|
|
13 agosto: nuova versione
Nubi
Sultan knows: now one is supposed to think. That is what the bananas up there are about. The bananas are there to make one think, to spur one to the limits of one’s thinking. But what must one think? One thinks: Why is he starving me? One thinks: What have I done? Why has he stopped liking me? One thinks: Why does he not want these crates any more? But none of these is the right thought. […] The right thought to think is: How does one use the crates to reach the bananas?
Elizabeth Costello, J.M. Coetzee
I. Mauro sedeva davanti al PC battendosi un indice sulla tempia. Al centro dello schermo era aperta una finestra con il video trasmesso dalla telecamera fissata sulla testa di Doody, il loro antropocervo. Altri riquadri dedicati al flusso delle sue onde cerebrali, all'analisi della vescica e degli enzimi contornavano il video senza registrare i risultati attesi dal Monolli. Mauro sapeva che il professore stava iniziando a spazientirsi, lo percepiva dal tono della sua voce, ogni giorno più tagliente. Ad ogni modo, pensava, la nuova location era interessante, di certo meglio del laboratorio in cui erano rimasti chiusi per un anno e mezzo. Si trovavano a bassa quota, sulle Prealpi sopra Trento, in uno spazioso casotto circondato da faggi e roverelle dove potevano godere delle cure di Monìche, la signora etiope proprietaria del capanno. Dalla dimestichezza che la donna dimostrava con quell'ex rifugio convertito in abitazione (un bagno, tre stanzette e una sala) sembrava esserci nata dentro, ma lui sapeva che aveva vissuto a Vicenza fino a pochi anni prima, gestendo un ristorante etnico insieme al marito, e che solo dopo la sua morte si era data all’eremitaggio.
Mauro si stropicciò gli occhi. Doody si trovava a duecento metri dal rifugio. Doveva avere le zampe a mollo, perché dall’inquadratura si vedeva tutt’attorno una larga polla d’acqua grigia e torbida contornata da alberi secchi e nodosi color ferro. Doody si voltò verso ovest e osservò un suo simile che incedeva fra la vegetazione in lontananza. Oltre quello ce n’erano degli altri, un grosso gruppo. I cervi di tutta la zona erano provvisti di chip e Mauro poteva controllarne la posizione su di un piccolo radar: erano tanti puntini verdi, mentre Doody era un quadratino rosso. C’era qualcosa di infantile e crudele in quella rappresentazione. Doody era diverso dagli altri e non si integrava. Il suo DNA era stato rielaborato attingendo a quello umano e aveva capacità intellettive superiori a quelle dei suoi simili in misura esponenziale. Era un genio. Aveva l’aspetto d’un giovane cervo possente e odorava come ogni altro cervo, ma i suoi simili lo scansavano. Impossibile dire con certezza in che modo riuscissero a capire che era diverso. Non che Doody facesse molto per avvicinarli, peraltro; sembrava incerto, come se non fosse sicuro di appartenere alla loro specie. Dissociato e depresso. Questi problemi non interessavano il professore, lo facevano solo infuriare, voleva vedere l’antropocervo far funzionare la logica, “dare risultati”, ma per Mauro, laureato in psicoetologia, erano tutto. Lui era “quello buono a riflettere”, come aveva sottolineato una volta il Monolli, lasciando l’ampia gamma delle sue incapacità nel non detto.
Monìche – che da alcuni minuti stava versando mestolate fumanti in dei recipienti di coccio – batté un cucchiaio contro un piatto per attirare l’attenzione. Mauro e il professore si alzarono dalle rispettive scrivanie e sedettero a tavola. Il Monolli disse: «Buona cena» in tono composto, passandosi una mano sulla pelata punteggiata di nei come un guscio di coccinella. Monìche iniziò a portarsi alle labbra cucchiaiate di zuppa producendo forti rumori di risucchio; Mauro intuì che la delicatezza era dedicata al professore; difatti, quando questi le lanciò un’occhiataccia lei la smise, sogghignando. «Non torna più il ragazzo che vi aiutava con i computer?» chiese dopo qualche secondo. «Tornerà fra due settimane», rispose Mauro. «Si occupa della manutenzione dell’hardware e non c’è bisogno che stia qui tutto il tempo, per monitorare la situazione bastiamo io e il professore». Mauro ingollò un sorso di zuppa, poi continuò in tono più cauto. «Non ci hai ancora spiegato perché hai scelto di comprare casa proprio qui». «Vuoi sapere che ci fa una negra sulle Alpi, eh?» «Vorrei sapere che ci fai tu sulle Alpi. Cosa ci facciamo io e il professore lo sai». «Curiosità da psicologo?» «Semplice curiosità...» Monìche smosse il sedere per farlo aderire meglio alla sedia. Aveva sessant'anni, i fianchi larghi e le ossa grosse, ma era magra. Le clavicole le tendevano la pelle color liquirizia come aste d'ombrello, mentre gli zigomi sporgenti creavano dei forti chiaroscuri sul suo volto. Sembrava una delle donne spigolose di Picasso. «Sono nata a Vicenza», disse, «l’unico pezzo di natura vera che ho visto sono questi monti. Mio padre mi portava spesso quassù, diceva che le Alpi gli ricordavano l’Africa». «L’Africa», ripeté il professore. «Sì». «Per via della natura incontaminata?» chiese Mauro. «Più o meno. C’è qualcosa nelle cime a perdita d’occhio che a mio padre ricordava le distese brulle dell’Etiopia orientale. E questo posto ricorda qualcosa anche a me – non l’Etiopia, io non l’ho mai vista. Mi ricorda mio padre. Ci son venuta senza rifletterci troppo, visto che nella vecchia casa di Vicenza non riuscivo più a dormire».
Al contrario del professore, a Mauro piaceva Monìche. Era certo che li stesse ospitando per avere qualcuno accanto dopo tanto tempo, per capire se fosse il caso di tornare a vivere in città fra i suoi simili anziché restare isolata ai margini del mondo. Quando ebbe finito di mangiare le chiese se voleva una mano per sparecchiare, ma lei come sempre rispose di no. Allora lui lasciò il tavolo e quando fu di nuovo davanti al suo monitor dovette sprizzare gli occhi. Nell’inquadratura c’era la loro capanna. Doody li stava osservando.
II. La mattina dopo quando Mauro si alzò il Monolli era già alla sua postazione e bofonchiava qualcosa di poco lusinghiero nei confronti dei cervi. Mauro bevve il caffè e si fece forza. «Professore», disse, «lo sa, è il rigetto. L’istinto di Doody non collima con le possibilità che gli abbiamo introdotto nel DNA. Non sa che farsene del nostro intelletto, è depresso sin dal primo anno di vita». «So bene cos’è il rigetto. E tu dovresti sapere che per ogni esemplare vengono praticati interventi differenti, quindi non venirmi a pontificare certezze su come si evolverà la situazione». Monìche si avvicinò. «Ma c’è mai stato un animale che non ha rigettato l’intelligenza? Che si è “evoluto”?» chiese tirando su la cerniera del cappotto, una giacca bombata azzurra che in verità non le donava affatto. Mauro e il Monolli la guardarono. «Lei è coperta da obbligo di segretezza, lo sa? Ha capito quello che ha firmato?» chiese il professore. «Ho capito, ho capito. E a chi vuole che lo dica, poi». Mauro disse: «Via professore, sono notizie di dominio pubblico, anche se ufficiose. Tutti gli animali hanno sempre sviluppato depressioni psicotiche di vario genere; di base, una diffusa disappetenza per la vita. Alcuni hanno dimostrato di poter risolvere problemi di logica non elementari, ma nulla di straordinario. Ad ogni modo, gli esperimenti ci permettono di indagare gli effetti delle manipolazioni genetiche e di avvicinarci alle questioni irrisolte sul funzionamento della mente». «Per modificare meglio le persone in futuro?» chiese Monìche afferrando un cesto di vimini. «Anche». La donna aprì la porta lasciando entrare i raggi del sole. Mauro socchiuse gli occhi, quasi inspirando la luce solare: fuori era una giornata splendida, ideale per andare a funghi. «Torniamo al cervo», lo redarguì il professore.
Un’ora dopo Mauro stava uscendo dal bagno quando il professore gli disse di tornare al suo monitor. La telecamera inquadrava un tratto di bosco a bassa quota, con al centro un macchia azzurra che appariva e scompariva fra gli arbusti di ginepro. Era Monìche. «La sta di nuovo osservando», disse il professore. Doody avanzava verso di lei. «Non è la prima volta. Doody osserva un po’ tutto…» «Shhh! Guarda». Mauro fissò il suo schermo. Connetté il microfono al canale delle casse e di colpo si udì il crepitio del terriccio sotto le zampe di Doody e il vento che fischiava in sottofondo.
L’antropocervo si mosse agile. Il cappotto di Monìche si fece più vicino e pochi secondi dopo lei si voltò di scatto. I due si studiarono per un tempo che a Mauro parve lunghissimo. Infine Monìche si rilassò. «Tu sei quello strano, vero?» chiese facendo un passo avanti. Doody torse il collo cercando di scrollarsi la camera posta fra le corna, poi avanzò verso Monìche, la osservò e sbatacchiò di nuovo la testa. Lei allungò una mano e la appoggiò sulla folta criniera del cervo, con fermezza. Mauro e il professore videro il suo volto spigoloso in primo piano e temettero che volesse liberarlo dalla telecamera, invece Monìche si limitò ad accarezzarlo e a dargli un paio di pacche sul dorso. Un attimo dopo tornò ad addentrarsi fra gli arbusti mentre l’antropocervo restava immobile a osservarla.
III. La mattina del settimo giorno Mauro entrò nella sala principale trovando il Monolli intento a scrutare il suo schermo. Sedette al suo posto. Al centro dello video campeggiava la loro abitazione. «Doody continua a osservarci», disse. «Da due ore», rispose il professore. «Ho controllato. E di sicuro sta pensando a noi... perché?» «Be’», disse Mauro, «sa che siamo qui. Lei lo ha anche aiutato a liberarsi da quell’intrico in cui era rimasto avvinghiato per ore, il primo giorno. Forse in questo momento sta odiando me e lei e si chiede perché gli facciamo del male». «Non ti seguo». «Siamo immagini, odori associati al suo dolore. Soprattutto lei, professore: fin dalla nascita Doody soffre e vede e annusa lei. Oppure», continuò cambiando tono «è qui solo per Monìche». «Con lei ha un qualche tipo di legame». «Lo penso anch’io. Il suo atteggiamento tradisce qualcosa». «E sarebbe?» «Secondo me ha percepito in lei un senso di abbandono simile al suo; una certa assonanza emozionale. Chissà, magari pensa che nonostante l'odore lei e Monìche appartengano alla stessa specie. Una specie “a parte”...». Il professore lasciò cadere un silenzio eloquente. «Altro?» chiese infine. «No, faccio solo illazioni, lo sa. Nella testa di Doody c’è un caos che non possiamo nemmeno immaginare; turbolenze psichiche come nuvole elettriche che si incontrano e generano tempeste...»
Nel frattempo Monìche era entrata nella sala. Disse a Mauro: «Preparati». Lui assentì. Disse al professore: «Scendo in paese a far compere con Monìche, come d’accordo. Saremo di ritorno per l’ora di pranzo». «Vai, vai», disse il Monolli. «Ma fa’ attenzione, il cervo potrebbe avvicinarvi».
Monìche e Mauro si incamminarono lungo il sentiero che conduceva alle automobili dell’Istituto. Il cielo era un soffitto di cotone bagnato; soffiava un vento timido che si avvertiva solo a momenti. Mauro lasciò vagare lo sguardo sugli aceri verdi, i faggi monumentali, i cespugli abbarbicati sui pendii e, più lontano, sui veli di foschia e le pareti di roccia che si tuffavano nel nulla come cascate d'acqua pietrificate. Qualche minuto dopo raggiunsero le auto in uno spiazzo collegato all'asfalto da una pista di terra. Immerse nella natura le ibride Volkswagen facevano uno strano effetto: modelli polialimentati a elettricità, metano e solare con forme arrotondate che riprendevano quelle dell’antico Maggiolino. I due entrarono nella prima auto e si slacciarono i giubbotti. Mauro accese il computer di bordo, lo impostò su “Metano” e attese il report del computer sulle condizioni della vettura. Tutto okay. Digitò rapido sulla tastiera e sul display apparve la visuale in prima persona dalla testa di Doody. «Così vediamo dov’è», spiegò a Monìche. L’auto scese silenziosa fino alla strada provinciale, poi Mauro accelerò e il computer prese a mandare dei piccoli “bip” ogni volta che veniva scalata una marcia. Alcuni minuti dopo fissando il paesaggio nel monitor Monìche disse: «Riconosco quegli alberi, il cervo dev’essere vicino. Là», continuò indicando un punto in alto, oltre il suo finestrino. Il cellulare di Mauro squillò: il professore li avvertiva che il cervo si stava dirigendo verso di loro, e che se avesse continuato a seguirli avrebbero dovuto fare marcia indietro. Mauro chiuse la chiamata. «Ahia», disse Monìche indicando lo schermo. La visuale si era fatta confusa. Il terreno scorreva rapido divorato dalle zampe di Doody. «Corre verso di noi», disse lui pestando sul freno.
Due secondi dopo l'antropocervo irruppe sull’asfalto; le zampe posteriori slittarono per un momento ma in qualche modo riuscirono a tenerlo in piedi. Doody traccheggiò per alcuni secondi davanti a loro fiutando la brezza, poi si avvicinò alla macchina. Era alto due metri alle corna e lungo altrettanto, pesava centotrenta chili e aveva occhi mobili, inquieti. Raggiunse il Maggiolino e urtò più volte il cofano con le corna, poi sollevò le zampe anteriori e piantò gli zoccoli stretti e appuntiti nella carrozzeria, scavando due bozzi. Chinò la testa e appoggiò il muso umido sul parabrezza, appannandone metà con un colpo di fiato.
Mauro e Monìche lo fissarono e Doody ricambiò lo sguardo. A lungo. Non lo distolse come avrebbe fatto un altro animale, messo a disagio dagli occhi degli umani; le pupille di Doody erano due biglie d’un nero profondo, con venature grigie simili a spirali di fumo che sembravano risucchiarti. Il cellulare squillò facendo sobbalzare Mauro. L’antropocervo un attimo dopo scese dal cofano e senza più voltarsi si avviò in salita, lungo il declivio.
«Gesù». Monìche era una maschera di pietra con le pupille tremolanti. «Non ti preoccupare», le disse. «Al massimo lo sediamo». Poi richiamò il professore, che eccitato gli disse di recarsi pure in città, ché tanto Doody continuava a correr su verso il rifugio.
IV. «Che vuoi farci», disse Monìche tornando nell’auto. Sola come sono, senza figli… Non che non abbia conosciuto qualcuno in vita mia, ma come potevo passare del tempo assieme ai camerieri del ristorante o agli amici rattrappiti che aveva mio padre? La verità è che da quando è morto mio marito è finito tutto, non solo il ristorante e la vita che avevo, è finito proprio il mondo. È come per gli animali che magari studi tu, quelli che scompaiono dal pianeta. Prima eravamo in due. Da quando lui se ne è andato sono rimasta sola, l'ultimo esemplare della mia famiglia».
“Era da tanto che ne voleva parlare”, rifletté Mauro allacciandosi la cintura. Era uno dei suoi pregi saper ascoltare, come diceva Susanna all’inizio della loro relazione. Ed era vero. A Mauro bastava un briciolo di autoanalisi per rivedere in sua madre – impetuosa, dominante per vocazione –, una delle cause della sua remissività, della volontà di dare voce agli altri anziché sovrastarli. Forse è davvero un debole, pensa a volte, un uomo di seconda fila, ma almeno è una persona giusta. E non è poco. Eppure Susanna era riuscita a ferirlo ‒ all’apparenza solo le donne potevano farlo. “Stai sempre a riflettere, a cercare di capire le cose, a lavorare gratis, ma quand’è che ti svegli? Pallemosce, questo sei. Pallemosce. I piedi in testa da tutti”. L’aveva mollata lì per lì, disorientato. Ma il peggio era venuto quand’era tornato il giorno dopo e lei lo aveva accolto come se si fossero lasciati anni prima. “Hai fatto bene a mandare tutto all'aria. A me va benissimo così”, gli aveva detto. E non mentiva.
Mauro mise in moto e accese il computer, senza tradire alcun sentimento. L’immagine sullo schermo sembrava in still: la visuale ostruita da rami sottili, forse rovi. I ricordi svanirono dalla sua mente come ombre davanti a una torcia. Impugnò il cellulare preoccupato. Il professore gli raccontò di come Doody fosse tornato al rifugio e si fosse spinto fino alla porta fiutando; di come subito dopo fosse fuggito a rotta di collo nel tratto di bosco a est del rifugio crollando di colpo in mezzo ai rovi, forse con una zampa malconcia. «Sarò lì il prima possibile», disse Mauro. «Fai con calma, non credo sia grave», rispose il professore, «andrò io a sbrogliarlo, tanto è vicino. Così posso controllare se si è acciaccato». «Gli spari un tranquillante, prima». «Un tranquillante... Ma lo sai per quanto tempo falsano i diagrammi? No, perché dovresti saperlo». Mauro aprì bocca per replicare ma alla fine desistette.
Risalì i tornanti occhieggiando di continuo lo schermo. Doody ogni tanto muoveva la testa, ma in realtà restava anche troppo fermo. «Strano», disse a Monìche. «I cervi mappano il territorio in cui si muovono alla perfezione e Doody si era già fatto male in quella zona, il primo giorno». Dopo qualche minuto il professore comparve al centro del display. Era davanti a Doody, inguainato nel suo giubbotto arancione coi risvolti di pelo. Osservò Doody per un po' con i suoi occhietti indagatori e seri, passandosi una mano sulla pelata. Mauro gli telefonò affinché lo sedasse, il professore dapprima grugnì, ma poi disse, chinandosi: «In realtà non sembra ferito. Dio, dovresti vedere con che occhi mi sta guardando. Mai vista una cosa del genere…» «Gli spari», ripeté Mauro. Il professore chiuse la chiamata, mise il cellulare in tasca e si slacciò il giubbotto. Aveva perso l'espressione fiera che era un tutt'uno con la sua cocciutaggine. Sembrava intimorito, insicuro, e forse per questo vecchio, vecchio come a Mauro non si era mai mostrato. Quando estrasse la pistola Doody si mosse.
Mauro e Monìche videro la camera volare contro il petto del professore come una palla di cannone. Fu un attimo. La pistola a dardi schizzò via. «Gesù», gridò Mauro, mentre Monìche si appiattiva contro lo schienale sgranando gli occhi. Dall’inquadratura non più rasoterra si accorsero di quanto Doody e il Monolli fossero vicini a un precipizio. L’antropocervo si lanciò a capo chino verso il professore, disteso e dolorante. Con le corna raspò il terreno e proiettò in aria Vincenzo Monolli insieme a un nuvolaccio di terra. Il corpo del professore roteò sullo sfondo dei picchi in lontananza, restando sospeso a testa in giù per un attimo. Poi sparì in basso, fuori dall’inquadratura. I piedi per ultimi.
V. Dopo aver contattato l’Istituto affinché mandasse dei soccorsi, Mauro chiese a Monìche – intenta a sorseggiare una tisana con sguardo vacuo – di girare intorno alla capanna e chiamare a gran voce Doody. Lei finse di non udire ma Mauro insistette. «Lasciatelo in pace», borbottò lei, ma lui le spiegò che sarebbe stato catturato comunque, e che avrebbero fatto meglio a occuparsene loro.
Poco dopo Monìche uscì, e con le mani a megafono intorno alla bocca cominciò a urlare: «Ehi! Cervo vieni qui. Vieni fuori. Ehi!» Ci vollero più di venti minuti, ma alla fine Doody uscì dal bosco e le si avvicinò cauto. Mauro prese la mira con calma e riuscì a centrarlo con un dardo dalla finestra del rifugio. Le zampe di Doody tremarono talmente forte che sembrava delle mani le stessero scuotendo. Stramazzò al suolo con gli occhi chiusi. Mauro, sotto lo sguardo accigliato di Monìche, lo raggiunse con la pistola in pugno e una catena sulla spalla. Gli chiuse un cerchio d’acciaio intorno al collo per poi fissare l'altra estremità alla roverella più vicina.
Doody dormì per molte ore.
VI. Al tramonto Mauro aveva accompagnato i soccorritori sul luogo dell’incidente. Affacciandosi dal ciglio della scarpata aveva visto il corpo del professor Monolli ridotto a un lungo sputo di sangue sulle rocce più in basso.
Ora sedeva davanti al computer spento con gli occhi persi nel nulla. Si sentiva svuotato. Pensava a cosa l’Istituto avrebbe fatto di lui, di Doody e dell’intero progetto. Monìche si teneva occupata cucinando, ma anche lei era nervosa. Mauro si chiese se in parte lo fosse perché lui e Doody con ogni probabilità avrebbero lasciato la zona; se temesse di perdere lui, il cervo o entrambi.
Il supervisore dell’Istituto entrò spalancando la porta per poi richiuderla con una spinta – come se fosse casa propria. Mauro alzò di scatto la testa. L’uomo gli si avvicinò, era sui quarantacinque, con i capelli dorati a spazzola. Tese la mano e disse: «Piacere, Francini». Mauro gliela strinse. Un attimo dopo il supervisore camminava in cerchio per la sala pronunciando frasi di circostanza. “Che tragedia”, “mi dispiace per la famiglia”, “l’Istituto si prenderà cura dei suoi cari”. Mauro inspirò, trovò la forza e andò al punto ‒ forse con poca sensibilità nei confronti del Monolli ma senza ipocrisia. «Cosa ne sarà del progetto?» Il Francini puntò i suoi occhi su Monìche. «Le dispiace uscire?» Prima che lei rispondesse Mauro gli spiegò che era coperta da obbligo di segretezza ed era l’unica persona ad aver stabilito un legame con l’antropocervo. Il Francini parve rifletterci su. «Okay», disse alla fine. «Bene. Lei è il nuovo responsabile dell’esperimento», disse additandolo. «Fra qualche giorno le manderò un nuovo esperto genetico. Uno dei migliori, ha la mia parola». «Non intende chiudere il progetto?» Il supervisore si avvicinò. «Solo ufficialmente. Qui non finisce niente, ragazzo mio, questo cervo promette bene. Il Monolli è morto come è morto, ma non si può negare che fosse un grande professionista. Il suo cervo ha dato risultati». Il Francini scrutò il volto di Mauro ‒ assai perplesso ‒ in silenzio. Poi d'un tratto fece un passo avanti e sbatté un palmo sulla scrivania, vicino alla sua testa. «Ragazzo, ti devi svegliare però, che Cristo. Sei a capo del progetto adesso, e depresso non servi a nessuno. Non puoi fare questo lavoro ridotto uno straccio, hai capito?» «Sì». «Fra una decina di giorni tornerò per controllare che il gruppo abbia cominciato a lavorare », disse, e dopo una lunga occhiata a Mauro uscì dal rifugio.
Lui e Monìche restarono soli con il silenzio. Evitarono di guardarsi. Cinque minuti dopo Monìche uscì senza indossare il cappotto. Mauro appoggiò i gomiti sul davanzale della finestra e la osservò sapendo bene cosa stava per fare; alla luce della luna la vide passare una mano sul dorso di Doody, che aveva appena smesso di brucare, la vide liberarlo dal collare e non disse nulla. Non gli parve una buona idea, ma non ebbe la forza per discuterne. Monìche rientrò mentre lui accendeva il PC. Disse in tono fermo: «Lo avete fatto impazzire. Ora lo curiamo». «Monìche, chiudi la porta. Calmati». «Adesso sei il capo, vai a prendere dei farmaci. Puoi farlo, no? Proviamo a curarlo». Mauro la guardò stupito. «E da cosa, di preciso? È inutile, Monìche. Non capisci? Non può guarire. I suoi problemi sono nel DNA e i farmaci non arrivano fin lì». Lei puntò i piedi intenzionata a non cedere. «Giusto qualcosa per farlo stare calmo un paio di giorni, così lo teniamo vicino a noi e gli teniamo compagnia. Così capisce che siamo amici». Mauro scosse la testa. "Ha appena ucciso un uomo", pensò. Poi un odore acre di foglie morte, erba falciata e sterco lo fece voltare verso la porta. Doody chinò il collo per evitare di urtare lo stipite con le corna ed entrò nel rifugio. I suoi zoccoli batterono ritmici sul parquet. Cloc, cloc. Sembrava enorme, lì dentro, illuminato dalla luce elettrica nell'ambiente ristretto. Sembrava mostruoso. «Dio», urlò Mauro. «Monìche fallo uscire!» Si guardò attorno ma la pistola a dardi non era a portata di mano. Doody roteò su stesso chinando di tanto in tanto il capo, muovendosi come se stesse ispezionando una grotta. Urtò un comodino con un fianco facendolo ribaltare. «Monìche, fallo uscire!» «Aspetta. Lo vedi? Non è aggressivo. Dagli qualcosa per farlo stare buono. Anche se non può guarire, giusto per stare sicuri». Doody si avvicinò a Mauro fino a portare il muso bruno e allungato, con il tartufo nero sulla punta, a un palmo dal suo volto. Mauro senti la paura ovattargli l'udito. Dapprima tutto quello che vide furono le sue profonde narici; poi alzò la testa. Scrutò negli occhi del cervo e di nuovo gli parve che in quelle pozze nere scorressero nubi grigie e misteriose. Nubi capaci di ingoiare il mondo intero. «Non dovrei farlo», sussurrò, distogliendo lo sguardo. «Ci devo pensare». Immaginò che il Monolli fosse ancora seduto alla scrivania dall'altra parte della sala. "Sei stupido? Falseresti i diagrammi", gli avrebbe detto. «Sempre ci devi pensare? Sempre?» lo aggredì Monìche. «Vuoi aspettare che arrivi il nuovo professore così ti mette i piedi in testa e ti dice cosa fare?» «Va bene», replicò lui a voce alta, stupendosi di se stesso. «Ci proverò. Ma solo perché l'ho deciso io. Hai capito?» «Sì», disse Monìche. I due si guardarono a lungo, poi la donna accarezzò il muso del cervo con una mano, e quando uscì dal capanno Doody la seguì diligente, come un alunno il maestro.
Il computer aveva riaperto in automatico le solite finestre. Mauro pigiò il tasto d'accensione finché non si spense di colpo. Entro dieci giorni avrebbe dovuto rendere conto all'Istituto delle sue scelte, e il progetto vietava di interagire con l'antropocervo quando non strettamente necessario. Avrebbero stravolto tutto standogli vicino, ma in passato si era ripromesso di tener fede alle sue scelte, avesse avuto di nuovo il coraggio di prenderne qualcuna. E in fondo questo progetto non esisteva più e lui e Monìche erano il soli a sapere il perché. Poteva farsi rispettare, se voleva. E poi qualcosa di interessante poteva saltar fuori anche così.
Lasciò la scrivania e si appoggiò allo stipite della porta d'ingresso. La luna era quasi piena, in fase crescente. Doody stava brucando non lontano da dove l'aveva incatenato, mentre Monìche sedeva nell'erba a gambe incrociate a due metri da lui, il suo maglione bianco che risaltava nella penombra. “Sembrano essersi accettati a vicenda”, pensò prima di richiamarla in casa. Ma non seppe dire se gli ricordassero di più due compagni di branco o una famiglia ristretta.
Edited by Snow2 - 13/8/2011, 11:00
|
|