L’ANALISTA
Il ticchettio della pioggia e le luci intermittenti dell’albero di Natale si rifrangevano sulle vetrate dello studio del dottor Mori. “Dolores, mi stava parlando di un incubo ricorrente…” La donna chiuse gli occhi e incrociò le morbide mani sul petto. “Si, dottore. Ogni volta mi sveglio con la certezza di essere morta, assassinata in maniera brutale e crudele.” “Bene, provi a descrivermi cosa succede in questi sogni e chi, o che cosa, le provoca tanto terrore.” “Si tratta delle mille forme della paura, dottore.”
Accarezzando la barba brizzolata, il dottor Mario Mori cercò di concentrarsi sul suo lavoro: era l’ultimo appuntamento della giornata. Era la vigilia di Natale ed era stanco. Era stufo di essere il diversivo tra una chiacchierata dal parrucchiere e un pranzo di lavoro. Era annoiato da casalinghe frustrate e professionisti stressati. La splendida donna sdraiata sul lettino lo eccitava. Aveva fissato l’appuntamento soltanto il giorno precedente e si era presentata puntuale, senza segni di emozione, come di solito accade alla prima seduta. Il suo elegante tailleur nero, l’acconciatura perfetta e gli accessori ricercati e griffati gli avevano fatto presagire un’altra paziente che avrebbe contribuito all’acquisto della sua nuova Porsche. Una paziente nei cui oscuri meandri non gli sarebbe dispiaciuto addentrarsi.
“Mostri?” disse sperando di trovarsi di fronte a un incubo interessante. “Sì, dottore, possiamo chiamarli mostri, ma io non sono la loro vittima: io sono quei mostri!” rispose Dolores alzando il tono della voce, mentre un leggero sorriso sollevava le sue labbra carnose, “Nei miei sogni io sono l’essere che provoca la paura e trae piacere e nutrimento dal terrore altrui.” “Quindi, ciò che le causa gli attacchi di panico che caratterizzano il risveglio, è il senso di colpa per il piacere che prova?” “Certo che no!” “Non riesco a capire. Mi porti qualche esempio.” “Alcune notti fa c’era… C’è una bambina. La mamma l’aiuta a mettersi a letto, rimbocca le coperte, la bacia e si allontana, chiudendosi la porta alle spalle. Io, il Buio, piombo nella stanza. La bambina mi guarda crescere e fissa con terrore le decine di occhi vitrei che si aprono nel mio corpo informe, mentre denti sempre più aguzzi si avvicinano al suo letto. E io assorbo tutta questa paura, sento le mie forze aumentare e lo spasmo con cui stringe le coperte tra le mani, la contrazione della sua vescica sono per me un nutrimento prelibato. Vedo il volto pallido annaspare alla ricerca di un po’ di aria da insufflare nei polmoni per poter urlare. E io cresco… cresco… Poi, improvvisamente, la sua mano prende coraggio e si sposta verso il comodino. Il suono secco dell’interruttore della lampada risuona alle mie orecchie come un colpo di pistola: il dolore esplode in tutto il mio essere e, ferito a morte, torno a nascondere i miei occhi negli occhi immobili delle bambole e dei peluches ordinati sulle mensole, mentre i miei denti si mimetizzano nella tappezzeria a righe della poltrona. Dottore, in quel momento io ero il buio e io stavo morendo assassinata dalla luce!”
La mano del dottore si mosse veloce sul foglio prendendo alcuni rapidi appunti, mentre un calo di tensione fece vibrare le luci soffuse dello studio. Osservò le reazioni di Dolores, ma lei, a occhi chiusi, parve non accorgersi di nulla. Maledetto cattivo tempo! Questi piccoli malfunzionamenti in genere precedevano sempre un black-out e questo poteva mettere molto a disagio i suoi pazienti.
“Interessante. Continui, Dolores.” “In un’altra occasione sono affacciata a una finestra, ma la prospettiva è anomala: è notte e quello che osservo attraverso i vetri non sono le fronde degli alberi che danzano nel vento sotto il cielo stellato. Sto guardando la stanza di un’adolescente. C’è un letto sfatto e seminascosto da felpe e jeans ammonticchiati, poster di Vaporidis, Tokio Hotel e Twilight alle pareti. Accovacciata di fronte a un guardaroba che continua a vomitare abiti, una ragazzina. I capelli trattenuti dal mollettone mettono in mostra una nuca candida e delicata. Con unghie adunche e gialle accarezzo il vetro. Si volta. Sotto il trucco marcato posso intuire una quindicenne arrabbiata col mondo, una preda facile. Pregusto la sua paura, già immagino il caldo sapore del suo sangue ricco di adrenalina. Busso delicatamente alla finestra. La vedevo alzarsi e venire verso di me: afferra la maniglia e apre. Scivolo nella stanza, alle spalle della ragazza, che, voltandosi, spalanca gli occhi e la bocca, pronta a urlare. La sua voce acuta mi perfora i timpani: -E tu chi cazzo saresti? Niente terrore, niente adrenalina, niente. -Certo, conciato così, con quella faccia smunta e quegli occhi infossati, potresti sembrare un vampiro. Sì, quello sulla copertina di un DVD di quel matto di Ricky. Come si intitolava? Ah, sì, Nosferatu. Sì, hai realizzato un buon travestimento, ma adatto ad altri tempi! Se volevi essere credibile, avresti dovuto assomigliare di più a uno dei vampiri cattivi di Twilight che almeno sono dei fighi dell’altro mondo! E in questo modo avrei potuto sperare di essere salvata da uno come Edward Cullen! E attacca a parlare, con la logorrea tipica degli adolescenti, di quanto sarebbe stato da sturbo avere un fidanzato dannatamente fico come Edward e bla, bla, bla… Io, che avevo pregustato il sapore aspro delle sue emozioni cariche di adrenalina, mi ritrovo ricoperta da una melassa di buoni sentimenti e immobilizzata in una caramella mou di cuoricini, che, come acido, mi brucia la pelle, i muscoli, i legamenti fino a raggiungere le ossa e ridurmi a un ammasso umido e appiccicoso sul pavimento.”
Mentre osservava il morbido petto di Dolores sollevarsi in sincronia col respiro leggermente concitato, il dottor Mori si ritrovò a domandarsi che tipo di intimo dovesse indossare una donna così sensuale. La pioggia, che ora colpiva i vetri con maggiore violenza lo riscosse: doveva concentrarsi professionalmente su questa paziente che iniziava a rivelare una personalità originale e sogni bizzarri. Cercare di capire che cosa realmente l’avesse spinta nel suo studio e che cosa questi sogni inusuali volessero comunicare al suo inconscio, poteva rivelarsi interessante. “Dolores, quelli che popolano i suoi sogni sono stereotipi della paura. Il lavoro che ci attende avrà...avrà, dicevo, l’obiettivo di aiutarla a razionalizzare le sue paure, capirne l’origine, combatterle e annientarle, proprio come accade nei suoi incubi.” Si rese conto che quella donna, con la sola presenza, esercitava su di lui un’attrazione magnetica mai sperimentata prima, che gli impediva di pensare con lucidità. “Quindi lei pensa di potermi aiutare.” disse Dolores mettendosi languidamente a sedere sul divanetto, “Dottore, pensa di poter uccidere la Paura?” Dopo essersi alzata si avvicinò, ancheggiando, alla scrivania “Perché tu, per professione, sei un serial killer della paura e delle emozioni irrazionali, vero? Sei il sicario delle paure che paralizzano, delle fobie che immobilizzano, dei terrori che portano alla morte. Vero, dottore?” Il profumo intenso di lei gli penetrò nelle narici mentre lo sguardo sorvolava la fotografia dei bambini che lo aspettavano in montagna con sua moglie. Era un profumo fruttato, dolce e inebriante, ma con un retrogusto stonato e, nel momento in cui un nuovo calo di tensione faceva saltare la corrente elettrica, si rese conto che era un odore di fiori marci.
*** Quella notte era nevicato abbondantemente e Mario non si era visto. Aveva cercato di contattarlo, fino a quando lo squillo del telefonino era stato sostituito dall’asettico “L’utente da lei chiamato potrebbe essere non raggiungibile”. Allora Magda aveva lasciato i bambini con la tata ed era tornata in città. Il loro matrimonio si reggeva, ormai, solo sulla fragile impalcatura dell’apparenza, lo sapeva perfettamente, ma non poteva credere che suo marito avesse rinunciato a trascorrere il Natale con i figli. Questa volta aveva veramente esagerato. Chissà se si trattava di una bionda o di una mora. A casa non c’era nessuno e il letto, perfettamente rifatto, rivelava che lui non era rincasato. La Range Rover parcheggiata in cortile le fece pensare che l’alcova fosse nello studio, al piano di sotto. Scendendo le scale incontrò l’anziana vicina che usciva col cane. “Buon Natale, signora Baudero” “Buon Natale a lei, signora Mori. Avete festeggiato un po’ troppo rumorosamente ieri sera. La prossima volta che sento un chiasso del genere chiamo i Carabinieri!” le disse con un sorrisetto arcigno sulle labbra. Magda sentì un fiotto di bile riversarsi nell’intestino. Quel bastardo! Aprì la porta dell’appartamento e fu investita da un’ondata di gelo. L’ingresso era buio, l'interruttore privo di vita: la corrente doveva essere saltata. Superata la postazione della segretaria avanzò lungo il corridoio. Mentre si avvicinava alla porta dello studio un odore nauseabondo la avvolse e il freddo divenne più intenso. La porta era socchiusa. La aprì completamente e si bloccò sulla soglia: la bellissima e grande vetrata che si affacciava sulla piazza era in mille pezzi e i frammenti di vetro si confondevano con i cristalli di ghiaccio che erano turbinati all’interno fino a ricoprire la superficie della scrivania. Fece un passo all’interno notando come la moquette si schiarisse sotto il peso dei suoi doposci. La graziosa lampada Liberty giaceva sul pavimento, il lettino era rovesciato, i quadri alle pareti lottavano contro la gravità. Nulla era al proprio posto. Sentendo sbattere la porta del bagno si rannicchiò ancora di più nella pelliccia. Si avvicinò, con delicatezza spinse la porta e, mentre un puzzo di putrefazione, come fiori marci sulle tombe, la colpiva in pieno volto, lo vide: Mario, o meglio, il suo involucro, era lì, disteso sul pavimento, completamente nudo. Un conato di vomito la obbligò a piegarsi e quando si sollevò, pulendosi la bocca con la manica della pelliccia, tornò a guardare ciò che restava di suo marito: lo scheletro tendeva la pelle pallidissima, mentre ogni traccia di muscoli e di grasso era scomparsa, come aspirata a forza fuori da quel corpo atletico. La gamba sinistra, piegata in maniera innaturale, il tronco e le braccia mostravano segni di morsi, come se qualche animale avesse infierito sul cadavere. Il dito indice era stato letteralmente strappato dalla mano destra e il biancore dell’articolazione residua era in netto contrasto con il nero delle piastrelle del pavimento. A terra nemmeno una goccia di sangue. I capelli erano di un bianco candido, come si dice possano essere i capelli di coloro che hanno subito uno spavento terribile. E gli occhi. Quelle orbite vuote aperte sul nulla avrebbero fissato per l’eternità l’orrore che lo aveva ucciso! Incapace di muoversi, Magda alzò lo sguardo sullo specchio e, solo in quel momento, sulla mensola vide il dito di Mario appoggiato a indicare una scritta fatta col rossetto:
LA PAURA È FATTA DI TUTTO E DI NIENTE NELL’INCONSISTENTE INSEGUIMI NELL’INENARRABILE RICERCAMI MA IL MIO SEPOLCRO MAI EDIFICHERAI
Improvvisamente lo specchio rivelò altro: una donna, inguainata in un elegante tailleur nero, la fissava con occhi così scuri e profondi da racchiudere tutte le paure del mondo. Le sorrise e, a fior di labbra, disse: “Era un assassino.” Portandosi l’indice alle labbra, si dissolse nel nulla di quella lucida superficie.
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