Il loro mondo lisergico
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Il loro mondo lisergico

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  1. Fini Tocchi Alati
     
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    IL LORO MONDO LISERGICO












    Il 5 marzo 2011, poco prima dello scoccare della mezzanotte, il telefono squilla quasi contemporaneamente in tre distinti punti della piccola città di Sora: all'ospedale, reparto di oncologia, nelle cui ampie sale risuona a lungo prima che qualcuno si decida a rispondere con voce annoiata: «Pronto, ospedale»; a casa di Sandra che si è addormentata solo da pochi minuti perché cattivi presentimenti l'hanno tormentata per tutta la serata: «Ma-mamma?»; a casa di Lidia che non riesce invece a dormire e preferisce non rispondere.
    Questa notte Lidia è molto nervosa perché domani dovrà sposare il suo Cristiano. Seduta davanti allo specchio sta pettinando i lunghi capelli neri.
    Il telefono continua a squillare, vibrando sotto gli impulsi, e Lidia resta a fissarlo, con occhi più scuri del solito, le labbra atteggiate a uno strano, triste sorriso. Non le riesce di rispondere e si meraviglia un poco sentendo il calore di una lacrima involontaria scivolare lungo la guancia pallida. Si meraviglia perché lei di solito non piange mai.



    PARTE PRIMA
    Dissonanze

    1



    Cristiano ferma la Golf grigia nel piccolo parcheggio del Pronto Soccorso, Lidia scende dalla macchina e lentamente, il viso tirato e sorridente, entra.
    La mamma la vede e corre ad abbracciarla. Lidia si guarda attorno: la sala d'attesa, nonostante l'ora tarda, è gremita. Seduti su sedie e panche, uomini e donne la fissano, sembrano studiarla. Al di là di una vetrata, alcuni infermieri ridono e sorseggiano un caffè.
    «Mamma, ti prego», fa la ragazza senza scomporsi. «Stai dando spettacolo».
    La donna si tranquillizza un poco: «Papà sta male».
    «Cos'è successo stavolta?», chiede Lidia con calma.
    «Eravamo a letto e lui stava dormendo», spiega la madre. «La fronte scottava. L'ho svegliato per misurargli la febbre e lui...»
    Non riesce a terminare la frase e scoppia in singhiozzi.
    «E lui?», fa Lidia impaziente.
    «Lui ha cominciato a lamentarsi», si intromette Sandra, la sorella maggiore di Lidia. «Ha degli spasmi violenti in tutto il corpo, si gratta come se sentisse dolore sotto la pelle e...», fa una pausa per trovare il coraggio, poi aggiunge: «E non parla più».
    «Cosa significa che non parla più?», domanda Lidia la cui mente intanto è tutta rivolta al giorno dopo:

    Alle nove viene la parrucchiera, bisogna svegliarsi presto. Subito dopo porteranno il vestito e di certo alle undici già arriveranno i primi parenti: c'è ancora un milione di cose da fare e non possia

    «Mi stai sentendo?», le chiede Sandra.
    «Cosa?»
    «Papà non riesce più a parlare».
    «Non riesce a parlare?», ripete Lidia.
    «No», dice Sandra. «Si lamenta e basta».
    «Si lamenta».
    «E basta».

    La messa deve iniziare per mezzogiorno, il prete è stato molto chiaro: ha detto che tollererà solo qualche minuto di ritardo. E poi ci sono le foto da fare, bisogna controllare i fiori, andare a prendere la macchina, non abbiamo tanto te

    «Lidia?», dice la madre vedendola in silenzio.
    Lidia si scuote, come svegliandosi da un improvviso torpore, e domanda: «Riescono a metterlo in sesto per domani mattina?»
    Sandra la guarda con occhi sprezzanti, Lidia pensa che sia solo invidiosa, e dal momento che nessuno risponde aggiunge: «Almeno per la chiesa».
    Interviene la madre: «Stanno vedendo di fare qualcosa. Dicono che può essere stato un virus».
    «Un... un virus?», chiede Lidia senza riuscire a celare nel volto un moto di meraviglia.
    «Sì», risponde la madre. «Papà è molto debole e nelle sue condizioni anche un semplice virus può causargli problemi».
    Se è un virus, pensa Lidia sorridendo, allora potrebbe anche farcela per il matrimonio. Sì, andrà tutto bene.
    Un lamento prolungato, sommesso, cupo, simile al pianto di un animale, echeggia dalle stanze interne. Lidia sgrana gli occhi e Sandra si volta di scatto verso la porta. Quindi guardano la madre; solo un cenno: sì, è il lamento del padre.
    Le tre donne entrano: Lidia e la madre percorrono il corridoio, lungo e stretto, con passo deciso; Sandra rimane ferma sulla soglia, gli occhi assorti.

    2



    Esattamente un anno prima, la mattina del 6 marzo 2010 Sandra, poco dopo le otto, stava andando a lavoro. Era stata chiamata per una supplenza di Italiano e Latino in un Liceo scientifico di Frosinone e come al solito aveva fatto tardi.
    Sulla Superstrada Sora - Frosinone non si rendeva conto di aver oltrepassato di gran lunga il limite di velocità. La radio era sintonizzata, come ogni mattina, sul Ruggito del Coniglio e il conduttore Marco Presta in quel momento stava leggendo la notizia di un tale che aveva fatto fortuna vendendo crocifissi porta a porta. Quando squillò il cellulare, Sandra vide dal display che si trattava di Lidia.
    «Lidia?»
    Le parole della sorella si confondevano con quelle della radio.
    «Aspetta, abbasso la radio».
    «Sandra, mi senti? Dove sei?», sentì dire dall'altro capo del telefono.
    «Sto andando a scuola».
    «Le analisi...»
    «Cosa?»
    «Le analisi di papà».
    «E allora?»
    «Ecco, c'è qualcosa».
    Sandra accostò. Fu come se d'un tratto avesse avuto la visione di quel che sarebbe successo di lì a un anno. Immagini, parole, paure le si affacciarono nella mente, si affastellarono senza che lei riuscisse a percepirne netti i contorni.
    «Mi senti?»
    «Sì, scusami, ho accostato».
    «Ti dicevo: è per questo che c'erano tracce di sangue».
    Lidia si interruppe, come se avesse terminato quello che aveva da dire.
    «È...», provò a dire Sandra senza tuttavia terminare la frase.
    «Ancora non si sa».
    «Forse è benigno», balbettò Sandra
    «Forse, speriamo. Deve essere operato subito».
    Riattaccò. Nonostante Sandra fosse sconvolta per la notizia ricevuta, non poté fare a meno di sorridere ascoltando che il tale dei crocifissi era divenuto milionario vendendo santini e immagini sacre.

    Giunta a scuola, entrò in classe e trovò la solita confusione. Raccolse da terra il cancellino, lo rimise a posto. L'odore polveroso del gesso le fece pizzicare le narici; si mischiava a quello della mimosa che gli alunni avevano lasciato con un biglietto sulla scrivania. Si sedette senza dire una parola, il viso pallido e tirato. I ragazzi notarono che qualcosa non andava, presero posto senza fiatare. Sandra rimase qualche minuto in silenzio, i grandi occhi scuri fissi sul pavimento.
    «Professoressa?»
    La voce incerta proveniva da uno dei primi banchi. Sandra guardò la ragazza che aveva parlato e sorrise. Quindi si alzò e andò alla lavagna sulla quale scrisse un paio di frasi in latino. Si voltò di nuovo verso i ragazzi e iniziò a tradurre in un silenzio inusuale per quella classe: gli studenti non osavano fiatare. Lei non se ne rendeva conto, ma stava piangendo. Le lacrime scendevano silenziose mischiandosi al nero del mascara e trasformando il viso in un'isterica maschera di cera.

    3



    «Datti una mossa!»
    Sandra sente Lidia chiamarla, chiude la porta e affretta il passo.
    Nei locali interni del Pronto Soccorso c'è dappertutto un odore di medicina attenuato dal profumo delle mimose lasciate sul tavolino. Mimose, pensa Lidia. L'intera chiesa sarà addobbata con le mimose.
    I freddi neon macchiano di luce le pareti, colorate di un verde pallido che ormai si confonde nel bianco dell'intonaco. I malati guardano con curiosità i nuovi visitatori: un prete alterna preghiere e lamenti, una vecchia mangiucchia rumorosamente una crosta di pizza, una bambina piange, il viso e le lacrime affossati nella gonna rossa della madre.
    Il papà di Lidia e Sandra è stato adagiato su una brandina, una di quelle con le ruote, parcheggiata lungo uno stretto corridoio assieme ad altre, e si agita, gli occhi spalancati per la paura, il viso segnato da graffi che si è procurato per cercare di placare i dolori.
    «Papà», riesce solo a dire Sandra, la parola mozzata dall'incapacità di respirare, dalla mancanza di aria.
    La moglie gli si avvicina e gli accarezza il viso. «Giova'», dice costringendosi a non piangere, «Giovanni, dimmi qualcosa», ma l'uomo continua a emettere il suo lamento e sembra non rendersi conto di dove si trovi, di chi siano quelle persone.
    Anche Lidia si trova altrove, lontanissimo dall'ospedale, dalla luce fredda di quei neon, dalle vetrate opache degli stipiti ricolmi di scatole e medicinali:

    Dopo pranzo dobbiamo lasciare gli ospiti al ristorante e andare in qualche bel posto per fare le foto. C'è la cascata del Liri, qui vicino. Oppure il castello medievale. Le foto. Le foto sono la cosa più importante

    «Così rischia di cadere», dice, le parole che si accavallano ai pensieri. «Non gli si può trovare un posto in qualche camera?», aggiunge. Così lo potranno curare meglio, pensa.
    In quel momento si trova a passare di lì una dottoressa che ha appena iniziato il suo turno. Sandra la ferma: «Dottoressa, mi scusi».
    «Mi dica». La donna ha due splendidi occhi azzurri. Lidia ne è attratta e pensa che una donna con occhi tanto belli non possa non aiutarli.
    «Si può trovare un posto in reparto per nostro padre?»
    La dottoressa inclina leggermente il viso e sembra studiare Sandra. Poi sbuffa alzando le spalle e dice: «E lei pensa che in questo ospedale ci sia un posto libero per suo padre?»
    Lidia si guarda attorno, ovunque ci sono vecchi e malati: chi attende su una sedia con una mascherina sul viso, chi è disteso su una barella, chi ha il braccio attaccato a una flebo. Tutti esposti agli occhi di tutti, abbandonati a se stessi in attesa di un letto.
    «Di là», aggiunge la dottoressa, «c'è una donna che ha avuto un ictus. Se anche si liberasse un posto, ma non vedo come, dovremmo darlo a lei, non le pare?»
    «Mi scusi», fa Sandra sentendosi umiliata. «Era solo per chiedere, non volevo fare nessuna polemica», ma la dottoressa è già lontana.
    «Sandra», chiama la madre.
    L'uomo ha preso ad agitarsi con maggiore forza. Cerca di alzarsi, vuole girarsi. Le due donne lo aiutano a mettersi sul fianco destro, forse la nuova posizione gli allevierà il dolore. Ma lui continua a muoversi, tenta di togliersi il pantalone del pigiama e poi le mutande. Ora ha il pene di fuori, ridotto a un molliccio pezzo di carne. Inizia a urinare. Urina lì, sopra la brandina. Sandra chiama gli infermieri. Gli mettono il catetere e la sacca si riempie in pochi secondi.
    Chissà da quanto tempo la tratteneva, pensa Lidia.
    «Così no», mormora Sandra. «Così no: non è dignitoso».

    4



    «Forse dovevamo dare retta a papà».
    Nel buio della camera da letto, Sandra non riusciva a dormire, ancora tesa per l'operazione subita dal padre. La piccola stanza riusciva a malapena a contenere il letto e l'armadio, le cui ante a specchio riflettevano lo spazio, ampliandolo.
    «Uh? Cosa?»
    Roberto si era appena addormentato, aveva un gran bisogno di dormire. Come tutti, quel giorno.
    «Papà voleva essere operato a Sora», disse Sandra. «Abbiamo fatto come diceva Lidia». Fece un pausa, poi aggiunse: «Come sempre del resto».
    «L'importante è che l'operazione sia andata bene, no?», disse Roberto girandosi dall'altra parte.
    «Speriamo», rispose Sandra. «Ho come un presentimento».
    «Uffa, sempre questi presentimenti. Su, dormiamo ché ho sonno».
    Sandra ripensò a quando i genitori avevano avuto quel terribile incidente. Lei era rimasta a casa a badare a Lidia e per tutta la serata era stata oppressa da un senso di angoscia.
    Non è stata colpa tua, tu non c'entri niente, come puoi pensare di aver causato l'incidente tu, con i tuoi sciocchi presentimenti?
    Dopo essere stata dallo psicologo, credeva ormai di essere guarita.
    «Non ho mai deciso niente della mia vita», disse.
    «Cosa?», fece Roberto assonnato.
    «Non sono mai riuscita a prendere una decisione importante».
    Accese la luce e Roberto fece una smorfia di insofferenza.
    «Ho quasi quarant'anni, ho studiato una vita e ancora non ho un posto fisso. Ogni anno vengo sbattuta di qua e di là e devo pregare che ci sia qualche ora di supplenza in qualche scuola».
    «Non è mica colpa tua», cercò di tranquillizzarla Roberto.
    «Anche per il fatto del matrimonio...»
    «Che c'entra il matrimonio?», disse Roberto.
    «Perché non ci siamo sposati?», domandò Sandra. Poi, alzando la voce, aggiunse: «Hai deciso tu di andare a convivere. Vuoi sempre fare l'anticonformista di merda. Papà sarebbe contento se mi sposassi».
    «Va bene, l'ho deciso io. Adesso però dormi, ok?»
    Roberto spense la luce, Sandra la riaccese.
    «Voglio un figlio».
    «Cosa?»
    «Ho detto che voglio un figlio. Non mi dire che non è ancora il momento».
    «È così, lo sai».
    «Era così pure l'anno scorso e due anni fa. E sarà così l'anno prossimo e tra due anni».
    «Dormi adesso, poi ci pensiamo».
    «No!», urlò Sandra. «No!», ripeté. Fece una pausa. Si calmò, poi disse: «Papà poteva morire».
    «E questo che c'entra?»
    «Voglio dargli un nipote. Sarebbe contento».
    Roberto non rispose.
    «Hai capito?», insistette Sandra. «Ho già trentacinque anni e non mi ritrovo un cazzo. Voglio un figlio».
    «Dormi», disse Roberto spegnendo la luce.

    5



    Nel caldo afoso del Pronto Soccorso passano altri interminabili minuti. O forse sono ore. Poi, squilla un telefono, un infermiere risponde, annuisce un paio di volte, si gira in direzione delle donne, riattacca.
    «Si è liberato un posto», dice sorridendo.
    Le tre donne salgono le scale in silenzio, ognuna assorta nei suoi pensieri. Lidia sa che per andare avanti bisogna fare un passo dopo l'altro:

    La sera torneremo al ristorante e gli amici di Cristiano suoneranno. Ancora qualche foto con i parenti e poi tutti a ballare. Ci saranno musiche popolari, quelle che tanto piacciono a papà, tarantelle e pizziche. E ci sarà il momento in cui balleremo io e papà, e tutti saranno lì, intorno a noi, a guardarci.

    La dottoressa di turno al reparto di oncologia visita l'uomo per alcuni minuti. Poi chiede ai famigliari di seguirla nel suo ufficio.
    «Certe volte», inizia con voce gentile, «è inutile accanirsi». La donna rigira tra le mani una penna blu col tappo rosicchiato.
    «Gli avete fatto una T.A.C.?», domanda Sandra.
    «A che servirebbe?», risponde la dottoressa, portandosi la penna alla bocca. «Quante ne ha fatte in questi mesi? Tre? Quattro? Cinque? La situazione è sotto gli occhi di tutti, certe volte bisogna solo lasciarli andare».
    Lidia sorride, gli occhi febbrili: «Dottoressa, ce la farà per il matrimonio?»
    La dottoressa la guarda e le accarezza il viso.
    «Dottoressa», dice allora Sandra con voce dura, «noi vorremmo solo che non soffrisse. Non gli si può dare della morfina?»
    «Abbiamo già fatto tutto quello che dovevamo», conclude la donna con occhi limpidi, dopodiché mette la penna in tasca e lascia la stanza.
    «Ma se gli danno la morfina», fa Lidia con voce rotta, «se gli danno la morfina, papà non ce la farà domani a reggere per tutta la giornata».
    La mamma scoppia a piangere. Sandra afferra Lidia per le spalle e la scuote: «Papà sta morendo, lo hai capito o no?», urla. «Sta morendo». Abbraccia di slancio la sorella che la lascia fare, inerme, le braccia distese lungo i fianchi.
    «Ma no», mormora Lidia. «No che non sta morendo. Domani io mi sposo».
    Si stacca dall'abbraccio e si dirige verso la stanza dove è stato ricoverato il papà. Man mano che si avvicina vede la porta dell'ingresso ingrandirsi e sente un respiro affannato provenire dalla camera. C'è una sorta di ritmo nella respirazione, una musica: tre respiri profondi, e una pausa.

    6




    Dopo il primo intervento, la vita riprese il suo ritmo regolare.
    Quella domenica, la famiglia si era riunita a pranzo e le ragazze stavano dando una mano in cucina. Il padre si esercitava al pianoforte: da quando pochi mesi prima era andato in pensione, lo faceva ogni giorno, anche se i risultati non erano troppo incoraggianti. Il pianoforte verticale era situato a ridosso della parete con la finestra. Sulla parete opposta, quasi a fare da contrappunto al nero dello strumento, era appeso un quadro che ritraeva un mare azzurro sotto un cielo bianco. Sulla tavola c'erano ancora piatti e bicchieri sporchi.
    «Papà, stai massacrando uno dei miei pezzi preferiti», disse Sandra scherzando. Si spostò in cucina per lavare i piatti mentre Lidia rideva.
    La musica si interruppe.
    «Su, papà, stavo scherzando! Continua, non dài mica fastidio», urlò Sandra dalla cucina.
    Il padre però non rispondeva e la musica non accennava a riprendere. Sandra allora chiuse il rubinetto dell'acqua, alcune gocce continuarono a cadere nel lavandino. Raggiunse di nuovo la sala da pranzo: «Papà...»
    Trovò l'uomo piegato sulla tastiera, mentre cercava di soffocare una tosse convulsa, lo sguardo della ragazza esitò su una macchia che aveva sporcato di rosso il bianco di tasti. D'istinto, Sandra chiuse gli occhi, come per cancellare l'immagine e nasconderla nel buio dei suoi pensieri.

    * * *



    Riaprì gli occhi lucidi e guardò sconfortata la rigida faccia dello specialista che aveva appena visitato il padre.
    «Com'è possibile?», domandò.
    «Dottore, a Roma ci avevano assicurato che l'operazione era riuscita», aggiunse Lidia.
    «Non so che dirvi, mi dispiace. È abbastanza frequente che il tumore del colon intacchi i polmoni. Forse al chirurgo è sfuggita qualche cellula malata».
    «Guarirà?», chiese Lidia.
    Il dottore si limitò a scrollare le spalle.
    Durante il viaggio di ritorno, Sandra guardava fuori dal finestrino e vedeva i lampioni scorrere lungo il bordo della strada. Buffo!, pensò. Pare sempre lo stesso lampione, come se su una pellicola fosse disegnato sempre l'identico fotogramma.
    Poco prima di arrivare a casa, Lidia ruppe il silenzio.
    «Mi sposo».
    Sandra non capì subito: «Cosa?», domandò.
    «Ho detto che mi sposo, abbiamo già fissato la data».
    «Quando?»
    «L'estate prossima».
    «E papà?»
    «Papà, cosa?»
    «Papà. Hai sentito il dottore? Sta male».
    «A papà farà piacere di sapere sposata almeno una di noi due».
    «Non pensi che tutta la situazione potrebbe stressarlo? Lo hai visto anche tu, già adesso è molto debole. Dovrà fare dei cicli di chemio, la chemio lo indebolirà ancora di più. Non hai pensato a tutto questo?»
    Sandra aveva parlato più duramente di quanto avrebbe voluto. Non era solo la preoccupazione per la salute del padre. C'era anche dell'altro.
    «Ormai ho deciso», si limitò a dire Lidia.
    «Mamma non è molto forte, lo sai», disse Sandra addolcendo il tono.
    «E questo che c'entra?»
    «Come che c'entra? Sarà lei, soprattutto, a doversi occupare di papà. Non capisci? Non reggerà». Fissò Lidia negli occhi: «E neanch'io».
    «Sai cosa penso?», disse Lidia sostenendo lo sguardo di Sandra. «Penso che tu sia solo invidiosa: non sei riuscita a sposarti e ora mi fai pesare la cosa».
    Sandra non replicò. In fondo, Lidia aveva ragione: chi era lei per impedirle di fare quello che aveva deciso? Forse davvero, dietro questa sua preoccupazione per il padre, si nascondeva solo l'invidia per la vita della sorella.
    «Ormai ho deciso», ripeté Lidia prima di scendere dalla macchina. Esitò. «Non preoccuparti», disse poi guardando la sorella, «andrà tutto bene». Sorrise e richiuse lo sportello.
    Mentre tornava a casa, Sandra ripensò a quando lei e Lidia erano ancora due bambine. Anche se di tre anni più grande della sorella, stavano sempre insieme. Non c'era foto che non le ritraesse l'una vicino all'altra, con lei che afferrava preoccupata il polso di Lidia mentre gli occhi di questa fuggivano verso chissà quali luoghi. Era stato il padre a cementare il loro rapporto: Sandra era la più grande e doveva preoccuparsi di Lidia, in compenso Lidia doveva fare tutto quello che le diceva Sandra. Sorrise pensando a come si erano capovolti i ruoli. Era Lidia, ora, a sembrare la più grande e forte: sempre sicura di sé, pronta a prendere decisioni importanti. Anche se erano state sempre insieme, avevano vissuto in mondi completamente diversi.
    Mentre guidava, Sandra aveva lo sguardo fisso sull'asfalto che scivolava veloce sotto le ruote della Citroen. La coda dell'occhio andava però ancora ai lampioni che scorrevano lungo il ciglio della strada. Sempre identici l'uno all'altro, anche se necessariamente distinti. E tuttavia sembravano legati da un filo comune, come il destino che legava lei alla sorella. Così diverse, ma anche così simili. Qualche volta immaginava di incontrare Lidia in un altro luogo – magari uno di quei posti dove spesso vedeva la sorella perdersi con la fantasia - in un altro tempo, e lei era del tutto identica a sé, anche fisicamente. In quel momento si intendevano alla perfezione, era sufficiente guardarsi.
    Sandra sapeva che Lidia voleva sposarsi solo per fare felice il padre, e sapeva che, probabilmente, era la decisione giusta da prendere.
    Se solo fosse stato possibile vivere la felicità immaginata in quel mondo! Se solo anche lei avesse avuto la forza di prendere una decisione!
    I ricordi le attraversavano veloce la mente come una freccia di cui si riesce a seguire la traiettoria solo per pochi attimi. Intanto non c'erano più lampioni a farle compagnia, e il buio della notte aveva del tutto inghiottito la strada.


    7



    Tre respiri profondi, e una pausa. Ora Lidia si trova davanti alla porta della stanza in cui è ricoverato il padre. Una luce soffusa giunge dalla cameretta, il verde delle pareti si è tinto di blu e lei ripensa a quando era piccola.
    Vede il papà tagliare i capelli a lei e a Sandra, come quando lui faceva il barbiere. Conosceva solo un tipo di taglio, a caschetto, e una volta finito, lei e Sandra sembravano due gemelline.
    Altri tre respiri profondi, e una pausa. Un passo, Lidia attraversa la soglia e si ritrova nella camera.
    Ora vede il papà al pianoforte, sente la musica e riconosce Beethoven.
    Ancora tre respiri, ancora una pausa. Ancora un passo e già si intravede il letto e le coperte che gli avvolgono le gambe.
    E ancora: vede il papà guidare la vecchia Centoventisei con direzione Terracina, e poi nelle acque del mare, ancora non inquinate, giocare con lei e con Sandra e con loro ridere e scherzare.
    Un respiro. Una pausa.
    Ancora.


    8



    Il volto del padre si illuminò quando Lidia gli disse che aspettava un figlio. Negli ultimi tempi, l'uomo stava un po' meglio, anche se aveva perso quasi tutti i capelli e le sopracciglia si erano ridotte a un cumulo di peli: sembrava un pupazzo di neve. Aveva anche il viso un po' gonfio, del resto era normale con tutte le medicine che prendeva.
    «Papà», disse Sandra, «suonaci qualcosa per festeggiare, no?»
    L'uomo era sempre contento quando qualcuno voleva sentirlo suonare, si mise al pianoforte. Le note della Sonata all'inizio fluirono dolci e precise. Poi, man mano che suonava le mani si facevano pesanti, gli accordi duravano un pizzico di più o qualcosa in meno, le dita invadevano i tasti vicini. Gli occhi dell'uomo erano agitati, come se non si spiegasse il perché. Sembrava che le dita non rispondessero al suo volere, erano impacciate, goffe. Sandra allora si avvicinò al padre, gli strinse le mani e le massaggiò.
    «È bellissima», disse. Ma aveva come un presentimento.
    Qualche giorno dopo, la famiglia era riunita per festeggiare Capodanno e Sandra stava apparecchiando la tavola, entrava e usciva in continuazione dalla stanza. Il padre, seduto in camera da pranzo, era pensieroso.
    «Allora, papà, come stai?»
    «Bene», disse il papà. «Fa un po' freddo, ma per il resto non c'è probabilità».
    Sandra corrugò leggermente la fronte a quella risposta, ma non ci fece caso più di tanto.
    Più tardi, il padre la chiamò.
    «Che c'è, papà?».
    «Probabilità la porta», le disse.
    «Che stai dicendo?»
    «Probabilità la porta».
    «Quale probabilità?», disse Sandra.
    «La porta», ripeté il padre nervoso. «Probabilità la porta».
    Sandra si girò verso la porta e vide semplicemente che aveva dimenticato di chiuderla.

    * * *



    Il liquido ha iniziato a comprimere una parte del cervello causando disfunzioni nel linguaggio. In particolare, per ragioni che non è dato sapere, vostro padre si è fissato con questa parola: “probabilità”. La usa al posto di termini che non riesce a ricordare. Così quel “probabilità la porta” sta per “chiudi la porta”. Non si rende conto di quello che dice.
    Le parole del medico - meccaniche, monotone, assurde - risuonarono spietate nella testa di Sandra.
    Gli prescrivo una cura di magnetolo, vedrete che in poco tempo riacquisterà l'uso corretto del linguaggio.
    Fuori dallo studio Sandra notò che Lidia era particolarmente pensierosa, persa ancora in uno dei suoi mondi.
    «Lidia?», fece Sandra.
    Lidia si destò. Guardò la sorella.
    «Cosa c'è?», chiese Sandra.
    «Quanto...»
    «Quanto, cosa?»
    «Quanto credi che potrà ancora vivere nostro padre?»
    «Perché dici questo? I medici, lo sai, non fanno previsioni».
    «Non mi importa un cazzo dei medici», urlò Lidia. «È colpa loro se papà... se papà...»
    Per un attimo, Sandra rivide in Lidia la sorella più piccola, da proteggere come le aveva insegnato il padre. Le venne naturale abbracciarla, come quando erano bambine era naturale che le afferrasse il polso per tenerla vicino a sé.
    «Stai tranquilla», disse Sandra. «Vedrai che tutto si aggiusta».
    «Perché?», chiese Lidia. «Perché proprio papà? È la persona più buona del mondo, non farebbe male a una mosca. Perché deve soffrire così? Certe volte, mi chiedo se non sarebbe meglio che...»
    «Cosa?», fece Sandra.
    «Niente, dico solo che era meglio se moriva di infarto, almeno non avrebbe sofferto».
    «Ma cosa dici?» Sandra senza volerlo aveva alzato il tono della voce. «Ti rendi conto di quello che stai dicendo? Papà non è ancora morto, lo vogliamo capire o no? Non è ancora morto». Spezzò l'ultimaa frase in tre respiri, come se in questo modo ciascuna parola suonasse più convincente della frase nel suo insieme.
    Lidia annuì meccanicamente, poi si scostò dall'abbraccio: «Il matrimonio», disse.
    «Cosa?»
    «Bisogna anticipare la data del matrimonio».

    * * *



    «Papà, ce la fai a tagliarmi i capelli?»
    Giovanni sorrise ed annuì.
    Fece accomodare Sandra alla sedia, indossò un paio di guanti protettivi e iniziò a tagliarle i capelli nell'unico modo che conosceva. Le mani gli tremavano e Sandra vide il suo volto sofferente, come se volesse infondersi coraggio. Quando finì, era stanco. Contento.
    Prima di andarsene Sandra gli diede un bacio sulla guancia e disse: «Ci vediamo domani: finalmente almeno una delle tue figlie sta per sposarsi. Sei contento?»
    L'uomo sorrise di nuovo.
    Fuori di casa Sandra notò che l'albero di mimose era già fiorito, puntuale come ogni anno. Si portò dietro quell'odore denso e malinconico, e passò la serata con un senso di angoscia che la tormentava.
    «Cos'hai?», le chiese Roberto.
    «Niente», rispose Sandra.
    «Ancora i tuoi presentimenti», fece Roberto sorridendo.
    Sandra annuì. «Papà ha paura», disse.
    «Di cosa?», domandò Roberto.
    «Non lo so», Sandra scosse la testa. «Ha paura di qualcosa».
    Spensero la luce. Non era ancora scoccata la mezzanotte del 5 marzo 2011.
    Squillò il telefono. Sandra spalancò gli occhi e sentì la sua vita sprofondare in un baratro:
    «Ma-mamma?»

    9



    Un respiro, una pausa. Un respiro, una pausa. Un respiro. Una pausa.
    Lidia vede finalmente il volto del padre: è intubato e l'ossigeno gli viene passato da una macchina che sbuffa. Ancora un ritmo, ancora una musica. Il suo respiro si è fatto meno affannato ed è divenuto quasi un rantolo. Il petto si solleva e si abbassa, come costretto, come il mantice che si usava una volta per alimentare il fuoco. Il viso è sereno. Lidia emette un sospiro profondo:

    Il matrimonio il ristorante papà, i regali i parenti papà, le foto il filmino papà papà, il vestito la serenata papà, disdire annullare papà

    Crolla sul corpo del padre: «Papà», grida scoppiando in un pianto dirotto, «papà! Non puoi farmi questo, sto per sposarmi, devi venire al matrimonio, dobbiamo ballare insieme, noi dobbiamo essere una famiglia felice, non mi lasciare papà, non mi lasciare...»
    Stremata, sotto gli occhi arrossati di Sandra e della madre che la guardano in silenzio, Lidia si addormenta.


    PARTE SECONDA
    Armonie

    1



    Il ronzio della sega circolare, che tagliava i tronchi di legno riducendoli in tondelli pronti per essere sfibrati, era un tappeto di chitarra continuo. Su di esso si inseriva lo sfregamento del legno. Due pistoni premevano la materia contro la mola e ne veniva un suono di percussioni che davano all'impasto un ritmo cadenzato. La pasta di legno era fatta passare attraverso dischi di acciaio, lo strofinamento restituiva note di violino. La cellulosa si avvolgeva attorno a bobine che sbuffavano come il mantice di una fisarmonica. Giovanni era al centro di questa immensa orchestra e premeva, veloce a sicuro, i tasti di un computer come fosse un pianoforte.
    Suonò la sirena ad annunciare la fine del turno, l'uomo diede un'occhiata all'orario e si accorse che mancava ancora un quarto d'ora. Le macchine però erano state fermate come se il direttore d'orchestra avesse d'improvviso riposta la bacchetta nella sua custodia. Giovanni si tolse le cuffie e si guardò attorno. Nessuno. Sembrava che la cartiera si fosse svuotata all'improvviso senza che lui - la mente persa nel suo mondo fatto di note, di ritmi, di suoni - se ne accorgesse. Attraversò l'ampio capannone e si diresse in sala mensa. Aprì la porta, accese la luce: eccoli, i suoi amici e colleghi. Erano lì: ridevano e si congratulavano con lui, lo accoglievano facendogli festa.
    Una fisarmonica adesso davvero cominciò a suonare, i bicchieri si levarono per un brindisi e tintinnando gli ricordarono uno squillo di tromba.
    «Auguri», sentì Giovanni urlare. Già, era il suo ultimo giorno di lavoro, quasi se ne era dimenticato.
    «Allora, Giova': ancora non ti sei stancato?», gli domandò il suo compagno di reparto.
    «Lavoratore fino all'ultimo, eh?», aggiunse un collega.
    Si avvicinò un uomo giovane, sorridente, in giacca e cravatta, uno dei soci della cartiera.
    «Giovanni», gli disse dandogli la mano emozionato quasi più di lui, «a nome della cartiera voglio ringraziarla per tutti questi anni di lavoro».
    Giovanni si schermì, ringraziò, diede la mano a tutti. E anche in questo caso gli sembrò che ogni movimento, ogni gesto fosse accompagnato da un suono, da un ritmo. Le armonie erano giuste, come sempre quando si trovava nel suo mondo.
    «Giovà, domani non fare come quello che il primo giorno di pensione si è presentato in fabbrica».
    Gli amici risero, lo prendevano in giro e lui stava al gioco.
    «No, non c'è pericolo», disse sorridendo.
    «Vorrei proprio vedere», gli fece un giovane collega con ancora tanta strada davanti prima della pensione.
    Giovanni si guardò attorno: c'erano proprio tutti, anche gli amici già andati in pensione. Uno di loro si avvicinò:
    «Ti ci abituerai presto», gli disse.
    «Puoi scommetterci», ribatté ridendo Giovanni che poi aggiunse: «E Fausto? Come mai non è venuto?»
    Il collega per un attimo si fece serio: «Non hai saputo? Sta male».
    Per un momento la festa attorno a Giovanni sembrò spegnersi. «Mi dispiace», disse. «Cos'ha?»
    «Gli hanno trovato un tumore».
    «Anche a lui?».
    «Sì, come Giacomo e Bernardo».
    Vero: Fausto non era il primo che si ammalava. E tutti a causa della stessa, maledetta malattia.
    «C'entra qualcosa la cartiera?»
    L'amico scrollò le spalle e rispose: «Qualche probabilità c'è».
    Probabilità, pensò Giovanni. Che parola strana: forse sì, forse no. Non significa nulla.
    Finita la piccola festa, la fabbrica ricominciò a suonare. Giovanni prese la bicicletta e per l'ultima volta pedalò lungo il tragitto che lo riportava a casa. Appena entrato, la moglie lo abbracciò, Sandra e Lidia lo riempirono di baci. C'erano anche Cristiano e Roberto che gli diedero la mano e si congratularono con lui.
    A poco a poco la giornata finì. Prima di addormentarsi, Giovanni rimase un po' a contemplare il rumore delle stoviglie e dei piatti, accompagnato dallo scrosciare dell'acqua: una polka che lo cullò fino a fargli prendere sonno.
    La mattina dopo si svegliò alla solita ora. Sorrise e si rimise a dormire. Si rigirò un po' nel letto e dopo qualche minuto decise comunque di alzarsi. Andò a correre.
    Quando tornò, si esercitò al pianoforte: ora avrebbe potuto farlo più spesso, pensò, e iniziò a suonare la “Sonata al chiaro di Luna” di Beethoven. Si sentì un po' debole: sarà la tensione accumulata, pensò. Forse. O forse no.
    Il giorno dopo aveva ancora addosso una sensazione di stanchezza e poi c'era quel fatto: aveva trovato del sangue nelle feci. Pensò potesse essere colpa delle emorroidi, ma per un attimo gli tornarono in mente i volti di Fausto e Bernardo, e quella dannata probabilità.
    L'albero di mimosa davanti casa intanto fioriva. Giovanni lo osservava dalla finestra, seduto al pianoforte, e come ogni anno rimaneva meravigliato: com'era possibile che solo il giorno prima l'albero fosse ancora spoglio? Ma forse non era il giorno prima. Da un po' di tempo i giorni fuggivano; erano diventati ricordi prima del solito, come note suonate troppo di fretta. Così, mentre quei pensieri appartenevano già al passato, Giovanni sentì una macchina arrivare: era Lidia con i risultati delle analisi. Era la mattina del 6 marzo 2010, Sandra non era in casa, era stata chiamata a Frosinone per una supplenza.
    Un intervallo di tempo, le parole della figlia gli giunsero ovattate, come se nella voce avesse inserito la sordina.
    Forse no, pensò. Forse no.


    2



    Ormai ci siamo, pensò Giovanni esattamente un anno dopo - il pomeriggio del 5 marzo 2011 - alla vigilia del matrimonio. Ce l'abbiamo fatta.
    Seduto davanti al pianoforte, non suonava.
    «Non suoni, papà?», gli domandò Sandra.
    Lui la guardò e sorrise. Le fece vedere le mani, la pelle screpolata; strofinò le dita e venne giù come forfora.
    «Le dita», disse «le dita tremano».
    Sandra rimase a guardarlo per un po': «Non ti preoccupare, andrà tutto bene». Fece una pausa. Poi aggiunse: «Ce la fai a tagliarmi i capelli?»
    Lui la guardò, sorrise e annuì.
    Quando fu notte, andò a letto. Salutò la moglie con una carezza affettuosa e si addormentò quasi subito. Dopo qualche ora però Giovanni sentì gridare il proprio nome. Aprì gli occhi spaventato, vide il soffitto allontanarsi. Girò lo sguardo, spalancò le palpebre, riuscì a vedere solo macchie, si muovevano all'impazzata. Aveva la bocca secca, amara, e avvertì un dolore acuto insinuarsi sotto la pelle. Chiese un po' d'acqua, non arrivava nessuno. Si sforzò di parlare, dalla bocca usciva solo un cupo lamento. Sentì qualcuno alzare la cornetta del telefono, comporre un numero. Poi, la voce della moglie: «Mio marito sta male. Mandate un'ambulanza».

    3



    Nella stanza dove ora è ricoverato Giovanni, la vita è ferma, come cristallizzata nel suo estremo attimo. Sulla sedia c'è Sandra, abbracciata alla madre. Dormono. Dorme anche Lidia ancora adagiata sul corpo del padre. Il respiro dell'uomo è sempre più debole, il sole è lontano dal sorgere. Un suono di pianoforte inizia a echeggiare per tutta la camera. Gli accordi bassi della Sonata rimbombano impetuosi: bam bam bam. Le note si rincorrono dapprima lievi, sussurrate, poi sempre più intense, decise.
    Lidia sente il calore di una mano sulla guancia. Emette un lieve mugolio, come quando era bambina e il papà andava a svegliarla, lei voleva dormire ancora e faceva i capricci. Sorride, non può farne a meno: il calore di quella mano è tanto famigliare. Apre gli occhi.
    «Papà», dice, «lo sapevo».
    Le note continuano a vibrare. I tasti battono sulla membrana del pianoforte con precisione. E gli accordi in sottofondo: bam bam bam.
    Il padre sorride.
    «Dove sei stato, papà», gli domanda Lidia.
    L'uomo con la mano le sfiora le labbra. Si alza. Prende il bianco lenzuolo e lo poggia sulla testa della figlia, come velo da sposa. Le offre il braccio, Lidia lo afferra e i due camminano lentamente verso il centro della camera, la testa di lei poggiata sulla spalla di lui.
    D'un tratto attorno a loro non c'è più niente. Non ci sono letti né macchinari. Non ci sono mobili né sedie. Non ci sono mura. C'è solo Sandra: indossa un bellissimo vestito rosso che lascia nude le spalle e la schiena; guarda la sorella e sorride, le fa un cenno di intesa: è tutto assolutamente perfetto in quel loro mondo. Poi Sandra si allontana e lascia la stanza libera come si conviene a una sposa.
    Gli accordi continuano a segnare il tempo. Il tema della Sonata si ripete quieto, meditativo. Lo spazio non esiste, il tempo si annulla su se stesso. Alta splende, in un cielo troppo grande, la luna che schiarisce i contorni di una sala immensa.
    Il papà offre la mano, Lidia l'accetta, e iniziano a ballare. Si guardano negli occhi, Lidia è felice. Seguono il ritmo della musica, lento, compassato. I corpi vibrano al risuonare dei bassi. Le note si susseguono una dietro l'altra, come in un infinito saliscendi.
    «Papà», dice Lidia. L'uomo la guarda e sorride. La ragazza poggia la testa sul petto del padre e chiude gli occhi.
    Lidia, ora, è tornata a dormire abbracciata al corpo inerme del papà. Nel sonno, avverte tra le labbra il sapore amaro di una lacrima, di sicuro questa volta non se ne meraviglierebbe. Ha un viso sereno, come sereno è anche il viso del papà.
    Un ultimo respiro. Poi, l'ultima pausa.

    Edited by Fini Tocchi Alati - 1/7/2011, 02:33
     
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  2. federica68
     
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    ciao Attilio!!

    allora, prima di tutto le considerazioni di carattere medico:
    - la cateterizzazione di un paz è un intervento che viene eseguito su ordine medico, quindi non è verosimile che loro chiamino gli infermieri e questi gli mettano il cv così come lo descrivi tu che sembra una loro iniziativa. Fra l'altro non paiono esserci le indicazioni cliniche per una cateterizzazione, vistp che il pz è lì perche è terminale e inoltre urina spontaneamnete - lo dici chiaro nel racconto-. Nella situazione che descrivi tu l'intervento logico sarebbe portargli il pappagallo

    - il magnetolo non so cosa sia. Nell'edema cerebrale si usa il MANNITOLO che è in flebo.

    -la respirazione e l'intubazione, andiamo per ordine
    all'inizio descrivi un respiro neurologico (i 3 respiri e una pausa, il respiro che descrivi è tipico del paziente in fase terminale, in effetti). Ora, un paz che respira così è chiaramente in respiro spontaneo cioè sta respirando senza l'aiuto di nessuna macchina, al massimo può avere l'ossigeno con gli occhialini o una maschera di venturi (sorry ma da quin non riesco a linkarti il tutto, al massimo te lo linko poi da casa), ma sta ventilando da solo.

    un attimo dopo, appena Lidia lo vede, lui dici che è intubato e descrivi un ventilatore (la macchina che sbuffa).

    la cosa è inverosimile per vari motivi:
    -l'intubazione è una manovra salvavita d'urgenza, non è possibile che Giovanni un attimo prima dell'ingresso della figlia respiri come descrivi e un attimo dopo lei lo vede intubato: la prima domanda è chi lo ha intubato?
    per intubare un pz serve un'equipe anestesiologica, il pz va sedato e ci vuole almeno un 5-6 minuti di manovre piuttosto vistose, lidia avrebbe visto il movimento attorno al padre e, fra l'altro, non l'avrebbero di sicuro lasciata entrare durante la manovra (è nella regola allontanare i parenti durante qualunque manovra sul pz, a maggior ragione manovre invasive d'urgenza come l'intub
    - il respiro neurologico in pz intubato è impossibile, per il semplice fatto che è il ventilatore che dà la mandata e il ritmo respiratorio è stabilito dal medico che imposta il macchianrio, quindi lidia non avrebbe potuto sentire il respiro a 3-1 che sente avvicinandosi

    delle 2 l'una: o è intubato e allora lidia sente il rumore tipo "darth vader", oppure non lo è e allora sente il respiro neurologico.
    se sente prima l'uno e poi l'altro, allora deve esserci in mezzo un corri-corri di anestesisti che lo intubano e lei non può avvicinarsi così senza che nessuno l'allontani per il tempo della manovra

    -un pz intubato è in una rianimazione, non in un reparto base (all'inizio parli di oncologia), e in ogni caso un pz terminale non viene intubato...

    per il resto il racconto mi è piaciuto abbastanza anche se ho fatto un po' di fatica sulle prime a seguire i salti temporali, ma l'empatia è molto forte e i personaggi ben delineati

    nel complesso metto un 3



    eccomi
    scusa ma ieri ero al lavoro e non potevo allargarmi più di tanto come tempi...

    dicevamo, sul fatto dell'intubazione, volevo dirti che un pz può essere intubato in reparto base in urgenza, (anche se nel terminale non si fa in genere, lo si lascia andare con un po' di terapia antalgica e stop), ma poi non viene lasciato lì ma portato in rianimazione
    quindi lidai avrebbe visto correre gente e poi suo padre portato in un altro reparto


    ecco

    sul resto, ti dicevo che è un racconto ad alto impatto emotivo, ma c'è qualcosa che mi manca, cioè sembra più una lunga foto di una situazione ma mi pare che manchi un vero sviluppo... le figlie hanno fra loro un rapporto che accenni appena e lidia che si sposa per far piacere al padre, sembra non risentire più di tanto di questa sua decisione a parte lo pseudo delirio che ha quando continua a restare focalizzata sul matrimonio anche nell'evidenza della fase terminale della malattia di giovanni...

    non so lavorerei più sulle dinamiche psicologiche dei protagonisti che non sulla descrizione degli eventi così minuziosa

    il voto l'ho già messo ieri, ma non avevo avuto il tempo di darti un commeto più dettagliato e mi dispiaceva...


    Edited by federica68 - 4/7/2011, 17:03
     
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  3. Selene B.
     
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    Niente da dire sulla storia e sullo stile: il racconto mi è piaciuto molto. Se proprio devo trovargli un punto debole (ma tieni presente che io sono fissata con la psicologia) è il rapporto tra le due sorelle che viene tratteggiato all'inizio in modo che il lettore si aspetti una qualche evoluzione o un approfondimento che invece poi non mi pare ci sia.
    Comunque voto 4.
     
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  4. Fini Tocchi Alati
     
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    @Fede,
    grazie mille per le solite preziose informazioni. Ti chiedo però un ulteriore parere.
    Tutto quello che ho descritto l'ho vissuto in prima persona. Naturalmente, può darsi che non fossi pienamente lucido, però ricordo molto bene i fatti (anche perché li ho praticamente scritti solo qualche giorno dopo). Ebbene, il pover'uomo fu lasciato in balia degli eventi nel corridoio del Pronto Soccorso. Dopo che si era messo a urinare, arrivarono alcuni infermieri e gli misero il catetere (ricordo molto bene questo fatto perché in pratica la sacca si riempì in pochi secondi). Poi, dopo un estenuante attesa, fu portato in reparto (oncologia) dove si era liberato un posto. Io l'ho rivisto solo quando era stato messo a letto e, in effetti, ora che mi ci fai pensare aveva una mascherina (e io forse frettolosamente e "da ignorante" ho pensato che fosse stato intubato). Quindi, se non ho capito male, era un respiro neurologico. In realtà, la mia intenzione era di descrivere come Lidia avvertisse questo respiro (hai detto bene: alla Darth Vader), però colevo più che altro che avesse una valenza "psicologica".

    Grazie ancora!

    @Selene:
    grazie anche a te, Tina.
    Anche se sei fissata con la psicologia, quello che dici mi è utile perché in questo racconto, secondo me, è importante che il rapporto tra le due sorelle venga approfondito il più possibile.
     
    .
  5. federica68
     
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    sul catetere non saprei dirti allora, di sicuro nel caso reale c'era stata una precedente indicazione medica... sicuramente ci vuole la prescrizione, e di solito non si fa su pazienti che urinano da soli a meno che non sia necessario monitorare la diuresi, cioè in caso di problemi cardiaci, urologici e renali...

    sul paziente terminale mi è successo raramente di metterlo (sarei tentata di dire mai, ma non posso ricordare tutti i singoli casi di 20 anni...)
    diverso è il caso che non si trattasse di un paziente, mettiamo, cardiaco o renale, che si fose aggravato e a cui non fosse stato tolto il cv messo in precedenza, e che adesso fosse terminale, ma non mi pare il caso del tuo racconto...

    non so che problema avesse la persona reale di cui parli, ma nel racconto non si coglie che giovanni abbia bisogno di un cv, ecco, almeno a un occhio "deformato professionalmente"...

    per il respiro, potrebbe essere che avesse una c-pap, il paziente che hai visto tu?
    http://it.wikipedia.org/wiki/C-PAP

    te lo chiedo perchè in effetti se c'era una macchina che sbuffava poteva anche essere;
    a volte questo sì, si fa nei reparti base, per aiutare un paziente a respirare ma comunque allora il respiro 3-1 non può essere sentito perche la macchina dà comunque la mandata e se il paziente contrasta si allarma e si mette a suonare, non lo lascerebbe respirare spontaneamente

    la maschera di venturi invece
    www.google.it/search?q=venturi+mask...Dg&ved=0CB4QsAQ
    si attacca all'ossigeno semplicemente, senza macchinari intermedi e in quel caso sì, il respiro 3-1 si sente, eccome, ma allora non ci sono macchine che sbuffano



    non saprei cosa aveva il paziente reale di cui parli, ti parlo del paziente del racconto, secondo me sarebbe verosimile la venturi nel suo caso, eliminando la macchina che sbuffa, e lasciandolo respirare da solo col 3-1

    secondo me in questo modo si salverebbe l'impatto psicologico perche comunque è un respiro che "si trasmette" cioè, ti viene da trattenere il fiato quando lo trattiene lui anche dopo anni, è una cosa che viene da sola, e penso che su una figlia possa essere davvero una mazzata a livello psicologico

    altrimenti, peggio ancora per lidia credo che sia il gasping, il respiro tipico delle ultime fasi vere e proprie, con un sollevamento del mento e delle spalle durante l'inspirazione breve e secca, quasi "improvvisa", "inaspettata", non so come altro descriverla, e una espirazione più lunga e meno vistosa, quasi impercettibile, seguito da una pausa prolungata, con il pz in stato di incoscienza

    per il cv, non so, io gli darei il pappagallo in quella scena, e poi gli metterei un pannolone, che è quasi più umiliante del cv per certi versi, ma comunque vedi tu come ti sembra meglio

    un bacio :-)

    Edited by federica68 - 5/7/2011, 16:44
     
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  6. Ashait
     
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    Io so tutto di c-pap o ventilatore polmonare visto che mi tocca usarla... Attilio, se hai bisogno di chiarimenti, chiedi :P
     
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  7.  
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    Non lo so, Fini... non mi ha convinto del tutto. Tu sei tagliato per il fantastico e per il racconto satirico-fantastico, alla El Cabron, ecco. Qui ho trovato stile zero e un tentativo arzigogolato e affaticato di far piangere il lettore. Ma dimmi tu come può piangere qualcuno vedendo una Famiglia Mulino Bianco che soffre! Cioè, un modello "fantasy" di famiglia felice: padre lavoratore, figli affettuosi, abbracci e baci sempre e comunque, sorrisi, lustroni agli occhi... e poi colleghi che ti festeggiano, il Super Direttore Mega Galattico che ti stringe la mano per ringraziarti... Brrr. Forse parlo così perché nel mio piccolo non ho mai visto famiglie siffatte; anche dove c'è un bene dell'anima, non ho mai visto atteggiamenti come quelli di questi personaggi. E la loro finzione mi rende finto anche il dramma che vivono; e perciò non riesco a piangere. Ora mi dirai che nel tuo racconto non ci sono le cose di cui parlo... In effetti di baci e abbracci ce ne sono pochi, ma nel complesso "ho respirato" quella qualità di famiglia manifesto di una merendina andata a male...

    Forse il motivo di questa sensazione risiede nella scontatezza, da fiction scritta male, di gesti e parole. Quando Lidia si chiede perché proprio suo padre deve soffrire, lui che è "la persona più buona su questa terra", ecco un esempio perfetto di elemento cliché. Un autore che non sa come far vedere la sofferenza e soprattutto che non sa inventare nulla di nuovo e più efficace, si rivolgerà ai luoghi comuni, ormai rodati e logorati: quindi, per lui, se l’uomo più buono del mondo soffre, i lettori si commuoveranno e forse piangeranno. Ma non è così, perché l’uomo più buono del mondo lo abbiamo visto fin troppe volte soffrire, e ormai, come i medici, anche noi ci siamo assuefatti a quella qualità di dramma.

    Può darsi però che il vero problema è la banalità della vicenda. Quanti racconti trattano di una morte avvenuta per malattia? E quanti lo fanno arricchendola con un risvolto umano o filosofico che rende l'idea degna di essere letta? Ben pochi, e tu purtroppo non rientri nel numero dei salvabili. Chiude il racconto un banale sogno di speranza, tra l'altro fatto da una sola delle ragazze. Se tutte e tre le donne avesse sognato la stessa cosa, almeno avrei il dubbio che sia avvenuto qualcosa di fantastico: il padre che saluta moglie e figlie in un mondo di sogno... ma così non è. Certo nel sogno c’è anche Sandra, ma pure lei è una visione, perché la scena finale, malgrado anche Sandra sia una protagonista, è vista dal solo punto di vista di Lidia…

    Insomma, stile piatto, vicenda banale, cliché. Una lettura inutile, e perciò lo boccio.


    Qualche appunto:

    CITAZIONE
    Il 5 marzo 2011, poco prima dello scoccare della mezzanotte, il telefono squilla quasi contemporaneamente in tre distinti punti della piccola città di Sora: all'ospedale, reparto di oncologia

    Non ho capito perché il telefono squilli anche in quel reparto dell'ospedale. Cioè, se è la madre che chiama l'ambulanza, dovrebbe telefonare al Pronto Soccorso...

    CITAZIONE
    Al di là della/del"di una vetrata, alcuni infermieri ridono e sorseggiano un caffè.

    Ho due o tre libri che mi dicono che scrivere così sia ampolloso e inutile. Loro consigliano "di là della/del"...

    Da parte mia evito entrambe e scelgo "là dalla/dal".

    CITAZIONE
    «Lui ha cominciato a lamentarsi», si intromette Sandra

    Sandra deve essere una maga, visto che appare all'improvviso qui. Cioè, nell'introduzione sappiamo che riceve una telefonata. Ma quando Lidia arriva all'ospedale, che ci sprechi a dire che Sandra è già lì con la madre?

    CITAZIONE
    La dottoressa la guarda e le accarezza il viso.

    Eh? Cioè la dottoressa accarezza il viso a Lidia? O_o

    CITAZIONE
    «Giovanni», gli disse dandogli la mano emozionato quasi più di lui, «a nome della cartiera voglio ringraziarla per tutti questi anni di lavoro».

    Ma non era parrucchiere?

    CITAZIONE
    Sulla sedia c'è Sandra, abbracciata alla madre. Dormono.

    Dormono su una sola sedia?


    Voto: 2
     
    .
  8. Fini Tocchi Alati
     
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    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    Qui ho trovato stile zero e un tentativo arzigogolato e affaticato di far piangere il lettore.

    Garga, capisco cosa intendi. In effetti era un rischio che avevo messo in conto e ho tentato di scansarlo distaccandomi il più possibile dai fatti narrati (cosa che è stata difficilissima!).

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    Ma dimmi tu come può piangere qualcuno vedendo una Famiglia Mulino Bianco che soffre! Cioè, un modello "fantasy" di famiglia felice: padre lavoratore, figli affettuosi, abbracci e baci sempre e comunque, sorrisi, lustroni agli occhi... e poi colleghi che ti festeggiano, il Super Direttore Mega Galattico che ti stringe la mano per ringraziarti... Brrr. Forse parlo così perché nel mio piccolo non ho mai visto famiglie siffatte; anche dove c'è un bene dell'anima, non ho mai visto atteggiamenti come quelli di questi personaggi. E la loro finzione mi rende finto anche il dramma che vivono; e perciò non riesco a piangere. Ora mi dirai che nel tuo racconto non ci sono le cose di cui parlo... In effetti di baci e abbracci ce ne sono pochi, ma nel complesso "ho respirato" quella qualità di famiglia manifesto di una merendina andata a male...

    Qui, però, mi sento di contraddirti, nel senso che il modelo di famiglia "Mulino bianco" in effetti è solo latente, è il modello, impossibile, cui aspira questa famiglia. Cioè, voglio dire che Lidia, Sandra e la madre vorrebbero tanto vivere una esperienza alla "Mulino bianco" (Lidia, a un certo punto dice: "Noi dobbiamo essere una famiglia felice") ma la realtà è tutt'altra cosa. Guarda, può sembrare melodrammatico, ma ti posso assicurare che, purtroppo, è capitato proprio questo: un'aspirazione di felicità, anche favolistica, per sfuggire l'aberrante realtà.


    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    Forse il motivo di questa sensazione risiede nella scontatezza, da fiction scritta male, di gesti e parole. Quando Lidia si chiede perché proprio suo padre deve soffrire, lui che è "la persona più buona su questa terra", ecco un esempio perfetto di elemento cliché.

    Anche qui, (purtroppo) mi sono attenuto ai fatti e non me la sono sentita di stravolgerli.

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    Può darsi però che il vero problema è la banalità della vicenda. Quanti racconti trattano di una morte avvenuta per malattia?

    Vero. In questo racconto c'è stata un'esigenza personalissima di scrivere. Spesso la realtà risulta banale e uno vorrebbe invece leggere tutt'altro. In questo caso, le mie esigenze si scontrano con quelle del lettore. E prevalgono le mie! :P

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    Al di là della/del"di una vetrata, alcuni infermieri ridono e sorseggiano un caffè.

    Ho due o tre libri che mi dicono che scrivere così sia ampolloso e inutile. Loro consigliano "di là della/del"...

    Da parte mia evito entrambe e scelgo "là dalla/dal".

    Sì, hai ragione!

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    «Lui ha cominciato a lamentarsi», si intromette Sandra

    Sandra deve essere una maga, visto che appare all'improvviso qui. Cioè, nell'introduzione sappiamo che riceve una telefonata. Ma quando Lidia arriva all'ospedale, che ci sprechi a dire che Sandra è già lì con la madre?

    Ok!

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    La dottoressa la guarda e le accarezza il viso.

    Eh? Cioè la dottoressa accarezza il viso a Lidia? O_o

    :sisi: , perchè?


    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    «Giovanni», gli disse dandogli la mano emozionato quasi più di lui, «a nome della cartiera voglio ringraziarla per tutti questi anni di lavoro».

    Ma non era parrucchiere?

    Era stato parrucchiere. Poi ha iniziato a lavorare in cartiere fino alla pensione. Lo chiarisco.

    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    Sulla sedia c'è Sandra, abbracciata alla madre. Dormono.

    Dormono su una sola sedia?

    :woot:


    Grazie mille per i commenti sempre preziosi!

     
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  9.  
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    CITAZIONE (Fini Tocchi Alati @ 6/7/2011, 15:02) 
    E prevalgono le mie! :P

    Ma tu devi scrivere anche per me! Lo esigo! :sospysi:

    CITAZIONE
    CITAZIONE (Gargaros @ 6/7/2011, 11:24) 
    CITAZIONE
    La dottoressa la guarda e le accarezza il viso.

    Eh? Cioè la dottoressa accarezza il viso a Lidia? O_o

    :sisi: , perchè?

    Perché mi sembra un gesto per niente professionale :asd:

    E' un gesto umanissimo, sia chiaro, ma se una dottoressa lo facesse a me, come prima cosa penserei che ha qualche rotella fuori posto... A meno che non sia una mia amica.

    CITAZIONE
    Era stato parrucchiere. Poi ha iniziato a lavorare in cartiere fino alla pensione. Lo chiarisco.

    Mi è sfuggito sicuramente.
     
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  10. federica68
     
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    CITAZIONE
    CITAZIONE
    CITAZIONE
    Eh? Cioè la dottoressa accarezza il viso a Lidia? O_o

    :sisi: , perchè?

    Perché mi sembra un gesto per niente professionale :asd:

    E' un gesto umanissimo, sia chiaro, ma se una dottoressa lo facesse a me, come prima cosa penserei che ha qualche rotella fuori posto... A meno che non sia una mia amica.

    ahem

    lo so che non si commentano i commenti degli altri utenti, ma dopo 20 anni di ospedale mi sento di dire senza tema di essere smentita che

    a) la cosa che tutti, senza quasi eccezione, i parenti dicono è : "perchè proprio a lui/lei, che è la persona più buona del mondo?"

    trovo anzi questa cosa realistica

    ma qui mi sono intromessa per il punto seguente:

    b) perchè un operatore sanitario non dovrebbe essere anche un essere umano?? il fatto che la dott accarezzi il viso della ragazza ci sta eccome, è una cosa che accade spesso e spesso l'ho fatto anche io, non siamo macchine e non abbiamo a che fare con macchine, e credo che sia un gesto di umanità normalissimo in un contesto dove c'è della gente che ok, è vero che cura per mestiere della gente che sta male, ma non è esattamente un mestiere come avvitare bulloni...

    potrei aggiungere anzi che un gesto di umanità è molto apprezzato dalle persone, cavolo non si può avvicinarsi a un moribondo, prendergli i parametri, controllargli le flebo, e andarsene come se niente fosse, senza stringere un braccio o una spalla ai parenti o, se sono molto giovani o molto anziani, sì, anche accarezzargli il viso, perche no?



    trovo anche questo passaggio invece molto realistico
     
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  11. Peter7413
     
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    Ola!
    Il racconto mi è piaciuto molto e mi sembra equilibrato in tutte le sue parti. Salti avanti e indietro nel tempo, ma non ho fatto fatica e non mi sono perso anche perché sei stato molto bravo a tenere avvinghiato il lettore. I personaggi sono tutti ben descritti nelle loro relazioni, in particolar modo le due sorelle: inizialmente Lidia è odiosa e il contrasto con Sandra funge da motore per tutta la prima parte, poi si capisce il perché e a quel punto si è avvinghiati, come i protagonisti, alla vita del padre, si spera senza speranza. Forse un po' in ombra la madre, forse potresti creare contrasto anche fra Lidia e il forse futuro marito.
    Non mi sembra una famiglia mulino bianco, anche se rispetto il punto di vista di chi te lo fa notare. Questo nucleo famigliare, come tutti, ha in testa proprio quel modello, vorrebbe raggiungerlo, ma non ci riesce. Tra l'altro nel titolo sei stato chiaro nel definire il loro mondo LISERGICO.
    Per me è un 4. Bravo.

    A rileggerci!
     
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  12. Fini Tocchi Alati
     
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    Ola a te, Peter!

    Grazie soprattutto per due cose.
    Per quel "si spera senza speranza", che ci tenevo proprio che arrivasse!
    Per aver colto in pieno il senso del titolo.

    Hai ragione per quanto riguarda la madre e il marito di Lidia. Sono due personaggi rimasti in sordina, ma mi sarebbero serviti davvero troppi caratteri in più per approfondirli. Lo farò, però, perché anche loro, in questa storia, sono personaggi importanti.



    @Fede: inutile dire che mi trovo d'accordo con quello che dici.
    Aggiungo che è un privilegio incontrare, in certe situazioni, persone, come l'infermiera della carezza, dotate di umanità. Non so spiegarlo: può sembrare un gesto inutile e retorico, però mi è rimasto impresso.
     
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  13.  
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    CITAZIONE (federica68 @ 6/7/2011, 22:55) 
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    Perché mi sembra un gesto per niente professionale :asd:

    E' un gesto umanissimo, sia chiaro, ma se una dottoressa lo facesse a me, come prima cosa penserei che ha qualche rotella fuori posto... A meno che non sia una mia amica.

    ahem

    lo so che non si commentano i commenti degli altri utenti, ma dopo 20 anni di ospedale mi sento di dire senza tema di essere smentita che

    a) la cosa che tutti, senza quasi eccezione, i parenti dicono è : "perchè proprio a lui/lei, che è la persona più buona del mondo?"

    trovo anzi questa cosa realistica

    ma qui mi sono intromessa per il punto seguente:

    b) perchè un operatore sanitario non dovrebbe essere anche un essere umano?? il fatto che la dott accarezzi il viso della ragazza ci sta eccome, è una cosa che accade spesso e spesso l'ho fatto anche io, non siamo macchine e non abbiamo a che fare con macchine, e credo che sia un gesto di umanità normalissimo in un contesto dove c'è della gente che ok, è vero che cura per mestiere della gente che sta male, ma non è esattamente un mestiere come avvitare bulloni...

    potrei aggiungere anzi che un gesto di umanità è molto apprezzato dalle persone, cavolo non si può avvicinarsi a un moribondo, prendergli i parametri, controllargli le flebo, e andarsene come se niente fosse, senza stringere un braccio o una spalla ai parenti o, se sono molto giovani o molto anziani, sì, anche accarezzargli il viso, perche no?



    trovo anche questo passaggio invece molto realistico

    Beh, se lo dici tu che hai espreinze, allora muto sugno :asd:

    Comunque, nella storia potrebbe essere scritto meglio. A me ha fatto "strano" leggere di punto in bianco che la dottoressa accarezzi il parente di un paziente... Fini potrebbe scrivere meglio, per rendere credibile il passaggio. Magari aggiungendo che la dottoressa, commossa dallo stato d'animo di Lidia, ecc...
     
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  14. black cat walking
     
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    Buondì Attilio! :)
    Intanto bravo, come al solito... quindi che te lo dico affà? :huh:
    Va be', fa sempre bene all'ego. ;)
    Non so se ci azzecco, ma mi sembra che certe cose tu le abbia vissute di persona, perchè certi dettagli di solito li afferra solo chi li ha vissuti (esempi: la carezza della dottoressa e il problema "probabilità"), e purtroppo ne so qualcosa... anche più di qualcosa. E qui arriva il dubbio che non mi farà votare 4: nonostante l'argomento mi fosse tremendamente familiare, non mi sono emozionato. Ora, dirai, e allora? Allora, visto che il racconto è scritto benissimo, per me significa che il tuo è un bellissimo resoconto, quasi la foto di una vicenda assolutamente reale, che però manca di un pizzico di anima. La sensazione che hai trasmesso meglio, secondo me, è quella del padre, mentre su Sandra e Lidia sei stato, forse (ma questa è solo un'ipotesi), troppo "manieristico", cioè, hai descritto bene due personaggi come ci si aspetterebbe che fossero quei personaggi, ma non hai raggiunto il livello di descrizione di come sarebbero due persone reali nelle stesse condizioni. Ripeto, questa è una mia impressione, e purtroppo non sono in grado di dirti dove e cosa cambiare/aggiungere per farmela rimangiare, ma è determinante. Diciamo che questo racconto è scritto benissimo, fluido, argomentato e ricco di spunti, ma manca di almeno due protagonisti... non mi viene la parola, diciamo "toccanti" su tre. Per dire: quando fai vedere Lidia preoccupata per il matrimonio, ti avvicini allo scopo, quando le fai dire "perchè proprio mio padre?", ti allontani; quando scrivi "Lei non se ne rendeva conto, ma stava piangendo" oppure "«Così no», mormora Sandra. «Così no: non è dignitoso»", t'avvicini, mentre quando scrivi "«Non mi importa un cazzo dei medici», urlò Lidia. «È colpa loro se papà... se papà...»", ti allontani... Lo so, non sono di grande aiuto, ma per il momento è il massimo che mi viene. :boh:
    Per il resto ti segnalo:

    CITAZIONE
    «Datti una mossa!»
    Sandra sente Lidia chiamarla, chiude la porta e affretta il passo.

    In questo capitolo il pdv è di Lidia, quindi Lidia non può sapere se Sandra la sente, è un dettaglio ma io mi sono un attimo perso. Per cui sarebbe meglio qualcosa tipo: "Lidia chiama Sandra, che chiude la porta ecc.”

    CITAZIONE
    Urina lì, sopra la brandina. Sandra chiama gli infermieri. Gli mettono il catetere e la sacca si riempie in pochi secondi.

    Così com'è scritta questa scena, sembra che il catetere venga inserito proprio mentre Giovanni urina. Ora, io non sono nè un medico nè un infermiere, però, per l'esperienza che ho io, a parte la stranezza di un catetere inserito a una persona che sta urinando spontaneamente (se non c'è da misurare la quantità, non mi pare davvero una mossa a regola d'arte: con un pappagallo fanno anche prima), ci sarebbe un trambusto tale che almeno altre due parole ce le puoi spendere. :sisi:

    Come ho detto, voto 3 pienissimo.

    A rileggerci! :)

     
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  15. Fini Tocchi Alati
     
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    Grazie Lu'!
    Ti assicuro che i tuoi esempi mi hanno fatto afferrare bene quello che vuoi dire.
    Il problema principale di questo racconto che mi sono posto è stato quello di non cadere nel lacrimevole. Per far questo ho cercato di distaccarmi il più possibile dai fatti narrati (cosa che è stata difficilissima). Paradossalmente, questo distacco (che trovi maggiormente nelle frasi "positive" che hai segnalato) contribuisce a rendere i personaggi più toccanti. Al contrario, una maggiore immedesimazione li rende più "lontani".
    Grazie ancora, mi hai suggerito un'importante chiave di lavoro. :)
     
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17 replies since 1/7/2011, 00:43   372 views
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