultime dalla Polonia. In meno di due settimane varcheremo i confini anche noi, ne sono certo». «Bene, il conflitto si sta accendendo. Forse sarà breve, ma comunque ne uscirà l'Europa, noi saremo pronti. Avere la fiducia dell'MI6 sarà determinante». «Essenziale». Mussolini sorrise compiaciuto e avvicinatosi al tavolo prese la bottiglia e riempì di nuovo il suo bicchiere, quindi fece lo stesso con un altro che porse al suo sodale: «Brindiamo, tovarish Gorsky: a Stalin e alla rivoluzione!» «A Stalin, alla rivoluzione e a te, compagno Mussolini, la miglior spia di tutta l'Unione Sovietica, a te!»
Edited by black cat walking - 8/7/2011, 21:12
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