Losco Figuro
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Visto che c'è ancora un posto, recupero uno dei pezzi dell'ultima RR
Il mondo sembrava un immenso muro bianco, attraverso il quale loro erano in grado di muoversi solo in violazione di ogni legge fisica, passando tra una molecola e l’altra. Fosse stato vero, sarebbe stata di certo una situazione più piacevole e non meno strana della realtà. Purtroppo il muro non era un muro, il bianco era quello della fitta neve soffiata verso di loro da un vento gelido e incessante. Non assomigliava neppure a una di quelle placide nevicate che ci si sofferma a osservare dalla finestra con un senso di quiete. Non c’erano grandi fiocchi soffici a scendere fluttuando, ma proiettili di neve compressa sferzati quasi con palpabile malignità. «Non ce la faccio più, nonno», mugolò il ragazzo. Tra l’ululato del vento e lo spesso passamontagna che gli avvolgeva il volto, senza peraltro alleviare in alcun modo il freddo a suo parere, perfino lui si udì a malapena. La risposta fu invece ben udibile. «Sciocchezze! Sei giovane e forte! Non credere che io sia sopravvissuto fino a oggi lamentandomi di essere stanco ogni cinque minuti.» Sul momento, lui non ribatté. Di suo nonno riusciva a vedere solo la schiena, pochi passi più avanti, avvolta in una giacca a vento blu che risaltava sull’onnipresente biancore. Sapeva però che sulla testa indossava solo un cappello e un paio di occhialini da sci, e immaginava la neve incrostare la sua barba rendendola ancora più bianca del solito. Era vero, forse lui non aveva un gran diritto di lamentarsi, intabarrato com’era nei migliori abiti termici che fosse possibile acquistare. Tuttavia sentiva il gelo mordergli le ossa e penetrargli in ogni angolo del corpo. Perfino i denti gli facevano male. Fece qualche altro passo, aiutandosi con il bastone, ma quando il sipario di neve, spostato da una raffica trasversale, svelò per un istante la strada che li attendeva, trasse con la bocca un respiro di sorpresa, pentendosene subito dopo quando l’aria gelida gli causò una fitta al petto, e si bloccò. «Dobbiamo cambiare strada!», esclamò con tutta la voce che riuscì a trovare. Suo nonno lo ignorò, continuando a procedere con passi lenti e posati. «Nonno!», chiamò, cercando di alzare la voce e finendo per essere vittima di un accesso di tosse che quasi lo fece strozzare. Quando riuscì a riprendere il controllo, alla danza della neve si era aggiunta quella di una miriade di puntini colorati. L’una e gli altri caracollavano attorno a un volto barbuto che avrebbe potuto essere quello di un Babbo Natale scorbutico. «Non urlare», gli disse il vecchio. «E inspira col naso, non con la bocca.» «Ma…», deglutì per scacciare un colpo di tosse residuo che gli si stava affacciando alla gola, «non possiamo andare da quella parte!» «E perché?» «Come perché? È una parete verticale!» «A parte che non è verticale neanche un po’, non dobbiamo scalarla. Ho visto un sentiero più avanti.» «Che porta dove?» «Lo scopriremo andandoci. Non sono sopravvissuto fino a oggi perdendo tempo a chiedermi dove portasse ogni strada che incontravo, sai?» “Non ne dubitavo”, pensò il ragazzo, senza però dirlo a voce alta. In parte sarebbe stato inutile, ma soprattutto l’avrebbe detto solo al vento, perché l’altro era già ripartito senza neppure attenderlo. Fu costretto a farsi forza e riprendere la marcia. E pensare che prima di partire aveva rassicurato sua madre che avrebbe badato lui al nonno. Se avesse saputo come sarebbe andata a finire l’avrebbe mandato da solo, piuttosto. Ci vollero ancora parecchi metri, che gli parvero chilometri vista la fatica impiegata per percorrerli, perché potesse vedere davanti a sé quello che suo nonno aveva definito un sentiero: una sorta di stretta cornice che saliva di fianco alla parete rocciosa, con una pendenza appena inferiore a quest’ultima. Di lato si apriva uno strapiombo in cui la neve turbinava come posseduta da uno spirito maligno. «Nonno!» «Che altro c’è adesso?», gli rispose il vecchio senza neanche rallentare il passo. «Torniamo indietro! Non possiamo passare da qui, dovremmo essere degli asini!» «Allora tu non dovresti avere problemi.» «Molto divertente. Davvero, dobbiamo trovare un’altra strada. Neanche tu ce la puoi fare.» Mentre pronunciava quelle parole si rese conto di aver perso la discussione. Non solo aveva appena dichiarato che suo nonno, la cui età oscillava tra gli ottanta e l’indefinibile, era normalmente in grado di fare cose a lui impossibili, ma aveva anche affermato che non potesse procedere su una strada che in realtà aveva già percorso per un bel tratto e su cui stava continuando a procedere. «Si tratta solo di mettere un piede davanti all’altro», asserì l’anziano serafico. «Ma se neanche me li vedo i piedi!» «È per quello che abbiamo i bastoni. Tasta davanti a te e se c’è qualcosa di solido fai un passo. Non…» «Lasciami indovinare: non sei sopravvissuto fino a oggi senza guardare dove mettevi i piedi.» «Anche, ma stavo per dirti di non guardare giù. Ora muoviti.» Con quelle parole, la schiena blu sparì. Il fatto che non si fosse udito alcun urlo non lasciava spazio alla speranza che fosse caduto di sotto. A meno che anche cadendo non si fosse trattenuto dall’urlare per non causare valanghe, non ci sarebbe stato da stupirsene. Il ragazzo strinse forte il bastone, o almeno pensò con intensità di farlo e sperò che le dita che non sentiva stessero obbedendo all’ordine, e iniziò ad avanzare letteralmente alla cieca, addossandosi quanto più poteva alla parete. Se non altro, sembrava che il vento fosse meno forte in quella zona, e la neve aveva smesso di colpirlo, limitandosi a cadergli addosso come una pioggia di polistirolo. E pensare che un tempo amava le nevicate. Se fosse uscito vivo da quell’avventura, di certo non avrebbe più potuto guardarne una con gli stessi occhi. Si chiese ancora una volta perché avesse accettato di accompagnare il vecchio in vacanza sull’Himalaya, per di più in una zona tutt’altro che turistica, e per la prima volta la risposta a sei zeri scritta sul testamento non gli diede nessun conforto. «Ho sempre voluto andarci prima di morire», gli aveva detto. Ora lui era lì e voleva tanto non morire prima di essersene andato. Per poco il suo desiderio non si rivelò un sogno infranto quando, sebbene il bastone non avesse incontrato nessun ostacolo sul suo percorso, lui fece comunque un passo avanti senza riflettere. Quasi non ebbe il tempo di rendersi conto della fine che stava per fare che si sentì strozzare per un istante e strattonare all’indietro, ritrovandosi ansante con le spalle alla parete. Il bastone, che aveva lasciato andare nel panico, rimbalzò un paio di volte sulle rocce rompendo il silenzio delle montagne e poi tacque. «Adesso potrei dirtelo, ma l’hai già fatto tu per me.» «Eh? Cosa?» replicò senza capire cosa intendesse il vecchio. Il sangue gli pulsava nelle orecchie e si sentiva il cuore nell’esofago, ma se non altro aveva un po’ meno freddo. Potenza dell’adrenalina. «Muoviti. E stai attento a dove vai, non è tutto un rettilineo.» «Me ne sono accorto», biascicò lui. «E comunque ci siamo quasi.» «Siamo quasi dove?» Ancora una volta il vecchio non rispose, non lasciandogli altra scelta che quella di seguirlo. Per un bel po’ non pensò ad altro che a dove stava andando, anche se le ultime parole del nonno gli ronzavano nella testa. Non gli risultava che fossero diretti in un luogo preciso, e comunque che genere di luogo avrebbe mai potuto essere? L’altro procedeva fin troppo spedito, e per la maggior parte del tempo non riusciva neanche a vedere dove fosse, salvo vederlo rispuntare di tanto in tanto dopo una svolta. Fu sorpreso quando a un certo punto se lo ritrovò fermo davanti all’improvviso e per poco non gli diede una bastonata sulle caviglie. Per un istante la sua mente visualizzò una vivida immagine di lui che dava uno spintone a quella giacca blu, sentiva un urlo smorzato echeggiare tra i monti e diventava padrone di una piccola fortuna. Peccato che poi sarebbe morto congelato lassù prima di poterci mettere sopra le mani, visto che non aveva idea di come tornare indietro. La voce del vecchio lo distolse dalle sue fantasticherie. «Avanti, entra.» Stava per chiedere dove avrebbe dovuto entrare, poi lo vide. Un’apertura nella parete rocciosa dava accesso a una vallata, non più grande di un cortile, dove si ergeva una sorta di piccola baita. Accanto a essa vi era una struttura in metallo dalla forma insolita, come un dente irregolare che spuntasse dal suolo. «Cosa…? Cos’è? Come facevi a sapere che era qui?», domandò affacciandosi nell’apertura tra le rocce. «Ci sono già stato.» «Ci sei… Come sarebbe che…» La domanda venne interrotta da uno strano pizzicore alla base del collo, dove suo nonno aveva poggiato una mano in modo alquanto violento. Gli parve di scorgere una siringa tra le sue dita, poi la sua vista si offuscò. Sentì delle braccia forti afferrarlo e si afflosciò tra esse, perdendo del tutto i sensi.
Sbatté gli occhi. Era al buio, e un piacevole tepore lo circondava. A tratti, anzi, sentiva fin troppo caldo. Cercò di sollevare le mani per aprirsi il giaccone, ma si accorse di non poterlo fare. Aveva i polsi bloccati. Un neon si accese inatteso, con qualche sfarfallio, costringendolo a chiudere le palpebre per non restare abbagliato. Quando le riaprì, scoprì di essere su una strana sedia, con ceppi alle mani, ai piedi e perfino al collo. Era ancora vestito di tutto punto, ma non aveva più il passamontagna e gli occhiali e si sentiva un peso sulla testa per cui non riusciva a trovare una spiegazione. Doveva trovarsi all’interno della baita, che da dentro non aveva affatto l’aspetto di una baita in realtà. La struttura era di legno, massiccia e abbastanza normale, ma l’arredamento non aveva nulla di comune. Sembrava di essere dentro un grosso computer montato in un case finto-rustico. Suo nonno era appena entrato dalla porta principale, e si stava dirigendo verso di lui con la solita espressione austera sul volto. «Nonno dove siamo? Che succede?» Il vecchio si tolse la giacca a vento e sparì dal suo campo visivo. Voltando lo sguardo per quanto possibile, riuscì a intravederlo mentre si sedeva su un’altra sedia posta proprio di fianco alla sua. Gli parve che si stesse mettendo qualcosa sopra la testa. «Vuoi sapere come sono sopravvissuto fino a oggi?», si sentì domandare all’improvviso. Non rispose, ma a quanto pareva non era necessario. «Procreando. E assicurandomi di avere una discendenza pronta ogni volta che fosse giunto il momento.» «Che… che momento?» «Questo momento. E adesso taci, non ti farà male.» «Che cosa? Cosa non mi…» Le parole gli morirono in gola mentre un flusso di ricordi che non gli appartenevano iniziava a riempirgli il cervello come un’onda di piena. Immagini confuse e sovrapposte gli comparvero davanti agli occhi della mente. Un panorama che non aveva nulla di riconoscibile, creature dalle forme mai viste, una nave immensa che fluttuava come non avesse avuto peso. Vide scene di vita che non gli appartenevano, che non appartenevano a nessun essere umano; vide un viaggio, un incidente, e una macchina, quella dentro cui si trovava, che aveva costruito con le sue mani, quando ancora le sue mani erano altre. La macchina che aveva usato per abbandonare il suo corpo morente dopo aver lottato per trovare un altro essere adatto in quella desolazione. E che poi aveva usato ancora, e ancora, e… … e non era stato lui, no, lui non aveva mai fatto niente del genere. Era stato suo nonno… la cosa che era suo nonno, e che presto sarebbe stata lui se non fosse riuscito a impedirlo. Prese a dibattersi, a cercare di forzare i blocchi che gli trattenevano le mani. Spinse in avanti con tutta la parte superiore del corpo, anche se il collare attorno alla gola gli mozzava il respiro, e prese a oscillare avanti e indietro con quanta più forza poteva. Sembrava uno sforzo senza speranza, ma a un certo punto si udì qualcosa scattare con un rumore metallico e il suo corpo, già proteso, si ritrovò libero e cadde in avanti. Qualcosa gli trattenne la testa per un secondo, poi cedette in una pioggia di scintille. Si strappò via la cosa che gli cingeva il capo e la allontanò da sé senza neanche guardarla, poi si sollevò carponi, vomitò e riuscì solo a girarsi di fianco prima che la sua mente si spegnesse di nuovo.
A risvegliarlo fu la puzza. Il fuoco crepitava a pochi passi da lui, avvolgendo la sedia da cui si era alzato e le apparecchiature che la attorniavano, che sembrava gradire perfino più del legno. Il corpo del vecchio era nascosto dal fuoco e dal fumo nero che se ne sprigionava. Si alzò di scatto e si precipitò verso la porta, che gli si aprì davanti. Corse fuori, si cacciò le mani in tasca e dopo poco ne tirò fuori una impugnando gli occhialini, che subito indossò mentre continuava ad allontanarsi. Raggiunse i margini della valle e lì si fermò, voltandosi a osservare l’incendio che divorava la costruzione. Il tetto fu il primo a cedere, venendo quasi risucchiato all’interno e dando sfogo alle fiamme che iniziarono a sollevarsi verso il cielo. Poi, una a una, vennero giù le pareti, cadendo verso l’interno secondo una logica nota soltanto a loro, e quella che un tempo era sembrata una baita prese ad assomigliare a un’immensa pira funebre. Lì accanto, l’aliena protuberanza metallica restava intatta, neppure annerita dal piccolo inferno che si era scatenato in quell’angolo isolato del mondo. Lui rimase lì finché della costruzione non restò che cenere, e le fiamme, ormai prive di altro combustibile, non si furono estinte. Del macchinario, come di ciò che l’aveva contenuto, non c’era più alcuna traccia. Ma non era un gran problema, aveva davanti una vita intera per ricostruirlo.
Edited by CMT - 6/9/2011, 14:28
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