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V. 3 - 07/09/2011 02:30 - 20k - Modificata la parte iniziale e la parte dell'addomesticamento. Iniziata modifica della parte finale. V. 2 - 05/09/2011 02:37 - 16k - Modificata la parte iniziale
N.B.: La storia è pensata per essere illustrata e distribuita alle fiere di animali esotici, per promuovere i ratti domestici come animali da compagnia.
Il ratto
Non era strano che avessero buttato del cibo, gli uomini ne buttavano sempre un sacco. Il ratto annusò l'aria, gli arrivò un odore appetitoso. Accanto a lui suo fratello ripeté il gesto. Più lontano spuntarono altri musi da dietro il bidone, altri ancora emersero dai tombini: nell'arco di un minuto apparvero decine di orecchie, di nasi, di occhi. Di denti. Non mangiavano da giorni, da quando la colonia si era dovuta spostare in massa, e la fame stava diventando un problema serio. I rumori degli uomini si andavano facendo più lontani. Un paio di anziani si avvicinarono al cibo, annusarono con circospezione, poi si misero a strappare piccoli brani e ingoiarli con metodo: la colonia osservava, immobile. Dei cuccioli del mese prima cercarono di farsi avanti, ma le madri li presero delicatamente per la collottola e se li tennero accanto. Nell'arco di pochi minuti gli anziani terminarono il pasto e tornarono nel gruppo. Gli altri fissavano il cibo e rimanevano immobili, tranne per i nasi in continua allerta, le orecchie tese, i baffi vibranti. Spostavano lo sguardo dal cibo agli anziani e di nuovo al cibo, combattuti fra l’avidità e la prudenza. Scrutavano quelli che avevano mangiato, ne spiavano il vigore, l’odore. Man mano che le ore trascorrevano e i vecchi sembravano stare ancora bene il timore dell’avvelenamento cedeva il passo alla fame, finché uno di loro non strappò un boccone rabbioso per correre subito via a farlo a pezzi e ingoiarlo nel buio. Per primi mangiarono i cuccioli, che non ce la facevano più, poi le femmine, che allattavano e avevano bisogno di cibo. Si avvicinavano ai bocconi, ne strappavano piccoli brani, a metà fra il desiderio e la paura, ingoiavano diffidenti. Mangiavano ancora. Lui li guardò con invidia per un momento, poi tornò a sdraiarsi, inquieto. Moriva di fame, ma aveva strappato solo un paio di bocconi prima che la diffidenza avesse il sopravvento. Si mise in disparte cercando di dormire. Il primo fu un piccolo del mese precedente. Era raggomitolato in mezzo ai fratellini, fra le zampe della madre: all’improvviso si contrasse in un ricciolo e prese a gridare di dolore, la codina che frustava il pavimento. Decine di occhi si aprirono tutti insieme, decine di orecchie si drizzarono: dall'altro lato della colonia un altro piccolo iniziò a gridare, poi uno dei vecchi. Nell'arco di pochi minuti l'aria era piena di strida di dolore, di zampe che graffiavano il cemento cercando fuga da uno strazio che portavano nelle viscere, a cui non potevano sottrarsi. Un fratello gli passò accanto senza vederlo, col pelo arruffato e sudicio, la bocca schiumante, si gettò verso la strada. Passava un’auto, lo travolse nel tempo di un respiro; lui lo vide voltarsi e guardarlo negli occhi, un attimo dopo non c’era più. Fu come se si fosse abbattuto un muro. Gridò di dolore, corse anche lui senza vedere più niente fuggendo dai suoi fratelli che morivano. L’odore acre dei corpi che tentavano di combattere il veleno gli si scolpiva nella mente, se lo sentiva intorno e addosso. L’aria fu squassata da un latrato, lui avvertì alle sue spalle da un fiato caldo e puzzolente, sentì un muso enorme richiudersi a un centimetro dal suo corpo: senza pensare si buttò verso il primo antro buio che incontrò, e un portone dietro di lui si richiuse, lasciandolo nell’oscurità. Impiegò non più di un istante a inquadrare l’ambiente, il freddo degli scalini di marmo, l’odore degli uomini e le pareti regolari e diritte. Prese a percorrere lentamente la stanza costeggiando i muri in preda alle vertigini:la luce si accese e da una porta uscì un essere umano, una femmina, con una busta di rifiuti in mano. Si appiattì contro la parete: quella lo vide e prese a emettere suoni acuti e striduli a un volume immane. Lui fece appena un passo, poi si fermò, sfinito per il veleno e per lo shock. Dietro l’umana ne apparve un altro, un maschio: la toccò, le parlò. Aveva un odore forte e calmo e la voce vibrava di bassi. Lui li fissava senza muoversi. L’uomo rientrò mentre la donna continuava a tenerlo d’occhio, e subito tornò portando una scatola: lui lo vide arrivare, avvicinarsi, chinarsi, e rimase immobile, troppo spossato per scappare. La scatola fu calata su di lui, venne imprigionato, di nuovo si trovò al buio. Fu per poco, venne scaricato senza troppi complimenti in una specie di prigione trasparente chiusa su tutti i lati. Poté rendersi conto di com’era fatta la sua perché di fronte ne vide una del tutto analoga, benché piena di oggetti strani e differenti: e dentro, un enorme serpente acciambellato. Quello alzò gli occhi un solo momento e parve prenderlo di mira con lo sguardo, lento, sicuro: dopodiché abbassò di nuovo il capo e tornò a dormire.
«Carino! È un cucciolo?» Teresa inquadrò la bestiola dal pelo lucido nel fauna box dei ratti da pasto e scattò un paio di foto. «Attenta che era selvatico, questo non è come quelli di Francesca, ti può mordere. Sì, credo che sia giovane, avrà tre o quattro mesi.» Il padre stava armeggiando con il tappetino riscaldante di Nagini. Il nome del pitone l’aveva scelto Teresa, come il serpente di Voldemort nei film di Harry Potter. «Dove l’hai trovato?» «S’è infilato nell’ingresso, mi sa che un cane gli stava dando la caccia. A mamma a momenti viene un colpo.» «Quando glielo dai?» Osservò la bestiola rannicchiata in un angolo, che si leccava nervosamente una zampa. «Poverino, ha paura, senza nemmeno una casetta per ripararsi.» «Non è “poverino”, è cibo, Terry. Fra un paio di settimane lo do a Nagini, non farti venire strane idee.» Teresa aveva tredici anni, e già da cinque aiutava il padre a prendersi cura delle teche dei rettili. All’inizio era solo un modo per stare con lui e fare qualcosa insieme, ma suo papà diceva che era brava con gli animali. Sapeva tantissime cose su di loro, leggeva un sacco di libri e guardava tutti i documentari: in quinta elementare con la videocamera del cellulare ne aveva girato uno lei stessa, un filmino di dieci minuti in cui mostrava la nascita dei piccoli di Nagini, dando perfino una semplice spiegazione di come i loro colori variassero in base a quelli dei genitori. Quando l’aveva mostrato in classe l’insegnante ne era stata entusiasta, molto meno i suoi compagni; in quanto a lei, ne aveva ricavato la consapevolezza di cosa voleva essere. Avrebbe girato documentari che avrebbero shockato le menti deboli e illuminato le più forti, mostrando il vero volto della natura selvaggia: sarebbe stata una regista scientifica. La nonna le aveva regalato una macchina fotografica che faceva anche i filmati, con la cinghietta per appenderla al collo che si fermava sotto la gola, così se ti chinavi per allacciarti una scarpa non ti si sfilava, e la custodia da cintura se avevi in programma di metterti a correre. La fine del mondo. Ora si stava cimentando nella macrofotografia, seguendo un tutorial trovato in Internet: fotografava libellule, ragni, farfalle. Sul sito del tutorial avevano indetto il concorso “Microhabitat”: il primo classificato avrebbe vinto cinquecento euro e sarebbe stato trasmesso anche in televisione, e lei aveva tutte le intenzioni di partecipare. Contava di realizzare un documentario sugli insetti di una vecchia casa abbandonata a un paio di strade di distanza. Da piccoli lei e i suoi amici andavano a giocare sul marciapiede là davanti, e nell’arco degli anni l’avevano vista via via rovinarsi senza che nessuno venisse mai a ripararla. Avevano preso a chiamarla la Casa stregata. Il portone non era chiuso con un lucchetto, ma con uno fil di ferro ritorto grosso come il dito di un bambino: avevano parlato più volte di entrare a esplorare, ma poi non ne avevano fatto niente. L’anno precedente un acquazzone aveva fatto crollare parte del tetto, e con quello anche i loro progetti. Una cosa era aver paura dei fantasmi, perché tanto sapevi che non esistevano, ma lì c’era da rompersi una gamba come niente. A lei però era tornata in mente per “Microhabitat”, perché era l’ambiente perfetto, circoscritto e indisturbato. Sarebbe stato il primo documentario serio della sua vita. Le avrebbe fruttato denaro vero e sarebbe andato televisione con il suo nome e cognome. E provassero a chiamarla bambina, dopo.
«Arriva il pranzo!» Terry aprì il faunabox con delicatezza. Il ratto come sempre non era in vista. Il primo giorno, dopo che suo padre aveva finito di trafficare con le attrezzature dei terrari, lei era rimasta nella stanza degli animali e si era mesa a osservare quella bestiola nel vascone di plastica, accucciata in un angolo sullo strato di pellet per stufe che fungeva da lettiera. Lui aveva cercato un paio di volte di correre qua e là, ma si era reso conto in fretta che non c’era nessun posto dove andare; era rimasto lì immobile a ricambiare il suo sguardo, tremando. Lei gli aveva preparato una specie di rifugio, un piccolo vaso di coccio con dentro della carta da cucina e un suo vecchio calzino, e l’aveva posato con precauzione nell’angolo più lontano da lui, facendo attenzione a non aprire troppo il coperchio. Da allora, non appena avvertiva il minimo movimento nella stanza il ratto spariva senza un fruscio. Lei non cercava forzarlo a uscire quando di mattina e di sera gli portava il cibo: posava nella ciotola la frutta e il pane, ma il pezzetto di formaggio o di carne glielo offriva sempre sulle dita, parlandogli a bassa voce. Dopo qualche minuto senza che la bestiola desse segno di vita lasciava anche quello nella ciotola, chiudeva accuratamente il faunabox e se ne andava. Stavolta posò uno spicchio di mela e un po' di pasta cruda da rosicchiare, e sulla punta delle dita si sistemò un pochino di tonno; di nuovo allungò la mano verso il vaso, e rimase in attesa. Iniziò a parlare a voce bassa senza badare alle parole, solo una cascata di bassi suoni rassicuranti. Passò un minuto, poi un altro, e la mano iniziava a farle male. Allungò il braccio fin quasi a sfiorare con le dita il bordo del vaso per assicurarsi che lui avesse sentito l’odore, poi allontanò un pochino le dita dalla tana e lì si fermò. Lentissimamente dal vaso spuntò un piccolo naso fremente con una raggiera di baffi sottili, poi l’animaletto allungò il muso con circospezione, fiutando l’odore appetitoso: infine si avvicinò a lambire con le labbra il tonno, lo afferrò e lo portò nella tana veloce come il pensiero. Terry era così felice che avrebbe voluto saltellare: invece richiuse il faunabox piano piano, agitando il pugno per la felicità, ma sotto il tavolo, dove non si vedeva. Da allora divenne un rituale. Non apriva più il faunabox solo al momento dei pasti, ma anche al mattino prima di andare a scuola, all’ora di pranzo e quando finiva i compiti. Portava sempre qualche leccornia speciale, e dopo un paio di volte si accorse che quando entrava nella stanza, il musetto bruno del ratto sporgeva dal vaso in attesa. Lei infilava la mano, lui esplorava con l’olfatto, si avvicinava alla mano e in un secondo spariva di nuovo nel vaso col bottino. Poi un pomeriggio, mentre lei faceva merenda con uno yogurt, ebbe l’idea: raccolse col dito un po’ di crema dal bordo del vasetto dove si era raccolta più densa e la offrì al ratto. Lui sporse il musetto, annusando attentamente, e fece per portarsi via la gocciolina: quando quella gli impiastricciò il muso fece un’espressione di sconcerto talmente umana che Terry scoppiò a ridere. Lui non fuggì. Si mise tutto teso sui quarti posteriori, tenendo il dito di lei fra le zampine davanti, e leccò la crema profumata di frutta dalla punta del suo dito. Lei ritirò la mano e prese un’altra goccia di yogurt dal vasetto con lui che restava lì in attesa a fissarla: gliela porse e mentre con la linguetta lui si portava via quella delizia, lei prese a passargli il pollice sulla fronte liscia e tra gli occhi, e delicatamente dietro le orecchie. Lo yogurt era finito, ma il ratto continuava a leccarle al mano, e dopo tanti giorni di solitudine rimaneva lì a bearsi di quel contatto ancora un po’.
«Quando mi mangia dalle mani ogni tanto mi guarda le dita papà, ma per tutto il tempo mi guarda negli occhi. Te lo giuro. È intelligentissimo!» «Non mi piace che giochi con quella bestiola, Terry. È sporca, chissà dov’è stata...» «Non è più sporca. Gli ho fatto il bagno.» «Gli hai fatto cosa? E dove, scusa?» «Nel lavandino, con lo shampoo. Francesca ai suoi lo fa così.» Il padre la guardava mezzo arrabbiato e mezzo divertito. «E non ti ha morso?» «Lui non mi morde. Guarda.» Sollevò i capelli scuri, trattenuti dalla cinghietta della macchina fotografica, e da dentro il cappuccio fece capolino una musetto bruno. Il piccolo naso fremette un istante in direzione dell’uomo, poi psst!, era già sparito. L’uomo aggrottò le sopracciglia. «Rimettilo nel faunabox, Teresa. Non lo puoi tenere così, non sai cosa gli passa per la testa. Domani risolviamo il problema una volta per tutte.» «Che vuol dire risolviamo il problema? Lo vuoi dare a Nagini!» «Terry, lo sapevi fin da subito, ti avevo avvertito. È una creatura imprevedibile, e tu te la tieni accanto al viso, se ti morde poi come facciamo?» «Non mi morde! È solo, papà! Loro vivono in colonie, lui è solo e adesso la sua amica sono io. Non mi morderebbe mai! Fidati di me, ti prego...» Terry si odiava per il tono piagnucoloso che stava assumendo, ma non riusciva a farne a meno. Le mani tormentavano la cinghia di tela della macchina fotografica, facendo scorrere il fermo su e giù. Il papà gliele fermò, prendendole con le sue. «Senti tesoro, da grande sarai una scienziata...» «Una regista scientifica!» «...una regista scientifica coi fiocchi. Io non ne dubito. Ma per ora, fidati tu di me, va bene? Riporta in gabbia questa bestiola. Vai.» Lei andò.
Il sole disegnava arabeschi sul marciapiede, fra le foglie degli alberi radi, ma Teresa non ci faceva caso. Marciava con decisione sotto il sole autunnale. La macchina fotografica dondolava al ritmo dei passi, e di contrappunto il peso caldo del rattino nel cappuccio oscillava sulla schiena. “Vai”, le aveva detto suo padre, e lei stava andando. Altroché se stava andando. Dette un calcio a un sasso, e quello fece toc. “Da grande sarai questo e quello”, le aveva detto. Toc. “Ma non ancora”. Toc. E tutti quei bei voti non contavano niente allora? E tutto quello che aveva imparato? Non bastava nemmeno per darle fiducia su una cosa così piccola? Toc. “Sistemeremo la questione”, aveva detto. Lei aveva capito di cosa aveva bisogno quella bestiola, se l’era fatta amica piano piano, ma per suo padre tutto questo non contava niente! Era solo cibo! Clank! Il sasso si era arrestato contro il cancello della Casa stregata con un rintocco metallico. Ora che era lì si sentiva molto meno spavalda di quand’era partita. Osservò la parte di tetto crollata, che si vedeva chiaramente anche dalla strada. E se dopotutto non ci fosse stato niente di interessante da filmare? Nessun ragno gigante con un’architettura di tela straordinaria, nessun nido di pipistrello, magari nessuna pianta insolita? Forse non valeva la pena. Si portò una mano alla spalla, e in risposta al suo movimento nel cappuccio ci fu subito trambusto: un musino bruno uscì, le diede una leccata al dito come un cucciolo di cane e si rintanò in fretta nel cappuccio, al sicuro, protetto nel suo odore. Benissimo, dunque. Sei responsabile per sempre di quello che addomestichi, diceva il piccolo principe, e se tutto il resto del libro era una favoletta per bambini, quella frase era una verità sacrosanta. Allargò le spalle e spinse il cancello. Quello, neanche a dirlo, si spalancò con uno cigolio da manuale. Terry percorse i pochi metri fino alla porta scrutando fra l’erba alta per individuare qualche pianta particolare, cercando di ricordare a se stessa che aveva una mentalità scientifica, e gli scienziati non credono ai fantasmi. Quasi nessuno. Il portone di legno era mezzo marcio, e mentre armeggiava con le tronchesi si rese conto che avrebbe potuto anche sfondarlo a calci, se proprio fosse stato necessario. Non dovette arrivare a tanto, un paio di giri decisi di cesoia e il fil di ferro rugginoso le cadde fra i piedi con un tintinnio. Nel momento in cui posò la mano sulla maniglia una grossa nuvola bianca passò davanti al sole, spegnendo colori e riflessi. Spinse il portone ed entrò. Davanti a sé aveva quello che in origine era un corridoio, ora più simile a una grossa scatola di scarpe privata del coperchio; per un momento si immaginò come una Barbie in una casa di bambole coi muri di compensato e il divano di plastica. Fece un sorrisetto nervoso. Sulla sinistra un grosso trave giaceva quasi in verticale, appoggiato al muro come una gigantesca matita in un portapenne: era circondato dal cumulo di macerie prodotte dal crollo del tetto e di quella parte di pavimento del primo piano: alzando lo sguardo poteva vedere una porzione di cielo coperto dalla nuvola, col centro scuro e il bordo luminoso. Alla sua destra il muro centrale della costruzione era interrotto da una porta che conduceva all’area ancora intera. Diede un’occhiata alle macerie, fra le quali erano cresciuti alcuni ciuffi d’erba, ma non trovò niente che valesse uno scatto. Regolò la macchinetta su “Night”, la tenne accostata al petto con la sinistra che non sbatacchiasse, spinse la porta ed entrò. A piano terra non c’era niente di interessante, giusto due o tre ragnatele miserrime: aveva sperato di trovare una Tegenaria parietina e di poterla riprendere mentre cacciava, ma la fortuna non la stava assistendo. Si avviò verso il piano superiore, ma a metà della scala uno dei gradini cedette con uno schianto. Lei si trovò con le gambe sospese nel vuoto e il busto che sporgeva dalla scala: mentre si agitava cercando di risalire, il gradino cedette definitivamente e i mattoni si schiantarono sul pavimento un paio di metri più sotto. Terry non fu altrettanto fortunata: la cinghietta antistrappo della macchina fotografica, accuratamente regolata perché non si sfilasse se lei si chinava, rimase incastrata in un tondino di ferro e la strinse in un nodo soffocante. Il dolore alla gola era tormentoso: riuscì ad arrivare con la mano destra all’orlo del buco e si sostenne, evitando di strangolarsi, ma quando la mano sarebbe stata troppo stanca per reggere il peso del suo corpo sarebbe finita impiccata. Cercò di urlare, ma la gola costretta in quel cappio permetteva a malapena a un filo d’aria di passare. Il suo corpo gridava per lei, però, producendo fiotti di adrenalina in reazione al panico: e da dentro il cappuccio emerse un musetto bruno, fiutò l’aria, e di nuovo quell’odore-grido lo invase. La bestiola fu assalita dai ricordi senza capacità di difendersi, e ancora una volta la sofferenza della sua famiglia divenne la sua. Si arrampicò rapido sul braccio di Terry, con l’immagine di suo fratello, che un istante prima lo fissava negli occhi e un attimo dopo era sparito per sempre, fissa nella mente: si affannò intorno alla mano della bambina senza capire come aiutarla, poi preso dalla disperazione affondò i denti nell’unica cosa che sembrava cedere, la tela del laccio. Non riuscì a spezzarlo del tutto, ma quando Terry perse la presa della mano dolorante e tutto il suo peso gravò sul laccio questo finì di spezzarsi, e lei atterrò sul pavimento sottostante. Si ritrovò piena di lividi, ma sana e salva, col ratto che le si affannava intorno: sapeva che, quando avrebbe raccontato al padre quello che era successo, lui gliel'avrebbe lasciato tenere. È così che funziona in una famiglia.
Edited by MichelaZ - 7/9/2011, 14:09
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